Ebbene sì, una settimana “di
cultura”, anche se l’unico vero libro interessante è la raccolta di scritti di
don Paoli. Certo, piacevole e sempre ben scritto il saggio messicano di
Cacucci. E sempre gradito un nuovo episodio di Asterix, alla svolta del
passaggio di bandiere tra l’ormai anziano Uderzo ed i nuovi disegnatori. In
calo, forse per mancanza di idee forti, la passeggiate tra le memorie di
Guccini.
Arturo Paoli “Cent’anni di fraternità” Chiarelettere euro 12 (in realtà,
scontato a 7,20 euro)
[A: 10/01/2014– I: 21/04/2014 – T: 23/04/2014] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 162;
anno 2013]
Un
altro bel saggio che merita di essere letto, dove io ritorno alla lettura delle
belle parole che Padre Arturo Paoli sempre dedica a chi lo sa ascoltare. Un
nome che entrò un anno e mezzo fa nelle mie letture, in occasione della festa
per i 100 anni del prelato lucchese. E che ritorna ora con un libro un po’
omaggio alla persona ed un po’ alle sue idee (ed alla vita vissuta). Scopre qui
altri pezzi di don Paoli, e ad ogni lettura mi piace e mi avvince. Come dice (e
questa volta sono d’accordo) nella quarta Cesare Fiumi, una vita tanto piena
che fatica ancora ad essere contenuta pur in una cornice così ampia di un
secolo. Dopo aver conosciuto il prete impegnato in America Latina contro tutte
le dittature laggiù succedutosi ed il Piccolo Fratello di Padre de Foucauld,
ecco qui che appaiono il Giusto di Israele e lo strenuo difensore della
“Teologia della Liberazione”, seguace (anche se in maniera meno traumatica) di
monsignor Camara, nonché vicino a padre Bergoglio, ora Papa Francesco. Anche lo
scritto, pur celebrativo, è diviso in due parti. Nella prima torniamo con don
Arturo in America Latina e ne viviamo alcuni aspetti. Nella seconda, Paoli ci
dona alcune sue riflessioni scritte nel buon ritiro della natia Lucca, come
dice lui stesso in un articolo su “Ore 11”, in attesa di sorella morte, con una
serenità di parole ed atteggiamenti che suscita voglia di imitazione. Ed
entrambe le parti hanno elementi di interesse. La prima perché, partendo dal
famoso “Patto delle Catacombe” (dove nel novembre 1965 riuniti nelle Catacombe
di Domitilla in Roma, una serie di preti latino-americani elaborarono le basi
della Teologia della Liberazione) da un lato mi riporta alla mia infanzia ed
alla nascita (o meglio alla scoperta) di un certo tipo di impegno che mio padre
porterà poi avanti per tutto il resto della sua vita. Dall’altro, nei ricordi
di Paoli, si fa viva l’applicazione pratica di quelle parole. Sappiamo (da
altri contesti) cosa fece e cosa subì Paoli in quegli anni, ma come non
ricordare l’incontro con l’indio Domingo o come non sottoscrivere ogni parola
del ricordo del martirio del vescovo Angelelli? Perché Paoli ci porta, con la
sua straordinaria semplicità, a ripercorrere le sue scelte quotidiane di vita,
con i poveri, ma non da esterno, da “missionario e basta”, ma entrando, con
tutta la sua vita, in quella dimensione. Lavorando con gli umili, dividendo con
loro anche la più piccola scodella di riso. E sono pagine e parole che non
possono lasciarci indifferenti. Nella seconda parte, Paoli si fa più
riflessivo. Scrive queste righe ormai centenario, per buttare alla rinfusa
delle idee che gli sorgono nelle meditazioni quotidiane. Cosa significa la
fede? Qual è il ruolo di Gesù? Bella anche quella frase del nazareno che visse
trent’anni da artigiano e tre da profeta. Cosa rispondere alle domande dei
giovani? Paoli non tace (come non l’ha mai fatto) le sue critiche. Non può non
aver visto le derive cui è andata la Chiesa. Ricordo che proprio per quelle
critiche nei primi anni ’50 fu cacciato da Gedda via da Roma, in quanto troppo
sovversivo. Lui che era sempre stato un fautore dell’amore verso gli altri,
quali che siano, tanto da essere poi riconosciuto “Giusto d’Israele” per aver
salvato più di un ebreo dalle persecuzioni nazi-fasciste. Paoli ritorna poi
sempre ai due elementi cardine della sua vita (e perché non anche di altre?).
L’amore e l’amicizia. Amicizia verso chi ci sta accanto per tentare, come
predicava padre de Foucauld, di portare l’amore in tutto il mondo. Come
vorremmo avere la sua forza, quella di poter affermare di vivere lieto in un
mondo triste. Paoli è lieto e sereno perché ha trovato (con tutti i dubbi che
sempre ognuno ha) delle risposte dentro di sé. E per aver avuto il coraggio e
la forza di vivere queste risposte. Non tutti hanno il suo coraggio, non tutti
hanno risposte. Ma come dice il mio amico Roberto, anche se in altri contesti,
ma la frase va bene anche qui, “Qualche seme buono nel mondo deve essere stato
seminato. C'è sempre qualcosa da imparare...”
“L’amicizia ha bisogno di prossimità.” (99)
“La Chiesa Cattolica ha condannato idee e
ideologie dichiarandole in contrasto con le verità della fede, ma non si è
opposta all’uso ingiusto dei beni.” (107)
“L’esistenza in gran parte è una scelta.”
(142)
Jean-Yves Ferri & Didier Conrad “Asterix e i Pitti” Mondadori s.p.
