O romanzi per il cinema. Comunque,
questa settimana abbiamo quattro titoli, tutti prima o poi passati al grande
schermo. Anche se devo dire la migliore interpretazione è quella per la TV di Nicole
Kidman per il romanzo di Cain. Anche se al cinema Joan Crawford aveva vinto l’Oscar,
anche se il film tratto da Kureishi ha vinto l’Orso d’oro a Berlino, anche se
dal libro di Carr venne una delle prime e migliori interpretazioni di Kenneth
Branagh. Ultima, ma solo in ordine di tempo, la trasposizione sullo schermo
dell’olandese Koch, in un film tutto italiano (e che non ho visto, avendo
scritto la trama in tempi ancora non sospetti). Insomma, un bel connubio tra
due grandi arti, anche se preferisco sempre Calliope alla Decima Musa.
Hanif Kureishi “Nell’intimità” Bompiani euro 8
[A: 04/01/2014– I: 14/02/2014 – T: 16/02/2014] - &&&
e ½
[tit. or.: Intimacy; ling. or.: inglese; pagine: 107;
anno 1998]
Pur
avendone letto altri libri, e pur stimando il romanziere e regista indo –
pakistano, questo è il primo libro in italiano che leggo. E, benché datato,
trovo la traduzione di Ivan Cotroneo ben fatta ed aderente allo spirito della
scrittura di Kureishi. In un libro che non è facile, nonostante sia agile,
quasi come un racconto lungo. E sicuramente diverso e più interessante del film
che si dice ne venne tratto nel 2001, vincendo l’Orso d’oro a Berlino (il film
usa una diversa storia di Kureishi come trama e questo romanzo come atmosfera).
Qui, il nostro scrittore imbastisce un lungo monologo di un quarantenne (credo,
anche se non dice l’età) allo sbando. Pur essendo uno sceneggiatore di successo
(ed in questo, Hanif si tratteggia un po’ nel personaggio), non trova “un centro”
alla propria esistenza. A me, forse un po’ semplicisticamente, è parso affetto
da una grave “sindrome di Peter Pan”. Il protagonista si rifiuta di crescere,
crogiolandosi e commiserandosi in uno “sto male qui ed ora, come faccio ad
uscirne?”. Intanto, oltre al buon lavoro, vive con Susan, con la quale ha due
figli. E mentre si aggira per casa, cercando di decidere cosa portarsi via perché
la vuole lasciare, ricostruiamo a sprazzi la sua storia. Quella di uno dei
tanti “leftist” o forse “radical” inglesi. Gioventù sbandatella, senza metà,
frequentazioni alternative e promiscuità. Grandi bevute ai pub, ma anche
spinelli e droghette a go go. Ed una pulsione sempre presente per l’altro
sesso. Che spesso e volentieri, concretizza. Sia prima della convivenza che
dopo. Nonostante voglia bene ai due figli piccoli, abbia momenti di genuina
tenerezza e scoperta con loro. Ed a modo suo vuole (voleva?) bene a Susan. Ma
la vita di famiglia impone delle regole. E lui, non crescendo né in crescita, è
quello che rifiuta. Vuole tutto come se fosse un ragazzo di vent’anni prima.
Vuole scopare, vuole ubriacarsi, vuole farsi le canne, e vorrebbe che la vita
in famiglia potesse andare avanti senza che lui intervenga “in aiuto”. Appunto,
come un Peter Pan che si aspetta che ci sia sempre qualche d’un altro (una
Trilly, ad esempio), che facesse per lui “i lavori sporchi”: fare la spesa, cucinare,
mettere in ordine. Non è un caso, che decide di avere uno studio fuori casa,
dove rintanarsi a lavorare, come se. Ed uno studio che usa come garçonnière a
tutto vapore. Il momento topico che lo porta a riflettere sul suo malessere,
avviene quando si accorge che anche i suoi amici crescono, e si assumono
responsabilità, e per questo, si vedono meno. Bello è il contraltare di Naif,
uno degli amici storici, anche lui con moglie e figli, ma che accetta questa
realtà, e ci lavora. A lui rimane solo Victor, uno che se ne andato anche lui
di casa un paio d’anni prima (ma con ripensamenti e crisi). Contemporaneamente,
ha una storia con Nina, ragazza più giovane di lui, affascinata dal suo essere
un po’ alternativo. Che aspetta, ma poi non accetta quella sua indecisione di
fondo. E lo lascia. Questi due avvenimenti lo mettono in crisi. Lo mettono di
fronte al suo vagheggiamento di un’età felice. Facendo in modo di riversare
tutto il suo malessere e le sue incapacità sulla buona Susan. Che invece lo ama
ancora, e molto. Che va con lui in analisi per capire il loro rapporto. Il
nostro sembra mettercela tutta. Ma niente da fare. Per andare avanti dovrebbe
sporcarsi le mani. Ed allora, si ripete, qui sto male, anche se ho Susan, anche
se ho i miei figli. Me ne vado, così faccio piazza pulita e ricomincio da capo.
