domenica 12 ottobre 2014

No romanzi? Ahi, ahi, ahi - 12 ottobre 2014

Ebbene sì, una settimana “di cultura”, anche se l’unico vero libro interessante è la raccolta di scritti di don Paoli. Certo, piacevole e sempre ben scritto il saggio messicano di Cacucci. E sempre gradito un nuovo episodio di Asterix, alla svolta del passaggio di bandiere tra l’ormai anziano Uderzo ed i nuovi disegnatori. In calo, forse per mancanza di idee forti, la passeggiate tra le memorie di Guccini.
Arturo Paoli “Cent’anni di fraternità” Chiarelettere euro 12 (in realtà, scontato a 7,20 euro)
[A: 10/01/2014– I: 21/04/2014 – T: 23/04/2014] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 162; anno 2013]
Un altro bel saggio che merita di essere letto, dove io ritorno alla lettura delle belle parole che Padre Arturo Paoli sempre dedica a chi lo sa ascoltare. Un nome che entrò un anno e mezzo fa nelle mie letture, in occasione della festa per i 100 anni del prelato lucchese. E che ritorna ora con un libro un po’ omaggio alla persona ed un po’ alle sue idee (ed alla vita vissuta). Scopre qui altri pezzi di don Paoli, e ad ogni lettura mi piace e mi avvince. Come dice (e questa volta sono d’accordo) nella quarta Cesare Fiumi, una vita tanto piena che fatica ancora ad essere contenuta pur in una cornice così ampia di un secolo. Dopo aver conosciuto il prete impegnato in America Latina contro tutte le dittature laggiù succedutosi ed il Piccolo Fratello di Padre de Foucauld, ecco qui che appaiono il Giusto di Israele e lo strenuo difensore della “Teologia della Liberazione”, seguace (anche se in maniera meno traumatica) di monsignor Camara, nonché vicino a padre Bergoglio, ora Papa Francesco. Anche lo scritto, pur celebrativo, è diviso in due parti. Nella prima torniamo con don Arturo in America Latina e ne viviamo alcuni aspetti. Nella seconda, Paoli ci dona alcune sue riflessioni scritte nel buon ritiro della natia Lucca, come dice lui stesso in un articolo su “Ore 11”, in attesa di sorella morte, con una serenità di parole ed atteggiamenti che suscita voglia di imitazione. Ed entrambe le parti hanno elementi di interesse. La prima perché, partendo dal famoso “Patto delle Catacombe” (dove nel novembre 1965 riuniti nelle Catacombe di Domitilla in Roma, una serie di preti latino-americani elaborarono le basi della Teologia della Liberazione) da un lato mi riporta alla mia infanzia ed alla nascita (o meglio alla scoperta) di un certo tipo di impegno che mio padre porterà poi avanti per tutto il resto della sua vita. Dall’altro, nei ricordi di Paoli, si fa viva l’applicazione pratica di quelle parole. Sappiamo (da altri contesti) cosa fece e cosa subì Paoli in quegli anni, ma come non ricordare l’incontro con l’indio Domingo o come non sottoscrivere ogni parola del ricordo del martirio del vescovo Angelelli? Perché Paoli ci porta, con la sua straordinaria semplicità, a ripercorrere le sue scelte quotidiane di vita, con i poveri, ma non da esterno, da “missionario e basta”, ma entrando, con tutta la sua vita, in quella dimensione. Lavorando con gli umili, dividendo con loro anche la più piccola scodella di riso. E sono pagine e parole che non possono lasciarci indifferenti. Nella seconda parte, Paoli si fa più riflessivo. Scrive queste righe ormai centenario, per buttare alla rinfusa delle idee che gli sorgono nelle meditazioni quotidiane. Cosa significa la fede? Qual è il ruolo di Gesù? Bella anche quella frase del nazareno che visse trent’anni da artigiano e tre da profeta. Cosa rispondere alle domande dei giovani? Paoli non tace (come non l’ha mai fatto) le sue critiche. Non può non aver visto le derive cui è andata la Chiesa. Ricordo che proprio per quelle critiche nei primi anni ’50 fu cacciato da Gedda via da Roma, in quanto troppo sovversivo. Lui che era sempre stato un fautore dell’amore verso gli altri, quali che siano, tanto da essere poi riconosciuto “Giusto d’Israele” per aver salvato più di un ebreo dalle persecuzioni nazi-fasciste. Paoli ritorna poi sempre ai due elementi cardine della sua vita (e perché non anche di altre?). L’amore e l’amicizia. Amicizia verso chi ci sta accanto per tentare, come predicava padre de Foucauld, di portare l’amore in tutto il mondo. Come vorremmo avere la sua forza, quella di poter affermare di vivere lieto in un mondo triste. Paoli è lieto e sereno perché ha trovato (con tutti i dubbi che sempre ognuno ha) delle risposte dentro di sé. E per aver avuto il coraggio e la forza di vivere queste risposte. Non tutti hanno il suo coraggio, non tutti hanno risposte. Ma come dice il mio amico Roberto, anche se in altri contesti, ma la frase va bene anche qui, “Qualche seme buono nel mondo deve essere stato seminato. C'è sempre qualcosa da imparare...”