(regalo di Mamma)
[A: 07/05/2014– I:
11/05/2014 – T: 11/05/2014] - &&&
[tit. or.: Asterix
chez les Pictes; ling. or.: francese; pagine: 48; anno 2013]
Forse
solo i miei più vecchi amici si ricordano che una delle mie tante passioni,
coltivate in gioventù e rimaste lì ad un certo punto, quasi a restare un basso
continuo in una frase musicale, era rivolta ai fumetti. Tra le varie facce di
questa passione, un posto preminente ha sempre avuto la saga del piccolo
villaggio della Gallia che si opponeva strenuamente all’invasione romana.
Iniziò nell’epoca d’oro di Asterix, portando con sé anche l’amore per questo
fumetto in lingua originale, dove sono stati presenti sempre tanti giochi
linguistici e semantici, spesso di difficile traduzione. Tant’è che ne ho la
serie completa sia in italiano sia in francese. Ovviamente i primi album della
serie avevano uno spessore ironico e uno sguardo divertito su alcune futilità
del mondo attuale che si è andato a poco a poco spegnendo. Soprattutto per la
morte di René Goscinny nel 1977, ma anche per la diversa verve comica di
Uderzo, che in realtà è il disegnatore della serie. Sebbene le storie siano
cominciate nel 1959, in Italia cominciano ad apparire solo nel 1968, avendo la
fortuna, nelle prime storie, di essere tradotte da quel maestro dell’umorismo
che era Marcello Marchesi. Rimarrà per sempre nella mia memoria la frase che
Marchesi mette in bocca ad Asterix nell’episodio “Asterix e i Goti”, quando,
vedendo i Goti picchiarsi tra loro esclama: “I Goti picchiano i Goti! Che
goturia!”. E la fortuna di Asterix fu ed è proprio questa. Umorismo, citazioni,
caricature (ci torneremo anche per questo album). Veniamo ora a quest’ultima
fatica, dove l’essere una storia a fumetti, e scritta in francese, merita più
di un commento. Intanto, ha un suo valore “storico” intrinseco in quanto è la
prima storia di Asterix dove non è presente nessuno dei due ideatori (il primo
perché come detto morto, il secondo, ormai anziano, ha deciso di tener il brand
ma di affidarsi a dei giovani). Devo dire che per la parte “disegni” mi sembra
che non ci sia nulla da rimproverare. I tratti sono ormai standard, e, per i
personaggi ideati espressamente per l’album, si torna ad introdurre caricature
anche riconoscibili (come nel cattivo di turno, dove si ritrovano i tratti di
Vincent Cassel). La parte invece storia ed annessi è un po’ deboluccia. Intanto
ricalca un cliché ormai consueto: i nostri galli incontrano per qualche motivo
un non-gallo nemico dei romani, e lo aiutano in qualche attività. Con la scusa,
visitano il paese nuovo, e ci danno qualche tocco di umorismo sulla visione
francofono centrica del mondo. Nel risolvere per il meglio la vicenda, se vanno
per mare, incontrano la solita nave dei pirati e la “medusano” (riferimento mio
al quadro “La zattera della Medusa” di Géricault); in ogni caso riempiono di
botte tutti i romani che incontrano; finendo poi il tutto con un banchetto dove
il bardo Assurancetourix viene legato all’albero del villaggio. Mettete i Pitti
al posto degli stranieri, ed avremo la nostra storia. I Pitti essendo un popolo
pre-gaelico della parte scozzese di Edimburgo ed Inverness, il cui nome deriva
dal fatto che usavano tatuaggi dipinti (pictus in latino). Meglio va la storia
sul versante invenzioni linguistiche: il pitto che sbarca in Gallia si chiama
Mac Oloch (è un tipo simpatico, un po’ spaesato, giusto che cerchi un posto a
lui adeguato, dal francese “ma colocation”) del clan dei Loch Andoll (e non ci
meravigliamo che il ragazzo canti spesso), il cattivo che lo vuole spodestare,
quello “alla Cassel” si chiama Mac Abbeh (facile ricostruire il “maccabeo”), il
cantore che durante i banchetti scozzesi canta jingle beat, dai Rolling Stones
ai Beatles ai Bee Gees, si chiama Mac Keul (qui è un po’ più arduo che si fa
riferimento all’argot di “ma guéle” canzone di Johnny Holiday), ed infine
l’antenato del mostro di Loch Ness si chiama Afnor (qui siamo sul versante
veramente da “internal french”, che il mostro, essendo ben grande, viene sempre
chiamato come “l’énorme Afnor” prendendo in giro l’istituto di normalizzazione
francese AFNOR e le sue regole, conosciute appunto come “les normes AFNOR”). Il
terzo elemento è la traduzione del bravo Michele Foschini, che tenta di rendere
un po’ dell’umorismo francese, ad esempio, lì dove era difficile lasciare
capire l’ironia, traducendo Mac Oloch con Mac Keron (maccherone?), ma traducendo
anche Mac Abbeh con Mac Arogna, dove forse poteva rimanere il nome originale.
Peccato che qualcosa sia intrasportabile, per cui la battuta di Mac Keul su
Holiday non è stata tradotta, ma “eliminata”. Così come non viene capito né
tradotto il nome del mostro (e come si può ridere leggendo “l’enorme Afnor”?).
Certo, gradevole è sorridere con Asterix del lancio dei tronchi, dei tartan,
delle mucche Highlander. Ma i due nuovi autori devono prendere un po’ più di
coraggio e di mano per poter “re-inventare” un personaggio ed una storia che
ormai si avviano ai sessanta anni di esistenza. E sappiamo tutti che non è
facile cambiare rimanendo se stessi a quell’età.
