Quattro interessanti uscite al
femminile, che non guasta mai. Altalenanti, se vogliamo, con autrici a me
solitamente care che non riescono altrettanto bene di autrici che magari
conosco ma di cui non avevo, non ho letto ancora molto. Preferisco di molto la
Napoli anni ’50 della Ortese a quella della Ferrante, da cui mi aspettavo di
più. Non posso che inchinarmi alle memorie della famiglia Nemirovsky, e
rivolgere una speranza per il futuro negli scritti di Isabel Allende.
Anna Maria Ortese “Il mare non bagna Napoli” Adelphi euro 10 (in
realtà, scontato a 7,50 euro)
[A: 04/01/2014– I: 13/03/2014 – T: 14/03/2014] - &&&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 176;
anno 1953]
Anna
Maria Ortese è una scrittrice il cui nome riecheggiava in qualche fondo di
memoria. Ne sapevo l’esistenza, mi giungevano echi di possibili scritture, e mi
rimaneva in testa questo titolo, come se sapessi che prima o poi ne avrei
letto. E prima della lettura, c’erano anche i rumori di lotte, discussioni,
forti dissensi, infiniti ed insormontabili litigi. Mi sembrava ricordare
qualcuno che parlava male della scrittrice, che bollava astioso ed irreale
questo suo scritto. Non avevo mai avuto voglia di sbrogliare questa matassa.
Ma, come dico anche altrove, la forza della maturità mi spinge a prendere in
mano testi che forse non pensavo di leggere. Maturità e curiosità direi. E bene
ho fatto. Che questo libro, pur coevo, e quindi con del testo che va misurato
all’età, rimane bello, appassionato. Una serie di scritti, tre racconti e due
testimonianze, che, nelle loro diversità, ci fanno scendere nei gironi
danteschi dell’universo napoletano del dopoguerra. Sia una discesa fisica, come
nei crudeli racconti e nella testimonianza, sia una discesa della testa e
dell’intelligenza in quell’ultima, lunga e bellissima narrazione dell’universo
intellettuale partenopeo di quegli anni. E separiamo allora, anche nella
narrazione, questi due momenti. Nei racconti e nella prima testimonianza,
Ortese ci cala nella Napoli del dopoguerra, nella vita quotidiana, nell’estrema
povertà. La si accusa di “godere” della descrizione del dolere di vivere. Ma a
me restituisce il senso di una certa vita. Della piccola Eugenia e del dramma
di essere povera e quasi cieca. Dello scorrere quasi inutile della vita della
quasi zitella Anastasia. Della vita quotidiana e delle sue piccole furberie tra
San Biagio dei Librai ed il Monte di Pietà (ed ancor oggi, passeggiando per
Spaccanapoli se ne avverte il sapore, quasi immutato dopo sessanta anni). Di
quel monumento descrittivo della miseria e del degrado che furono i Granili, e
la massa di senza tetto che per decenni vi si era ammassata (Granili poi
finalmente demoliti proprio nel ’53). Le immagini della Ortese, nella loro
crudezza, non sono crudeli. Forse irreali, laddove l’irrealtà a volte descrive
meglio la realtà di una foto sbiadita. Ne leggo, e torno a Napoli ed a pensarla
nella vita minuta. Nei gesti dei napoletani che ho conosciuto dopo, ma che
ritornano, come delle maschere immote nel tempo. E poi c’è la lunga, sofferta
testimonianza della vita dei sodali della scrittrice nei primi anni del
dopoguerra. In quell’insieme di intellettuali, scrittori, giornalisti ed altro
che cercarono, ognuno con le proprie forze ed idee, di dare svolta ad una città
che si andava incartando su se stessa. Ne uscirono sconfitti, e la nostra
scrittrice, andando a ritrovarli dopo, nell’epoca della sconfitta avvenuta, ce
li rende con il suo pathos di un essere altrettanto sconfitto, ma che vuole
salvarne il senso dall’oblio. Il ritratto viene fuori impietoso, e posso capire
che chi ne lesse si sentisse colpito dall’essere messo davanti alla propria
sconfitta. Ed a quella di una generazione. Ma non capisco, non accetto,
l’ostracismo che verso l’Ortese ne seguì. Il fatto che proprio in seguito a
questo scritto, nessuno dei suoi ex-amici la volle più in città. E lei ne
fuggì, con la Napoli nel cuore, errando per luoghi italici, fino al buon ritiro
e morte in una Rapallo di fine secolo. Io invece li vedo, Luigi Compagnone
zoppicante con il suo bastone, il suo salotto, con Pratolini, con il giovane
Domenico Rea. La casa dell’allora azzimato La Capria (che rimarrà nella mia
testa quando lo incontrai con la moglie Ilaria Occhini
alla GS del Pantheon). E, ultimo e molto importante, Prunas, il motore della
rivista “SUD”, che tanto sembrava poter smuovere, e che purtroppo non smosse.
