domenica 5 ottobre 2014

Pareggi - 05 ottobre 2014

Siamo a letture di autori con ormai una consolidata presenza (vicina o lontana) nella mia biblioteca. E si pareggiano buone e cattive uscite. C’è un buon Perissinotto, con un testo che esce dalla sua tesi di laurea, diventando un discreto romanzo, e c’è l’ottimo Calvino, con un testo datato ma politico dalla prima all’ultima riga. Dall’altra parte c’è un De Silva che non mi ha convinto alla prima lettura di un libro con questo suo personaggio, Malinconico, che a me lascia freddino, e c’è un altrove buon Morozzi, qui in una delle sue più basse prove.
Alessandro Perissinotto “La canzone di Colombano” Sellerio euro 11 (in realtà, scontato a 8,80 euro)
[A: 08/08/2013– I: 13/05/2014 – T: 15/05/2014] - &&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 206; anno 2000]
Torno dopo quasi tre anni a leggere qualcosa di Perissinotto, i cui casi storici con ombre poliziesche mi avevano intrigato a suo tempo. Qui il nostro scrittore, pur adombrando una trama che potrebbe tingersi di “giallo”, in realtà si imbarca in una piccola ricostruzione storica, di fatti avvenuti nelle vallate torinesi nella prima metà del 1500. Per questo, ne tratto il libro più come romanzo che come mistery, laddove la trama da scoprire e sventare è più un pretesto (anche se importante) per parlare di fatti ed intrecci che ci danno il profumo dell’epoca in cui si sono svolti. Il tutto, poi, parte dalle ricerche svolte dall’autore per la sua tesi di laurea, su canzoni popolari locali ed i loro legami con la realtà e la tradizione. Quella di Colombano, per una serie di motivi non influenti, rimase fuori dal corpo della tesi, ma poi Perissinotto, in base a scoperte successive, decide di poterci costruire sopra ed intorno una trama interessante. Regalandoci così un dignitoso scritto. Tra l’altro, ora corroborato da documenti storici che attestano l’esistenza della trama principale. L’origine della canzone, infatti, deriva dalla grande opera messa in piedi da Colombano Romean, uno scalpellino delle valli piemontesi (non lontane da quella Salice d’Ulzio o Sauze d’Oulx di mia lontana memoria), che fa un patto con i maggiorenti della valle: lui scaverà 500 metri di roccia, e loro gli daranno il sostentamento durante ed un vitalizio alla fine. Su questa base, seguiamo le attività ed i pensieri di Ippolito Berta, un giovane dell’epoca, nativo d’altra valle, preso a ben volere dai predicatori itineranti che pullulavano al tempo, e quindi fatto studiare e diventato amministratore di giustizia (giudice si diceva) per conto della Chiesa. Ha quindi pronunciato i voti, Ippolito, e deve obbedire al suo superiore Prevosto nella valle centrale. Ma non disdegna la compagnia, anche carnale, della bella Margherita. In fondo è prete per sfuggire alla povertà più che per convinzione propria. Ed il giudice Ippolito deve indagare sulla morte della famiglia di Isidoro, quella su per le valli, quella che riforniva viveri ed aiuti al buon Colombano sepolto in miniera. Si accorge subito, Ippolito, di qualcosa di strano: non ci sono ferite di lama, non ci sono segni di malattie d’epoca (del tipo della peste). Da qui parte tutto un giro di ingegni e di sotterfugi per trovare il colpevole e per scagionare l’unica persona accusata del crimine. Appunto il nostro Colombano. Si imbastisce un primo processo, dove Ippolito comincia a scontrarsi con i sindaci locali che mettono bastoni tra le ruote, anche se ha nominalmente il sostegno del Prevosto. Ma le prime accuse verso lo scalpellino sono risibili, ed Ippolito le