Finisce anche questo agosto
tranquillamente rilassante. E per continuare a distendere nervi e cervelli,
prima di una brusca ripresa autunnale, eccomi qui a parlarvi ancora di Noir, e
della collana, interessante anche se non tutta alla stessa altezza, dedicatavi
dal Sole. Poiché come ricorderete sono 40 i volumi usciti, ne tratto cinque
alla volta. In questo caso ne abbiamo ben 4 sopra media, soprattutto l’Abruzzo
di Mazzotta e la Liguria di Cristina Rava. Ma anche la Milano di Paleari e la
Palermo di Barbieri. Unico neo, la sfortunata e deludente prova di Gianluca
Veltri, che lasciamo presto all’oblio che si merita.
Alberto Paleari “Il colore della vergogna” Sole 24 ore – Noir Italia 26
euro 6,90
[A: 04/01/2014– I: 25/03/2014 – T: 27/03/2014] - &&&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 189;
anno 2010]
Un
libro discreto, almeno per ¾ e forse poteva essere migliore se non avesse
dovuto accondiscendere ai dettami del tempo. Non di scrittura ma di
svolgimento. Non conoscevo l’autore, uscito dalla fucina di nuove proposte del
Sole 24 ore. Un quarantenne milanese che mi sembra dotato di una buona penna.
Qui, a parte il titolo su cui torniamo poi, imbastisce comunque una storia che
come dicevo si inserisce bene in un contesto interessante. Ovviamente stiamo parlando
di giallo, quindi si comincia con un morto, anzi una morta. E con un
commissario che inizia l’indagine, pur essendo a soli quattro giorni
dall’andare in pensione. Siamo a Milano, e qualche tocco, della parte cittadina
della serie, rimane anche ben tratteggiato. Di nuovo, come spesso nei gialli,
Giambellino e Lorenteggio. Ma anche corso Vercelli, e qualche puntata sia verso
San Babila che verso i Navigli. L’idea dell’autore è di inserire questo
scenario in un momento particolare: siamo all’8 dicembre del 1969. Fatto salvo
che l’autore si dimentica del Natale ambrosiano, tutti subito drizzano le orecchie.
Ma è quel dicembre? Ma è quello l’anno? Ebbene sì, ed ovviamente la trama non
può che svolgersi su binari prima paralleli, poi convergenti, poi in sicura
collisione, con quanto sta per succedere. Che noi conosciamo, e quindi sappiamo
anche dare un peso alle parole che scorrono sulla carta. La morta sembra una
ragazza tranquilla e a modo, universitaria e cattolica. Spesso in giro con la
sua amica Rebecca. La quale interrogata, prende invece le distanze. No, Silvia
andava a ragazzi, aveva un suo giro. Soprattutto con Giulio ed il suo sodale
Pilone. Giulio, extra-parlamentare vicino ad Avanguardia Proletaria, ma che usa
il movimento per cuccare. Giulio che viene subito cercato dal commissario
Oliveri che, ovviamente, lo trova morto. E due. Pilone, interrogato, comincia a
sproloquiare di scioperi ed altro. Pilone è un anarchico che frequenta il Ponte
della Ghisolfa (ed anche qui, campanellini…). Il commissario non è convinto
della famiglia di Rebecca, soprattutto il padre, chirurgo di successo e
faccendiere. Indagini a tappeto. E scoperte varie, ed ovvie. Il chirurgo Ascani
è amico del politico Lorusso, democristiano di centro con tendenze destrorse.
Ed entrambi frequentano l’ex-colonnello Del Miglio, uomo che auspica il ritorno
dei poteri forti. Ovviamente il tempo stringe. Ed ovviamente la combriccola dei
potenti ha buon gioco nel mettere in cattiva luce il nostro. Che sebbene
emarginato, trova il tempo di tirare fuori qualche asso dal cappello: la
giornalista Ester, romana, che gli fornisce i collegamenti occulti del
malaffare dei cattivoni, ma che non gli dà uno straccio di prova del loro
coinvolgimento nelle morti, e l’ex-ladro Molteni, che invece riesce ad
indirizzarlo verso la prostituta Chantal. Mentre Rebecca, oppressa da chi sa
quali sensi di colpa, decide di buttarsi sotto la Metro, Oliveri fa cantare
Chantal, scoprendo il giro di prostituzione e malaffare che accompagna i tre
cattivoni ed i loro sodali. C’è anche un fascistello tuttofare, che scopriamo
ben presto essere l’autore materiale dei delitti (e che si incaricherà di
eliminare anche la povera Chantal). Oliveri tenta un faccia a faccia con Del
Miglio, sperando di farlo crollare. Ma fatica vana è, e noi già lo pensavamo.