“L’amicizia ha bisogno di prossimità.” (99)
“La Chiesa Cattolica ha condannato idee e ideologie dichiarandole in contrasto con le verità della fede, ma non si è opposta all’uso ingiusto dei beni.” (107)
“L’esistenza in gran parte è una scelta.” (142)
Jean-Yves Ferri & Didier Conrad “Asterix e i Pitti” Mondadori s.p. (regalo di Mamma)
[A: 07/05/2014– I: 11/05/2014 – T: 11/05/2014] - &&&
[tit. or.: Asterix chez les Pictes; ling. or.: francese; pagine: 48; anno 2013]
Forse solo i miei più vecchi amici si ricordano che una delle mie tante passioni, coltivate in gioventù e rimaste lì ad un certo punto, quasi a restare un basso continuo in una frase musicale, era rivolta ai fumetti. Tra le varie facce di questa passione, un posto preminente ha sempre avuto la saga del piccolo villaggio della Gallia che si opponeva strenuamente all’invasione romana. Iniziò nell’epoca d’oro di Asterix, portando con sé anche l’amore per questo fumetto in lingua originale, dove sono stati presenti sempre tanti giochi linguistici e semantici, spesso di difficile traduzione. Tant’è che ne ho la serie completa sia in italiano sia in francese. Ovviamente i primi album della serie avevano uno spessore ironico e uno sguardo divertito su alcune futilità del mondo attuale che si è andato a poco a poco spegnendo. Soprattutto per la morte di René Goscinny nel 1977, ma anche per la diversa verve comica di Uderzo, che in realtà è il disegnatore della serie. Sebbene le storie siano cominciate nel 1959, in Italia cominciano ad apparire solo nel 1968, avendo la fortuna, nelle prime storie, di essere tradotte da quel maestro dell’umorismo che era Marcello Marchesi. Rimarrà per sempre nella mia memoria la frase che Marchesi mette in bocca ad Asterix nell’episodio “Asterix e i Goti”, quando, vedendo i Goti picchiarsi tra loro esclama: “I Goti picchiano i Goti! Che goturia!”. E la fortuna di Asterix fu ed è proprio questa. Umorismo, citazioni, caricature (ci torneremo anche per questo album). Veniamo ora a quest’ultima fatica, dove l’essere una storia a fumetti, e scritta in francese, merita più di un commento. Intanto, ha un suo valore “storico” intrinseco in quanto è la prima storia di Asterix dove non è presente nessuno dei due ideatori (il primo perché come detto morto, il secondo, ormai anziano, ha deciso di tener il brand ma di affidarsi a dei giovani). Devo dire che per la parte “disegni” mi sembra che non ci sia nulla da rimproverare. I tratti sono ormai standard, e, per i personaggi ideati espressamente per l’album, si torna ad introdurre caricature anche riconoscibili (come nel cattivo di turno, dove si ritrovano i tratti di Vincent Cassel). La parte invece storia ed annessi è un po’ deboluccia. Intanto ricalca un cliché ormai consueto: i nostri galli incontrano per qualche motivo un non-gallo nemico dei romani, e lo aiutano in qualche attività. Con la scusa, visitano il paese nuovo, e ci danno qualche tocco di umorismo sulla visione francofono centrica del mondo. Nel risolvere per il meglio la vicenda, se vanno per mare, incontrano la solita nave dei pirati e la “medusano” (riferimento mio al quadro “La zattera della Medusa” di Géricault); in ogni caso riempiono di botte tutti i romani che incontrano; finendo poi il tutto con un banchetto dove il bardo Assurancetourix viene legato all’albero del villaggio. Mettete i Pitti al posto degli stranieri, ed avremo la nostra storia. I Pitti essendo un popolo pre-gaelico della parte scozzese di Edimburgo ed Inverness, il cui nome deriva dal fatto che usavano tatuaggi dipinti (pictus in latino). Meglio va la storia sul versante invenzioni linguistiche: il pitto che sbarca in Gallia si chiama Mac Oloch (è un tipo simpatico, un po’ spaesato, giusto che cerchi un posto a lui adeguato, dal francese “ma colocation”) del clan dei Loch Andoll (e non ci meravigliamo che il ragazzo canti spesso), il cattivo che lo vuole spodestare, quello “alla Cassel” si chiama Mac Abbeh (facile ricostruire il “maccabeo”), il cantore che durante i banchetti scozzesi canta jingle beat, dai Rolling Stones ai Beatles ai Bee Gees, si chiama Mac Keul (qui è un po’ più arduo che si fa riferimento all’argot di “ma guéle” canzone di Johnny Holiday), ed infine l’antenato del mostro di Loch Ness si chiama Afnor (qui siamo sul versante veramente da “internal french”, che il mostro, essendo ben grande, viene sempre chiamato come “l’énorme Afnor” prendendo in giro l’istituto di normalizzazione francese AFNOR e le sue regole, conosciute appunto come “les normes AFNOR”). Il terzo elemento è la traduzione del bravo Michele Foschini, che tenta di rendere un po’ dell’umorismo francese, ad esempio, lì dove era difficile lasciare capire l’ironia, traducendo Mac Oloch con Mac Keron (maccherone?), ma traducendo anche Mac Abbeh con Mac Arogna, dove forse poteva rimanere il nome originale. Peccato che qualcosa sia intrasportabile, per cui la battuta di Mac Keul su Holiday non è stata tradotta, ma “eliminata”. Così come non viene capito né tradotto il nome del mostro (e come si può ridere leggendo “l’enorme Afnor”?). Certo, gradevole è sorridere con Asterix del lancio dei tronchi, dei tartan, delle mucche Highlander. Ma i due nuovi autori devono prendere un po’ più di coraggio e di mano per poter “re-inventare” un personaggio ed una storia che ormai si avviano ai sessanta anni di esistenza. E sappiamo tutti che non è facile cambiare rimanendo se stessi a quell’età.