Francesco Guccini “Nuovo dizionario delle cose perdute” Mondadori euro
12 (in realtà, scontato a 10,20 euro)
[A: 16/02/2014– I: 29/05/2014 – T: 31/05/2014] - &&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 148;
anno 2014]
Dopo
che gli era riuscito un discreto libretto con una sorta di viaggio nella
memoria, ricordando “cose perdute”, il nostro amico cantautore (ormai
abbandonata la chitarra al chiodo, visto che ha già ben superato i 70 anni e la
voce non regge molto) ci riprova. E non ci riesce molto. Il tentativo non è (e
non era) tanto di rimpiangere, ma di leggere i cambi del modo di vivere rispetto
ai cambi delle cose che ci circondano. Qui ci sono anche più “situazioni”, più
letture dirette. Come, appunto, non pensare ai fiumi o alle osterie? Certo i
fiumi sono molto nelle corde della gente del centro – nord, ma le osterie ci
sono anche nei ricordi personali. Come la mitica osteria di Zi’ Cannella, a due
passi da piazza Navona, dove andavo con mio padre ed i suoi amici, loro a bere
ed io a sentirli parlare. Ed anche altre corde solleva il nostro amico
Francesco in queste sue galoppate di pensiero. Devo però dire che a volte è più
il titolo, la cosa, la situazione quella che solletica il ricordo, piuttosto
che lo scritto del nostro amico cantautore. Perché anche a me, ricordo,
regalarono il mitico “Traforo” in un Natale di gioventù. Ed essendo nota la mia
abilità manuale, non arrivò neanche alla Befana. Che dire poi del ciclismo? Era
una mania, si seguiva silenti in televisione prima il Giro d’Italia poi il Tour
de France. Troppo piccolo per far parte delle discussioni tra Bartali e Coppi,
ero invece ancora nel vivo delle classifiche quando si trattava di osannare “la
maglia nera”. L’ultimo in classifica, che però era studiato, che doveva
arrivare ultimo ma in un tempo prestabilito. Sebbene abolita prima della mia
nascita, rimaneva nel ricordo di noi appassionati delle due ruote. Che
sostituimmo Luigi Malabrocca con Fedele Rubagotti. Altro mito, poi,
l’idrolitina, che mi faceva impazzire per l’uso delle due polverine da
mescolare nell’acqua per farla diventare frizzante. Compito che era il mio precipuo
ad ogni pranzo domenicale. Troppo antico parlare del bagno in casa, ma troppo
facile parlare del gettone telefonico, mitico compagno delle prime gite e dei
contatti con la famiglia. Si partiva sempre con una piccola scorta, che, oltre
a servire per avvertire i genitori dei propri spostamenti, era l’ultima risorsa
in caso di fine dei soldi. Potevi sempre pagare con un gettone la consumazione
al bar. E collegato al gettone, non solo la cabina telefonica (che ancora
qualche cabina tecnologica si può vedere), ma l’uso del prefisso quando si
chiamava da fuori distretto. Così che si facevano i salti mortali per andare al
mare a Santa Marinella, cercando di non far sentire il rumore particolare che
faceva la chiamata extra-urbana per avvertire casa che si sarebbe fatto tardi.
Capitolo a parte, e ben corposo (tanto che Guccini ne dedica tre), è quello
degli spostamenti e delle automobili. Il primo pensiero va ai deflettori,
quegli aggeggi che spezzavano i finestrini davanti, consentendo circolazione
d’aria anche a vetro chiuso. Ormai aboliti e sorpassati da tutta una serie di
apparati di ricircolo d’aria, che, tuttavia (questo è il progresso) inquinano
che è una bellezza. Il secondo pensiero è per l’autoradio. Che era estraibile,
che si portava appresso, insieme alle chiavi ed alle sigarette. Che si scordava
spesso nei bar o a casa di amici. Ora è integrata nel cruscotto, anzi è
integrata con i telefoni viva voce, con i tom tom, e, da poco, anche con gli
accessi ai social network tipo facebook. Ma il più bel ricordo delle cose
passate, e questa sì, perduta, è l’autostop. Che si faceva su tutte le strade,
che venivi preso e parlavi con altra gente, senza timori, senza tutte le paure
che il mondo odierno ci mette addosso. Non si facevano solo delle piccole gite
(tipo da Tortoreto a Giulianova per trovare qualche amica nei tempi estivi). Ma
si facevano veri e propri viaggi, come il mitico Roma – Siviglia mio e del mio
amico Andrea nell’estate dei primi anni Settanta. E ci arrivammo, a Siviglia.
Un giorno si avrà tempo per ricordarlo in dettaglio. Ora torniamo
all’operazione Guccini. Come detto, appunto, non operazione nostalgia. Ma
ricordo, e sociologia del vivere quotidiano. Tuttavia, la prima puntata portava
anche, nei ricordi di Francesco, spunti precisi, comici spesso, ma anche
dolenti. Qui, una volta individuato e nominato l’oggetto, la scrittura è poco
incisiva, lascia il tempo della lettura e poi si perde. Basterebbe leggere
l’indice, magari con qualche precisazione laddove l’oggetto misterioso è
veramente di difficile reperimento. Come le uova sotto la calce, di cui non
sapevo l’esistenza italica, ma avevo presente avendone mangiato in … Cina. Alla
fine, ripeto, un bell’indice per un libro che speravo migliore.