Non capisce, non capirà mai, che non può andarsene da se stesso. E la piazza
pulita la deve fare al proprio interno. Cambiare cielo non significa, mai,
cambiare vita. Kureishi, oltre a descrivere con crudezza questa catastrofe umana,
utilizza il nostro anche come paradigma di una generazione bene o male fallita.
Quella che all’epoca andava per i quaranta (ed ora andrebbe per i sessanta). Che
è stata sconfitta nel pubblico e nel privato, proprio perché “non si è sporcata
le mani”. Descrizione cruda nei rapporti umani, ed in quelli sessuali, per
tirarne fuori pochi (e sparuti) elementi di conforto. Alla fine, dolentemente,
mi è anche piaciuto, laddove rivedo situazioni similari. Forse, come diceva
qualcuno ma non ricordo dove, ci volevano “un po’ più di palle” per affrontare
la vita. E non ce l’ha messe né il protagonista, né lo scrittore. Comunque una
lettura non banale, da approfondimento.
“Le parole sono azioni e fanno accadere le
cose. Una volta che sono uscite dalla bocca non puoi più farle rientrare.” (5)
“Se sei portato all’infelicità, no ti
mancherà mai un amico.” (30)
“Per un ceto periodo sono stato una sorta di
marxista, anche se adesso non riesco più a ricordare le differenze fra i vari
tipi: gramsciani, leninisti, hegeliani, maoisti, althusseriani.” (35)
“Lei [inglese] insegnava inglese agli
stranieri, cosa che rappresenta sempre l’ultimo rifugio per chi è allo sbando.”
(60)
“Non è che adesso sia poco attraente, ma è
di mezza età, e perciò appartiene a una categoria diversa.” (75)
James M. Cain “Mildred Pierce” Adelphi euro 12 (in realtà, scontato a 9
euro)
[A: 04/01/2014 – I:
14/04/2014 – T: 15/04/2014] - &&&
[tit. or.: Mildred Pierce; ling. or.: inglese; pagine: 308; anno 1941]
L’autore
è il ben noto scrittore de “Il postino suona due volte”, libro che però non ho
ancora letto. Qui lo troviamo in quello che invece è considerato il suo miglior
romanzo, portato al cinema da Joan Crawford (Oscar) ed in televisione da Kate
Winslett (Emmy Awards). Romanzo che veniva ascritto al genere noir, in
considerazione dei cambiamenti fatti nel film. E che invece è giustamente un
mélo come ci fa vedere la mini-serie TV. Infatti, seguiamo per le scorrevoli
300 pagine la storia e le vicende di Mildred Pierce, giovane casalinga che vive
nel 1930 a Glendale, sobborgo di Los Angeles. È appena accaduto il grande
disastro del ’29, l’America è in piena recessione, ed il costruttore di case
Bert (marito di Mildred) si trova a corto di soldi e senza prospettive. Non
solo, ma si consola dei disastri tra le braccia di Maggie, mentre Mildred è
costretta a fare torte in casa che rivende a pochi dollari, per poter arrivare
(e con molta fatica) a fine mese. Ci sono poi le loro figlie: Moire (detta
Ray) e Veda. Mildred, stufa della
pochezza di Bert, lo manda a scopare il mare, chiede il divorzio, e comincia a
ipotizzare di far diventare un lavoro più redditizio quello delle torte. Ma
deve trovare anche il modo di sbarcare il lunario, di pagare il mutuo che le ha
lasciato Bert. Insomma, sta proprio in mezzo ai guai. Oltre alle torte, l’unico
mezzo di sostentamento che ha è il suo corpo. Non che diventi improvvisamente
un escort di lusso, ma diciamo concede le sue grazie in modo da ottenere in
cambio qualche aiuto, qualche suggerimento. Magari legale, dall’ex-socio del
marito. Magari di prospettive, quando cade tra le braccia del bel Monty, un
quasi gigolò, forte solo della sua bellezza e dei lasciti aviti che a poco a
poco si mangia. In questo girare tra letti e torte, scompare presto la piccola
Ray, portata via da una polmonite fulminante. Ma Mildred non si lascia
abbattere. Prima continua con le torte, poi si fa cameriera. Accumula soldi ed
esperienza, e, nella grande esaltazione del sogno americano, fa una luminosa
carriera. Tanto da poter aprire un ristorante suo. Dove impiega le sue amiche,
chi ai tavoli, chi ai liquori (che intanto il proibizionismo sta passando).