Francesco Guccini “Nuovo dizionario delle cose perdute” Mondadori euro 12 (in realtà, scontato a 10,20 euro)
[A: 16/02/2014– I: 29/05/2014 – T: 31/05/2014] - && e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 148; anno 2014]
Dopo che gli era riuscito un discreto libretto con una sorta di viaggio nella memoria, ricordando “cose perdute”, il nostro amico cantautore (ormai abbandonata la chitarra al chiodo, visto che ha già ben superato i 70 anni e la voce non regge molto) ci riprova. E non ci riesce molto. Il tentativo non è (e non era) tanto di rimpiangere, ma di leggere i cambi del modo di vivere rispetto ai cambi delle cose che ci circondano. Qui ci sono anche più “situazioni”, più letture dirette. Come, appunto, non pensare ai fiumi o alle osterie? Certo i fiumi sono molto nelle corde della gente del centro – nord, ma le osterie ci sono anche nei ricordi personali. Come la mitica osteria di Zi’ Cannella, a due passi da piazza Navona, dove andavo con mio padre ed i suoi amici, loro a bere ed io a sentirli parlare. Ed anche altre corde solleva il nostro amico Francesco in queste sue galoppate di pensiero. Devo però dire che a volte è più il titolo, la cosa, la situazione quella che solletica il ricordo, piuttosto che lo scritto del nostro amico cantautore. Perché anche a me, ricordo, regalarono il mitico “Traforo” in un Natale di gioventù. Ed essendo nota la mia abilità manuale, non arrivò neanche alla Befana. Che dire poi del ciclismo? Era una mania, si seguiva silenti in televisione prima il Giro d’Italia poi il Tour de France. Troppo piccolo per far parte delle discussioni tra Bartali e Coppi, ero invece ancora nel vivo delle classifiche quando si trattava di osannare “la maglia nera”. L’ultimo in classifica, che però era studiato, che doveva arrivare ultimo ma in un tempo prestabilito. Sebbene abolita prima della mia nascita, rimaneva nel ricordo di noi appassionati delle due ruote. Che sostituimmo Luigi Malabrocca con Fedele Rubagotti. Altro mito, poi, l’idrolitina, che mi faceva impazzire per l’uso delle due polverine da mescolare nell’acqua per farla diventare frizzante. Compito che era il mio precipuo ad ogni pranzo domenicale. Troppo antico parlare del bagno in casa, ma troppo facile parlare del gettone telefonico, mitico compagno delle prime gite e dei contatti con la famiglia. Si partiva sempre con una piccola scorta, che, oltre a servire per avvertire i genitori dei propri spostamenti, era l’ultima risorsa in caso di fine dei soldi. Potevi sempre pagare con un gettone la consumazione al bar. E collegato al gettone, non solo la cabina telefonica (che ancora qualche cabina tecnologica si può vedere), ma l’uso del prefisso quando si chiamava da fuori distretto. Così che si facevano i salti mortali per andare al mare a Santa Marinella, cercando di non far sentire il rumore particolare che faceva la chiamata extra-urbana per avvertire casa che si sarebbe fatto tardi. Capitolo a parte, e ben corposo (tanto che Guccini ne dedica tre), è quello degli spostamenti e delle automobili. Il primo pensiero va ai deflettori, quegli aggeggi che spezzavano i finestrini davanti, consentendo circolazione d’aria anche a vetro chiuso. Ormai aboliti e sorpassati da tutta una serie di apparati di ricircolo d’aria, che, tuttavia (questo è il progresso) inquinano che è una bellezza. Il secondo pensiero è per l’autoradio. Che era estraibile, che si portava appresso, insieme alle chiavi ed alle sigarette. Che si scordava spesso nei bar o a casa di amici. Ora è integrata nel cruscotto, anzi è integrata con i telefoni viva voce, con i tom tom, e, da poco, anche con gli accessi ai social network tipo facebook. Ma il più bel ricordo delle cose passate, e questa sì, perduta, è l’autostop. Che si faceva su tutte le strade, che venivi preso e parlavi con altra gente, senza timori, senza tutte le paure che il mondo odierno ci mette addosso. Non si facevano solo delle piccole gite (tipo da Tortoreto a Giulianova per trovare qualche amica nei tempi estivi). Ma si facevano veri e propri viaggi, come il mitico Roma – Siviglia mio e del mio amico Andrea nell’estate dei primi anni Settanta. E ci arrivammo, a Siviglia. Un giorno si avrà tempo per ricordarlo in dettaglio. Ora torniamo all’operazione Guccini. Come detto, appunto, non operazione nostalgia. Ma ricordo, e sociologia del vivere quotidiano. Tuttavia, la prima puntata portava anche, nei ricordi di Francesco, spunti precisi, comici spesso, ma anche dolenti. Qui, una volta individuato e nominato l’oggetto, la scrittura è poco incisiva, lascia il tempo della lettura e poi si perde. Basterebbe leggere l’indice, magari con qualche precisazione laddove l’oggetto misterioso è veramente di difficile reperimento. Come le uova sotto la calce, di cui non sapevo l’esistenza italica, ma avevo presente avendone mangiato in … Cina. Alla fine, ripeto, un bell’indice per un libro che speravo migliore.
