domenica 21 settembre 2014

Donne, donne, donne - 21 settembre 2014

Quattro interessanti uscite al femminile, che non guasta mai. Altalenanti, se vogliamo, con autrici a me solitamente care che non riescono altrettanto bene di autrici che magari conosco ma di cui non avevo, non ho letto ancora molto. Preferisco di molto la Napoli anni ’50 della Ortese a quella della Ferrante, da cui mi aspettavo di più. Non posso che inchinarmi alle memorie della famiglia Nemirovsky, e rivolgere una speranza per il futuro negli scritti di Isabel Allende.
Anna Maria Ortese “Il mare non bagna Napoli” Adelphi euro 10 (in realtà, scontato a 7,50 euro)
[A: 04/01/2014– I: 13/03/2014 – T: 14/03/2014] - &&&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 176; anno 1953]
Anna Maria Ortese è una scrittrice il cui nome riecheggiava in qualche fondo di memoria. Ne sapevo l’esistenza, mi giungevano echi di possibili scritture, e mi rimaneva in testa questo titolo, come se sapessi che prima o poi ne avrei letto. E prima della lettura, c’erano anche i rumori di lotte, discussioni, forti dissensi, infiniti ed insormontabili litigi. Mi sembrava ricordare qualcuno che parlava male della scrittrice, che bollava astioso ed irreale questo suo scritto. Non avevo mai avuto voglia di sbrogliare questa matassa. Ma, come dico anche altrove, la forza della maturità mi spinge a prendere in mano testi che forse non pensavo di leggere. Maturità e curiosità direi. E bene ho fatto. Che questo libro, pur coevo, e quindi con del testo che va misurato all’età, rimane bello, appassionato. Una serie di scritti, tre racconti e due testimonianze, che, nelle loro diversità, ci fanno scendere nei gironi danteschi dell’universo napoletano del dopoguerra. Sia una discesa fisica, come nei crudeli racconti e nella testimonianza, sia una discesa della testa e dell’intelligenza in quell’ultima, lunga e bellissima narrazione dell’universo intellettuale partenopeo di quegli anni. E separiamo allora, anche nella narrazione, questi due momenti. Nei racconti e nella prima testimonianza, Ortese ci cala nella Napoli del dopoguerra, nella vita quotidiana, nell’estrema povertà. La si accusa di “godere” della descrizione del dolere di vivere. Ma a me restituisce il senso di una certa vita. Della piccola Eugenia e del dramma di essere povera e quasi cieca. Dello scorrere quasi inutile della vita della quasi zitella Anastasia. Della vita quotidiana e delle sue piccole furberie tra San Biagio dei Librai ed il Monte di Pietà (ed ancor oggi, passeggiando per Spaccanapoli se ne avverte il sapore, quasi immutato dopo sessanta anni). Di quel monumento descrittivo della miseria e del degrado che furono i Granili, e la massa di senza tetto che per decenni vi si era ammassata (Granili poi finalmente demoliti proprio nel ’53). Le immagini della Ortese, nella loro crudezza, non sono crudeli. Forse irreali, laddove l’irrealtà a volte descrive meglio la realtà di una foto sbiadita. Ne leggo, e torno a Napoli ed a pensarla nella vita minuta. Nei gesti dei napoletani che ho conosciuto dopo, ma che ritornano, come delle maschere immote nel tempo. E poi c’è la lunga, sofferta testimonianza della vita dei sodali della scrittrice nei primi anni del dopoguerra. In quell’insieme di intellettuali, scrittori, giornalisti ed altro che cercarono, ognuno con le proprie forze ed idee, di dare svolta ad una città che si andava incartando su se stessa. Ne uscirono sconfitti, e la nostra scrittrice, andando a ritrovarli dopo, nell’epoca della sconfitta avvenuta, ce li rende con il suo pathos di un essere altrettanto sconfitto, ma che vuole salvarne il senso dall’oblio. Il ritratto viene fuori impietoso, e posso capire che chi ne lesse si sentisse colpito dall’essere messo davanti alla propria sconfitta. Ed a quella di una generazione. Ma non capisco, non accetto, l’ostracismo che verso l’Ortese ne seguì. Il fatto che proprio in seguito a questo scritto, nessuno dei suoi ex-amici la volle più in città. E lei ne fuggì, con la Napoli nel cuore, errando per luoghi italici, fino al buon ritiro e morte in una Rapallo di fine secolo. Io invece li vedo, Luigi Compagnone zoppicante con il suo bastone, il suo salotto, con Pratolini, con il giovane Domenico Rea. La casa dell’allora azzimato La Capria (che rimarrà nella mia testa quando lo incontrai con la moglie Ilaria Occhini alla GS del Pantheon). E, ultimo e molto importante, Prunas, il motore della rivista “SUD”, che tanto sembrava poter smuovere, e che purtroppo non smosse. Lo vedo allontanarsi, dopo un caffè al Gambrinus, verso Monte di Dio, che mi riporta al migliore De Luca di tanti decenni dopo. Tutto quel dolore non è inutile mostra delle ferite di una sconfitta, né astio per chi ti allontana. È comprensione per quello che poteva succedere. Ed è anche speranza. Quella che in molti non ebbero. Quella che mi ritornava in mente leggendo il libro e pensando alla di non molto successiva morte di Renato Caccioppoli (ed alla bellissima interpretazione che ne diede Carlo Cecchi in “Morte di un matematico napoletano”).  Ma torniamo al libro, alla Ortese, ed a quel mare che non bagna Napoli. Un libro che va letto. Nonostante.