Unico suo cruccio, l’impossibile rapporto che ha con la figlia Veda. Che non
accetta lo status di “figlia di una commerciante”. Lei è quella delle grandi
manie, delle grandi capacità, quella per cui non è nata nobile ma solo per
caso, e fa di tutto per salire (a suo modo) i gradini del potere femminile.
Prima con il pianoforte, ma avendo un talento solo ripetitivo deve cambiare e
cambia alla grande, verso il canto dove le sue doti spiccano di gran luce. Seguiamo
così le loro due carriere, sempre ai ferri corti, ma ognuna con i suoi lumi. Il
ristorante, le torte, gli investimenti, consentono a Mildred di arrivare ad una
vita agiata. Ogni volta rimessa in pericolo dalla necessità di soccorrere Veda
se questa ha problemi, se Veda chiama, se Veda ha bisogno. Bert, intanto, si
defila dalla scena, un poco ingelosendosi dei successi di Mildred, ma partecipando
a quelli della figlia, in cui rispecchia il proprio egotismo assoluto (se non
c’è niente al mio livello, non faccio nulla, aspettando che qualcosa arrivi).
Mildred salva anche Monty dalla bancarotta, rimette in sesto le di lui scarse
finanze. Lo sposa anche, per poi ben presto divorziare quando si accorge che
Monty è un involucro vuoto. Ed è nella parte finale che il melo acquista tono e
spessore. Perché Mildred, acquiescente ad ogni richiesta di Veda, si accorge
che non solo la figlia la odia da sempre, che Veda l’ha usata per ottenere un
contratto canoro più vantaggioso. Ma anche che Veda si mette con Monty, andando
via da Los Angeles per continuare la sua bella vita a New York. Mildred alla
fine risposa Bert, il suo primo marito (lasciato da Maggie che torna dal suo di
marito che nel frattempo ha scoperto del petrolio nel Texas, ahi potenza del
grande sogno americano). Il libro è tutto qui, tutto nel rapporto tra genitori
e figli e su come le scelte private influiscano sulla vita pubblica dei
personaggi. Nel film con la Crawford decidono di inserire la componente noir, inscenando
l’uccisione di Monty. Ma è una forzatura, che nel libro manca. Perché il libro,
in fondo, è molto più dolente della torbida storia melo-noir del cinema.
Dolente ed aulente. Perché da un lato si inneggia al grande mito americano che
tutti possono riuscire se hanno le capacità (Mildred fa le torte, sa cucinare,
apre un ristorante, ed ha successo; Veda sa cantare, e vola di palcoscenico in
palcoscenico), ma tutti falliscono se non ne hanno (Bert si illude di saper
fare, e farà lo spiantato per tutta la vita, riscattato solo dall’affetto di
Mildred, Monty ha soldi di famiglia, ma non è capace di nulla, e non potrà
passare che di fallimento in fallimento). E dall’altro si toccano le corde che
sempre inguaiano gli americani: l’incapacità di avere rapporti umani, la tragedia
dell’odio genitori-figli (o meglio figli vs. genitori, anche se bollare Veda
come la creatura più demoniaca della letteratura come fa la quarta di copertina
mi sembra un po’ forte). Ci sarebbe quasi da scriverne un saggio sociologico.
Intanto gustiamoci questa scrittura di Cain, dimenticando il film, la serie
televisiva, e seguendo gli anni Trenta americani attraverso alcuni protagonisti
minuti, anche se non minimali.