Pino Cacucci “Mahahual” Feltrinelli s.p. (regalo di Alessandra, cui facciamo anche gli auguri)
[A: 24/06/2014– I: 29/06/2014 – T: 30/06/2014] - &&&& 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 125; anno 2014]
Doverosa premessa: alcuni attenti lettori si domandano come mai alcuni libri entrano ed escono fulmineamente dalla mia libreria, ed altri hanno un andamento che qualcuno, con termine giapponese, ha definito “tsundoku”. Prima risposta: libri che ricevo in regalo o che son frutto di viaggi hanno una corsia preferenziale, così posso non dimenticarmi del viaggio e rispondere al regalante in tempi che lui ricordi a chi e perché fece il regalo. Per il secondo termine (su cui credo ritornerò) ringrazio l’interessante blog di Vitiello che mi ha dato questa definizione di “Tsundoku”: “comprare libri e non leggerli, lasciando che si accumulino in pile sul pavimento o sul comodino”.  Veniamo allora a questo libro che non si è accumulato da nessuna parte, avendolo ricevuto come gentile regalo onomastico. E piacevole, che Cacucci (benché non lo abbia mai detto espressamente) è anche uno dei miei autori preferiti quando ho voglia di tornare in Messico. Ha scritto diverse cose, diversi libri sono presenti nella mia libreria, ma per me rimane sempre associato al paese americano, a Frida Khalo ed alla polvere che si è sollevata durante tutti i viaggi che il nostro ligure – bolognese vi ha fatto. E mi fa piacere tornare, attraverso le sue parole, in una terra che ritengo sempre interessante. Cacucci, al solito, è bravo nel porgere con leggerezza le sue parole, inanellando ricordi sui nuovi passi, muovendosi nel tempo e nello spazio. Tornando, in quella penisola di Quintana Roo, che ricordo fin dal mio primo viaggio messicano (solo venti anni fa, e non trenta come Pino). E poi, tornandovi più vicino dieci anni fa, quando da Tulum passammo nel Belize, di cui ci ricorda la nascita e l’etimologia, tra inglesi occupanti e nativi soccombenti. Lui si colloca un po’ più a Nord, nella cittadina che dà il titolo al libro. Città assolutamente sperduta di fronte al Caribe. Se cercate sulle mappe, non c’è nulla intorno. Ma esce bene dalla descrizione, e dalle immutate situazioni che ancora ci si riesce a trovare. Non come nel D.F. ormai troppo brulicante di gente (saranno almeno 20 milioni). Invece, lì, nei posti sperduti riesce (e si riesce) a trovare lo spirito di un tempo. L’allegria di un capodanno a Oaxaca (mio) o quello di un festival del cinema (suo). La bellezza dei siti maya yucateñi (per entrambi), dove io non scorderò la statua dell’astronomo sperduta nella giungla. Cacucci prende poi un luogo, salta nel tempo, ricorda i corsari (non i pirati). E le strane figure di corsari – donna, spesso nascoste in panni maschili (rimando al primo libro della Asensi per questo). Seguiamolo con piacere nella narrazione delle gesta di Mary Read o di Anne Bonney. Ma ancora di più in quelle di Felipe Carillo Puerto, vittima dei contro-rivoluzionari nel 1922, e di sua sorella Elvia. Quante figure ci sono state nella storia dell’uomo che hanno portato un piccolo contributo a far crescere i sentimenti etici del mondo. E quante non ne conosciamo e non ne conosceremo mai. Di filo in filo nella memoria, non possiamo non essere solidali con Pino sia nel rimarcare la differenza tra corsari e pirati, per finire ai pirati attuali ed alle lotte al largo delle coste somale. Come non mandare un riverente saluto a chi si immola in cerca della verità, come Ilaria Alpi. E chi lotta e continua a lottare contro l’avanzamento della plastica che ricopre spiagge (ovunque) ma che sta soffocando il mare (e vi chiedo anche io con Pino di meditare sul libro di Charles Moore ‘L’oceano di plastica’; un immenso grido di dolore!). Commosso, seguo le immersioni di Chano che nuota con gli squali (e ripenso a quel bellissimo ed indimenticabile bagno mozambicano con lo squalo balena). Meno mi è piaciuto il raccontino finale, anche se con intenti di “traguardare” vicende antiche per riproporre sentimenti attuali. Vediamo senz’altro nel corsaro “El Genoves” un adombrare le origini di Pino della sua Liguria. E senz’altro ancora, l’amore che lui e tutti noi abbiamo per i Maya ed i loro discendenti. È stato un libro che ho divorato (anche stante l’esiguità delle pagine), ma solo perché volevo fare ed ho fatto un tuffo nel Messico che rimane nel cuore di chi c’è stato. Un tuffo in un ‘cenote’, e se non lo hai visto di persona non ne capisce la bellezza. Un lungo viaggio in pullman per scendere dal Chiapas verso Palenque. Non tutto c’è nelle parole del nostro amico scrittore. C’è e ci sarà sempre nel nostro ricordo da viaggiatore.
Come ormai da tutto questo 2014, nella seconda trama del mese vi prendete anche l’allegato dedicato alle cure con, per e attraverso i libri. Che questa volta mi trova un po’ in disaccordo con le autrici, anche se parliamo di libri interessanti e sicuramente da leggere. Inoltre, come i miei amici viaggiatori già sanno, si è aperto anche uno spiraglio di viaggio, anche se lontano per ora ed ancora ben lungi dall’essere certe. Intanto io leggo e mi documento, che bisogna sempre essere pronti. Come voi che siete pronti a ricevere il mio settimanale saluto.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

OTTOBRE 2014
Sono molto combattuto, che nel progredire della lettura alfabetica del libro sulla libropeutica, ci si imbatte in una malattia talmente seria che lascia sempre un difficile modo di rapportarsi. Le scrittrici l’affrontano con il sorriso sulle labbra, cosa che non so se riesco a fare io.

CANCRO

Quando fate la chemio, quando vi sentite deboli, quan­do il vostro cervello si rifiuta di lavorare, quando non avete la forza per stare in compagnia... avete bisogno di un bel romanzo breve.