smonta, anche sulla base del contratto tra il nostro e le autorità. Ma il notaio ha pronto il colpo da maestro. Quando le prime accuse cadono, non trova di meglio che accusare Colombano di essere assassino tramite stregoneria. Questo dovrebbe esautorare Ippolito e chiamare in causa l’Inquisizione. Ma il nostro giudice si impunta. Trova alleato in un sindaco lealista e ribelle, che gli svela alcuni arcani. Trova un prete spretato che vive da eremita ed ha visto qualcosa: un mugnaio che raccoglieva piante velenose e con quelle uccideva lupi. Trova un giovane che lo aiuta a dare la caccia al mugnaio, e ad incastrarlo per la morte di Isidoro. Ma a questa morte il mugnaio fu istigato da altri. Forse quelli stessi che avevano paura di dover rispettare il patto, o che forse avevano in mente altri patti. Ippolito (e noi, facilmente, con lui) capisce chi è il mandante di tutto ciò, e con un ricatto abile per la sua giovane età, si fa donare gioielli e monete in cambio del silenzio e dell’esilio suo e di Colombano. Ippolito non ha fatto i conti con l’onestà del minatore, che rifiuta i soldi, e torna nella valle a scavare il suo “pertus”. Tanto suo, che ancora  oggi dopo 500 e più anni lo si nomina come opera d’ingegneria civile. Ed è ancora utilizzato. Mentre Ippolito rimane con i suoi dubbi, se l’integrità può essere scambiata con qualche moneta. Qui Perissinotto, giustamente, termina la sua invenzione storica, che a noi è sufficiente aver ripercorso la canzone, ed aver ragionato sui dubbi di Ippolito e sull’onestà. La storia andò avanti, tuttavia. Colombano, pare, non prese a godere della rendita, che morì poco dopo. E di Ippolito non si seppe più nulla. Alcuni lo vogliono morto ucciso da briganti, altri lo vedono salvo e ottuagenario riposare in pace. Non è tuttavia questo, quello che conta. Piacevole, infatti, è la ricostruzione dello scrittore. Scorrevole la sua penna. E quando un libro ti fa ragionare anche su un solo pensiero, ha già fatto più di molti altri.
Diego De Silva “Non avevo capito niente” Einaudi s.p. (regalo collettivo Almaviva 2013)
[A: 07/05/2013– I: 14/05/2014 – T: 17/05/2014] - && e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 310; anno 2007]
Mi aspettavo qualcosa di meglio dall’esimio De Silva, che mi piaceva la sua scrittura, anche quando non sempre d’alto profilo, nei primi romanzi napoletani, con quei giovani e quegli sguardi che rimanevano impressi. O la scanzonata divagazione sulle donne, gli aeroporti, ed i primi accenni di quelle filologie sui testi delle canzoni, che, tutti ormai sanno, mi fecero arrabbiare (così mi rubava un’idea che stavo maturando). O il breve racconto sul mancarsi per caso e ritrovarsi per scelta. Qui, facendo la conoscenza di quel personaggio che lo ha reso famoso al grande pubblico, devo dire che sono rimasto deluso. Forse son io che mi aspettavo degli scatti ironici che non ho trovato, ed a volte invece scoprendo frasi e periodi che mi trovano in netto disaccordo. Siamo qui al primo romanzo dedicato al personaggio di Vincenzo Malinconico (forse la cosa migliore, quel cognome). E seguiamo per 300 pagine le sue elucubrazioni sulla vita e sulle vicende umane, mentre si va svolgendo la trama della sua propria vita. Tuttavia non riesco a trovare, nelle sue parole, l’atteggiamento semi-serio, simpatico, coinvolgente, imbranato come ci vorrebbe ammannire la quarta di copertina. Dov’è, riprendendo sempre la quarta, il giovane Holden in tutto ciò? Credo che Salinger si rivolterà nella tomba se qualcuno glielo dice. Insomma, Vincenzo parla e straparla, attraversa