“Bert assomiglia a Veda. Se non può fare le
cose in grande stile, gli sembra di non vivere.” (102)
James Lloyd Carr “Un mese in campagna” Fazi editore euro 12,50 (in
realtà, scontato a 10 euro)
[A: 12/03/2014 – I: 04/06/2014
– T: 06/06/2014] - &&&&
[tit. or.: A Month in the Country; ling. or.: inglese; pagine: 157; anno 1980]
È
uno di quei romanzi in cui non succede niente, e proprio per questo è pieno di
tante cose. Inoltre, anche se ha scritto altro, l’autore è una specie di
single-book man. Il buon J. L. Carr, tre l’altro, è morto una ventina di anni
fa. E questo suo romanzo, scritto a 66 anni, dopo essere andato in pensione
come ex-preside di liceo, gli valse anche premi ed onori. Direi giustamente.
Dicevo, non succede niente, ma è pieno di tanto. Se volessimo chiudere la
storia in poche note, da quarta di copertina, dovremmo parlare della piccola
storia del ragazzo Tom, appena finita la Prima Guerra Mondiale (il romanzo è
ambientato nel 1920), ripreso in mano il lavoro di restauratore di dipinti ed
altri oggetti in deperimento, viene chiamato da un parroco di campagna per
rimettere alla luce un affresco probabilmente celato dietro l’altare.
Ovviamente Tom è rimasto segnato dalle esperienze militari. E la comunità campagnola
non facilmente accetta estranei. Mentre Tom mette alla luce il dipinto, lavora
al suo fianco il giovane Charles che invece sta cercando una tomba. Nasce solidarietà
tra i due, entrambi reduci dalle rovine militari. Ma Charles ha qualcosa in
più, essendo stato cacciato dall’esercito in quanto gay. Durante il suo lavoro,
Tom viene avvicinato solo da due persone: la ragazza Kathy e la giovane Alice.
La prima, tredicenne e spensierata, coinvolge Tom prima nella vita domenicale
(il padre è predicatore), poi nell’aiutare dei bimbi disadattati, poi in tutta
una serie di attività di aiuto in cui Tom con la sua naturale empatia si mostra
vincente. Alice, invece, è la moglie dell’attempato parroco. E si capisce ben
presto che ha un debole per il nostro Tom. Che si domanda il perché di questa
unione tra Alice ed il prelato. Che si domanda se deve fare qualcosa, anche lui
sentendo del trasporto. Ma il mese trascorre. Charles trova la tomba, Tom ripulisce
l’affresco. Alice ed il parroco chiedono il trasferimento in una diversa parrocchia.
Ve l’avevo detto, no, la trama è ben presto riassunta. Ma è tutta la carica di
inespresso e/o di velato che c’è dietro e dentro che rende molto interessante
il romanzo. Innanzi tutto, le tonalità che usa Carr, perché narra appunto come
se fosse il Tom anziano che ricorda un periodo della sua giovinezza. E quindi
sappiamo, a posteriori, che, in effetti, non successe gran che in quel mese in
campagna. Se non che Tom – Carr matura e prende coscienza di se. Capisce di
avere comunque un mestiere tra le mani (restauratore). Capisce che può
riprendere il rapporto con gli altri (aiutato da Kathy), cosa che sembrava
fosse stata interrotta dalla guerra e non più riprendibile. Capisce che se fa
un gesto, un piccolo gesto, la sua vita, quella di Alice e quella del parroco,
potrebbero cambiare. Quindi romanzo di possibilità. Ma anche romanzo di
rimpianto. Che Tom si chiederà sempre e per sempre cosa sarebbe successo se…
Una specie di contraltare delle domande irrisolte che si farà il narratore del
bellissimo libro di Barnes “Il senso di una fine”. Se potesse continuare a
restare lì in campagna. Se accettasse di fare il maestro ai ragazzi del paese.