Pino Cacucci “Mahahual” Feltrinelli s.p. (regalo di Alessandra, cui
facciamo anche gli auguri)
[A: 24/06/2014– I: 29/06/2014 – T: 30/06/2014] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 125;
anno 2014]
Doverosa
premessa: alcuni attenti lettori si domandano come mai alcuni libri entrano ed escono
fulmineamente dalla mia libreria, ed altri hanno un andamento che qualcuno, con
termine giapponese, ha definito “tsundoku”. Prima risposta: libri che ricevo in
regalo o che son frutto di viaggi hanno una corsia preferenziale, così posso
non dimenticarmi del viaggio e rispondere al regalante in tempi che lui ricordi
a chi e perché fece il regalo. Per il secondo termine (su cui credo ritornerò)
ringrazio l’interessante blog di Vitiello che mi ha dato questa definizione di
“Tsundoku”: “comprare libri e non leggerli, lasciando che si accumulino in pile
sul pavimento o sul comodino”. Veniamo
allora a questo libro che non si è accumulato da nessuna parte, avendolo
ricevuto come gentile regalo onomastico. E piacevole, che Cacucci (benché non
lo abbia mai detto espressamente) è anche uno dei miei autori preferiti quando
ho voglia di tornare in Messico. Ha scritto diverse cose, diversi libri sono
presenti nella mia libreria, ma per me rimane sempre associato al paese americano,
a Frida Khalo ed alla polvere che si è sollevata durante tutti i viaggi che il
nostro ligure – bolognese vi ha fatto. E mi fa piacere tornare, attraverso le
sue parole, in una terra che ritengo sempre interessante. Cacucci, al solito, è
bravo nel porgere con leggerezza le sue parole, inanellando ricordi sui nuovi
passi, muovendosi nel tempo e nello spazio. Tornando, in quella penisola di
Quintana Roo, che ricordo fin dal mio primo viaggio messicano (solo venti anni
fa, e non trenta come Pino). E poi, tornandovi più vicino dieci anni fa, quando
da Tulum passammo nel Belize, di cui ci ricorda la nascita e l’etimologia, tra
inglesi occupanti e nativi soccombenti. Lui si colloca un po’ più a Nord, nella
cittadina che dà il titolo al libro. Città assolutamente sperduta di fronte al
Caribe. Se cercate sulle mappe, non c’è nulla intorno. Ma esce bene dalla
descrizione, e dalle immutate situazioni che ancora ci si riesce a trovare. Non
come nel D.F. ormai troppo brulicante di gente (saranno almeno 20 milioni).
Invece, lì, nei posti sperduti riesce (e si riesce) a trovare lo spirito di un
tempo. L’allegria di un capodanno a Oaxaca (mio) o quello di un festival del
cinema (suo). La bellezza dei siti maya yucateñi (per entrambi), dove io non
scorderò la statua dell’astronomo sperduta nella giungla. Cacucci prende poi un
luogo, salta nel tempo, ricorda i corsari (non i pirati). E le strane figure di
corsari – donna, spesso nascoste in panni maschili (rimando al primo libro
della Asensi per questo). Seguiamolo con piacere nella narrazione delle gesta
di Mary Read o di Anne Bonney. Ma ancora di più in quelle di Felipe Carillo
Puerto, vittima dei contro-rivoluzionari nel 1922, e di sua sorella Elvia.
Quante figure ci sono state nella storia dell’uomo che hanno portato un piccolo
contributo a far crescere i sentimenti etici del mondo. E quante non ne
conosciamo e non ne conosceremo mai. Di filo in filo nella memoria, non
possiamo non essere solidali con Pino sia nel rimarcare la differenza tra
corsari e pirati, per finire ai pirati attuali ed alle lotte al largo delle
coste somale. Come non mandare un riverente saluto a chi si immola in cerca
della verità, come Ilaria Alpi. E chi lotta e continua a lottare contro
l’avanzamento della plastica che ricopre spiagge (ovunque) ma che sta
soffocando il mare (e vi chiedo anche io con Pino di meditare sul libro di
Charles Moore ‘L’oceano di plastica’; un immenso grido di dolore!). Commosso,
seguo le immersioni di Chano che nuota con gli squali (e ripenso a quel
bellissimo ed indimenticabile bagno mozambicano con lo squalo balena). Meno mi
è piaciuto il raccontino finale, anche se con intenti di “traguardare” vicende
antiche per riproporre sentimenti attuali. Vediamo senz’altro nel corsaro “El
Genoves” un adombrare le origini di Pino della sua Liguria. E senz’altro
ancora, l’amore che lui e tutti noi abbiamo per i Maya ed i loro discendenti. È
stato un libro che ho divorato (anche stante l’esiguità delle pagine), ma solo
perché volevo fare ed ho fatto un tuffo nel Messico che rimane nel cuore di chi
c’è stato. Un tuffo in un ‘cenote’, e se non lo hai visto di persona non ne
capisce la bellezza. Un lungo viaggio in pullman per scendere dal Chiapas verso
Palenque. Non tutto c’è nelle parole del nostro amico scrittore. C’è e ci sarà
sempre nel nostro ricordo da viaggiatore.
Come
ormai da tutto questo 2014, nella seconda trama del mese vi prendete anche
l’allegato dedicato alle cure con, per e attraverso i libri. Che questa volta
mi trova un po’ in disaccordo con le autrici, anche se parliamo di libri
interessanti e sicuramente da leggere. Inoltre, come i miei amici viaggiatori
già sanno, si è aperto anche uno spiraglio di viaggio, anche se lontano per ora
ed ancora ben lungi dall’essere certe. Intanto io leggo e mi documento, che
bisogna sempre essere pronti. Come voi che siete pronti a ricevere il mio
settimanale saluto.
CURARSI CON I LIBRI di
Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
OTTOBRE 2014
Sono molto combattuto, che nel
progredire della lettura alfabetica del libro sulla libropeutica, ci si imbatte
in una malattia talmente seria che lascia sempre un difficile modo di
rapportarsi. Le scrittrici l’affrontano con il sorriso sulle labbra, cosa che
non so se riesco a fare io.
CANCRO
Quando fate la chemio, quando vi sentite
deboli, quando il vostro cervello si rifiuta di lavorare, quando non avete la
forza per stare in compagnia... avete bisogno di un bel romanzo breve.
I DIECI MIGLIORI ROMANZI BREVI
John Berger Festa di nozze
Roberto Bolaño Stella distante
Friedrich Dürrenmatt La promessa
Nadine Gordimer Il
mondo tardoborghese
Helene Hanff 84, Charing Cross Road
Michela Murgia Accabadora
Leonardo Sciascia A ciascuno il suo
John Steinbeck Uomini
e topi
Fred Uhlman L’amico ritrovato
Stefan Zweig Novella degli scacchi
Bugiardino
Anche qui, per entrare nello specifico dei libri, non della
cura, si è letto molto di romanzi brevi e affini. Cinque sono di anni recenti,
e sotto ne parlo. Solo tre non sono (ancora) nella mia orbita, ma prima o poi…
Poi ce ne sono due che ho letto molto ma molto tempo fa. Il bellissimo giallo
non giallo di Dürrenmatt,
con quel poliziotto che inseguirà per sempre un assassino, perché fece la
promessa di trovarlo. Ed l’altro enorme piccolo romanzo di Uhlman, tra ardori
adolescenziali, furori nazisti e sentimenti omosessuali in controluce. Ma
veniamo invece ai libri che si è tramato negli anni. Per non far torti a
nessuno, li listo in ordine temporale di recensione, ricordando che sono comunque
libri di livello: da buono a ottimo.