le sue giornate senza mai avere un momento di coscienza vera, di presa sulla realtà. Ci si vuol far credere sia emulo di Mr. Bean, ma forse lo vedrei meglio come epigono di Mr. Magoo. Ad occhi chiusi verso le catastrofi, da cui si salva soltanto per puro culo. Tra una parola e l’altra, tra una corsa all’aeroporto e l’altra, ricostruiamo la sua vita. Avvocato da strapazzo, più dedito alle ingiunzioni di basso profilo che ai grandi dibattimenti (certo, non tutti sono dei Perry Mason), Vincenzo è stato lasciato dalla moglie Nives, e sembra patirne la non vicinanza, anche se a momenti alterni hanno ritorni di fiamma (per lo più sessuali). Ha un buon rapporto con la figlia di primo letto della moglie, l’universitaria Alagia (ma da dove viene sto nome?) con cui l’unica cosa che fa è rimpinzarsi di schifezze tra Burger King e catene similari. Ha un figlio con Nives, Alfredo, un po’ stonato, forse gay ma forse no. Sicuramente tendente al masochismo, che spesso viene preso a botte perché va in giro a fare domande ai guappi di quartiere. Non ha un vero studio legale. Si trascina tra le aule dei tribunali a fare cause civiliste. Ha solo un momento di “vera gloria”, quando accetta di fare il patrocinatore gratuito. E gli viene affibbiata la causa di un manovale della camorra. Tralasciando le considerazioni che ne fa, mediamente di senso comune, ma che mi lasciano discretamente freddo, De Silva tratta la camorra più che altro a guisa di macchietta. Certo, simpatica è la figura del buon Tricarico, che si assume il ruolo di guardaspalle del nostro. Anche lui di scarso profilo, che il massimo è girare in vespa per proteggerlo (ma di chi? Da cosa?). E come appunto un esimio Magoo, riesce a far scarcerare Mimmo ‘o Burzone. Infarcendo di parole ed atteggiamenti fuori luogo tutti i dibattimenti. E non accorgendosi che la libertà, a Mimmo, la danno solo per pedinarlo e poi incastrarlo meglio, lui ed alcuni suoi compari. Intanto fa una discreta figura, almeno esteriormente. Tutto infine ruota sui suoi patemi d’animo. Che mentre all’inizio appunto sbavava per il ritorno di Nives, ad un certo punto si invaghisce, pare ricambiato, della bella Alessandra (e come dargli torto? Il nome è una garanzia). Da qui tormenti ed estasi. Non si capisce perché la bella si debba invaghire del nostro, se non, seguendo le sue parole, perché lui la spiazza sempre dicendo frasi ogni volta fuori luogo. Come se ci fosse una profondità, dietro, che io non vedo. L’amore è cieco, o ci vede benissimo. Fatto sta che il nostro Magoo rintuzza il ritorno di fiamma di Nives e si butta a capofitto nella storia con la bella. Innaffiando il tutto di frasi da Baci Perugina ed altri aforismi di serie B. Ci sono solo due capitoli che un po’ si staccano dalla monotonia e dalla banalità del testo. Quando, appunto, parla di testi, come nelle sue migliori prose. E se la prende prima con l’insulso Gilbert O’Sullivan. E poi con la canzone “Scimmia” di Finardi. Ma dieci pagine non valgono a salvare un libro. Che non capsico come mai possa essere arrivato in finale allo Strega (tra l’altro nell’anno in cui stravinse “La solitudine dei numeri primi” di Giordano). Ed altrettanto misteriosamente, abbia fatto nascere due romanzi successivi (“Mia suocera beve” e “Sono contrario alle emozioni”). Spero che qualcuno mi convinca che sto sbagliando, ma per ora Malinconico dovrà malinconicamente tornare sugli scaffali di librerie altrui. Un’ultima considerazione: in un libro tutto sentenzioso, devo rimarcare che non mi è rimasta impressa neanche una frase. Un caso?