Ed il commissario non ha neanche uno spillo concreto, un riscontro qualsiasi
per attaccare i tre. Sono intanto passati i quattro giorni, e sono le 16 e 37
del 12 dicembre. Devo dire altro? Lo immaginate anche voi, nevvero. Il commissario
non può che chiudere tutto, passando la mano. Qualcuno ci penserà. O meglio nessuno,
che altro si avrà da pensare da quel venerdì e per molto tempo. Soprattutto
nella questura milanese, dove stanno per transitare i Pinelli ed i Valpreda. Il
nostro torna a casa, alle sue miserie private, sulle quali non entro, che sono
di contorno, anche se danno colore al personaggio. Colore che invece non trovo
nella vergogna. È un rosso sangue? È un nero notturno? Cosa ci vuole dire
l’autore con quel titolo. Questa seconda parte, quando cominciano gli
intrallazzi con la politica, si impantana e finisce in sordina, anche se
Paleari cerca di inserire qualche pagina “dura”. Alla fine, e noi lo sapevamo,
nessuno paga. Facile morale, che già si pensava dalla seconda pagina, quando compaiono
le date della vicenda. Peccato, ripeto, che l’idea del parallelo storia alta e
bassa è sempre foriera di interessanti uscite. Quando i livelli rimangono
distinti. Qui, il mischiare tutto vuole essere un’alzata di tiro. Ma lo scritto
non regge il peso. Comunque, un altro interessante scrittore da tenere a mente.
Gianluca Veltri “La dimora del santo” Sole 24 ore – Noir Italia 28 euro
6,90
[A: 21/01/2014– I: 07/04/2014 – T: 07/04/2014] - &
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 121;
anno 2013]
L’unica
cosa decente è il nome dei capitoli che disegnano una mappa della Milano
d’oggi. Sfogliando questa specie di Goggle Maps in vena di letteratura, si va
da via Fatebenfratelli, dove c’è la questura, all’Idroscalo, da via Luigi Porro
Lambertenghi a Piazzale Loreto, girando spesso per il quartiere Libia, dove
abita l’ispettore protagonista. Per sganciarsi poi un po’ fuori, da Viboldone a
Consonno (e solo pochi non assoceranno quest’ultimo al paese dei balocchi voluto
dall’industriale Bagno e poi diventata una delle più note città fantasma
d’Italia). Questo consente di dare l’unico “libricino” di giudizio al libro,
che per il resto è da dimenticare. La storia è esile e già orecchiata. I
personaggi ricalcati sui diversi cliché, dal poliziotto al limite al questore
bonario, dal giocatore incallito ai delinquenti “di mezza tacca”. Una veloce
riedizione di qualcosa letto tra un taglio di capelli e l’altro, presso
l’Anadema Haircut del nostro per altro simpatico autore. Simpatico per quei
video demenziali che si trovano sul suo sito. Ma torniamo allo scritto. Dicevo,
per iniziare, che la squadra del commissario Crespo riecheggia la più simpatica
squadra del commissario Igor Attila, quello dei crimini sportivi. Sono
sportivi, palestrati, ma meno caratterizzati della squadra romana. Con il
commissario, poi, che viene chiamato Crespo per la somiglianza con il
calciatore (e per le simpatie interiste, che gli valgono qualche punto in meno,
anche se bonariamente). Con il fratello, giocatore di poker compulsivo che
scopre cadaveri a destra e a manca. E con la fidanzata ex-prostituta di belle
forme e di gran capacità imprenditoriali. Quante volte si è letto di poliziotti
con fidanzate un po’ ai limiti della legge? E che per questo si imbarcano in
mille problemi. Se decidi che Aurora è il tuo amore, caro Crespo, devi fare
meno il gallo del pollaio, ed accettarla, così come lei accetta te. Altrimenti
sarete sempre sull’orlo della separazione. Tra l’altro, credo che questa sia la
seconda opera di Veltri, essendo la prima incentrata proprio su Leo detto
Crespo e su Fulvio suo fratello. Qui ci si muove, come detto, nel sottobosco
delle donne di piacere e dei piccoli misteri della notte. Tanto piccoli da
essere risibili. Fulvio trova una ragazza morta, sudamericana ballerina di lap
dance. La quale ha un’amica che scompare. Amica che è la ragazza di un
malavitoso detto il colonnello. Non solo, è anche imparentata con un mafioso
calabrese devoto a San Francesco di Paola, detto il Santo. L’amica non si
trova, il colonnello chiede aiuto a Crespo, che si imbatte nel calabrese,
ingaggiando con lui una gara a chi trova prima il colpevole. Tra locali della
notte visitati dai poliziotti e partite di poker del buon Fulvio, scorre gran
parte del libro. Non facendoci mancare l’ovvio litigio tra Crespo e Aurora. Che
ovviamente lo lascia. Crespo diventa una belva, ma senza pace e senza scopo.