Roberto Bolaño “Stella distante” Sellerio 8 (in
realtà scontato 4 euro)
[trama
del 4 aprile 2010]
Altalenante,
comunque sempre affascinante. Ho seguito a balzi e salti l’irregolare carriera
di Bolaño, che, come dice da qualche parte, ha in fondo scritto un unico libro,
fatto di tanti capitoli che sono stati pubblicati come fossero libri. Qui lo
riprendo, dopo molto tempo, dopo i tempi lontani e di tanto de “La pista di
ghiaccio”, che non mi aveva convinto, ed i tempi medi di ‘Romanzetto canaglia’,
migliore senz’altro. Ora torniamo nel pieno della crisi cilena, in una
descrizione (inventata ma forse per questo più reale) degli anni prima, durante
e dopo il golpe. Visti da un’ottica alla Scola del film sulla Rivoluzione
Francese. La gente normale, alle prese con i grandi moti della storia. Un
gruppo di studenti, imbevuti nel sacro furore della poesia (e d’altra parte i
due premi Nobel cileni poeti sono, e sicuramente li conoscete) che arrivano
sull’orlo del baratro e sono buttati giù nel fiordo da questo strano poeta, che
in realtà è un pilota dell’aviazione militare, che in realtà è (forse) una
spia, che in realtà è (sicuramente) un sadico-estetico che sembra da subito
aver perso il lume ed il filo della ragione. Tutto si incastra in un gioco di
scatole cinesi, dove ogni momenti è un pretesto per narrare anche un’altra storia,
o una visione diversa della stessa, un altro angolo, e così va. In fondo, è
l’anima borgesiana che riaffiora sull’altra sponda del continente sudamericano.
Con tutte queste frecce, molti sono i bersagli colpiti. A me rimane la
sensazione di orrore e paura, delle descrizioni delle retate e delle morti senza
senso, qui crude e dure, e non romanzate o sublimate (non c’è la Isabel Allende , ma
neanche Jack Lemmon di Missing). Poi rimane l’immagine di questo poeta aviatore,
che con la scia del suo Messerschmit scrive poesie nel cielo cileno. L’immagine
è potente, non so se possibile. Tuttavia alla fine Bolaño non è che lasci la
bocca dolce e la voglia di andare oltre. In un certo senso si fatica ad andare
dietro alle rutilanti invenzioni, perché ad un certo punto ci si aspetta che
venga un redde rationem che spieghi, che interpreti, che sveli. Al solito (un
po’ come nel primo libro) molto rimane non detto, quando indicibile. Solo
rimane il rimpianto che anche lui sia ormai impossibilitato a scrivere (a meno
di usare qualche medium). Triste la gente del ’53 che se ne sta andando a rotta
di collo…
“era come un sogno, o più esattamente, come la chiave che ci avrebbe
aperto la porta dei sogni, gli unici per cui valesse la pena di vivere” (17)
Leonardo Sciascia “A ciascuno il suo” Repubblica Novecento euro 4,90
[trama del 2 ottobre 2011]
Classico, datato, ma di buona
efficacia. Qualche freccia si è spuntata, ma molte vanno ancora a segno. E
soprattutto ritorna alla mente la bellissima interpretazione di GianMaria
Volontè nel film di Petri, ispirato anche se non “copiato” dal libro (in
effetti, ci sono delle variazioni anche significative, ma qui parliamo dello
scritto). Il racconto, inoltre, non risente dei suoi più di quaranta anni. Come
non vedere trame e tramette, innalzamenti e ludibri che ancora oggi devastano
la nostra altrimenti bella penisola? Sciascia sfruttando, anche se molto
superficialmente qui prima di prove più approfondite, la commistione tra
poliziesco e denuncia, crea una situazione che, pagina dopo pagina, si
infittisce fino alle estreme risoluzioni. Sempre in quella denuncia civile che
è stato il motivo conduttore dei suoi scritti e della sua vita. Si inizia con
una lettera minatoria indirizzata al farmacista del paese e scritta con ritagli
dell’Osservatore Romano. Poco dopo, il farmacista ed il suo compagno di caccia,
il dottore, vengono uccisi in una battuta di caccia. A questo punto entra in
scena il vero protagonista della storia, il professor Laurana, insegnante a
Palermo di lettere classiche. Mentre gli inquirenti brancolano nel buio Laurana
si diletta, come ogni abitante del paese, nel tentativo di risolvere il caso
del duplice omicidio. Tutti sono convinti che il dottore sia morto perché era
insieme al farmacista, ma Laurana scopre che l'assassino ha a che fare con la
chiesa (partendo dal giornale e dal rovescio della lettera che reca il motto
del giornale “Unicuique Suum”, appunto, a ciascuno il suo). La sua indagine gli
fa scoprire l'esistenza di un clan mafioso che ruota intorno all'arciprete
della cittadina, zio della moglie del dottore: il delitto era in realtà stato
preparato appositamente per questo, con la falsa copertura della lettera
minatoria all'amico. Si scopre così che il mandante è il notaio, cugino della
moglie del dottore, che deve eliminare il dottore avendo questi scoperto le sue
tresche mafiose. Inoltre, il notaio è anche da anni l’amante della moglie del
dottore. Scoperto che Laurana ha capito tutto, il notaio lo fa sparire, grazie
all'aiuto della donna amata. Infine i due si sposano con grande fasto. La
sorpresa finale, tuttavia, è un'altra: Sciascia mostra come tutti, nel paese,
hanno intuito quale verità si celi dietro il duplice omicidio, ma questa verità
sarebbe rimasta coperta dietro le apparenze, protetta dall'omertà collettiva. Alla
fine si scopre, non senza sorpresa, che Laurana non è quell’abile ma dilettante
detective che abbiamo creduto per tutto il libro, ma solo un “cretino” che si
pone fuori dalle regole omertose della vita cittadina. Il racconto è breve, non
è folgorante, mi scuso anche se ne rivelo molto, ma, credo, la storia sia
abbastanza ben nota. Quello che risalta è l’amarezza con cui Sciascia ci porta
passo dopo passo alle ovvie conclusioni. Detto il bene dell’autore (che rimane
sempre tra i miei preferiti, tra Roussel e Majorana, per chi mi capisce), la
solita tirata d’orecchie ai curatori che, in quarta di copertina riportano le
ultime due battute del libro. Ma che bisogno c’era? Non si può lasciare il
lettore che scopre il libro per la prima volta a seguire le vicende stesse come
si svolgono? Se Sciascia avesse voluto farle sapere al pubblico, avrebbe
cominciato e non finito con quelle. Rimango sempre stupito!