Gianluca Morozzi “Chi non muore” TEA euro 10 (in realtà, scontato a 7,50 euro)
[A: 02/12/2013– I: 20/05/2014 – T: 22/05/2014] - &
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 278; anno 2010]
Per me è un libro che si divide in due. C’è un primo libro, di 250 pagine, che, pur non eccelso, ha una sua dignità di lettura, di scrittura, con un giusto mix di cose buone e meno buone. Poi ci sono le ultime 30 pagine circa, che, se secondo l’autore, devono dare senso e corpo al libro, a me lo hanno fatto precipitare nell’abisso degli illeggibili. Non perché non ci possa essere un salto dal razionale ad altro, ma, personalmente, ho trovato la soluzione che Morozzi dà alla vicenda, decisamente fuori dai miei registri. La prima parte, nelle mie considerazioni, scorre decentemente e con un certo grado di coinvolgimento. Dato anche che Morozzi torna sui suoi elementi classici: la musica, i gruppi giovanili, grandi personaggi ignoti, Bologna e le sue strade e pub e altri posti di ritrovo. Nonché quel pizzico di suspense che, ad esempio, mi aveva fatto innamorare di uno dei primi suoi libri da me letti. Il claustrofobico “Black-out”, che ancora ritengo uno dei suoi migliori. Ed in questa parte, seguiamo in prima persona la vicenda che ci narra Angela detta Angie. Studentessa fuorisede a Bologna, molto carina, aspirante cantante, anche se troppo pigra per impegnarsi seriamente nella musica. Divide un appartamentino con quattro odiate coinquiline (divertenti i loro battibecchi, soprattutto con la maniaca della pulizia), è convinta che il suo migliore amico Lucio sia gay, e ha messo in crisi la propria band intrecciando relazioni sia col batterista che con il chitarrista. Si innamora degli uomini in cinque secondi, ha un talento insospettabile per la meccanica, ha curiosità lesbiche mai verificate, ed è stata la bambina-immagine di una famosa merendina. La sua vita cambia il giorno in cui, in sala prove, incontra Mizar: tastierista bellissimo, triste e solitario, di cui, come sua abitudine, si innamora in cinque secondi. Indagando su Mizar, viene a conoscenza di una storia misteriosa e irrisolta: Mizar è l'unico superstite di una band, gli “Inarcadia Ego” i cui membri, molti anni prima, sono stati uccisi uno dopo l'altro, nella stessa notte, in tre punti diversi della città. Mizar si è salvato (e allo stesso tempo ha un alibi di ferro) perché stava suonando a quattrocento chilometri da Bologna. Angie e Lucio iniziano a indagare su questa torbida vicenda, mentre Angie cerca di conoscere meglio il fascinoso Mizar, che viene marcato stretto dalla bellissima, ambigua e seduttiva Valentina. Mizar, vive isolato, in fondo a un sentiero che porta a due case gemelle, una la sua, l’altra di Valentina, che ne è la sorella. A questo punto, per spiegare il mistero della morte della band, della non-morte di Mizar, degli atteggiamenti di Valentina, Morozzi vola nell’irrazionale. E lì, non lo seguo più. Per me, il libro finisce qui. Ho letto le ultime 30 pagine, ma le prendo e le rimuovo. Non le tramo, non le amo, non le capisco. Insomma, zero assoluto. Tanto che Morozzi si prende il minimo dei voti (e forze anche qualcosa meno). Spero che qualcuno abbia voglia di leggerle, queste pagine, di spiegarmele, o almeno di farmi capire perché uno scrittore che ha scritto deliri simpatici alla Black-out e pagine immortali su zio Savoldi, sia scivolato su questa buccia di banana. E pensare che al contrario, tutte le smanfrinate di Angie, le scorribande per Bologna, le sedute in sala incisioni, e buona parte delle battute (comprese quelle di Angie come immagine di merendine quando era bambina) sono un piacevole riscaldamento di momenti tristi. Sarà infine che l’inizio del libro mi ha riportato alla mente l’inizio del divertente film di Aldo, Giovanni e Giacomo, “Chiedimi se sono felice”. Ci si aspettava un andamento parallelo, così come è stato per la prima parte. I tre comici, pur nella serietà della comicità, riescono a dare un senso compiuto a quella prima immagine. Morozzi, purtroppo e mi dispiace, non ce la fa.