Lo vedo allontanarsi, dopo un caffè al Gambrinus, verso Monte di Dio, che mi
riporta al migliore De Luca di tanti decenni dopo. Tutto quel dolore non è
inutile mostra delle ferite di una sconfitta, né astio per chi ti allontana. È
comprensione per quello che poteva succedere. Ed è anche speranza. Quella che
in molti non ebbero. Quella che mi ritornava in mente leggendo il libro e
pensando alla di non molto successiva morte di Renato Caccioppoli (ed alla
bellissima interpretazione che ne diede Carlo Cecchi in “Morte di un matematico
napoletano”). Ma torniamo al libro, alla
Ortese, ed a quel mare che non bagna Napoli. Un libro che va letto. Nonostante.
Isabel Allende “Il quaderno di Maya” Feltrinelli euro 9
[A: 15/04/2013– I: 07/05/2014 – T: 10/05/2014] - && e ½
[tit. or.: El Cuaderno de
Maya; ling. or.: spagnolo; pagine: 398; anno 2011]
Torno
dopo quasi due anni alla lettura dei libri di Isabel, dopo la buona prova de
“L’Isola sotto il mare”, e ricordandomi “Ines dell’anima mia”. Il mio amore per
la scrittrice è di vecchia data, e non cambierà. Non mi scordo “La casa degli
spiriti”, uno dei primi libri letti, o “D’amore e d’ombra”. Anche qui, come una
costante della sua produzione, c’è un bel ritratto di donna. Questa volta
torniamo al presente, e torniamo anche ad una ragazza colta nel passaggio tra
adolescenza ed età adulta (anche se con tutte le vicende che passa, ha
sicuramente una maturazione molto veloce). E sebbene questo tipo di scrittura
sia gradevole, trovo che in questo caso la nostra scrittrice voli verso la
parte bassa dei miei gradimenti. Certo, ritroviamo il suo stile, la capacità di
tenerci sulla pagina (anche se non con la stessa intensità di un tempo). E ritroviamo
inoltre quasi un canto d’amore per il Cile natio, da troppi anni lasciato per
le note vicende politiche, ma che sempre le resta nel cuore. Forse con una
punta di troppo verso la volontà di mettere delle pietre sopra ai dolorosi anni
di Pinochet. Ma questo è anche merito della presidentessa Bachelet e della sua
opera di pacificazione. Da un certo punto di vista, poi, la storia di Maya
Vidal è adombrante molte storie di profughi cileni e delle loro famiglie. Il
lungo romanzo si snocciola come un lungo e doloroso diario di Maya che nello
scrivere delle sue vicende cerca di trovarne ragione, ed anche di uscirne
fuori, come in un bel “outing” psicoanalitico. Intanto, la nostra eroina si
trova a Chiloè, isola cilena del profondo sud, praticamente patagonica, dove si
è rifugiata per qualche motivo che scopriremo leggendo. Nell’isola è ospitata
dall’anziano Manuel, ex profugo politico, ora dedito alla scrittura di libri
sulla mitologia chilote (che ho scoperto essere di una certa importanza
antropologica) ed accudita da Blanca, figlia di un seguace dei militari (seppur
blando) ed innamorata di Manuel. Nel suo diario Maya alterna le vicende
minimali ma fondamentali della sua vita nell’isola dove ricostruisce se stessa,