Sarà il calabrese che gli dà il primo indizio, collegando le due danzatrici ad
un fotografo di foto porno (anch’esso trovato morto). Poi ad un delinquentello
che parla di un misterioso “paese dei balocchi”. Crespo senza Aurora sbatte la
testa al muro, ma uno della sua squadra collega (ma non era difficile) il paese
suddetto a Consonno di cui ho parlato sopra. Mentre anche Aurora sembra cadere
nelle grinfie del damerino, la nostra squadra entra in Consonno, sbaraglia i
cattivi, libera Alice. Insomma, una catarsi finale che si consuma in sette
pagine senza alcuna emozione. Con rappacificazione finale di Crespo ed Aurora,
dopo che il primo si fa un nuovo taglio di capelli (e non a caso, molti
personaggi vengono caratterizzati dalla chioma che portano) e davanti ad un
piatto super-piccante calabrese, nella mitica trattoria di Don Giò (veramente
esistente). Insomma 120 pagine che scorrono come acqua fresca, non lasciano
neanche l’odore di uno shampoo ben fatto. Un nuovo punto basso della in genere
meglio congeniata serie del Noir Italia.
Ugo Mazzotta “Il segreto di Pulcinella” Sole 24 ore – Noir Italia 30
euro 6,90
[A: 01/02/2014– I: 08/04/2014 – T: 10/04/2014] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 155;
anno 2004]
E
sì, qui si risale, ed alla grande, nella valutazione del libro in particolare e
della collana in generale. Siamo, infatti, tornati ad un buon livello
descrittivo di una realtà italiana (e qui, poco nota, trattandosi degli
Appennini tra Abruzzo e Marche) e ad un livello di scrittura migliore dei precedenti.
Non intricatissimo l’intreccio giallo, se vogliamo, ma neanche da buttare via
con l’acqua sporca. Allora, intanto ci troviamo a Pratello, paesotto non
lontano da Rivisondoli. Dove vive, con la sua squadra, il commissario Andrea
Prisco. Già dal nome si indovina napoletano, e dai caratteri descrittivi, si
capisce amante di spazi aperti (più montuosi che marini, ma anche), un po’
solitario e molto “under statement” verso la burocrazia ed altre amenità da
“ufficio centrale”. Ha una buona relazione con la giovane Agnese (e già due
punti in più per la scelta dei nomi, onorando sempre mia madre) con cui parla,
discute, e gode le piccole gioie della vita, pur essendo (o forse proprio
perché) lei di stanza in un ufficio a Ametrano (altro paese ad una mezzoretta
dal nostro). La tranquilla vita del paese è prima messa in subbuglio dalla
comparsa di due loschi figuri che vanno in giro a chiedere il pizzo ad alcuni
commercianti, cosa che fa nascere il sospetto di possibili infiltrazioni
camorriste. Poi viene senz’altro destabilizzata dall’uccisione di un
burattinaio di Portici, Ciro Ferrandino, freddato con alcuni colpi di calibro
22 mentre faceva il suo spettacolo di burattini in piazza. Il questore comincia
a mettere sotto torchio il nostro e la sua squadra (che essendo quasi tutta di
oriundi napoletani è soprannominata “Bella Napoli”). Prisco cerca di capirci qualcosa,
seguendo le due piste, quella del pizzo, ma sembra senza uscita, e quella del
morto. Quest’ultima provando a capire i sentimenti e le reazioni della di lui
moglie, Assunta (altro nome in A, e non sarà l’ultimo). Perché Ciro era (forse
stato) uno sciupa femmine, ma di tanta grazia che Assunta confessa: primo, di
averlo conosciuto a Portici e seguito dopo solo una settimana, tanto l’amore
suscitato, secondo, che non la tradiva ma se lo avesse fatto, lei avrebbe
continuato ad amarlo così com’era. Misteri dell’amore! Mentre continuano le
piccole descrizioni quotidiane, i piccoli quadri di ispettori, di bar, di
ristoranti sperduti tra i monti, di ricerche tra la gente, della misantropia di
Prisco, delle lotte tra fazioni all’interno di questure e di medici patologi.