Isabel Allende “Il quaderno di Maya” Feltrinelli euro 9
[A: 15/04/2013– I: 07/05/2014 – T: 10/05/2014] - && e ½
[tit. or.: El Cuaderno de Maya; ling. or.: spagnolo; pagine: 398; anno 2011]
Torno dopo quasi due anni alla lettura dei libri di Isabel, dopo la buona prova de “L’Isola sotto il mare”, e ricordandomi “Ines dell’anima mia”. Il mio amore per la scrittrice è di vecchia data, e non cambierà. Non mi scordo “La casa degli spiriti”, uno dei primi libri letti, o “D’amore e d’ombra”. Anche qui, come una costante della sua produzione, c’è un bel ritratto di donna. Questa volta torniamo al presente, e torniamo anche ad una ragazza colta nel passaggio tra adolescenza ed età adulta (anche se con tutte le vicende che passa, ha sicuramente una maturazione molto veloce). E sebbene questo tipo di scrittura sia gradevole, trovo che in questo caso la nostra scrittrice voli verso la parte bassa dei miei gradimenti. Certo, ritroviamo il suo stile, la capacità di tenerci sulla pagina (anche se non con la stessa intensità di un tempo). E ritroviamo inoltre quasi un canto d’amore per il Cile natio, da troppi anni lasciato per le note vicende politiche, ma che sempre le resta nel cuore. Forse con una punta di troppo verso la volontà di mettere delle pietre sopra ai dolorosi anni di Pinochet. Ma questo è anche merito della presidentessa Bachelet e della sua opera di pacificazione. Da un certo punto di vista, poi, la storia di Maya Vidal è adombrante molte storie di profughi cileni e delle loro famiglie. Il lungo romanzo si snocciola come un lungo e doloroso diario di Maya che nello scrivere delle sue vicende cerca di trovarne ragione, ed anche di uscirne fuori, come in un bel “outing” psicoanalitico. Intanto, la nostra eroina si trova a Chiloè, isola cilena del profondo sud, praticamente patagonica, dove si è rifugiata per qualche motivo che scopriremo leggendo. Nell’isola è ospitata dall’anziano Manuel, ex profugo politico, ora dedito alla scrittura di libri sulla mitologia chilote (che ho scoperto essere di una certa importanza antropologica) ed accudita da Blanca, figlia di un seguace dei militari (seppur blando) ed innamorata di Manuel. Nel suo diario Maya alterna le vicende minimali ma fondamentali della sua vita nell’isola dove ricostruisce se stessa, alla sua storia privata. Storia che nasce dalla fuga della nonna Nini con figlio piccolo da Santiago nei giorni del golpe (dopo l’uccisione del marito Felipe, amico pare di Manuel). Nini va in Canada, e lì si innamora di Popo, un docente di astronomia negro, con il quale ricostruisce la sua vita, trasferendosi con lui a Barkley. In California il padre si fa adulto, diventa pilota di aerei, ad un certo punto sposa una danese da cui nasce Maya. La madre però torna ben presto in patria, e Maya crescerà con i nonni. Soprattutto in ammirazione del nonno Popo, della sua intelligenza e mitezza. La svolta della sua vita l’avrà per la prematura morte del nonno cui non si rassegna. Si lascia quindi andare ad un salto verso gli abissi. Si accompagna con i peggiori elementi della sua scuola, comincia ad abusare di alcol e di droga. Quando poi si dedica anche a ricatti verso strani personaggi viene arrestata e mandata in Oregon in un centro di rieducazione. Dopo un anno passato lì, non trova di meglio che fuggire e sulla strada di casa prima viene violentata, poi si ferma a Las Vegas, dove viene assoldata da un losco figuro che la prende per la sua banda. Lei farà il corriere della droga per Bernard, avendo in cambio droga ed alcol a profusione. Ma Bernard è anche coinvolto in loschi affari di denaro falso (pare abbia un fratello che falsifica dollari in modo perfetto). Passiamo pagine e pagine su vicende