Siamo a letture di autori con
ormai una consolidata presenza (vicina o lontana) nella mia biblioteca. E si
pareggiano buone e cattive uscite. C’è un buon Perissinotto, con un testo che
esce dalla sua tesi di laurea, diventando un discreto romanzo, e c’è l’ottimo
Calvino, con un testo datato ma politico dalla prima all’ultima riga. Dall’altra
parte c’è un De Silva che non mi ha convinto alla prima lettura di un libro con
questo suo personaggio, Malinconico, che a me lascia freddino, e c’è un altrove
buon Morozzi, qui in una delle sue più basse prove.
Alessandro Perissinotto “La canzone di Colombano” Sellerio euro 11 (in
realtà, scontato a 8,80 euro)
[A: 08/08/2013– I: 13/05/2014 – T: 15/05/2014] - &&&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 206;
anno 2000]
Torno
dopo quasi tre anni a leggere qualcosa di Perissinotto, i cui casi storici con
ombre poliziesche mi avevano intrigato a suo tempo. Qui il nostro scrittore,
pur adombrando una trama che potrebbe tingersi di “giallo”, in realtà si
imbarca in una piccola ricostruzione storica, di fatti avvenuti nelle vallate
torinesi nella prima metà del 1500. Per questo, ne tratto il libro più come
romanzo che come mistery, laddove la trama da scoprire e sventare è più un
pretesto (anche se importante) per parlare di fatti ed intrecci che ci danno il
profumo dell’epoca in cui si sono svolti. Il tutto, poi, parte dalle ricerche
svolte dall’autore per la sua tesi di laurea, su canzoni popolari locali ed i
loro legami con la realtà e la tradizione. Quella di Colombano, per una serie
di motivi non influenti, rimase fuori dal corpo della tesi, ma poi
Perissinotto, in base a scoperte successive, decide di poterci costruire sopra
ed intorno una trama interessante. Regalandoci così un dignitoso scritto. Tra
l’altro, ora corroborato da documenti storici che attestano l’esistenza della
trama principale. L’origine della canzone, infatti, deriva dalla grande opera
messa in piedi da Colombano Romean, uno scalpellino delle valli piemontesi (non
lontane da quella Salice d’Ulzio o Sauze d’Oulx di mia lontana memoria), che fa
un patto con i maggiorenti della valle: lui scaverà 500 metri di roccia, e loro
gli daranno il sostentamento durante ed un vitalizio alla fine. Su questa base,
seguiamo le attività ed i pensieri di Ippolito Berta, un giovane dell’epoca,
nativo d’altra valle, preso a ben volere dai predicatori itineranti che
pullulavano al tempo, e quindi fatto studiare e diventato amministratore di
giustizia (giudice si diceva) per conto della Chiesa. Ha quindi pronunciato i
voti, Ippolito, e deve obbedire al suo superiore Prevosto nella valle centrale.
Ma non disdegna la compagnia, anche carnale, della bella Margherita. In fondo è
prete per sfuggire alla povertà più che per convinzione propria. Ed il giudice
Ippolito deve indagare sulla morte della famiglia di Isidoro, quella su per le
valli, quella che riforniva viveri ed aiuti al buon Colombano sepolto in
miniera. Si accorge subito, Ippolito, di qualcosa di strano: non ci sono ferite
di lama, non ci sono segni di malattie d’epoca (del tipo della peste). Da qui
parte tutto un giro di ingegni e di sotterfugi per trovare il colpevole e per
scagionare l’unica persona accusata del crimine. Appunto il nostro Colombano.