Se avesse baciato Alice. Se avesse iniziato a fare il predicatore, come il
padre di Kathy. Insomma, un piccolo momento in cui Tom fa un salto in avanti
nella sua vita ed un momento in cui non tornerà più (“non ho più incontrato
nessuno di quel paese sperduto”) ma gli servirà per costruire la sua vita. Mi
ricorda e mi fa venire in mente tanti piccoli istanti che ognuno vive. In
particolare, un viaggio in treno da Siviglia a Madrid, fatto più di
quarant’anni fa, e la conoscenza che feci sul treno della giovane Monika,
turista tedesca. Non ci fu gran che di più di quello che successe tra Tom e
Alice, ma modificò e di molto, la mia percezione dell’altro (o meglio delle
altre e del mio rapporto con loro). E come Tom, dopo quel luglio di quaranta
anni fa, più nulla seppi di Monika, delle sue amiche e della sua vita. Per
tornare al libro, l’unico elemento che mi ha leggermente disturbato è
l’introduzione di Penelope Fitzgerald. Non perché non dica cose condivisibili,
ma perché le dice prima del romanzo. Guastando un po’ il godimento che se ne
trae leggendolo. Io ritengo che le introduzioni debbano soltanto inquadrare, se
del caso, l’autore ed il momento della scrittura. Mentre lascerei alle
postfazioni il compito di entrare nei dettagli del narrato, che ora, avendolo
letto, consente di condividere e di comprendere meglio quanto si dice. Evitando
di anticipare cose che il prefatore vede, e magari io lettore no. Ma in fin dei
conti, amici, leggete il romanzo. E non tiratevi indietro come il nostro Tom.
Meglio una domanda ben posta che una ricerca di una risposta per tutto il resto
della vita.
“Per quanto mi riguarda, avrebbe potuto girare
l’angolo e morire di colpo. Ma questo vale per la maggior parte di noi, non è
vero? Ci scambiamo sguardi vuoti. … Che facciamo qui? … Sogniamo ad occhi
aperti. … Sì, quelli sono la mia mamma e il mio papà. … Vado a lavorare alle
otto e torno a casa alle cinque e mezzo. Quando andrò in pensione mi
regaleranno un orologio… Adesso sai tutto di me.” (52)
“Ciascuno di noi vede le cose con occhi
diversi, e non serve a nulla sperare che anche uno solo su mille la pensi alla
tua stessa maniera.” (96)
“Siamo entrati in questo mondo e prima o poi
lo lasceremo. … Siamo qui a tempo determinato.” (101)
Herman Koch “La cena” Beat euro 9 (in realtà, scontato a 8,19 euro)
[A: 01/02/2014– I: 27/06/2014 – T: 29/06/2014] - &&
e ½
[tit. or.: Het Diner; ling. or.: olandese; pagine: 255;
anno 2009]
Il
mio coevo scrittore olandese, dopo tanto scrivere per televisioni e giornali,
esce qui in tarda età con un libro ambivalente. Sicuramente ben scritto (ed una
volta tanto ben tradotto), cerca di confutare l’incipit dell’Anna Karenina di
Tolstoj. Cerca cioè di spiegare come non solo ogni infelicità è unica, ma anche
le famiglie felici, sono felici a modo loro. E lo fa con un libro, come
sottolinea Daria Bignardi, politicamente scorretto. Con un libro in cui, dopo
aver cercato di farci simpatizzare con tutti i personaggi, li distrugge ad uno
ad uno. Tanto che alla fine verrebbe da dire, come con Agatha Christie, “… e
non rimase nessuno”. Allora perché valutarlo al ribasso? Forse mi aspettavo un
po’ più di crudeltà verso la fine. Arrivati a tanto, viene quasi voglia di
vedere di più. Invece il libro si chiude, forse con scelta saggia, con una
cattiveria non tanto celata: le cose sono talmente brutte che continueranno ad
andare male. Non si salverà nessuno. La narrazione è fatta in prima persona da
uno dei quattro partecipanti alla cena, Paul. Partecipanti che si scopre essere
due fratelli, Paul appunto e Serge, con le rispettive mogli, Claire e Babette.