Michela Murgia “Accabadora” Einaudi s.p. (regalo natalino di Nicoletta)
[trama del 25 aprile 2012]
Ho fatto bene ad insistere sulla
Murgia. Dopo aver letto il racconto inedito del Corriere, che mi era
discretamente piaciuto, ho chiesto la conversione del regalo di Nico nel libro
della sarda. Ed ha confermato le prime sensazioni. A parte che la quarantenne
di Cabras ha anche scritto quel delizioso libretto (“Il mondo deve sapere”) che
non ho letto ma di cui ho visto il film che ne fu tratto da Virzì (“Tutta la
vita davanti”, altrettanto delizioso ed ahi quanto amaro), e già questo me la
mette in buona prospettiva. Qui, come nel racconto, torna alle sue radici, alla
sua terra. E nonostante le paure che confessa alla fine sull’uso dei termini
dialettali che a volte non sono immediatamente chiari (ma d’altra parte chi è
aduso a Camilleri ha fatto il callo), avendola vinta (la paura), il risultato è
di buon livello (e senz’altro superiore alle ultime deludenti coeve letture).
La storia di Maria (ma quante ce ne sono nei libri che leggo) che la madre
“vende” ala zia Bonaria (zia in senso di rispetto, che non sono parenti) e che
quest’ultima alleva e cura come e più di una figlia, ci prende fin dalle prime
pagine, e ad un certo punto non mi ha più mollato, tanto che sono andato avanti
a leggere per molta parte della notte. Perché l’interesse sulla sorte e la
storia di Maria cresce man mano che si intrecciano le storie della cittadina di
Sereni. Della scoperta, ma fin ad un certo punto mai palese, dello strano
mestiere della zia, l’accabadora, quella che accompagna la fine (e capirete
leggendolo che bell’ossimoro con zia Bonaria). Delle meschinità della famiglia d’origine
di Maria, delle sorelle grandi che la mortificano, della madre che la prende
anche in giro perché studia (per poi rivendersi come sue le spiegazioni che le
da Maria). Dell’iniziale ingenuità di Andrìa, che però alla fine capisce e cresce.
Dell’intemperanza pericolosa e distruttiva di Nicola, che lo porterà a quella
fine che segna una chiave di volta della vicenda. Che darà un senso al prima,
che spiegherà il poi, e che servirà a Maria, alla fine, a riconciliarsi ed a
capire fino in fondo l’umanità dolente di zia Bonaria. Certamente una svolta
all’inizio drammatica, ma che alla fine farà crescere tutti (ed in fondo la
crescita è sempre un dramma). Della dolcezza e dei timori del sedicenne
torinese Piergiorgio, che consentirà a Maria di vedere dentro sé stessa e
dentro il suo rapporto con la zia. Due cose, sulle altre, mi hanno più preso
nel romanzo. La capacità di Michela Murgia di raccontare storie inanellate
nella storia (come avevo intuito nel racconto del Corriere). Che sono tutti
piccoli racconti, quelli che si intrecciano. I racconti contadini della
vendemmia e delle faide. I racconti delle veglie per i morti. I racconti degli
emigranti sardi, quelli che vanno per guerre e quelli che vanno per lavoro.
L’altra è la mancanza di giudizi che l’autrice riesce a comunicare con il suo
modo di raccontare e di farci partecipi. Sarebbe stato facile, ma deleterio per
la bellezza del narrato, metterci dentro giudizi su tutto. Sulla signora Listru
che vende la figlia. Sull’accabadora Bonaria. Perfino su Piergiorgio. Invece
tutto scorre, gli avvenimenti, i “fatti” oserei dire, ci vengono davanti, li
guardiamo. E cerchiamo di capirli. Come cerchiamo di capire perché hanno
spostato il muro in pietra per aver più terra. E perché la famiglia di Andrìa
non si ribella. Perché Bonaria si ribella alla richiesta di uno e non alla
richiesta di un altro. A proposito, racconto nel romanzo, anche la storia di
Raffaele e Bonaria è ben situata. Ma dicevamo dei giudizi. Sarebbe stato
facile. Ma apprezzo invece lo sforzo di Michela di farci vedere le cose, di
capire i motivi, anche se non si riescono a spiegare. Uno sforzo di empatia che
sarebbe utile fare in molti per capire cose su cui, a volte, si preferisce
emettere giudizi. Che in un certo senso è più facile, e certamente molto più
distante. Capire non è mai facile.
Stefan Zweig “Novella degli scacchi” Einaudi euro 8,50
[trama del 29 giugno 2014]
Come
riempire un mondo in meno di 80 pagine! Continuo nel tempo la riscoperta di
Zweig. Con questo che viene considerato uno dei migliori romanzi brevi. Che io
trovo bello, ma ho letto cose di Zweig che mi hanno fatto lievitare di più.