Si imbastisce un primo processo, dove Ippolito comincia a scontrarsi con i
sindaci locali che mettono bastoni tra le ruote, anche se ha nominalmente il
sostegno del Prevosto. Ma le prime accuse verso lo scalpellino sono risibili,
ed Ippolito le smonta, anche sulla base del contratto tra il nostro e le
autorità. Ma il notaio ha pronto il colpo da maestro. Quando le prime accuse
cadono, non trova di meglio che accusare Colombano di essere assassino tramite
stregoneria. Questo dovrebbe esautorare Ippolito e chiamare in causa
l’Inquisizione. Ma il nostro giudice si impunta. Trova alleato in un sindaco lealista
e ribelle, che gli svela alcuni arcani. Trova un prete spretato che vive da
eremita ed ha visto qualcosa: un mugnaio che raccoglieva piante velenose e con
quelle uccideva lupi. Trova un giovane che lo aiuta a dare la caccia al
mugnaio, e ad incastrarlo per la morte di Isidoro. Ma a questa morte il mugnaio
fu istigato da altri. Forse quelli stessi che avevano paura di dover rispettare
il patto, o che forse avevano in mente altri patti. Ippolito (e noi, facilmente,
con lui) capisce chi è il mandante di tutto ciò, e con un ricatto abile per la
sua giovane età, si fa donare gioielli e monete in cambio del silenzio e
dell’esilio suo e di Colombano. Ippolito non ha fatto i conti con l’onestà del
minatore, che rifiuta i soldi, e torna nella valle a scavare il suo “pertus”.
Tanto suo, che ancora oggi dopo 500 e
più anni lo si nomina come opera d’ingegneria civile. Ed è ancora utilizzato.
Mentre Ippolito rimane con i suoi dubbi, se l’integrità può essere scambiata
con qualche moneta. Qui Perissinotto, giustamente, termina la sua invenzione
storica, che a noi è sufficiente aver ripercorso la canzone, ed aver ragionato
sui dubbi di Ippolito e sull’onestà. La storia andò avanti, tuttavia.
Colombano, pare, non prese a godere della rendita, che morì poco dopo. E di Ippolito
non si seppe più nulla. Alcuni lo vogliono morto ucciso da briganti, altri lo
vedono salvo e ottuagenario riposare in pace. Non è tuttavia questo, quello che
conta. Piacevole, infatti, è la ricostruzione dello scrittore. Scorrevole la
sua penna. E quando un libro ti fa ragionare anche su un solo pensiero, ha già
fatto più di molti altri.
Diego De Silva “Non avevo capito niente” Einaudi s.p. (regalo collettivo
Almaviva 2013)
[A: 07/05/2013– I: 14/05/2014 – T: 17/05/2014] - &&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 310;
anno 2007]
Mi
aspettavo qualcosa di meglio dall’esimio De Silva, che mi piaceva la sua
scrittura, anche quando non sempre d’alto profilo, nei primi romanzi
napoletani, con quei giovani e quegli sguardi che rimanevano impressi. O la
scanzonata divagazione sulle donne, gli aeroporti, ed i primi accenni di quelle
filologie sui testi delle canzoni, che, tutti ormai sanno, mi fecero arrabbiare
(così mi rubava un’idea che stavo maturando). O il breve racconto sul mancarsi
per caso e ritrovarsi per scelta. Qui, facendo la conoscenza di quel
personaggio che lo ha reso famoso al grande pubblico, devo dire che sono
rimasto deluso. Forse son io che mi aspettavo degli scatti ironici che non ho
trovato, ed a volte invece scoprendo frasi e periodi che mi trovano in netto
disaccordo. Siamo qui al primo romanzo dedicato al personaggio di Vincenzo
Malinconico (forse la cosa migliore, quel cognome). E seguiamo per 300 pagine
le sue elucubrazioni sulla vita e sulle vicende umane, mentre si va svolgendo
la trama della sua propria vita. Tuttavia non riesco a trovare, nelle sue
parole, l’atteggiamento semi-serio, simpatico, coinvolgente, imbranato come ci
vorrebbe ammannire la quarta di copertina. Dov’è, riprendendo sempre la quarta,
il giovane Holden in tutto ciò? Credo che Salinger si rivolterà nella tomba se
qualcuno glielo dice. Insomma, Vincenzo parla e straparla, attraversa le sue
giornate senza mai avere un momento di coscienza vera, di presa sulla realtà.
