domenica 9 novembre 2014

Neri nella storia, ultimo atto - 09 novembre 2014

Con queste quattro trame concludiamo la disamina della colonna di Repubblica “Neri nella storia”. Una collana che aveva lo scopo di presentare “noir” ambientati nelle varie epoche, dalla Roma di Daniela Comastri Montanari al Medioevo dantesco di Leoni sino a diversi esempi Ottocenteschi. Qui cominciamo in epoche intermedie, se è vero che il magistrato dell’orientalista Van Gulik si muove intorno al sesto secolo dopo Cristo (ed interessa per l’ambientazione accurata che ne viene fatta), per poi passare al Settecento francese di Parot, all'Ottocento inglese in chiave Austen della Bebris, per finire rimanendo in Inghilterra, ma tornando al 1400 con la Robb. Libri curiosi, non sempre con la stessa riuscita, insomma, benché non al massimo, un piccolo stimolo alla lettura.
Robert Van Gulik “Il paravento di lacca” Repubblica – Noir s.p. (regalo estivo di Mamma)
[A: 26/08/2013– I: 10/05/2014 – T: 13/05/2014] - &&& e ½
[tit. or.: The Lacquer Screen; ling. or.: inglese; pagine: 204; anno 1962]
Approfittando della meritoria collana (anche se non sempre alla stessa altezza) di Repubblica dedicata al Noir nella Storia, ho letto un libro di un autore di cui ricordo letture giovanili quando ancora ero presso il focolare familiare. Al solito, erano libri che frequentava mia madre, e che ha pensato bene di regalarmelo. L’autore, pur essendo facilmente intuibile come olandese, in realtà, scrive in inglese, anche se avrebbe potuto facilmente scrivere anche in cinese, lingua del luogo ove si svolge l’azione narrata. Van Gulik, infatti, nasce nelle colonie olandesi dell’Indocina, vi passa la giovinezza imparando il cinese ed altre lingue locali. Poi, dopo la laurea, prosegue la sua carriera come diplomatico, soprattutto in Cina, per poi morire d’infarto, nel 1967, quando era ambasciatore a Tokyo. La sua notorietà letteraria deriva dai quindici libri (in realtà quattordici più uno) dedicati alla figura del Giudice Dee. Una figura realmente esistita, il magistrato Di Renjie, vissuto sotto la dinastia Tang tra il 630 ed il 700 AD. Ho scritto sopra “più uno”, perché in realtà il primo libro della serie è un testo cinese del 18° secolo, tradotto in inglese da Van Gulik, il quale, innamoratosi della trama, ed essendo studioso del periodo, decide di scrivere nuovi casi per il giudice Dee, appunto gli altri libri. E non è un caso, quindi, che sia ben curata l’ambientazione, eliminando anacronistici ricorsi a elementi soprannaturali, ma descrivendo il modo di vivere dell’epoca, nonché i comportamenti e le situazioni tipiche nel 7° secolo. Dal primo libro, ma anche dalle analoghe scritture di quella parte di “novelle criminali cinesi” note come “gong’an” (cioè “novelle del magistrato”) Van Gulik ritiene anche lo schema di fondo: in genere si tratta di tre casi criminali o criminosi, che s’intrecciano temporalmente ed a volte portando a soluzioni convergenti. Anche in questo caso, abbiamo quindi tre storie: la principale e due parallele. Il Giudice Dee, con il suo aiutante Chao Tai, si ferma in una provincia cinese al ritorno da un convegno nel distretto provinciale, chiedendo ospitalità al magistrato Tang. Questi confessa al giudice di essere ossessionato da un paravento di lacca, dove sono intagliate le quattro stagioni felici di una coppia (Tang e la bella moglie Loto d’Argento). Ma la famiglia Tang soffre di malattie ereditarie para-epilettiche per cui a volte il giudice perde conoscenza. In una di queste crisi, trova modificata verso avvenimenti tragici l’ultima parte del paravento. Dee assiste il giorno dopo ai processi di Tang, dove c’è da dirimere il caso del possibile suicidio del mercante Ko, i cui soldi sono gestiti dal banchiere Leng. Il giudice, mentre cena in una taverna (e questa, oltre alle scene delle locande e della vita quotidiana dei cittadini di basso rango sono delle ottime descrizioni che ci fornisce il nostro olandese), viene coinvolto in avvenimenti strani da parte di un ladro matricolato, Kun-Shan. Avvenimenti che lo portano a contatto con la banda dei malavitosi del distretto, capitanata da un certo Liu detto “Il Caporale” e di cui fa parte il giovane Hsia, detto “Lo Studente”. Vi state perdendo? Non fatelo che ben presto molto convergerà. Lo Studente porta il Giudice a ritrovare il corpo di una donna uccisa, che guarda caso, è proprio la moglie del magistrato (come nell’ultimo pannello modificato). Il ladro poi convince Dee, non sospettando sia un giudice, ad aiutarlo a ricattare il banchiere che, in effetti, stava truffando il mercante. Questo sulla base di un misterioso