Mentre Prisco fa una vacanza con Agnese nel Napoletano, succedono alcuni fatti
che fanno avanzare (o precipitare) gli avvenimenti. Una macchina ed un negozio
vengono bruciati con benzina da quello che sembra sempre più un avviso mafioso,
viene trovato il cellulare di Ciro e rintracciando una telefonata, si scopre
che il burattinaio era stato a Pratello nove anni prima. Prisco ed il suo vice
Curti non sanno a chi dare i resti, fortunatamente vengono rinforzi dai
Carabinieri di Peligno, e viene reintegrato l’organico con l’ispettrice Alice
(ecco l’ultima A) Coturno, piccola, simpatica e molto efficiente. Alice si
dedica ai camorristi, ed in breve riesce a trovare un bandolo: uno dei
commercianti, il Bortoli, era quasi in bancarotta, era in lite con l’altro
bruciacchiato, aveva fatto il militare nella Folgore, ma era stato cacciato per
condotta poco in linea con il Codice Civile. Insieme a due suoi amici, ora
muratori, che, guarda caso, erano sempre assenti dal posto di lavoro durante i
tentativi di estorsione. Dall’altro versante, Prisco riesce a risalire ad una
bella ragazza che era molto presa del Ciro di nove anni prima, riuscendone a
rintracciare i genitori, che da alcuni anni si erano trasferiti ad Ancona. Qui
Prisco ha un’intuizione geniale, quasi da giocatore di poker, che permette di
arrivare ad un veloce finale, forse un po’ all’americana. Ma ci può stare. I
misteri si risolvono tutti. La bella Agnese torna al lavoro (non avevo detto
che stiamo introno a Ferragosto, e lei era vacanziera) ma con molta tenerezza
verso il suo Andrea. Insomma, alla fine, mi sono piaciuti il clima, i personaggi,
ed il plot generale. Se ci fosse stato un filo più di suspense sulla parte
“gialla” poteva avere qualche libricino in più. Ma Mazzotta mi ha convinto.
Meglio di altre uscite della collana.
Cristina Rava “Un’indagine al nero di seppia” Sole 24 ore – Noir 8 euro
6,90
[A: 30/08/2013– I: 16/05/2014 – T: 18/05/2014] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 217;
anno 2007]
Facciamo
così la conoscenza con il commissario Bartolomeo Rebaudengo (di Cuneo, ma sarebbe
uno scostumato per Troisi, nome e cognome troppo lunghi). E della scrittrice
Cristina Rava, ligure, e si sente. Un buon libro eponimo della collana di neri
italiani, perché il personaggio rende bene, ed è anche ben inserita la trama
nel tessuto territoriale. Infatti, ci moviamo, e la scrittrice ben conosce i
luoghi, tra Albenga ed Alassio, fortunatamente in tempi non turistici, così da
poter godere le cittadine nel loro vivere quotidiano “normale” (l’azione si
sviluppa tra febbraio e Pasqua). Godiamoci quindi queste piccole città del
savonese, soprattutto la prima con uno dei centri storici meglio conservati
della Riviera di Ponente. Così come ci immergiamo nella cultura locale, fatta
di poche parole (tra liguri e piemontesi, si sprecano), di cultura di mare ma
di ricordi di terra. E di terra è il nostro commissario, che viene da Cuneo (ci
avrà fatto anche il militare, come chiederebbe Totò?). E di poche parole, anche
se di tanti pensieri e sentimenti. Inoltre, le due scene migliori, che lo
vedono a fianco del medico legale, la giovane Ardelia, dove nella prima la
dottoressa, a lui che non mangiava pesce, gli ammannisce una cenetta a base di
trenette al nero e acciughine con patate. E nella seconda, il nostro, per
regalarle un libro, non trova di meglio che una meta citazione: un libro dello
svedese Manning sul commissario Wallander. Esilarante. Meno bene, anche se non
stanca troppo, la trama nera, che trovo un po’ debolina, almeno nella parte che
si vorrebbe misteriosa. Già nelle prime cinque pagine ci sono indizi che
troveranno conferme duecento pagine dopo. Ma andiamo con ordine. Il commissario