Ci si vuol far credere sia emulo di Mr. Bean, ma forse lo vedrei meglio come
epigono di Mr. Magoo. Ad occhi chiusi verso le catastrofi, da cui si salva
soltanto per puro culo. Tra una parola e l’altra, tra una corsa all’aeroporto e
l’altra, ricostruiamo la sua vita. Avvocato da strapazzo, più dedito alle
ingiunzioni di basso profilo che ai grandi dibattimenti (certo, non tutti sono
dei Perry Mason), Vincenzo è stato lasciato dalla moglie Nives, e sembra
patirne la non vicinanza, anche se a momenti alterni hanno ritorni di fiamma
(per lo più sessuali). Ha un buon rapporto con la figlia di primo letto della moglie,
l’universitaria Alagia (ma da dove viene sto nome?) con cui l’unica cosa che fa
è rimpinzarsi di schifezze tra Burger King e catene similari. Ha un figlio con
Nives, Alfredo, un po’ stonato, forse gay ma forse no. Sicuramente tendente al
masochismo, che spesso viene preso a botte perché va in giro a fare domande ai
guappi di quartiere. Non ha un vero studio legale. Si trascina tra le aule dei
tribunali a fare cause civiliste. Ha solo un momento di “vera gloria”, quando
accetta di fare il patrocinatore gratuito. E gli viene affibbiata la causa di
un manovale della camorra. Tralasciando le considerazioni che ne fa, mediamente
di senso comune, ma che mi lasciano discretamente freddo, De Silva tratta la
camorra più che altro a guisa di macchietta. Certo, simpatica è la figura del
buon Tricarico, che si assume il ruolo di guardaspalle del nostro. Anche lui di
scarso profilo, che il massimo è girare in vespa per proteggerlo (ma di chi? Da
cosa?). E come appunto un esimio Magoo, riesce a far scarcerare Mimmo ‘o
Burzone. Infarcendo di parole ed atteggiamenti fuori luogo tutti i
dibattimenti. E non accorgendosi che la libertà, a Mimmo, la danno solo per
pedinarlo e poi incastrarlo meglio, lui ed alcuni suoi compari. Intanto fa una
discreta figura, almeno esteriormente. Tutto infine ruota sui suoi patemi
d’animo. Che mentre all’inizio appunto sbavava per il ritorno di Nives, ad un
certo punto si invaghisce, pare ricambiato, della bella Alessandra (e come
dargli torto? Il nome è una garanzia). Da qui tormenti ed estasi. Non si
capisce perché la bella si debba invaghire del nostro, se non, seguendo le sue
parole, perché lui la spiazza sempre dicendo frasi ogni volta fuori luogo. Come
se ci fosse una profondità, dietro, che io non vedo. L’amore è cieco, o ci vede
benissimo. Fatto sta che il nostro Magoo rintuzza il ritorno di fiamma di Nives
e si butta a capofitto nella storia con la bella. Innaffiando il tutto di frasi
da Baci Perugina ed altri aforismi di serie B. Ci sono solo due capitoli che un
po’ si staccano dalla monotonia e dalla banalità del testo. Quando, appunto,
parla di testi, come nelle sue migliori prose. E se la prende prima con
l’insulso Gilbert O’Sullivan. E poi con la canzone “Scimmia” di Finardi. Ma dieci
pagine non valgono a salvare un libro. Che non capsico come mai possa essere
arrivato in finale allo Strega (tra l’altro nell’anno in cui stravinse “La
solitudine dei numeri primi” di Giordano). Ed altrettanto misteriosamente,
abbia fatto nascere due romanzi successivi (“Mia suocera beve” e “Sono
contrario alle emozioni”). Spero che qualcuno mi convinca che sto sbagliando,
ma per ora Malinconico dovrà malinconicamente tornare sugli scaffali di
librerie altrui. Un’ultima considerazione: in un libro tutto sentenzioso, devo
rimarcare che non mi è rimasta impressa neanche una frase. Un caso?
Gianluca Morozzi “Chi non muore” TEA euro 10 (in realtà, scontato a
7,50 euro)
[A: 02/12/2013– I: 20/05/2014 – T: 22/05/2014] - &
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 278;
anno 2010]
Per
me è un libro che si divide in due. C’è un primo libro, di 250 pagine, che, pur
non eccelso, ha una sua dignità di lettura, di scrittura, con un giusto mix di
cose buone e meno buone. Poi ci sono le ultime 30 pagine circa, che, se secondo
l’autore, devono dare senso e corpo al libro, a me lo hanno fatto precipitare
nell’abisso degli illeggibili. Non perché non ci possa essere un salto dal razionale
ad altro, ma, personalmente, ho trovato la soluzione che Morozzi dà alla
vicenda, decisamente fuori dai miei registri. La prima parte, nelle mie
considerazioni, scorre decentemente e con un certo grado di coinvolgimento.