I DIECI MIGLIORI ROMANZI BREVI

 John Berger               Festa di nozze
 Roberto Bolaño           Stella distante
 Friedrich Dürrenmatt   La promessa
 Nadine Gordimer        Il mondo tardoborghese
 Helene Hanff              84, Charing Cross Road
 Michela Murgia           Accabadora
 Leonardo Sciascia       A ciascuno il suo
 John Steinbeck           Uomini e topi
 Fred Uhlman              L’amico ritrovato
 Stefan Zweig             Novella degli scacchi

Bugiardino

Anche qui, per entrare nello specifico dei libri, non della cura, si è letto molto di romanzi brevi e affini. Cinque sono di anni recenti, e sotto ne parlo. Solo tre non sono (ancora) nella mia orbita, ma prima o poi… Poi ce ne sono due che ho letto molto ma molto tempo fa. Il bellissimo giallo non giallo di Dürrenmatt, con quel poliziotto che inseguirà per sempre un assassino, perché fece la promessa di trovarlo. Ed l’altro enorme piccolo romanzo di Uhlman, tra ardori adolescenziali, furori nazisti e sentimenti omosessuali in controluce. Ma veniamo invece ai libri che si è tramato negli anni. Per non far torti a nessuno, li listo in ordine temporale di recensione, ricordando che sono comunque libri di livello: da buono a ottimo.
Roberto Bolaño “Stella distante” Sellerio 8  (in realtà scontato 4 euro)
[trama del 4 aprile 2010]
Altalenante, comunque sempre affascinante. Ho seguito a balzi e salti l’irregolare carriera di Bolaño, che, come dice da qualche parte, ha in fondo scritto un unico libro, fatto di tanti capitoli che sono stati pubblicati come fossero libri. Qui lo riprendo, dopo molto tempo, dopo i tempi lontani e di tanto de “La pista di ghiaccio”, che non mi aveva convinto, ed i tempi medi di ‘Romanzetto canaglia’, migliore senz’altro. Ora torniamo nel pieno della crisi cilena, in una descrizione (inventata ma forse per questo più reale) degli anni prima, durante e dopo il golpe. Visti da un’ottica alla Scola del film sulla Rivoluzione Francese. La gente normale, alle prese con i grandi moti della storia. Un gruppo di studenti, imbevuti nel sacro furore della poesia (e d’altra parte i due premi Nobel cileni poeti sono, e sicuramente li conoscete) che arrivano sull’orlo del baratro e sono buttati giù nel fiordo da questo strano poeta, che in realtà è un pilota dell’aviazione militare, che in realtà è (forse) una spia, che in realtà è (sicuramente) un sadico-estetico che sembra da subito aver perso il lume ed il filo della ragione. Tutto si incastra in un gioco di scatole cinesi, dove ogni momenti è un pretesto per narrare anche un’altra storia, o una visione diversa della stessa, un altro angolo, e così va. In fondo, è l’anima borgesiana che riaffiora sull’altra sponda del continente sudamericano. Con tutte queste frecce, molti sono i bersagli colpiti. A me rimane la sensazione di orrore e paura, delle descrizioni delle retate e delle morti senza senso, qui crude e dure, e non romanzate o sublimate (non c’è la Isabel Allende, ma neanche Jack Lemmon di Missing). Poi rimane l’immagine di questo poeta aviatore, che con la scia del suo Messerschmit scrive poesie nel cielo cileno. L’immagine è potente, non so se possibile. Tuttavia alla fine Bolaño non è che lasci la bocca dolce e la voglia di andare oltre. In un certo senso si fatica ad andare dietro alle rutilanti invenzioni, perché ad un certo punto ci si aspetta che venga un redde rationem che spieghi, che interpreti, che sveli. Al solito (un po’ come nel primo libro) molto rimane non detto, quando indicibile. Solo rimane il rimpianto che anche lui sia ormai impossibilitato a scrivere (a meno di usare qualche medium). Triste la gente del ’53 che se ne sta andando a rotta di collo…
“era come un sogno, o più esattamente, come la chiave che ci avrebbe aperto la porta dei sogni, gli unici per cui valesse la pena di vivere” (17)
Leonardo Sciascia “A ciascuno il suo” Repubblica Novecento euro 4,90
[trama del 2 ottobre 2011]
Classico, datato, ma di buona efficacia. Qualche freccia si è spuntata, ma molte vanno ancora a segno. E soprattutto ritorna alla mente la bellissima interpretazione di GianMaria Volontè nel film di Petri, ispirato anche se non “copiato” dal libro (in effetti, ci sono delle variazioni anche significative, ma qui parliamo dello scritto). Il racconto, inoltre, non risente dei suoi più di quaranta anni. Come non vedere trame e tramette, innalzamenti e ludibri che ancora oggi devastano la nostra altrimenti bella penisola? Sciascia sfruttando, anche se molto superficialmente qui prima di prove più approfondite, la commistione tra poliziesco e denuncia, crea una situazione che, pagina dopo pagina, si infittisce fino alle estreme risoluzioni. Sempre in quella denuncia civile che è stato il motivo conduttore dei suoi scritti e della sua vita. Si inizia con una lettera minatoria indirizzata al farmacista del paese e scritta con ritagli dell’Osservatore Romano. Poco dopo, il farmacista ed il suo compagno di caccia, il dottore, vengono uccisi in una battuta di caccia. A questo punto entra in scena il vero protagonista della storia, il professor Laurana, insegnante a Palermo di lettere classiche. Mentre gli inquirenti brancolano nel buio Laurana si diletta, come ogni abitante del paese, nel tentativo di risolvere il caso del duplice omicidio. Tutti sono convinti che il dottore sia morto perché era insieme al farmacista, ma Laurana scopre che l'assassino ha a che fare con la chiesa (partendo dal giornale e dal rovescio della lettera che reca il motto del giornale “Unicuique Suum”, appunto, a ciascuno il suo). La sua indagine gli fa scoprire l'esistenza di un clan mafioso che ruota intorno all'arciprete della cittadina, zio della moglie del dottore: il delitto era in realtà stato preparato appositamente per questo, con la falsa copertura della lettera minatoria all'amico. Si scopre così che il mandante è il notaio, cugino della moglie del dottore, che deve eliminare il dottore avendo questi scoperto le sue tresche mafiose. Inoltre, il notaio è anche da anni l’amante della moglie del dottore. Scoperto che Laurana ha capito tutto, il notaio lo fa sparire, grazie all'aiuto della donna amata. Infine i due si sposano con grande fasto. La sorpresa finale, tuttavia, è un'altra: Sciascia mostra come tutti, nel paese, hanno intuito quale verità si celi dietro il duplice omicidio, ma questa verità sarebbe rimasta coperta dietro le apparenze, protetta dall'omertà collettiva. Alla fine si scopre, non senza sorpresa, che Laurana non è quell’abile ma dilettante detective che abbiamo creduto per tutto il libro, ma solo un “cretino” che si pone fuori dalle regole omertose della vita cittadina. Il racconto è breve, non è folgorante, mi scuso anche se ne rivelo molto, ma, credo, la storia sia abbastanza ben nota. Quello che risalta è l’amarezza con cui Sciascia ci porta passo dopo passo alle ovvie conclusioni. Detto il bene dell’autore (che rimane sempre tra i miei preferiti, tra Roussel e Majorana, per chi mi capisce), la solita tirata d’orecchie ai curatori che, in quarta di copertina riportano le ultime due battute del libro. Ma che bisogno c’era? Non si può lasciare il lettore che scopre il libro per la prima volta a seguire le vicende stesse come si svolgono? Se Sciascia avesse voluto farle sapere al pubblico, avrebbe cominciato e non finito con quelle. Rimango sempre stupito!