cruente, sniffate, morti vari e depravazioni conseguenti. Sappiamo che ci sono dei cattivi, forse banditi, forse poliziotti corrotti. Fatto sta che Bernard viene trucidato, e lei riesce finalmente a tornare dalla sua Nini, che, per salvarla, la spedisce appunto a Chiloè. Qui si ricompatta la vicenda. Maya nella semplice vita cilena si disintossica, trova l’amore in un turista di passaggio, che poi la lascerà con grandi crisi. Ripercorrerà le vicende legate al golpe, trovando tracce della morte del nonno Felipe, e della vera storia di Manuel (e queste non ve le dico). Ma verrà anche ritrovata dai cattivi. Sarà l'anima buona del nonno Popo nonché qualche essere mitologico chilote a salvarla, facendosi che possa tornare alla luce. Non sappiamo, la storia si interrompe prima, se rimarrà a Chiloè, se troverà di nuovo l’amore, o altre non essenziali storie. Sappiamo solo che ha ricostruito se stessa, ricostruendo un po’ anche del Cile dei suoi parenti. E questo in fondo il messaggio della Allende, almeno quello che io ne ho percepito. La volontà di uscire dagli anni buoi per tornare a viaggiare verso un futuro di speranza. Tuttavia, la storia a volte è un po’ forzata nel voler arrivare a punti prefissati, a svolte annunciate. Seppur piacevoli, non tutti i personaggi sono allo stesso livello. E Maya ritrova probabilmente con troppa facilità la via maestra. Ma un sano buonismo non fa male ai nostri cuori. Mi aspettavo qualcosa in più, ma in fondo non mi ha deluso la piacevole lettura.
“La persona che sono ora è il risultato delle mie esperienze precedenti, compresi gli errori più estremi.” (257)
Èlisabeth Gille “Un paesaggio di ceneri” Marsilio s.p. (regalo di Alessandra)
[A: 07/05/2014– I: 17/05/2014 – T: 20/05/2014] - &&&&
[tit. or.: Un paysage de cendres; ling. or.: francese; pagine: 171; anno 1996]
Interessante romanzo della figlia minore di Irene Nemirovsky, scritto nell’anno della sua morte per cancro. Per la scrittura e per l’argomento. È una trasposizione, ovvio, delle sensazioni della piccola Elisabetta, nel periodo che le ha segnato la vita: 6 anni, Francia occupata, genitori deportati. Nella realtà sappiamo che la vicenda della famiglia Epstein (questo il nome da sposata della scrittrice profuga russa) è analoga a quella descritta, con molte “aggravanti”. Irene ed il marito, pur essendo di radici ebraiche, si erano convertiti al cattolicesimo negli anni ’30. questo pensavano li mettesse al riparo dalle successive persecuzioni. Così come il fatto di essere personaggi pubblici, ben noti scrittori. Per questo non scapparono come altri in America. Ma furono presi nottetempo nel ’42. Le due figlie (la piccola Babet e la più grande Denise) fuggono nottetempo e si riparano a Bordeaux. Michel e Irène vengono invece inviati immediatamente ad Auschwitz, ed immediatamente vengono avviati alla camera a gas. Nonostante la notorietà e la conversione, nessuno alzò una mano in loro aiuto, e questo sarà un macigno che le figlie porteranno per tutta la vita. Cercando a modo loro di esorcizzarlo. Della grande non parlo, che qui non se ne tratta. La signora Gille studia, si laurea, diventa direttrice editoriale di case editrici (in particolare, si occupa molto prima di fantascienza poi di polizieschi). Negli anni ’90 si ammala, e comincia a scrivere. Prima una biografia della madre, poi questo libro, che uscirà poche settimane dopo che la malattia l’ha portata via. E questo romanzo è un lungo grido di dolore, ed un lungo richiamo verso la madre mai realmente incontrata. La piccola nasce nel marzo del ’39, i genitori vengono arrestati nel luglio del ’42, che la nostra ha cinque anni e poco più. Ed il romanzo parte proprio da questo abbandono, da quando la