alla sua storia privata. Storia che nasce dalla fuga della nonna Nini con
figlio piccolo da Santiago nei giorni del golpe (dopo l’uccisione del marito
Felipe, amico pare di Manuel). Nini va in Canada, e lì si innamora di Popo, un
docente di astronomia negro, con il quale ricostruisce la sua vita,
trasferendosi con lui a Barkley. In California il padre si fa adulto, diventa
pilota di aerei, ad un certo punto sposa una danese da cui nasce Maya. La madre
però torna ben presto in patria, e Maya crescerà con i nonni. Soprattutto in
ammirazione del nonno Popo, della sua intelligenza e mitezza. La svolta della
sua vita l’avrà per la prematura morte del nonno cui non si rassegna. Si lascia
quindi andare ad un salto verso gli abissi. Si accompagna con i peggiori
elementi della sua scuola, comincia ad abusare di alcol e di droga. Quando poi
si dedica anche a ricatti verso strani personaggi viene arrestata e mandata in
Oregon in un centro di rieducazione. Dopo un anno passato lì, non trova di
meglio che fuggire e sulla strada di casa prima viene violentata, poi si ferma
a Las Vegas, dove viene assoldata da un losco figuro che la prende per la sua
banda. Lei farà il corriere della droga per Bernard, avendo in cambio droga ed
alcol a profusione. Ma Bernard è anche coinvolto in loschi affari di denaro
falso (pare abbia un fratello che falsifica dollari in modo perfetto). Passiamo
pagine e pagine su vicende cruente, sniffate, morti vari e depravazioni conseguenti.
Sappiamo che ci sono dei cattivi, forse banditi, forse poliziotti corrotti.
Fatto sta che Bernard viene trucidato, e lei riesce finalmente a tornare dalla
sua Nini, che, per salvarla, la spedisce appunto a Chiloè. Qui si ricompatta la vicenda. Maya nella
semplice vita cilena si disintossica, trova l’amore in un turista di passaggio,
che poi la lascerà con grandi crisi. Ripercorrerà le vicende legate al golpe,
trovando tracce della morte del nonno Felipe, e della vera storia di Manuel (e
queste non ve le dico). Ma verrà anche ritrovata dai cattivi. Sarà l'anima
buona del nonno Popo nonché qualche essere mitologico chilote a salvarla,
facendosi che possa tornare alla luce. Non sappiamo, la storia si interrompe
prima, se rimarrà a Chiloè, se troverà di nuovo l’amore, o altre non essenziali
storie. Sappiamo solo che ha ricostruito se stessa, ricostruendo un po’ anche
del Cile dei suoi parenti. E questo in fondo il messaggio della Allende, almeno
quello che io ne ho percepito. La volontà di uscire dagli anni buoi per tornare
a viaggiare verso un futuro di speranza. Tuttavia, la storia a volte è un po’
forzata nel voler arrivare a punti prefissati, a svolte annunciate. Seppur
piacevoli, non tutti i personaggi sono allo stesso livello. E Maya ritrova
probabilmente con troppa facilità la via maestra. Ma un sano buonismo non fa
male ai nostri cuori. Mi aspettavo qualcosa in più, ma in fondo non mi ha
deluso la piacevole lettura.