Michela Murgia “Accabadora” Einaudi s.p. (regalo natalino di Nicoletta)
[trama del 25 aprile 2012]
Ho fatto bene ad insistere sulla Murgia. Dopo aver letto il racconto inedito del Corriere, che mi era discretamente piaciuto, ho chiesto la conversione del regalo di Nico nel libro della sarda. Ed ha confermato le prime sensazioni. A parte che la quarantenne di Cabras ha anche scritto quel delizioso libretto (“Il mondo deve sapere”) che non ho letto ma di cui ho visto il film che ne fu tratto da Virzì (“Tutta la vita davanti”, altrettanto delizioso ed ahi quanto amaro), e già questo me la mette in buona prospettiva. Qui, come nel racconto, torna alle sue radici, alla sua terra. E nonostante le paure che confessa alla fine sull’uso dei termini dialettali che a volte non sono immediatamente chiari (ma d’altra parte chi è aduso a Camilleri ha fatto il callo), avendola vinta (la paura), il risultato è di buon livello (e senz’altro superiore alle ultime deludenti coeve letture). La storia di Maria (ma quante ce ne sono nei libri che leggo) che la madre “vende” ala zia Bonaria (zia in senso di rispetto, che non sono parenti) e che quest’ultima alleva e cura come e più di una figlia, ci prende fin dalle prime pagine, e ad un certo punto non mi ha più mollato, tanto che sono andato avanti a leggere per molta parte della notte. Perché l’interesse sulla sorte e la storia di Maria cresce man mano che si intrecciano le storie della cittadina di Sereni. Della scoperta, ma fin ad un certo punto mai palese, dello strano mestiere della zia, l’accabadora, quella che accompagna la fine (e capirete leggendolo che bell’ossimoro con zia Bonaria). Delle meschinità della famiglia d’origine di Maria, delle sorelle grandi che la mortificano, della madre che la prende anche in giro perché studia (per poi rivendersi come sue le spiegazioni che le da Maria). Dell’iniziale ingenuità di Andrìa, che però alla fine capisce e cresce. Dell’intemperanza pericolosa e distruttiva di Nicola, che lo porterà a quella fine che segna una chiave di volta della vicenda. Che darà un senso al prima, che spiegherà il poi, e che servirà a Maria, alla fine, a riconciliarsi ed a capire fino in fondo l’umanità dolente di zia Bonaria. Certamente una svolta all’inizio drammatica, ma che alla fine farà crescere tutti (ed in fondo la crescita è sempre un dramma). Della dolcezza e dei timori del sedicenne torinese Piergiorgio, che consentirà a Maria di vedere dentro sé stessa e dentro il suo rapporto con la zia. Due cose, sulle altre, mi hanno più preso nel romanzo. La capacità di Michela Murgia di raccontare storie inanellate nella storia (come avevo intuito nel racconto del Corriere). Che sono tutti piccoli racconti, quelli che si intrecciano. I racconti contadini della vendemmia e delle faide. I racconti delle veglie per i morti. I racconti degli emigranti sardi, quelli che vanno per guerre e quelli che vanno per lavoro. L’altra è la mancanza di giudizi che l’autrice riesce a comunicare con il suo modo di raccontare e di farci partecipi. Sarebbe stato facile, ma deleterio per la bellezza del narrato, metterci dentro giudizi su tutto. Sulla signora Listru che vende la figlia. Sull’accabadora Bonaria. Perfino su Piergiorgio. Invece tutto scorre, gli avvenimenti, i “fatti” oserei dire, ci vengono davanti, li guardiamo. E cerchiamo di capirli. Come cerchiamo di capire perché hanno spostato il muro in pietra per aver più terra. E perché la famiglia di Andrìa non si ribella. Perché Bonaria si ribella alla richiesta di uno e non alla richiesta di un altro. A proposito, racconto nel romanzo, anche la storia di Raffaele e Bonaria è ben situata. Ma dicevamo dei giudizi. Sarebbe stato facile. Ma apprezzo invece lo sforzo di Michela di farci vedere le cose, di capire i motivi, anche se non si riescono a spiegare. Uno sforzo di empatia che sarebbe utile fare in molti per capire cose su cui, a volte, si preferisce emettere giudizi. Che in un certo senso è più facile, e certamente molto più distante. Capire non è mai facile.