protagonista (qui senza sorella maggiore) si trova nel pensionato cattolico accudita dalle suore. E comincia con un “No!” gridato, così come cominciava il primo romanzo della madre (quel “David Golder” di cui ho già tramato a suo tempo). Seguiamo allora la piccola Lea nella sua presa di coscienza della realtà. Dalle suore, tutte hanno qualcuno che manda aiuti. Lei no, lei si sa essere (forse) di origini ebree e nient’altro. Ha una sola compagna, Bénédicte, ragazza anche lei sola (anche se più grande) ma perché (e lo scopriremo alla fine) ha i genitori impegnati nella lotta armata al nazismo. Nella prima parte seguiamo tutta l’infanzia della piccola. Più intelligente della media, ma più indisponente, che non capisce l’essere sola, e si trastulla nel mito dei genitori che verranno a prenderla e la farà vedere a tutti. Seguiamo vicende minute, che lasciano graffi se non segni, con solo una delle suore che cerca di penetrare nel guscio di Lea, dove solo l’amica del cuore trova spazio. Finisce la guerra, tutti tornano, anche i genitori di Bénédicte. Lea è portata dalla suorina a Parigi, e qui c’è la sequenza più drammatica. Nella vecchia casa no c’è più nessuno, trova solo una scatola di perline con cui giocava da bimba. Vanno all’Hotel Lutetia dove portano i sopravvissuti (e nella realtà, Elisabeth e Denise vi trascorsero mesi aspettando inutilmente i genitori) e Lea vede le miserie, capisce in fondo che non c’è speranza, ed in una scena drammatica, perde le perle. E si rinchiuderà in se stessa. La seconda parte fa un salto di qualche anno. I genitori dell’amica adottano Lea, la fanno studiare (anche se Lea non recupera più lo sguardo ridente). E Lea, mentre studia, segue di nascosto tutte le miserie che avvengono nel dopo guerra: i processi ai nazisti ed ai loro sodali, e soprattutto, dopo le condanne dei primi anni, le assoluzioni. Lea (e noi con lei) non capirà mai questa vittoria avanzante del male. Le due sorelle – amiche si trasferiscono a Parigi, all’università. Bénédicte diventa sempre più bella ed appetita dai maschi. Lea diventa sempre più cupa. Si avvicinano al Partito Comunista, manifestano. Ma anche Lea legge Sartre, e suona incessantemente sul giradischi tutto Brassens e “Il disertore” di Boris Vian (mi sembra di ripassare con dieci anni d’anticipo la metà dei miei anni ’60). Le due vanno sempre insieme, una solare, una lunare. E si avvicinano altre lotte, sono i primi anni delle lotte in Algeria, delle bombe, del Fronte di Liberazione. Tralascio tutto quello che fa Lea in questo periodo, sempre nel solco di quella ricerca della colpa di chi ha lasciato andare verso la morte i suoi genitori. Il libro, che stava avviandosi verso un finale di lotta e di speranza, si chiude invece (e non poteva altro) con un episodio drammatico, ed un ultimo, lungo grido di dolore. Non è sempre alla stessa intensità. Si nota, a tratti, un pur tuttavia irrisolto risentimento (anche se il termine è un po’ forte) verso la madre. Ma c’è, e sempre ci sarà (e noi saremo sempre con lei) quel sentimento di rabbia e di impotenza verso chi ha fatto del male (e tanto) e che non riesce a trovare una giusta punizione. Si aprirebbero spazi enormi di discussione. Noi che ne siamo esterni possiamo anche cercare di comprendere. Ma io mi domando, chi l’ha vissuto, quel periodo, come riesce ad uscirne? Capisco, anche se non comprendo, quel dolore ad esempio che segnò tutta la vita di Primo Levi fino a portarlo al suicidio. Capisco il dolore di Elisabeth, ed anche della sorella Denise (entrambe moriranno di cancro a dieci anni di distanza). Rimane questo libro, dove spero che prima o poi non sarà tutto e solo cenere. Anche se è bene leggerne. Per non dimenticare. Mai.