“Un uomo con un’intelligenza tale che … se ce l’ha un pesce annega.” (32)
Italo Calvino “La giornata d’uno scrutatore” Mondadori euro 9 (in realtà, scontato a 7,65 euro)
[A: 12/03/2014– I: 26/05/2014 – T: 28/05/2014] - &&&& e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 83+XLV; anno 1963]
E già, che ci sono una prefazione dell’autore alla prima edizione, ed una bella introduzione di Guido Piovene che risultano lunghi più di metà del racconto vero e proprio. Quindi, indichiamoli, che li abbiamo letti, anche se non ne commentiamo, che siamo qui per tramare di Calvino e noi di chi scrive su Calvino. Calvino che, è bene dirlo subito, è una delle mie stelle fisse del panorama letterario. Non sempre alla stessa altezza, ma è uno dei primi autori, che, quindicenne, lessi quasi integralmente (quasi, che questa “giornata” era rimasta fuori ed ora rimedio). Tanto che sapevo quasi a memoria la storia di Agilulfo Emo Bertrandino dei Guildiverni e degli Altri di Corbentraz e Sura. E se voi non sapete chi è, andate cinque minuti in punizione dietro la lavagna. Per poi passare, con gioia scientifico – letteraria, alle Cosmicomiche e a Ti con zero. Nella maturità, poi, avvicinando la sua all’altra imperitura stella di Raymond Queneau, mi innamorai della Letteratura Potenziale, di “Se una notte d’inverno un viaggiatore”. Per finire, ancora una volta imparando a memoria, le “Lezioni americane”. Soprattutto la leggerezza, che spero rimanga sempre accanto a me. Questo era rimasto fuori, anche se segna un punto importante nella storia dell’autore. Una svolta (ma forse meglio una cerniera) tra la passione letteraria e la passione civile. Non è un caso che impiega dieci anni a scriverlo. Non è un caso che, benché agile e corto, sia denso. Di significati, di messaggi, di premonizioni. La trama, in sé, è volutamente semplice: un intellettuale comunista, Amerigo Ormea, passa una giornata come scrutatore durante le elezioni del1953 alla Piccola Casa della Divina Provvidenza "Cottolengo" di Torino, un istituto religioso dove sono ricoverati migliaia di minorati fisici e mentali. Lì Amerigo assiste all'incredibile sfilata dei votanti che sono tutti individui "fuori dalla norma", sono persone malate e con gravi deformità che colpiscono molto il protagonista e lo inducono a una serie di riflessioni e pensieri per lui completamente nuovi. Si chiede se sia giusto che questi uomini possano votare o essere aiutati a votare, si chiede cosa sia l'umano e fino a che punto arrivi l'umano. Ma tutto questo mette in moto una serie di pensieri e riflessioni, che sono il fulcro del racconto. C’è sicuramente la parte politica. Non a caso siamo nel 1953, anno della cosiddetta “legge Truffa”. C’è quindi il rapporto tra il comunista e l’istituzione religiosa. Dove vede sì il ruffiano democristiano arrivato per far carriera sulla pelle dei ricoverati. Ma vede anche i religiosi ed il loro atteggiamento più che umano. E vede l’aprirsi di una crisi nella sinistra, nei battibecchi con una scrutatrice socialista, con cui a volte è solidale, ma spesso anche no. Poi c’è il rapporto privato. Nei pochi momenti di pausa non fa che parlare al telefono con la sua compagna, con cui ha un rapporto lasco, ma presso cui è piacevole, a volte, rifugiarsi. E lei gli annuncia di essere incinta, innescando un’ulteriore riflessione in Amerigo sulla paternità, sull’aborto, su cosa vuole lui veramente. Avvenendo tutta questa crisi tra pubblico e privato, è proprio il drammatico impatto con il Cottolengo che lo costringe ad una riflessione a tutto tondo. Sul senso delle proprie azioni, sulla vita stessa. Ideali e programmi politici, infatti, non hanno nulla a che fare con il dolore e la malattia dei poveri abitanti del Cottolengo e sicuramente non possono essere loro utili. Amerigo, sempre più colpito da questa crisi dei valori, spostandosi tra le corsie, Amerigo scorge due figure che lo colpiscono nel profondo: una suora che dedica la propria vita alla cura dei malati e un anziano padre che passa ogni domenica seduto su una sedia a schiacciare mandorle per il figlio “deficiente”. Da questo momento in poi Amerigo e con lui Calvino, non smetterà più di mettere in crisi le proprie certezze. E quanto altro ci si potrebbe costruire intorno. Quanto possiamo identificarci con Calvino, o meglio con Amerigo. Che non ha caso ha il nome dello scopritore del “Mondo Nuovo”, perché anche noi, con lui, stiamo entrando in un mondo nuovo. E come non sottolineare che il cognome Ormea non è che l’anagramma della parola “amore”! Calvino è sempre una “matrioska” letteraria, in cui nell’apparente leggerezza della scrittura, e nella profonda complessità dei temi trattati, trova sempre di mettere qualcosa in più. Sta a noi scoprirlo, farlo nostro, e ragionarci. Sempre senza certezze, sempre mettendoci in discussione.