Stefan Zweig “Novella degli scacchi” Einaudi euro 8,50
[trama del 29 giugno 2014]
Come riempire un mondo in meno di 80 pagine! Continuo nel tempo la riscoperta di Zweig. Con questo che viene considerato uno dei migliori romanzi brevi. Che io trovo bello, ma ho letto cose di Zweig che mi hanno fatto lievitare di più. Certo, l’indubbia capacità dello scrittore austriaco riesce a costruire un meccanismo ad orologeria impeccabile. C’è una storia, una storia dentro una storia, una seconda che sembra convergere con la prima, ma che, autonomamente, darà il tocco ed il senso a tutto l’insieme. Viaggio per nave da New York a Buenos Aires, il narratore (di cui non sappiamo i motivi del viaggio) in partenza viene attratto da una strana figura che si aggira per la nave. Scopre che è il campione del mondo di scacchi. Vuole avvicinarlo incuriosito dalla sua storia personale. E trova il modo di scardinare le resistenze di Mirko, coinvolgendo un magnate americano che imbandisce un incontro di scacchi a pagamento. I nostri non possono che perdere, se non che, ad un certo punto, uno strano signore, che poi sapremmo austriaco, molto dimesso, dà loro una mano per portare la partita ad una patta. Mirko allora sfida l’austriaco. Il quale prima dell’incontro racconta al narratore la sua storia. Poi l’incontro, le difficoltà del campione, l’esaltazione del dilettante, la vittoria di questi. Dovrebbero fermarsi, ma Mirko chiede la rivincita, l’austriaco si concede, e comincia una seconda partita del tutto diversa, dove il campione ora pensa, ed il dilettante sembra entrare in trance agonistica, o in altri modi esaltati. Fino a che il nostro sbaglia mosse, ed è il narratore che lo riporta alla realtà, e lontano, per sempre, dalla scacchiera. Ma se questa è la storia, privata dei due contesti, sono le due storie che danno il senso alla vicenda. Prima veniamo a conoscenza di Mirko. Contadino boemo, praticamente analfabeta, impara gli scacchi dal curato del paese, e come lo stolto sapiente comincia a giocare sempre meglio. Ed a vincere sempre. Rimane però inculturato, non riesce a vedere gli scacchi se non con la scacchiera davanti. Ha bisogno del contatto con gli oggetti per poterli usare. E poiché, pur valente, sempre dalla povertà viene, fa sì la scala del potere scacchistico, ma poi gioca ovunque qualcuno gli offra dei soldi per farlo. Diventa, consapevolmente, un professionista del gioco. Magistrale, ma in un certo qual modo, meccanico esecutore di una strategia di gioco. Dall’altro lato, invece, più complessa è la storia dell’austriaco. Ricordo che la narrazione si svolge nei primi anni ’40. L’austriaco è un avvocato di uno studio legale che da sempre cura gli interessi della casa reale e del clero. In maniera discreta ed occulta. Sempre più nascosta poi, da quando Hitler prende il potere in Germania, ed apertamente fuorilegge dopo l’annessione dell’Austria alla Germania nel 1938. Lo studio legale del nostro viene incarcerato, ma non in un lager, bensì nel famigerato Hotel Metropol, che si doveva loro estorcere i segreti dei beni da loro governati. Il nostro viene relegato in una stanza di nullo arredo, dove aspetta che, di tanto in tanto, lo si interroghi (si rivive quasi una riedizione del processo di Kafka). Prima di impazzire, il nostro trova un manuale con 150 partite di scacchi, descritte in notazione algebrica (è un modo di individuare i pezzi e la loro posizione sulla scacchiera). Comincia a studiare di nascosto, impara a memoria le partite, se le rigioca in testa, non avendo scacchi né scacchiere. Questo lo corazza contro le angherie degli interrogatori. Poi esaurisce tutto il libro, e comincia ad inventarsi partite. Qui scatta il meccanismo che lo porterà quasi alla follia. Non potendo giocare con altri, scinde quasi il suo essere in un Io bianco ed un Io nero che, schizofrenicamente, fanno le parti dei due avversari. Una parte di sé lotta contro l’altra. Questo non potrà che portarlo ad andare fuori di testa. Ricoverato all’ospedale, il medico lo riconosce, e lo aiuta ad ottenere il permesso d’espatrio. Ora trovandosi lì sulla nave, nella partita di Mirko contro il magnate riconosce una delle 150 partite del libro (un classico per gli scacchisti, la partita Alekhine – Bogoljubov del 1922 con la presenza successiva di tre regine da parte di Alekhine). Ma quando comincia la sua partita con Mirko, riprende latente la febbre che lo aveva portato fuori di testa. E se nella prima partita si controlla e vince, nella seconda Mirko, accorgendosi della progressiva perdita di lucidità dell’austriaco, rallenta coscientemente il gioco. Il nostro avvocato allora, parte per la sua tangente, giocando altre partite nella sua testa, ed appunto non può che sbagliare perché, tornato alla realtà non riconosce la scacchiera reale. Perché è diversa da quella che aveva in testa. E non può che sbagliare. Fermarsi. E consentire al narratore di portarlo fuori scena. Come direbbe Neruda, è tutta una metafora. La partita a scacchi, che sempre è una metafora del combattimento. L’intelligenza che si deve avere per poter padroneggiare lo sviluppo dell’azione dei pezzi. Poi c’è lo stolto sapiente, che sa d’istinto dove muovere, ma deve vederlo. È concreto, rozzo ed essenziale. Ha un’intelligenza forte, ma settoriale. E Zweig non concepisce (e noi con lui) un’intelligenza che non sia ad ampio spettro. Dall’altra parte l’intellettuale, che, per l’appunto, colto e pieno di tante nozioni, parte verso una sua immagine della storia (della vita, della scacchiera), e non si accorge di cosa succede nella realtà. Anche perché apprende gli scacchi (la vita) da solo, senza relazionarsi con l’esterno. E Zweig che era stato un intellettuale a tutto tondo, grande letterato e grande viaggiatore, non può che sentire i limiti di questo isolamento intellettuale. Il pessimismo di Zweig non potrà quindi che portare l’intellettuale a ritirarsi, a farsi da parte, non avendo mezzi per contrastare la rozza bravura di Mirko. Due mesi dopo la stesura del romanzo, Zweig, austriaco in esilio volontario in Argentina, non trovando sbocco alla sempre crescente avanzata delle forze del male (siamo nel 1942, nel pieno dell’ondata montante del nazismo durante la guerra), si toglie la vita.