“La persona che sono ora è il risultato
delle mie esperienze precedenti, compresi gli errori più estremi.” (257)
Èlisabeth Gille “Un paesaggio di ceneri” Marsilio s.p. (regalo di
Alessandra)
[A: 07/05/2014– I:
17/05/2014 – T: 20/05/2014] - &&&&
[tit. or.: Un
paysage de cendres; ling. or.: francese; pagine: 171; anno 1996]
Interessante
romanzo della figlia minore di Irene Nemirovsky, scritto nell’anno della sua
morte per cancro. Per la scrittura e per l’argomento. È una trasposizione,
ovvio, delle sensazioni della piccola Elisabetta, nel periodo che le ha segnato
la vita: 6 anni, Francia occupata, genitori deportati. Nella realtà sappiamo
che la vicenda della famiglia Epstein (questo il nome da sposata della
scrittrice profuga russa) è analoga a quella descritta, con molte “aggravanti”.
Irene ed il marito, pur essendo di radici ebraiche, si erano convertiti al
cattolicesimo negli anni ’30. questo pensavano li mettesse al riparo dalle
successive persecuzioni. Così come il fatto di essere personaggi pubblici, ben
noti scrittori. Per questo non scapparono come altri in America. Ma furono
presi nottetempo nel ’42. Le due figlie (la piccola Babet e la
più grande Denise) fuggono nottetempo e si riparano a Bordeaux. Michel e Irène
vengono invece inviati immediatamente ad Auschwitz, ed immediatamente vengono
avviati alla camera a gas. Nonostante la notorietà e la conversione, nessuno
alzò una mano in loro aiuto, e questo sarà un macigno che le figlie porteranno
per tutta la vita. Cercando
a modo loro di esorcizzarlo. Della grande non parlo, che qui non se ne tratta. La signora Gille
studia, si laurea, diventa direttrice editoriale di case editrici (in
particolare, si occupa molto prima di fantascienza poi di polizieschi). Negli
anni ’90 si ammala, e comincia a scrivere. Prima una biografia della madre, poi
questo libro, che uscirà poche settimane dopo che la malattia l’ha portata via.
E questo romanzo è un lungo grido di dolore, ed un lungo richiamo verso la
madre mai realmente incontrata. La piccola nasce nel marzo del ’39, i genitori
vengono arrestati nel luglio del ’42, che la nostra ha cinque anni e poco più.
Ed il romanzo parte proprio da questo abbandono, da quando la protagonista (qui
senza sorella maggiore) si trova nel pensionato cattolico accudita dalle suore.
E comincia con un “No!” gridato, così come cominciava il primo romanzo della
madre (quel “David Golder” di cui ho già tramato a suo tempo). Seguiamo allora la piccola Lea nella sua
presa di coscienza della realtà. Dalle suore, tutte hanno qualcuno che manda
aiuti. Lei no, lei si sa essere (forse) di origini ebree e nient’altro. Ha una
sola compagna, Bénédicte, ragazza anche lei sola (anche se più grande) ma
perché (e lo scopriremo alla fine) ha i genitori impegnati nella lotta armata
al nazismo. Nella prima parte seguiamo tutta l’infanzia della piccola. Più
intelligente della media, ma più indisponente, che non capisce l’essere sola, e
si trastulla nel mito dei genitori che verranno a prenderla e la farà vedere a
tutti. Seguiamo vicende minute, che lasciano graffi se non segni, con solo una
delle suore che cerca di penetrare nel guscio di Lea, dove solo l’amica del
cuore trova spazio. Finisce la guerra, tutti tornano, anche i genitori di
Bénédicte. Lea è portata dalla suorina a Parigi, e qui c’è la sequenza più
drammatica. Nella vecchia casa no c’è più nessuno, trova solo una scatola di
perline con cui giocava da bimba. Vanno all’Hotel Lutetia dove portano i
sopravvissuti (e nella realtà, Elisabeth e Denise vi trascorsero mesi
aspettando inutilmente i genitori) e Lea vede le miserie, capisce in fondo che
non c’è speranza, ed in una scena drammatica, perde le perle. E si rinchiuderà
in se stessa. La seconda parte fa un salto di qualche anno. I genitori
dell’amica adottano Lea, la fanno studiare (anche se Lea non recupera più lo
sguardo ridente). E Lea, mentre studia, segue di nascosto tutte le miserie che
avvengono nel dopo guerra: i processi ai nazisti ed ai loro sodali, e soprattutto,
dopo le condanne dei primi anni, le assoluzioni. Lea (e noi con lei) non capirà
mai questa vittoria avanzante del male. Le due sorelle – amiche si
trasferiscono a Parigi, all’università. Bénédicte diventa sempre più bella ed
appetita dai maschi. Lea diventa sempre più cupa. Si avvicinano al Partito
Comunista, manifestano. Ma anche Lea legge Sartre, e suona incessantemente sul
giradischi tutto Brassens e “Il disertore” di Boris Vian (mi sembra di
ripassare con dieci anni d’anticipo la metà dei miei anni ’60). Le due vanno
sempre insieme, una solare, una lunare. E si avvicinano altre lotte, sono i
primi anni delle lotte in Algeria, delle bombe, del Fronte di Liberazione.