Si nota subito una certa disparità. Serge è l’uomo famoso, un politico in
scalata, che aspira ad alte cariche. Babette è un po’ una moglie “palo”: serve
nelle occasioni pubbliche, ma poco nel privato. Paul si scoprirà è un professore
in congedo, mentre ignoto sembra il lavoro della moglie. Si sa solo che Paul la
ritiene molto più in gamba di se stesso (e di tutti gli altri). Ci sono poi i
due figli grandi, Michael e Rick, nonché Beau un nero adottato dal politico. E
si nota anche dell’astio. Paul sembra avercela, e molto, con Serge. Ci fa
credere forse che sia per la prosopopea da uomo pubblico (e ne stigmatizzata bene
gli atteggiamenti) ma procedendo capiamo che ci deve essere qualcosa di più
profondo. E mentre la cena procede (ed alla fine, da buona forchetta, vi
riporto anche il menu), Paul ci svela tutti (o quasi) i retroscena. Lui, professore
di storia, preso da crisi depressive profonde, comincia a fare discorsi
para-nazisti sulla necessità di eliminare i “cattivi soggetti”. Tanto che viene
allontanato dalla scuola. Poi la malattia di Claire, e le continue scaramucce
con il fratello, che sembra fare sempre la parte del buono, del corretto. Ma
infine, la grande crisi. Tutti e quattro i genitori si accorgono, attraverso
uno sfocato video trasmesso dalla televisione che sono Rick e Michael ad aver
ucciso (forse involontariamente) una barbona che dormiva in un bancomat. Questa
è la scintilla nascosta, che mette a nudo i comportamenti dei quattro. Babette
è subito emarginata non pensa che a se stessa, senza capire né figli né
parenti. Serge è preso dal suo ruolo sociale, vuole fare ammenda davanti a
tutti. Paul e Claire, quasi indipendentemente l’uno dall’altra, hanno invece un
atteggiamento simile: fare di tutto per proteggere il figlio Michael. Anche
perché si aggiunge un ulteriore pericolo: l’adottato Beau scopre le malefatte e
ricatta i due ragazzi. L’abilità di Koch è nel farci calare, gradino dopo
gradino, nell’inferno di queste “felicità”. Paul all’inizio sembra molto posato,
riflessivo, preoccupato delle attività di Michael. E poi, si scopre essere lui
stesso razzista, quasi comprensivo, preoccupato di coprire il figlio. Lo stesso
modo di agire di Claire, che addirittura cerca di coprire la possibile resa dei
conti tra i ragazzi e Beau. E cercano entrambi di mandare fuori gioco il
tentativo di Serge di fare il “bravo politico”. Ovviamente, riusciranno tutte
le peggiori attività che ci possono venire in mente. Alla fine non potremmo far
altro che piangere su come stia andando in malora l’etica di questo nostro
mondo. E ringraziare l’autore di aver costruito un monumento all’ipocrisia. Che
sappiamo essere di questo mondo, ma che pensiamo sia altrove. Invece è anche
lì, nei comportamenti minuti di molte persone. Nella mia ricerca del buono, nel
mio fondamentale ottimismo, rimango spiazzato da questo libro, dove non riesco
ad entrare in empatia con nessuno. Bravo Koch! Alcune note a margine sugli
atteggiamenti al ristorante. Non sono riuscito a capire, infatti, se il
soggettivo di Paul è ironico o meno. Ma dubito che lo sia, come quando fa una
sparata sul fatto che solo in Olanda (dice) i camerieri riempiono continuamente
i bicchieri di vino per far salire il conto. Lo fanno ovunque. Allora è
ironico? È ipocrita? È, forse, solo ben scritto, in modo che risaltano le
stupidità della borghesia olandese. E magari riusciamo a riflettere sulle nostre,
di stupidità. Poi date un’occhiata al menu, ed immaginate il cameriere che si
affanna a descrivere i piatti, soprattutto gli antipasti. E poi spezza il tappo
mentre tenta di stappare una bottiglia di Chablis!
Il menu (per quattro, ma non
sempre quattro piatti, che alcuni prendono pietanze simili, altri, verso la
fine, smettono di mangiare)
Aperitivo Champagne rosé
Vino Chablis
Antipasti Gamberi
di fiume in vinaigrette di dragoncello e cipolline con gallinacci dei Vosgi
Animella d’agnello marinata in olio sardo con rucola e
pomodori secchi della Bulgaria
Caprino caldo con pinoli e noci tritate e contorno di
songino
Piatto Filetto di faraona avvolta in
pancetta tedesca
Tournedos con contorno di uva e lattughina
Dolci Parfait di cioccolato con mandorle, noci grattugiate e
more
Gelato alla vaniglia con cioccolata calda
Caffè
“Non bisogna sempre sapere tutto l’uno
dell’altro. I segreti non ostacolano la felicità.” (252)
Seconda domenica di settembre,
quindi alleghiamo anche una piccola Cura, questa volta dedicata ad un problema
medico specifico che affligge molti uomini: la calvizie. Per il resto, come
sanno i miei amici viaggiatori, nessuna nuova, cattiva (o era buona?) nuova.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
SETTEMBRE 2014
Un mese dedicato ad un problema
serio (almeno per molti uomini), da affrontare con molto tatto, che qualcuno ci
rimane male. Ed ecco allora due terapie opposte per la debulbificazione del
cuoio capelluto.