Dato anche che Morozzi torna sui suoi elementi classici: la musica, i gruppi
giovanili, grandi personaggi ignoti, Bologna e le sue strade e pub e altri
posti di ritrovo. Nonché quel pizzico di suspense che, ad esempio, mi aveva
fatto innamorare di uno dei primi suoi libri da me letti. Il claustrofobico
“Black-out”, che ancora ritengo uno dei suoi migliori. Ed in questa parte,
seguiamo in prima persona la vicenda che ci narra Angela detta Angie. Studentessa
fuorisede a Bologna, molto carina, aspirante cantante, anche se troppo pigra
per impegnarsi seriamente nella musica. Divide un appartamentino con quattro
odiate coinquiline (divertenti i loro battibecchi, soprattutto con la maniaca
della pulizia), è convinta che il suo migliore amico Lucio sia gay, e ha messo in
crisi la propria band intrecciando relazioni sia col batterista che con il
chitarrista. Si innamora degli uomini in cinque secondi, ha un talento
insospettabile per la meccanica, ha curiosità lesbiche mai verificate, ed è
stata la bambina-immagine di una famosa merendina. La sua vita cambia il giorno
in cui, in sala prove, incontra Mizar: tastierista bellissimo, triste e
solitario, di cui, come sua abitudine, si innamora in cinque secondi. Indagando
su Mizar, viene a conoscenza di una storia misteriosa e irrisolta: Mizar è
l'unico superstite di una band, gli “Inarcadia Ego” i cui membri, molti anni
prima, sono stati uccisi uno dopo l'altro, nella stessa notte, in tre punti
diversi della città. Mizar si è salvato (e allo stesso tempo ha un alibi di
ferro) perché stava suonando a quattrocento chilometri da Bologna. Angie e
Lucio iniziano a indagare su questa torbida vicenda, mentre Angie cerca di
conoscere meglio il fascinoso Mizar, che viene marcato stretto dalla
bellissima, ambigua e seduttiva Valentina. Mizar, vive isolato, in fondo a un
sentiero che porta a due case gemelle, una la sua, l’altra di Valentina, che ne
è la sorella. A questo punto, per spiegare il mistero della morte della band,
della non-morte di Mizar, degli atteggiamenti di Valentina, Morozzi vola
nell’irrazionale. E lì, non lo seguo più. Per me, il libro finisce qui. Ho
letto le ultime 30 pagine, ma le prendo e le rimuovo. Non le tramo, non le amo,
non le capisco. Insomma, zero assoluto. Tanto che Morozzi si prende il minimo
dei voti (e forze anche qualcosa meno). Spero che qualcuno abbia voglia di
leggerle, queste pagine, di spiegarmele, o almeno di farmi capire perché uno
scrittore che ha scritto deliri simpatici alla Black-out e pagine immortali su
zio Savoldi, sia scivolato su questa buccia di banana. E pensare che al
contrario, tutte le smanfrinate di Angie, le scorribande per Bologna, le sedute
in sala incisioni, e buona parte delle battute (comprese quelle di Angie come
immagine di merendine quando era bambina) sono un piacevole riscaldamento di
momenti tristi. Sarà infine che l’inizio del libro mi ha riportato alla mente
l’inizio del divertente film di Aldo, Giovanni e Giacomo, “Chiedimi se sono
felice”. Ci si aspettava un andamento parallelo, così come è stato per la prima
parte. I tre comici, pur nella serietà della comicità, riescono a dare un senso
compiuto a quella prima immagine. Morozzi, purtroppo e mi dispiace, non ce la
fa.
“Un uomo con un’intelligenza tale che … se
ce l’ha un pesce annega.” (32)
Italo Calvino “La giornata d’uno scrutatore” Mondadori euro 9 (in
realtà, scontato a 7,65 euro)
[A: 12/03/2014– I: 26/05/2014 – T: 28/05/2014] - &&&&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 83+XLV; anno 1963]
E
già, che ci sono una prefazione dell’autore alla prima edizione, ed una bella
introduzione di Guido Piovene che risultano lunghi più di metà del racconto
vero e proprio. Quindi, indichiamoli, che li abbiamo letti, anche se non ne
commentiamo, che siamo qui per tramare di Calvino e noi di chi scrive su
Calvino. Calvino che, è bene dirlo subito, è una delle mie stelle fisse del
panorama letterario. Non sempre alla stessa altezza, ma è uno dei primi autori,
che, quindicenne, lessi quasi integralmente (quasi, che questa “giornata” era
rimasta fuori ed ora rimedio). Tanto che sapevo quasi a memoria la storia di
Agilulfo Emo Bertrandino dei Guildiverni e degli Altri di Corbentraz e Sura. E
se voi non sapete chi è, andate cinque minuti in punizione dietro la lavagna.