Certo, l’indubbia capacità dello scrittore austriaco riesce a costruire un
meccanismo ad orologeria impeccabile. C’è una storia, una storia dentro una storia,
una seconda che sembra convergere con la prima, ma che, autonomamente, darà il
tocco ed il senso a tutto l’insieme. Viaggio per nave da New York a Buenos Aires,
il narratore (di cui non sappiamo i motivi del viaggio) in partenza viene
attratto da una strana figura che si aggira per la nave. Scopre che è il
campione del mondo di scacchi. Vuole avvicinarlo incuriosito dalla sua storia
personale. E trova il modo di scardinare le resistenze di Mirko, coinvolgendo
un magnate americano che imbandisce un incontro di scacchi a pagamento. I
nostri non possono che perdere, se non che, ad un certo punto, uno strano
signore, che poi sapremmo austriaco, molto dimesso, dà loro una mano per
portare la partita ad una patta. Mirko allora sfida l’austriaco. Il quale prima
dell’incontro racconta al narratore la sua storia. Poi l’incontro, le
difficoltà del campione, l’esaltazione del dilettante, la vittoria di questi.
Dovrebbero fermarsi, ma Mirko chiede la rivincita, l’austriaco si concede, e
comincia una seconda partita del tutto diversa, dove il campione ora pensa, ed
il dilettante sembra entrare in trance agonistica, o in altri modi esaltati.
Fino a che il nostro sbaglia mosse, ed è il narratore che lo riporta alla
realtà, e lontano, per sempre, dalla scacchiera. Ma se questa è la storia,
privata dei due contesti, sono le due storie che danno il senso alla vicenda.
Prima veniamo a conoscenza di Mirko. Contadino boemo, praticamente analfabeta,
impara gli scacchi dal curato del paese, e come lo stolto sapiente comincia a
giocare sempre meglio. Ed a vincere sempre. Rimane però inculturato, non riesce
a vedere gli scacchi se non con la scacchiera davanti. Ha bisogno del contatto
con gli oggetti per poterli usare. E poiché, pur valente, sempre dalla povertà
viene, fa sì la scala del potere scacchistico, ma poi gioca ovunque qualcuno
gli offra dei soldi per farlo. Diventa, consapevolmente, un professionista del
gioco. Magistrale, ma in un certo qual modo, meccanico esecutore di una
strategia di gioco. Dall’altro lato, invece, più complessa è la storia
dell’austriaco. Ricordo che la narrazione si svolge nei primi anni ’40.
L’austriaco è un avvocato di uno studio legale che da sempre cura gli interessi
della casa reale e del clero. In maniera discreta ed occulta. Sempre più nascosta
poi, da quando Hitler prende il potere in Germania, ed apertamente fuorilegge
dopo l’annessione dell’Austria alla Germania nel 1938. Lo studio legale del
nostro viene incarcerato, ma non in un lager, bensì nel famigerato Hotel
Metropol, che si doveva loro estorcere i segreti dei beni da loro governati. Il
nostro viene relegato in una stanza di nullo arredo, dove aspetta che, di tanto
in tanto, lo si interroghi (si rivive quasi una riedizione del processo di
Kafka). Prima di impazzire, il nostro trova un manuale con 150 partite di
scacchi, descritte in notazione algebrica (è un modo di individuare i pezzi e
la loro posizione sulla scacchiera). Comincia a studiare di nascosto, impara a
memoria le partite, se le rigioca in testa, non avendo scacchi né scacchiere.
Questo lo corazza contro le angherie degli interrogatori. Poi esaurisce tutto
il libro, e comincia ad inventarsi partite. Qui scatta il meccanismo che lo
porterà quasi alla follia. Non potendo giocare con altri, scinde quasi il suo
essere in un Io bianco ed un Io nero che, schizofrenicamente, fanno le parti
dei due avversari. Una parte di sé lotta contro l’altra. Questo non potrà che
portarlo ad andare fuori di testa. Ricoverato all’ospedale, il medico lo
riconosce, e lo aiuta ad ottenere il permesso d’espatrio. Ora trovandosi lì
sulla nave, nella partita di Mirko contro il magnate riconosce una delle 150
partite del libro (un classico per gli scacchisti, la partita Alekhine –
Bogoljubov del 1922 con la presenza successiva di tre regine da parte di Alekhine).
Ma quando comincia la sua partita con Mirko, riprende latente la febbre che lo
aveva portato fuori di testa. E se nella prima partita si controlla e vince,
nella seconda Mirko, accorgendosi della progressiva perdita di lucidità
dell’austriaco, rallenta coscientemente il gioco. Il nostro avvocato allora,
parte per la sua tangente, giocando altre partite nella sua testa, ed appunto
non può che sbagliare perché, tornato alla realtà non riconosce la scacchiera
reale. Perché è diversa da quella che aveva in testa. E non può che sbagliare.
Fermarsi. E consentire al narratore di portarlo fuori scena. Come direbbe
Neruda, è tutta una metafora. La partita a scacchi, che sempre è una metafora
del combattimento. L’intelligenza che si deve avere per poter padroneggiare lo
sviluppo dell’azione dei pezzi. Poi c’è lo stolto sapiente, che sa d’istinto
dove muovere, ma deve vederlo. È concreto, rozzo ed essenziale. Ha
un’intelligenza forte, ma settoriale. E Zweig non concepisce (e noi con lui)
un’intelligenza che non sia ad ampio spettro. Dall’altra parte l’intellettuale,
che, per l’appunto, colto e pieno di tante nozioni, parte verso una sua
immagine della storia (della vita, della scacchiera), e non si accorge di cosa
succede nella realtà. Anche perché apprende gli scacchi (la vita) da solo,
senza relazionarsi con l’esterno. E Zweig che era stato un intellettuale a
tutto tondo, grande letterato e grande viaggiatore, non può che sentire i
limiti di questo isolamento intellettuale. Il pessimismo di Zweig non potrà
quindi che portare l’intellettuale a ritirarsi, a farsi da parte, non avendo
mezzi per contrastare la rozza bravura di Mirko. Due mesi dopo la stesura del
romanzo, Zweig, austriaco in esilio volontario in Argentina, non trovando
sbocco alla sempre crescente avanzata delle forze del male (siamo nel 1942, nel
pieno dell’ondata montante del nazismo durante la guerra), si toglie la vita.