“In quegli anni … il petto d’un singolo comunista poteva albergare due persone insieme: un rivoluzionario intransigente e un liberale olimpico.” (29)
“La sua biblioteca era ristretta. Col passare degli anni, s’accorgeva che era meglio concentrarsi su pochi libri. In gioventù era stato di letture disordinate, mai sazio. Ora la maturità lo portava a riflettere ed a evitare il superfluo. Il contrario che con le donne: la maturità gli portava insofferenza, una giostra di storie brevi e balorde che ogni volta si vedeva già che non andava. Era uno di quegli scapoli che per abitudine gli piace far l’amore il pomeriggio, e di notte dormir solo.” (47)
“Cominciò una discussione delle solite … per la sua abitudine a guardare le cose dal punto di vista dell’avversario e la sua riluttanza a esprimere concetti ovvi.” (51)
“Non ammetteva di collegare dei fatti oggettivi come la musica d’un disco a dei fatti soggettivi come il sentimento per chi aveva regalato il disco.” (53)
Siamo alla prima trama del mese, ed ecco allora l’elenco di luglio. Un elenco denso, che si aspettava di partire, non si partiva, ed allora si leggeva. Ma anche di media virtù. Con un poco leggibile romanzo storico di Guido Leoni a chiudere la graduatoria. Ed a guidare tre perle: la storia palestinese di Susan Abulhawa, la storia gay di Armistead Maupin e la storia di Adamsberg come ultimo libro di Fred Vargas.

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Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Arnaldur Indridason
Un doppio sospetto
TEA
10
3
2
Jean-François Parot
Morte in maschera
Repubblica Noir
7,90
3
3
Giuseppe Pederiali
Camilla e il rubacuori
Garzanti
9,90
2
4
Valerio Varesi
Il commissario Soneri e la mano di Dio
Sole 24 ore Noir
6,90
3
5
Elif Shafak
The Flea Palace
Penguin
11
2
6
Anne Perry
Assassinio sul molo
Mondadori
4,90
3
7
Massimo Carlotto
Il mondo non mi deve nulla
E/O
9,50
3
8
Susan Abulhawa
Ogni mattina a Jenin
Feltrinelli
9,50
4
9
Armistead Maupin
I racconti di San Francisco
BUR
10
4
10
Massimo Milone
Milano corri e muori
Sole 24 ore Noir
6,90
2
11
Henning Mankell
Ricordi di un angelo sporco
Marsilio
12,50
3
12
Giorgio Scerbanenco
I sette peccati capitali e le sette virtù capitali
Corriere della Sera
6,90
3
13
Vincenzo Cerami
Un borghese piccolo piccolo
Mondadori
9
3
14
Alessandro Zannoni
Imperfetto
Sole 24 ore Noir
6,90
2
15
Giulio Leoni
La crociata delle tenebre
Repubblica Noir
7,90
1
16
Giacomo Guglielmone
La stagione da Iseo
Sole 24 ore Noir
6,90
2
17
Fred Vargas
L’armée furieuse
J’ai lu
8,70
4
18
Clive Cussler & Jack Du Brul
Oceani in fiamme
TEA
9
3

Oltre al nuovo computer, alle solite letture, al matrimonio di amici e filo-parenti, ed ai loro viaggi di nozze, si pare all’orizzonte anche uno scenario che non dispiace nel cinquantenario di Berkley. Un possibile Vietnam, che da tempo si rincorre. Cominciando a pensarci, vi saluto 

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