“Non è forse facilissimo considerarsi un grand’uomo se non si nutre nemmeno il sospetto che siano esistiti i Rembrandt, i Beethoven, i Dante, i Napoleone?” (12)
Helene Hanff “84, Charing Cross Road” Archinto euro 10
[trama del 4 agosto 2014]
Un libro che non c’è bisogno di leggerlo per conoscerlo, ma che bisogna leggerlo per capire perché non si può non amarlo. Perché è un inno ai libri stessi, all’amore per la carta stampata, per la lettura, per la ricerca di connessioni tra testi. Ma anche un libro pieno di affetto, di amicizia, di rispetto. Ed una piccola fotografia in evoluzione di come sia cambiato il mondo stesso, dalla prima lettera con cui comincia, nel 1949, fino all’ultima, triste ed umana, nel 1970. E chi non conosce il libro, avrà comunque sentito parlare del film che ne fu tratto, con una magica interpretazione di Anne Bancroft ed una sempre eccellente di Anthony Hopkins. Entrambi, libro e film, oggetti di culto tra gli appassionati. È un libro epistolare, che riporta le più significative lettere scambiate dall’autrice Helene Hanff, per la maggior parte con Frank Doel, librario antiquario della libreria Marks & Co, sita, appunto, all’indirizzo del titolo. Helene, amante della letteratura, nonché squattrinata, dopo la seconda guerra mondiale, trova un’inserzione di libri antiquari acquistabili, lei abitante a New York, di là dell’oceano, in quel di Londra. Scrive, e comincia lo scambio tra lei e Frank. Dalle lettere emerge l’amore, di entrambi, per la carta stampata. La ricerca di testi rari, di connessioni, di edizioni integrali (che bei commenti sulla Vulgata della Bibbia o su alcune poesie di John Donne). Emerge in filigrana la vita dell’americana Hanff, che trova anche un suo spazio nel mondo dei libri. Prima come lettrice di testi, poi come sceneggiatrice di serial storici, infine anche autrice di libri per l’infanzia. Ed anche quella del compassato Doel, con la sua famiglia, e la passione per la ricerca della soddisfazione del cliente (tipico esempio del modo d’approccio di commessi anglo-sassoni, che sempre mi ha riempito di ammirazione). Ma tra un testo e l’altro, una citazione e l’altra, le lettere si riempiono anche di altro. L’inglese le manda la ricetta originale dello Yorkshire Pudding o la descrizione dell’incoronazione della regina Elisabetta. Helene ribatte con le partite di baseball dei Brooklyn Dodgers, l’invio di uova in polvere e di calze di nailon (articoli introvabili nell’Inghilterra del primo dopo-guerra). Gli inglesi troveranno in Helene una zia lontana cui inviare pensieri e foto  ricordo. Helene comincerà a mettere da parte dollari su dollari per cercare di visitare l’Inghilterra di Geoffrey Chaucer e di Frank Doel. Miss Hanff sbarcherà effettivamente in Inghilterra, dopo aver trascorso anni a guardare apposta film inglesi per scoprire come sono fatte le strade di Londra… Ma il tanto desiderato viaggio si realizzerà purtroppo troppo tardi. Nel 1969 Frank muore prematuramente a seguito di una peritonite e dopo poco tempo Marks & Co deve chiudere definitivamente i battenti. Eppure, quando finalmente riuscirà a entrare nella polverosa libreria che aveva dato forma e risposta a molti dei suoi desideri, Helene si rivolgerà all’amico tanto caro e mai conosciuto di persona, commentando, a metà strada tra il rimpianto e la riconoscenza: “Che ne dice, Frankie, finalmente ce l’ho fatta!”. Il libro, sottilmente, mai esplicitamente, ma con forza, ci ricorda sempre che dobbiamo lottare per ottenere quello che desideriamo, senza mai tirarci indietro. Annullando il tempo e la morte, attraverso l’unico modo sempre valido da millenni: attraverso la letteratura. Certo, io ora mi domando come si sarebbe trasformato il libro e tutto il contorno ai tempi di Internet, tra acquisti online divisi tra Amazon ed e-Bay, amicizie su Facebook, chat su Skype, pubblicazioni in e-book ed altro. Ma questo potrebbe essere l’inizio di un nuovo libro e di una nuova trama. In chiusura, devo però dire che, date le premesse, mi aspettavo uno scatto maggiore, un piacere maggiore della lettura. Forse perché pieno di citazioni ed incroci, avrebbe avuto bisogno anche di un più corposo impianto di note e spiegazioni. Per cui alla fine arriva “solo” a quattro libricini su sei. Certo, comunque un buon voto. Ed un libro (ed un film) da conservare nella memoria di chi ama la carta stampata.
“Sono una scrittrice senza soldi che ama i libri.” (1)

Conclusioni

Ripeto, trovo il cancro e la chemioterapia un argomento troppo serio e troppo vicino per parlarne con la leggerezza che si fa all’inizio. Quindi faccio ammenda e non parlo della cura e della malattia. Parlo di questi libri. Ed allora non posso che concordare. Sono dieci ottimi romanzi brevi, da leggere, se non lo avete ancora fatto. Da rileggere, se ve li siete scordati.

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