“Non è forse facilissimo considerarsi un
grand’uomo se non si nutre nemmeno il sospetto che siano esistiti i Rembrandt,
i Beethoven, i Dante, i Napoleone?” (12)
Helene Hanff “84,
Charing Cross Road” Archinto euro 10
[trama del 4 agosto 2014]
Un
libro che non c’è bisogno di leggerlo per conoscerlo, ma che bisogna leggerlo
per capire perché non si può non amarlo. Perché è un inno ai libri stessi,
all’amore per la carta stampata, per la lettura, per la ricerca di connessioni
tra testi. Ma anche un libro pieno di affetto, di amicizia, di rispetto. Ed una
piccola fotografia in evoluzione di come sia cambiato il mondo stesso, dalla
prima lettera con cui comincia, nel 1949, fino all’ultima, triste ed umana, nel
1970. E chi non conosce il libro, avrà comunque sentito parlare del film che ne
fu tratto, con una magica interpretazione di Anne Bancroft ed una sempre
eccellente di Anthony Hopkins. Entrambi, libro e film, oggetti di culto tra gli
appassionati. È un libro epistolare, che riporta le più significative lettere
scambiate dall’autrice Helene Hanff, per la maggior parte con Frank Doel,
librario antiquario della libreria Marks & Co, sita, appunto, all’indirizzo
del titolo. Helene, amante della letteratura, nonché squattrinata, dopo la
seconda guerra mondiale, trova un’inserzione di libri antiquari acquistabili,
lei abitante a New York, di là dell’oceano, in quel di Londra. Scrive, e comincia
lo scambio tra lei e Frank. Dalle lettere emerge l’amore, di entrambi, per la
carta stampata. La ricerca di testi rari, di connessioni, di edizioni integrali
(che bei commenti sulla Vulgata della Bibbia o su alcune poesie di John Donne).
Emerge in filigrana la vita dell’americana Hanff, che trova anche un suo spazio
nel mondo dei libri. Prima come lettrice di testi, poi come sceneggiatrice di
serial storici, infine anche autrice di libri per l’infanzia. Ed anche quella
del compassato Doel, con la sua famiglia, e la passione per la ricerca della
soddisfazione del cliente (tipico esempio del modo d’approccio di commessi
anglo-sassoni, che sempre mi ha riempito di ammirazione). Ma tra un testo e
l’altro, una citazione e l’altra, le lettere si riempiono anche di altro.
L’inglese le manda la ricetta originale dello Yorkshire Pudding o la
descrizione dell’incoronazione della regina Elisabetta. Helene ribatte con le
partite di baseball dei Brooklyn Dodgers, l’invio di uova in polvere e di calze
di nailon (articoli introvabili nell’Inghilterra del primo dopo-guerra). Gli
inglesi troveranno in Helene una zia lontana cui inviare pensieri e foto ricordo. Helene comincerà a mettere da parte
dollari su dollari per cercare di visitare l’Inghilterra di Geoffrey Chaucer e
di Frank Doel. Miss Hanff sbarcherà effettivamente in Inghilterra, dopo aver
trascorso anni a guardare apposta film inglesi per scoprire come sono fatte le
strade di Londra… Ma il tanto desiderato viaggio si realizzerà purtroppo troppo
tardi. Nel 1969 Frank muore prematuramente a seguito di una peritonite e dopo
poco tempo Marks & Co deve chiudere definitivamente i battenti. Eppure,
quando finalmente riuscirà a entrare nella polverosa libreria che aveva dato
forma e risposta a molti dei suoi desideri, Helene si rivolgerà all’amico tanto
caro e mai conosciuto di persona, commentando, a metà strada tra il rimpianto e
la riconoscenza: “Che ne dice, Frankie, finalmente ce l’ho fatta!”. Il libro,
sottilmente, mai esplicitamente, ma con forza, ci ricorda sempre che dobbiamo
lottare per ottenere quello che desideriamo, senza mai tirarci indietro.
Annullando il tempo e la morte, attraverso l’unico modo sempre valido da
millenni: attraverso la letteratura. Certo, io ora mi domando come si sarebbe
trasformato il libro e tutto il contorno ai tempi di Internet, tra acquisti
online divisi tra Amazon ed e-Bay, amicizie su Facebook, chat su Skype,
pubblicazioni in e-book ed altro. Ma questo potrebbe essere l’inizio di un
nuovo libro e di una nuova trama. In chiusura, devo però dire che, date le
premesse, mi aspettavo uno scatto maggiore, un piacere maggiore della lettura.
Forse perché pieno di citazioni ed incroci, avrebbe avuto bisogno anche di un
più corposo impianto di note e spiegazioni. Per cui alla fine arriva “solo” a quattro
libricini su sei. Certo, comunque un buon voto. Ed un libro (ed un film) da
conservare nella memoria di chi ama la carta stampata.
“Sono una scrittrice senza soldi che ama i
libri.” (1)
Conclusioni
Ripeto, trovo il cancro e la
chemioterapia un argomento troppo serio e troppo vicino per parlarne con la
leggerezza che si fa all’inizio. Quindi faccio ammenda e non parlo della cura e
della malattia. Parlo di questi libri. Ed allora non posso che concordare. Sono
dieci ottimi romanzi brevi, da leggere, se non lo avete ancora fatto. Da rileggere,
se ve li siete scordati.
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