quaderno di conti. Quaderno che il ladro dice aver trovato nella locanda dove dorme anche lo Studente. Dopo una serie di ben studiate mosse, talmente ad orologeria che ripercorrerle sarebbe quasi leggere per intero il libro stesso, si arriva ad una soluzione dei tre casi. Loto d’Argento, poiché il magistrato aveva problemi sessuali, si era fatta un amante nel pittore Lang-Te, fratello del banchiere. Pittore che però muore di tisi pochi giorni prima dei drammoni. Il banchiere truffava Ko, ma per sbaglio inverte i quaderni dei conti. La moglie di Ko aveva per amante lo Studente che in maniera astuta uccide il mercante e trafuga il quaderno che cade nelle mani del ladro. Ladro che voleva rubare nella casa del magistrato, usando una polvere soporifera che fa addormentare tutti. Ma vedendo nuda e svenuta Loto d’Argento, la stupra e poi la uccide, inducendo il magistrato a credere di essere stato lui. Il Giudice Dee, in una memorabile udienza, svela tutti gli intrecci, punisce tutti i colpevoli. Poi prima di tornare nella sua città, fornisce un ultimo colpo di teatro che da un ulteriore senso a tutto il “drammone”. La bellezza (certo non stravolgente ma dignitosa) del libro è anche arricchita da alcuni disegni originali di Van Gulik, che alla moda dei libri cinesi antichi, illustrano passi salienti del racconto. Alla fine viene voglia di saperne di più di questo mondo, che (come sanno i miei amici viaggiatori) mi affascina ma mi rimane sempre di non facile comprensione. Una piacevole lettura che unisce alla fine poliziesco, storico e geografico. Niente male.
Jean-François Parot “Morte in maschera” Repubblica – Noir euro 7,90
[A: 17/06/2013– I: 30/06/2014 – T: 04/07/2014] - &&& e ½
[tit. or.: L’énigme des Blancs-Manteaux; ling. or.: francese; pagine: 348; anno 2000]
Dopo un paio di mesi torniamo alla meritoria serie dei “Noir della Storia” pubblicati lo scorso anno da Repubblica. Anche questa volta incontriamo un diplomatico, specialista, invece che della Cina, del Settecento francese, il quale durante la sua attività in ambasciata a Sofia (d’altra parte che altro si può combinare in Bulgaria?) nel corso del passaggio del secolo, ha l’idea di creare un personaggio poliziesco che appunto si muova nell’epoca storica da lui ben conosciuta. Ne esce fuori (questo è il primo ma altri ne seguirono) un bell’affresco dell’epoca con quel tanto di suspense che non guasta. Un po’ Le Goff un po’ Simenon, Parot riesce a prenderti soprattutto per la parte storica, mentre la parte poliziesca, pur ben congeniata, non sempre è all’altezza. Qui siamo al primo episodio, si diceva, e quindi facciamo conoscenza dei personaggi, storici o meno, che popolano la storia. Nicolas Le Floch, che è appunto il personaggio centrale, che il suo padrino invia dalla natia Bretagna verso la grande capitale, per permettergli di dare uno sfogo alle sue attitudini, che non avrebbero avuto sbocco nella provincia gretta e rancorosa. A Parigi, Nicolas si mette al servizio di Messieur de Sartine, luogotenente generale della Polizia. E dopo un anno di apprendistato viene coinvolto dal suo capo in un caso veramente complicato. Scompaiono dei documenti forse compromettenti per il re Luigi XV. Il colpevole potrebbe essere il commissario Lardin, presso di cui Nicolas abita. Siamo in periodo di Carnevale, e durante una notte in cui Nicolas è ad un funerale, succedono vari fatti che coinvolgono gente mascherata e che sono di difficile spiegazione. Scompare Lardin, dopo una litigata con il dottor Descart, probabile amante della moglie, in un bordello dove è presente anche il chirurgo Semacgus, amico di Nicolas e probabilmente anche lui amante di madame Lardin. Scompare anche il cocchiere del chirurgo, mentre spesso nell’ombra troviamo a muoversi il losco Mauval, anch’esso probabile amante della Lardin. Da questo punto in poi cominciano a comparire cadaveri a tutto spiano per Parigi e dintorni. Uno quasi fatto a pezzi in una discarica di periferia. Poi il dottor Descart, prima avvelenato e poi colpito con un bisturi vicino al cuore. Nicolas intanto è andato via da casa Lardin, da dove madame Louise caccia anche la cuoca (su cui torneremo) e fa rapire la figliastra Marie. Durante la ricerca di Marie nel bordello di cui all’inizio, Nicolas ha un duello con Mauval e lo uccide. Poi, perquisendo casa Lardin trova un passaggio segreto, dove ci sono i resti di un uomo di corporatura simile al commissario scomparso. Ormai i morti sono una lunga sfilza, ma Nicolas ha trovato il bandolo della matassa, e con un finale tra Maigret e Nero Wolfe, convoca tutti i vivi possibili autori dei delitti presso il comandante