CALVIZIE
Calliphora, Patricia Cornwell
Sun Dog, Monique Roffey
Se avete una zucca lustra e rosea sulla quale
non cresce nulla - e la vedete, di scorcio, riflessa nelle vetrine mentre
passate - magari sarete costernati per la scomparsa dei vostri boccoli come,
forse, di un po' della vostra virilità. Guardate con invidia le folte criniere
che vi circondano, e vorreste che i loro possessori vi cedessero qualche
ciocca. Vi invitiamo, però, a riflettere sull'evoluzione umana, da scimmia a
essere quasi glabro. Siete voi l'essere superiore, la vostra fronte altissima è
segno di maggiore evoluzione. Sono quei bruti con la zazzera che dovrebbero
essere intimiditi dalla vostra presenza, loro che sicuramente si raderebbero a
zero, se avessero abbastanza cervello per pensarci.
Se questo non basta a rassicurarvi, leggete
il diciassettesimo romanzo di Patricia Cornwell, “Calliphora”. Jean Baptiste
Chardonne è nato con una folta peluria nera - che non gli copre solo la testa,
ma anche il resto del corpo. Da bambino veniva trattato come una creatura bizzarra,
nascosta agli sguardi altrui dai genitori imbarazzati. Diventato adulto ha
ormai accettato il ruolo del mostro, di ripugnante «lupo mannaro» - non solo a causa
della sua pelliccia, ma per come questa si associ a un corpo deforme e a un
viso dagli spaventosi lineamenti animaleschi.
In questo romanzo peli e capelli sono
dappertutto, intasano i lavandini, restano a ciuffi in mano alle persone,
vengono lasciati come indizi su alcuni cadaveri. Finiscono, anche, sotto la
lente di ingrandimento di Kay Scarpetta, il medico legale che si occupa del
caso (e ha già incontrato la belva irsuta). Mentre Scarpetta e Chardonne
affilano gli artigli sulle rispettive corazze, il lettore sarà sempre più
infastidito e disgustato da tutti quei capelli che si passerà una mano sulla pelata
con indicibile sollievo.
Se poi avete bisogno di ulteriori prove che
essere calvi è meglio, leggete “Sun Dog” di Monique Roffey. Il protagonista,
August, è un uomo capace di modificare il proprio aspetto in accordo con le
stagioni. In autunno ha i capelli arancioni, dritti sulla testa che sembra «una
soffitta in fiamme». In inverno diventa azzurro, e secerne fiocchi di neve. In
primavera gli germogliano le ascelle, i capezzoli e le orecchie. D'estate,
infine, perde i capelli a manciate. E proprio in quel momento, quando è calvo e
più vulnerabile, che August incontra il suo vero amore. Per fortuna a lei non
importa nulla se è glabro o irsuto; lo ama per quello che è.
Bugiardino
Mi dispiace di non avere (ancora) nella mia
libreria il libro di Monique Roffey, che d’altra parte non mi risulta essere
uscito in Italia. Invece ho, insieme alla collezione competa, gli scritti di
Patricia Cornwell dedicati a Kay Scarpetta (in realtà posseggo 20 dei 21 libri,
essendone appena uscito uno nuovo). Una serie interessante (soprattutto nelle
prime uscite), con una dose ben documentata di autenticità scientifica, che a
poco a poco si è incartata, anche se le ultime prove hanno segnato una
risalita. Questa per la calvizie è una delle prove minori del periodo buio,
illuminata solo dalla presenza del super bulbifero assassino.