Tralascio tutto quello che fa Lea in questo periodo, sempre nel solco di quella
ricerca della colpa di chi ha lasciato andare verso la morte i suoi genitori.
Il libro, che stava avviandosi verso un finale di lotta e di speranza, si
chiude invece (e non poteva altro) con un episodio drammatico, ed un ultimo,
lungo grido di dolore. Non è sempre alla stessa intensità. Si nota, a tratti,
un pur tuttavia irrisolto risentimento (anche se il termine è un po’ forte)
verso la madre. Ma
c’è, e sempre ci sarà (e noi saremo sempre con lei) quel sentimento di rabbia e
di impotenza verso chi ha fatto del male (e tanto) e che non riesce a trovare
una giusta punizione. Si aprirebbero spazi enormi di discussione. Noi che ne
siamo esterni possiamo anche cercare di comprendere. Ma io mi domando, chi l’ha
vissuto, quel periodo, come riesce ad uscirne? Capisco, anche se non comprendo,
quel dolore ad esempio che segnò tutta la vita di Primo Levi fino a portarlo al
suicidio. Capisco il dolore di Elisabeth, ed anche della sorella Denise (entrambe
moriranno di cancro a dieci anni di distanza). Rimane questo libro, dove spero
che prima o poi non sarà tutto e solo cenere. Anche se è bene leggerne. Per non
dimenticare. Mai.
Elena Ferrante “L’amica geniale” E/O s.p. (Regalo di compleanno 2014 in ritardo di Rosa&Emilio)
[A: 10/06/2014– I: 19/06/2014 – T: 24/06/2014] - &&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 327;
anno 2011]
Per
rimanere in un linguaggio tematico caro all’ignota autrice, eccoci a leggere il
primo libro della trilogia (o forse quadrilogia) de “L’amica geniale”. Appunto
si diceva, una scrittura “molesta”, nel senso di scomoda, tormentata, in ogni
cosa, che non lascia indifferente. Come non lascia indifferente la non
esistenza di Elena Ferrante. Perché si sa che questo è uno pseudonimo, e si sa
anche che non vuole si sappia chi si cela dietro. Quindi non è mai comparsa in
pubblico, non è presente nei talk-show televisivi (e per fortuna), non si sa
nemmeno se sia donna o uomo (anche se la sensibilità dei suoi scritti mi
farebbe escludere che ci sia dietro una mano maschile). E questi sono tutti
punti a favore. Così ne parliamo solo rispetto a quello che produce. Non
possiamo nasconderci dietro contesti vari, ma dobbiamo attenerci al testo, ed a
quello che ci suscita. Detto quindi tutto il bene possibile di chi scrive, di
come ha scelto di vivere, e del resto “esterno”, veniamo al libro, alla trama,
alle sensazioni. Un libro non facilissimo, bello sicuramente, che ci trasporta
per 300 pagine nel ventre di Napoli, nelle sue miserie, nelle sue esaltazioni.