e la sua squadra (ma soprattutto l’ispettore Ravera, sornione ma di buon
intuito e tante conoscenze) viene coinvolta nella ricerca dello scomparso professor
Oddone, insegnante di liceo, la cui moglie (istruttrice di Krav Maga, per
intenditori) ne denuncia la misteriosa sparizione. Ci si trastulla un po’ sulla
ricerca, ma ben presto i nostri sono presi da altro: viene trovata uccisa e
forse messa a bella posta in pose “sataniche” la bella Serena, diciannovenne
liceale (della classe del professore, ovvio). Qui entriamo nel bel mondo
ligure, nelle famiglie “belle e ricche”, ma anche senza spina dorsale. Che
Serena, e la sorella minore Candida, sono praticamente abbandonate a se stesse,
da una madre fuggita con un nuovo amore in Canada e mai più tornata, ed un
padre dentista di tanti soldi e nullo affetto. Rebaudengo comincia a girare,
parlare, guardare le facce (perché lui è della vecchia scuola dei Maigret, ha
bisogno del contatto visivo per capire l’interlocutore). Scava, il commissario,
ma non trova nulla. Per ora solo una comunanza di intenti e di pensieri,
appunto, con il medico legale, la dottoressa Ardelia di cui ho sopra parlato.
Non si trovano fidanzati della bella Serena. Non si trovano amiche. Ma certo
non passa inosservata. C’è Pietro, che se ne invaghì, ma, brutto e dark,
preferì andare a lavorare piuttosto che rimanere a rimirare da lontano Serena.
Un’altra pista che il commissario prova a seguire, che porterà ad arresti
collaterali senza importanza, ma nulla per il filone principale. Certo è che
Serena andava a ripetizione dal professore. E, come dice la moglie, il professore
non disdegnava bellezze muliebri, ma non così giovani. Però, una fuga d’amore
abortita? Abbiamo la prima svolta quando non si trova un orecchino di Serena,
cui lei non si separava mai. Attraverso vie tortuose, il commissario risale
alla provenienza dello stesso: è identico ad uno presente in una foto in casa
del professore. Ormai la rete si stringe, ma si stringe dalla parte sbagliata,
che per arrivare alla fine abbiamo bisogno di un nuovo morto, l’amica del cuore
nascosta di Serena. E del ritrovamento di un diario dove, leggendo tra le
righe, il nostro Bartolomeo arriva alle nostre stesse conclusioni. Quali? Vi
consiglio di leggere il romanzo, che almeno farete un bel viaggio verso Savona.
Per poi pensare di seguire le successive indagini del commissario (credo siano
usciti altri quattro o cinque romanzi) e perché no, per cercare di capire se la
storia con Ardelia possa andare avanti. Chissà! Ma io sono curioso…
“Aveva imparato … che gli ordinati rigidi,
quelli che se gli sposti una matita danno fuori di matto, sono creature fragili,
cercano attraverso l’ordine appunto, d’esercitare un controllo sulla realtà circostante
e forse anche sul proprio mondo interiore, che temono sia molto meno ordinato
di quanto vorrebbero.” (109)
Carlo Barbieri “La pietra al collo” Sole 24 ore – Noir 32 euro 6,90
[A: 14/02/2014– I: 02/06/2014 – T: 04/06/2014] - &&&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 155;
anno 2012]
Una
nuova e più che sufficiente prova della lunga collana del Noir italiano del
Sole 24 ore. Dove, sebbene ci siano una buona dosa di nuovi e giovani
scrittori, c’è anche una pattuglia di letterati di più lungo corso. O di nuovi
letterati ma di lunga vita. Come il qui presente Barbieri, quasi settantenne,
ex-chimico in giro per il mondo, ed ora (forse in pensione? Ma non ne trovo
traccia) tornato alla natia Sicilia, e, come lui stesso dice, “prestato alla
letteratura”. Si sente che conosce le leve del mondo, le possibilità che ci sia
altro oltre quello che si vede in superficie. E si capisce anche meglio il
commissario Francesco Mancuso, personaggio centrale dei suoi scritti gialli.