Per poi passare, con gioia scientifico – letteraria, alle Cosmicomiche e a Ti
con zero. Nella maturità, poi, avvicinando la sua all’altra imperitura stella
di Raymond Queneau, mi innamorai della Letteratura Potenziale, di “Se una notte
d’inverno un viaggiatore”. Per finire, ancora una volta imparando a memoria, le
“Lezioni americane”. Soprattutto la leggerezza, che spero rimanga sempre
accanto a me. Questo era rimasto fuori, anche se segna un punto importante
nella storia dell’autore. Una svolta (ma forse meglio una cerniera) tra la
passione letteraria e la passione civile. Non è un caso che impiega dieci anni
a scriverlo. Non è un caso che, benché agile e corto, sia denso. Di
significati, di messaggi, di premonizioni. La trama, in sé, è volutamente
semplice: un intellettuale comunista, Amerigo Ormea, passa una giornata come
scrutatore durante le elezioni del1953 alla Piccola Casa della Divina
Provvidenza "Cottolengo" di Torino, un istituto religioso dove sono
ricoverati migliaia di minorati fisici e mentali. Lì Amerigo assiste
all'incredibile sfilata dei votanti che sono tutti individui "fuori dalla
norma", sono persone malate e con gravi deformità che colpiscono molto il
protagonista e lo inducono a una serie di riflessioni e pensieri per lui
completamente nuovi. Si chiede se sia giusto che questi uomini possano votare o
essere aiutati a votare, si chiede cosa sia l'umano e fino a che punto arrivi
l'umano. Ma tutto questo mette in moto una serie di pensieri e riflessioni, che
sono il fulcro del racconto. C’è sicuramente la parte politica. Non a caso
siamo nel 1953, anno della cosiddetta “legge Truffa”. C’è quindi il rapporto
tra il comunista e l’istituzione religiosa. Dove vede sì il ruffiano
democristiano arrivato per far carriera sulla pelle dei ricoverati. Ma vede
anche i religiosi ed il loro atteggiamento più che umano. E vede l’aprirsi di
una crisi nella sinistra, nei battibecchi con una scrutatrice socialista, con
cui a volte è solidale, ma spesso anche no. Poi c’è il rapporto privato. Nei
pochi momenti di pausa non fa che parlare al telefono con la sua compagna, con
cui ha un rapporto lasco, ma presso cui è piacevole, a volte, rifugiarsi. E lei
gli annuncia di essere incinta, innescando un’ulteriore riflessione in Amerigo
sulla paternità, sull’aborto, su cosa vuole lui veramente. Avvenendo tutta
questa crisi tra pubblico e privato, è proprio il drammatico impatto con il
Cottolengo che lo costringe ad una riflessione a tutto tondo. Sul senso delle
proprie azioni, sulla vita stessa. Ideali e programmi politici, infatti, non
hanno nulla a che fare con il dolore e la malattia dei poveri abitanti del
Cottolengo e sicuramente non possono essere loro utili. Amerigo, sempre più
colpito da questa crisi dei valori, spostandosi tra le corsie, Amerigo scorge
due figure che lo colpiscono nel profondo: una suora che dedica la propria vita
alla cura dei malati e un anziano padre che passa ogni domenica seduto su una
sedia a schiacciare mandorle per il figlio “deficiente”. Da questo momento in
poi Amerigo e con lui Calvino, non smetterà più di mettere in crisi le proprie
certezze. E quanto altro ci si potrebbe costruire intorno. Quanto possiamo
identificarci con Calvino, o meglio con Amerigo. Che non ha caso ha il nome
dello scopritore del “Mondo Nuovo”, perché anche noi, con lui, stiamo entrando
in un mondo nuovo. E come non sottolineare che il cognome Ormea non è che
l’anagramma della parola “amore”! Calvino è sempre una “matrioska” letteraria,
in cui nell’apparente leggerezza della scrittura, e nella profonda complessità
dei temi trattati, trova sempre di mettere qualcosa in più. Sta a noi
scoprirlo, farlo nostro, e ragionarci. Sempre senza certezze, sempre mettendoci
in discussione.