Patricia Cornwell “Calliphora” Mondadori
euro 9,50
[tram
del 19 giugno 2011]
Un libro di passaggio, credo. E sicuramente
minore, uno dei punti più bassi delle vicende Scarpetta&Co. Credo che ad un
certo punto un autore (o autrice) affermata possa sentire la mancanza di
ispirazione. Ma l’industria del libro (soprattutto quella americana) ha leggi
spietate. Immagino (questa è pura finzione mia) che la Cornwell abbia ricevuto
il solito anticipo per scrivere un libro, ma che non venivano idee nuove e/o
originali. A parte, forse, quella legata al titolo, anche se il moscone della
carne (in inglese blowfly, dal nome latino di Calliphora vicina) compare un
paio di volte nel libro per spiegarne l’uso forense nel determinare il tempo
della morte di un cadavere. Per il resto è una pura e semplice prosecuzione del
precedente, dove si riprendono temi e personaggi, ma in tono minore, con molta
stanchezza. Intanto ci sono due grossi fatti che condizionano il libro: il
primo è che l’ottimo Benton (l’agente amato da Kay) dato per morto nei due
libri precedenti si è solo eclissato perché così può continuare le sue indagini
sul cartello degli Chandonne senza mettere in pericolo Kay e compagnia. L’altro
è che la simpatica Lucy, fino ad ora allegra gay con amori simpatici anche se
sfortunati, viene occultata al rango di “donna caliente”, tacendo le sue
tendenze amorose, come se, in un soprassalto di perbenismo, non fosse più
“pagante” il suo ruolo e l’autrice cercasse di ricrearle una verginità. Terzo
elemento, minore se vogliamo, ma condizionante, la Scarpetta ha un ruolo
decisamente marginale. Sì, compare ed accompagna tutto il libro, ma non ne è il
motore pulsante. Quasi che, la famosa morte di Benton la svuoti della carica di
protagonista. Così anche l’altro elemento della banda, il buon Pete Marino,
risulta sfuocato, a volte più preso dalle sue turbe familiari (la mancanza di
una seria vita affettiva, ed il dirazzamento del figlio, che si scopre avvocato
dei cattivi e molo, molto corrotto). Per fare un po’ di esotismo, ci si sposta
dalla Virginia, sino ad ora teatro delle gesta anatomo-patologiche, a Baton
Rouge in Louisiana. Si ha così modo di fare un po’ di colore locale, sia
sull’inadeguata polizia, sia sui meandri paludosi e malavitosi delle paludi del
Mississippi. Ritrovandoci, come è ovvio, i gemelli Chandonne. Jean - Paul alla
deriva in Louisiana, dove uccide a più riprese donne bionde nella speranza di
uccidere prima o poi la bionda Kay. Jean Baptiste nel braccio della morte di
Houston, in attesa di una sentenza che tarda a venire. Ma è tutto trascinato
via. Come dicevo, come se fosse un libro di passaggio. Si deve giustificare
l’abbandono della polizia da parte di Lucy, che mette su una sua agenzia
investigativa (e credo che la rivedremo più pimpante nelle prossime opere). Si
deve giustificare il ritorno di Benton (con una patetica scena di odio-amore
con Kay). Si devono eliminare un po’ di rami secchi, e così si fanno morire, in
vario modo, uno dei gemelli ed il figlio di Pete. Si deve lasciare in vita
l’altro gemello, errabondo in qualche luogo (così che ce lo ritroveremo nelle
prossime avventure). E si tira fuori un ragazzino di 10 anni, cui (per diverse
cause che non narriamo) muoiono i genitori, e vuoi vedere che qualcuno dei
nostri se ne occuperà? Ma non c’è un vero giallo, una vera ricerca, un
thriller. Nulla di nulla di nulla. E penso soprattutto a chi si trovasse,
malcapitato, a leggerlo prima di altri. Poi magari legge quello che ho tramato
poco tempo fa e scopre che chi ora è vivo lì è morto. Un voto bassino, ma di
molto. Comunque ci si tornerà sopra, che la mamma ha voluto per regalo la serie
completa.
Conclusioni
Seppur pieno dell’irsutismo del
piccolo Chandonne (a proposito, un punto di demerito ai curatori del libro di
Sellerio, che il “mostro” si chiama Chandonne e non Chardonne!), e non avendo
la controprova del secondo libro, credo che questa volta la cura proposta dalle
nostre dottoresse non sia molto efficace. Perché non è la calvizie la prima
cosa (ma neanche la seconda o la terza) che viene in mente leggendo “Calliphora”.
Forse avrei citato al suo posto “Storia della mia calvizie” l’ironico libro
dell’olandese Arnon Grunberg. O meglio ancora, quell’apologo di retorica del
afro-greco Sinesio di Cirene con il suo “Elogio della calvizie” dove sostiene
(e ne abbiamo le prove nelle statue antiche) che i saggi ed i filosofi sono
tutti calvi. Comunque, anche se leggere non aiuta ad allungare la chioma, aiuta
senz’altro ad essere pronti ad affrontare il mondo (con o senza peli).
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