Elena Ferrante “L’amica geniale” E/O s.p. (Regalo di compleanno 2014 in ritardo di Rosa&Emilio)
[A: 10/06/2014– I: 19/06/2014 – T: 24/06/2014] - &&& e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 327; anno 2011]
Per rimanere in un linguaggio tematico caro all’ignota autrice, eccoci a leggere il primo libro della trilogia (o forse quadrilogia) de “L’amica geniale”. Appunto si diceva, una scrittura “molesta”, nel senso di scomoda, tormentata, in ogni cosa, che non lascia indifferente. Come non lascia indifferente la non esistenza di Elena Ferrante. Perché si sa che questo è uno pseudonimo, e si sa anche che non vuole si sappia chi si cela dietro. Quindi non è mai comparsa in pubblico, non è presente nei talk-show televisivi (e per fortuna), non si sa nemmeno se sia donna o uomo (anche se la sensibilità dei suoi scritti mi farebbe escludere che ci sia dietro una mano maschile). E questi sono tutti punti a favore. Così ne parliamo solo rispetto a quello che produce. Non possiamo nasconderci dietro contesti vari, ma dobbiamo attenerci al testo, ed a quello che ci suscita. Detto quindi tutto il bene possibile di chi scrive, di come ha scelto di vivere, e del resto “esterno”, veniamo al libro, alla trama, alle sensazioni. Un libro non facilissimo, bello sicuramente, che ci trasporta per 300 pagine nel ventre di Napoli, nelle sue miserie, nelle sue esaltazioni. E che ci porta nell’infanzia dell’io narrante, intorno alla seconda metà degli anni Cinquanta, usando un approccio che ci fa presagire (anche se non lo sapessimo) l’uscita di altri volumi. Si inizia, infatti, ai giorni nostri quando Lila, sessantasei anni, scompare, e la sua amica e sodale di sempre Elena detta Lena, comincia a narrare le loro storie, per farci capire chi fosse Lila (e chi è lei stessa, Elena). Percorriamo così, in questo primo volume, l’infanzia e la prima adolescenza delle nostre due ragazze napoletane. L’incontrarsi alle scuole elementari, Lila figlia dello scarparo, e Lena figlia di un usciere. La nascita di un’amicizia, narrata con un piglio che ci fa percorrere, battito dopo battito, tutte le palpitazioni che percorrono la vita degli adolescenti. In questa la Ferrante è senza dubbio magistrale. Dipinge e ci fa sentire vive attrazioni e repulsioni, sfide e contro-sfide. Fin dall’inizio cerchiamo poi di immaginare il titolo e la sua applicazione. Che Lila è geniale ma lo è, a suo modo, anche Lena. Scrittura stratificata, dove non solo si parla di bimbi che crescono (e già questo ben riesce), ma si parla di una città che uscita dalla guerra stenta a ritrovar se stessa. E se lo fa, spesso lo fa in modi svogliati e sbagliati (quanto si sente la vicinanza della scrittura della Ortese ne “Il mare non bagna Napoli”). Contemporaneamente, ed intorno, si vede anche l’Italia stessa uscire dalla guerra, crescere ed avviarsi al boom degli anni Sessanta. Ferrante riesce in una sapiente opera di fotografia in progressione, mostrando piccoli elementi che ci fanno capire grandi rivolgimenti. Anche volendo tralasciare i “guappi” di periferia e le loro prime macchine, ci sono i primi trasporti pubblici verso il centro, la discesa per via Toledo, le pizzette si Spaccanapoli, le prime televisioni che riuniscono amici e nemici per vedere Mike Bongiorno e “Lascia o raddoppia”. Ma anche i sogni di chi ha l’intelligenza per studiare ma non i soldi (Lila) e chi i soldi riesce a trovarli e studia e con profitto (Lena). Pur nel divergente parallelismo, le nostre due ragazze rimangono legate da un sentimento di fondo più forte del resto. Anche quando Lena prenderà tutti dieci al liceo. Anche quando Lila, dopo uno sfortunato tentativo di sfondare nella calzoleria, deciderà di sposare, a quindici anni, Gino, il figlio del farmacista. Uno con una posizione, lì nel Rione. E se vogliamo con i soldi (anche se non si sa quanto “puliti”). Altrettanto bella è la descrizione corale degli altri ragazzi del rione, con i loro sogni, le loro paure, i loro entusiasmi, le loro tante sconfitte ma anche le rare ed entusiasmanti vittorie. Vedremo, se capiterà, cosa avverrà dopo, quali saranno le strade che Lila, Lena e Napoli percorreranno. E detto tutto il bene della scrittrice, della scrittura, dei temi trattati, insomma della cosmogonia presente nel libro, devo comunque alla fine confessare che non mi è piaciuto “alla morte”. Molte volte le situazioni mi hanno trascinato senza coinvolgermi, le sensazioni le ho viste ma non vissute. Ho apprezzato il punto di vista femminile da cui venivano lette le situazioni, ma, forse, non sempre l’ho capito sino in fondo. Da come ne parlavano amici e conoscenti mi aspettavo senza dubbio qualcosa di più intrigante. Un bel libro, però, che continuerei a consigliare a chi volesse leggerlo, e che sono contento mi sia stato regalato.
Ripeto quanto detto all’inizio scusandomi se c’è qualche mancanza negli invii, ma il crash del PC mi costringe ad una configurazione di backup che non è completamente affidabile. Sperando in un ritorno del’efficienza fisica ed informatica, saluto tutti

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