Commissario in Palermo, si capisce. Con le pulsioni di mezza età verso il
gentil sesso (ma come finirà l’ipotesi della sua storia d’amore?) e con le
manie che, inevitabilmente, colpiscono chi tanto vive o ha vissuto. Ad esempio,
quella di rimanere a Palermo durante il periodo ferragostano, tanto non succede
mai niente in questo caldo mese di vacanze. Invece succede, che cominciano ad affiorare
dei morti. Con una strana caratteristica, quella di avere uno spago intorno al
collo, con una rozza pietra attaccata. All’inizio non ci facciamo caso, presi
più dagli ambienti della sempre a noi cara città sicula. Come per il primo
morto, trovato nelle catacombe della Chiesa delle Anime Purganti, in una
stradina che scende verso Ballarò. Ecco, per la mia gioia di proiettarmi altrove
(chi legge è un viaggiatore, ricordiamolo), già mi ritrovo nelle vie di
Palermo, mangiando un’arancina-bomba all’Orto botanico, e sorseggiando una
limonata fresca. Strano anche questo primo morto, nudo, e con la faccia
irriconoscibile, quasi a volerne cancellare le tracce. Invece, altri che compaiono,
poi (ed alla fine saranno almeno quattro), si riconoscono subito. Quasi che
l’assassino giochi con il commissario, a fare chi è più intelligente. Che anche
gli altri hanno la pietra al collo. Ma sono riconosciuti. Tutti, bene o male,
legati al mondo delle molestie verso i fanciulli. Un frequentatore di cinema
mattutini, un contabile parente di mafiosi, ma non nella onorata società (che
in quanto onorata, non vede di buon occhio la presenza di pedofili
ricattabili). Scavando a poco a poco, vincendo reticenze e depistaggi, si
scopre che il primo era un prete ed il secondo un professore in pensione di un
istituto religioso (lo stesso del prete), a suo tempo sospeso (ma poi reintegrato)
sempre per gli stessi reati. E sarà un prete che illuminerà il nostro commissario
sulla pietra al collo, derivante da un versetto del vangelo di Luca (“è meglio
che gli sia messa al collo una pietra e venga gettato in mare … piuttosto che
scandalizzare uno di questi piccoli”). Intanto tornano dalle ferie i due aiutanti
del commissario, appunto l’ispettrice Esposito e l’ispettore Cosenza. Mancuso,
forzando un po’ sull’istituto di cui sopra (in una pagina che non può non rimandare
alle conoscenze di Barbieri dei meccanismi politici a tutti i livelli), capisce
che il fattore comune (oltre alla pedofilia) è anche l’essere l’assassino un
trovatello. Tutta una serie di indizi e di mosse, inoltre, portano a restringere
il campo verso qualcuno che, in qualche modo, è vicino al commissario stesso. Riflettendoci
su, Mancuso non può che tornare ai suoi aiutanti, che anche nel nome hanno
discendenze “trovatelle”. Esposito viene da “esposto”, cioè dove venivano messi
i trovatelli, esposti alla ruota dei monasteri. Cosenza è nome di città,
anch’essa data a coloro di cui non si sapeva la provenienza. Dovrà decidere, e
molto in fretta, su chi puntare. In un convulso finale, trova la chiave di
lettura, punta sul cavallo giusto (anche noi a quel punto ci puntavamo), e
benché ferito e poi di lunga convalescenza, risolve il mistero e smaschera chi
doveva esserlo. Non vi svelo, allora, il veloce ed esauriente finale, che,
tutto sommato, è una lettura interessante, per i luoghi e per un po’
dell’intreccio e della soluzione dello stesso. Avevo paura, nella prima parte,
che si andasse impantanando nella ormai troppo adusa pedofilia da horror.
Invece si mantiene sul livello di denuncia (e ad un buon livello). Una lettura
degna per passare dalle bellezze anatoliche alla calda estate romana.
Molto Bene. Come detto iniziando,
or si passa dall’ozio al quotidiano lavoro, ognun secondo le proprie capacità,
ed i diversi ambiti. Perdonandomi l’anacoluto, io speriamo che la viaggio. Ma Ben
lungi ancor qualche notizia avventurosa. Per ora mi accontento di saper che viaggi
da me propugnati e disegnati sono andati a buon fine. Sperando che lo siano
anco quelli a venir.