E che ci porta nell’infanzia dell’io narrante, intorno alla seconda metà degli
anni Cinquanta, usando un approccio che ci fa presagire (anche se non lo
sapessimo) l’uscita di altri volumi. Si inizia, infatti, ai giorni nostri
quando Lila, sessantasei anni, scompare, e la sua amica e sodale di sempre
Elena detta Lena, comincia a narrare le loro storie, per farci capire chi fosse
Lila (e chi è lei stessa, Elena). Percorriamo così, in questo primo volume,
l’infanzia e la prima adolescenza delle nostre due ragazze napoletane.
L’incontrarsi alle scuole elementari, Lila figlia dello scarparo, e Lena figlia
di un usciere. La nascita di un’amicizia, narrata con un piglio che ci fa
percorrere, battito dopo battito, tutte le palpitazioni che percorrono la vita
degli adolescenti. In questa la Ferrante è senza dubbio magistrale. Dipinge e
ci fa sentire vive attrazioni e repulsioni, sfide e contro-sfide. Fin
dall’inizio cerchiamo poi di immaginare il titolo e la sua applicazione. Che
Lila è geniale ma lo è, a suo modo, anche Lena. Scrittura stratificata, dove
non solo si parla di bimbi che crescono (e già questo ben riesce), ma si parla
di una città che uscita dalla guerra stenta a ritrovar se stessa. E se lo fa,
spesso lo fa in modi svogliati e sbagliati (quanto si sente la vicinanza della
scrittura della Ortese ne “Il mare non bagna Napoli”). Contemporaneamente, ed
intorno, si vede anche l’Italia stessa uscire dalla guerra, crescere ed
avviarsi al boom degli anni Sessanta. Ferrante riesce in una sapiente opera di
fotografia in progressione, mostrando piccoli elementi che ci fanno capire
grandi rivolgimenti. Anche volendo tralasciare i “guappi” di periferia e le
loro prime macchine, ci sono i primi trasporti pubblici verso il centro, la
discesa per via Toledo, le pizzette si Spaccanapoli, le prime televisioni che
riuniscono amici e nemici per vedere Mike Bongiorno e “Lascia o raddoppia”. Ma
anche i sogni di chi ha l’intelligenza per studiare ma non i soldi (Lila) e chi
i soldi riesce a trovarli e studia e con profitto (Lena). Pur nel divergente
parallelismo, le nostre due ragazze rimangono legate da un sentimento di fondo
più forte del resto. Anche quando Lena prenderà tutti dieci al liceo. Anche
quando Lila, dopo uno sfortunato tentativo di sfondare nella calzoleria,
deciderà di sposare, a quindici anni, Gino, il figlio del farmacista. Uno con
una posizione, lì nel Rione. E se vogliamo con i soldi (anche se non si sa
quanto “puliti”). Altrettanto bella è la descrizione corale degli altri ragazzi
del rione, con i loro sogni, le loro paure, i loro entusiasmi, le loro tante
sconfitte ma anche le rare ed entusiasmanti vittorie. Vedremo, se capiterà,
cosa avverrà dopo, quali saranno le strade che Lila, Lena e Napoli
percorreranno. E detto tutto il bene della scrittrice, della scrittura, dei
temi trattati, insomma della cosmogonia presente nel libro, devo comunque alla
fine confessare che non mi è piaciuto “alla morte”. Molte volte le situazioni
mi hanno trascinato senza coinvolgermi, le sensazioni le ho viste ma non
vissute. Ho apprezzato il punto di vista femminile da cui venivano lette le
situazioni, ma, forse, non sempre l’ho capito sino in fondo. Da come ne
parlavano amici e conoscenti mi aspettavo senza dubbio qualcosa di più
intrigante. Un bel libro, però, che continuerei a consigliare a chi volesse
leggerlo, e che sono contento mi sia stato regalato.
Ripeto quanto detto all’inizio
scusandomi se c’è qualche mancanza negli invii, ma il crash del PC mi costringe
ad una configurazione di backup che non è completamente affidabile. Sperando in
un ritorno del’efficienza fisica ed informatica, saluto tutti
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