“In quegli anni … il petto d’un singolo
comunista poteva albergare due persone insieme: un rivoluzionario intransigente
e un liberale olimpico.” (29)
“La sua biblioteca era ristretta. Col
passare degli anni, s’accorgeva che era meglio concentrarsi su pochi libri. In
gioventù era stato di letture disordinate, mai sazio. Ora la maturità lo
portava a riflettere ed a evitare il superfluo. Il contrario che con le donne:
la maturità gli portava insofferenza, una giostra di storie brevi e balorde che
ogni volta si vedeva già che non andava. Era uno di quegli scapoli che per
abitudine gli piace far l’amore il pomeriggio, e di notte dormir solo.” (47)
“Cominciò una discussione delle solite … per
la sua abitudine a guardare le cose dal punto di vista dell’avversario e la sua
riluttanza a esprimere concetti ovvi.” (51)
“Non ammetteva di collegare dei fatti
oggettivi come la musica d’un disco a dei fatti soggettivi come il sentimento
per chi aveva regalato il disco.” (53)
Siamo
alla prima trama del mese, ed ecco allora l’elenco di luglio. Un elenco denso,
che si aspettava di partire, non si partiva, ed allora si leggeva. Ma anche di
media virtù. Con un poco leggibile romanzo storico di Guido Leoni a chiudere la
graduatoria. Ed a guidare tre perle: la storia palestinese di Susan Abulhawa,
la storia gay di Armistead Maupin e la storia di Adamsberg come ultimo libro di
Fred Vargas.
#
|
Autore
|
Titolo
|
Editore
|
Euro
|
J
|
1
|
Arnaldur Indridason
|
Un doppio sospetto
|
TEA
|
10
|
3
|
2
|
Jean-François Parot
|
Morte in maschera
|
Repubblica Noir
|
7,90
|
3
|
3
|
Giuseppe Pederiali
|
Camilla e il rubacuori
|
Garzanti
|
9,90
|
2
|
4
|
Valerio Varesi
|
Il commissario Soneri e la mano di Dio
|
Sole 24 ore Noir
|
6,90
|
3
|
5
|
Elif Shafak
|
The Flea Palace
|
Penguin
|
11
|
2
|
6
|
Anne Perry
|
Assassinio sul molo
|
Mondadori
|
4,90
|
3
|
7
|
Massimo Carlotto
|
Il mondo non mi deve nulla
|
E/O
|
9,50
|
3
|
8
|
Susan Abulhawa
|
Ogni mattina a Jenin
|
Feltrinelli
|
9,50
|
4
|
9
|
Armistead Maupin
|
I racconti di San Francisco
|
BUR
|
10
|
4
|
10
|
Massimo Milone
|
Milano corri e muori
|
Sole 24 ore Noir
|
6,90
|
2
|
11
|
Henning Mankell
|
Ricordi di un angelo sporco
|
Marsilio
|
12,50
|
3
|
12
|
Giorgio Scerbanenco
|
I sette peccati capitali e le sette virtù capitali
|
Corriere della Sera
|
6,90
|
3
|
13
|
Vincenzo Cerami
|
Un borghese piccolo piccolo
|
Mondadori
|
9
|
3
|
14
|
Alessandro Zannoni
|
Imperfetto
|
Sole 24 ore Noir
|
6,90
|
2
|
15
|
Giulio Leoni
|
La crociata delle tenebre
|
Repubblica Noir
|
7,90
|
1
|
16
|
Giacomo Guglielmone
|
La stagione da Iseo
|
Sole 24 ore Noir
|
6,90
|
2
|
17
|
Fred Vargas
|
L’armée furieuse
|
J’ai lu
|
8,70
|
4
|
18
|
Clive Cussler & Jack Du Brul
|
Oceani in fiamme
|
TEA
|
9
|
3
|
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