Sartine, ed in un bel sottofinale, ricostruisce tutti gli avvenimenti, li spiega ed indica chi ha orchestrato tutto in… Vi piacerebbe che ve lo dicessi? Ovviamente taccio, ma questo è il sottofinale, che si devono trovare i documenti. Cosa che Nicolas riesce a fare, aiutato da una serie di biglietti trovati durante le indagini. Sarà per questo ricevuto a corte ed omaggiato dallo stesso Re. Ma come dicevo, non è tanto l’aspetto poliziesco immerso nell’atmosfera dell’anno 1761 che prende. È invece proprio la minuziosa ricostruzione, e l’unire la finzione con qualche elemento storico (piacevolissimo l’incontro amichevole tra Nicolas e Sanson, il boia di Parigi, nonché anatomo-patologo ante-litteram). Parigi com’era in quegli anni in cui la prigione della Bastiglia era ancora in piedi, e le grandi spianate degli Invalides, della Concorde o di Champ de Mars non avevano le attuali vestigia. Là dove il Louvre era ancora una parte della residenza reale. E soprattutto, nelle viuzze dell’isola, nel quartiere dei macellai tra Saint-Michel e Saint-Germain. La ricostruzione della vita quotidiana, del fango, delle bettole. Ed anche della zona di Blancs-Manteaux, quella del titolo originale, e dove si svolge molta parte della vicenda. L’altra si svolge intorno ai quartieri della polizia, verso lo Chatelet. Per chi conosce ed ama Parigi, un bellissimo viaggio nel tempo. Condito, ed è proprio il caso di dirlo, da una serie di pranzi e cene, in cui Parot illustra le pietanze, e spesso, aiutato dalla cuoca di cui sopra, fornendoci anche la ricetta. Tant’è che nel quinto libro della serie, mi si dice sia presente addirittura un ricettario medioevale. Alla fine, credo che sia un buon libro di questa serie, forse un filo troppo lungo, ma di sicura piacevolezza di lettura estiva.
“Perché le persone erano in difficoltà quando si trattava di esprimere i propri sentimenti?” (282)
Carrie Bebris “Le ombre di Pemberley o Il mistero dell’abbazia” Repubblica – Noir euro 7,90
[A: 09/09/2013– I: 12/09/2014 – T: 14/09/2014] - && e ½
[tit. or.: North by Northanger or The Shades of Pemberley; ling. or.: inglese; pagine: 331; anno 2006]
Un libro per amanti di Jane Austen, o quanto meno per qualcuno che ne ha letto i libri e ne ricorda i personaggi. La scrittrice americana, con un passato come editor di romanzi fantasy, agli inizi di questo secolo comincia a pensare di utilizzare i personaggi e le situazioni di fondo dei libri della Austen per creare una saga di romanzi polizieschi (o almeno con una componente di indagine). Apriamo una piccola parentesi: incuriosito dall’idea, ho fatto una piccola ricerca ed ho scoperto che, dal 1813 ad oggi, ci sono almeno 80 scrittori che hanno utilizzato per qualche motivo i personaggi della Austen, per saghe romantiche, gotiche, poliziesche e perfino splatter (ricordavo, infatti, di aver visto in libreria un certo “Orgoglio e pregiudizio e zombie”, da brivido in tutti i sensi). Ma torniamo a Carrie Bebris. Dopo un po’ di gestazione comincerà con “Orgoglio e preveggenza”, producendo altri cinque titoli. Questo è il terzo, basato, come trama (e come si capisce dal titolo inglese, ovviamente ed al solito tradotto stupidamente in italiano; ora c’è un titolo originale dell’autore ed un sottotitolo: vi sembra normale utilizzate il sottotitolo come titolo italiano?) su “L’abbazia di Northanger”. Ovviamente, non si possono lasciare da parte i coniugi Darcy, che sono gli eroi di tutta la saga. Quindi, per gli amanti della Austen, abbiamo Elisabeth Bennett in Darcy che aspetta un figlio, il marito Fitzwilliam Darcy nonché l’insopportabile zia Lady Catherine, Lydia, la civettuola sorella di Elisabeth, nonché il di lei marito George Wickham. Dalla parte dell’abbazia, vengono introdotti i Tilney ed i Thorpe. Purtroppo non trova spazio Catherine, l’eroina di Northanger, anche se ad un certo punto Henry Tilney fa un accenno all’esistenza di una moglie. Ma la vicenda si svolge dopo i fatti di Northanger narrati dalla Austen, e s’incentra sull’intreccio di una possibile conoscenza tra la defunta Lady Anne, madre di Fitzwilliam, e Helena Tilney, defunta madre dei fratelli Tilney. I coniugi Darcy fanno una visita all’abbazia, pensando di essere ricevuti dai Tilney. Sono invece degli impostori, che mettono poi nei guai Fitzwilliam. Accusato di furto, deve rimanere a Pemberley sotto la guardia dell’odiosa zia. Ma stando nella loro tenuta i nostri avranno modo di esaminare la corrispondenza di Lady Anne, capire cosa si cela dietro il mistero di una statuetta scomparsa, organizzare una festa d’autunno per i villici, ed Elisabeth avrà modo di conoscere meglio il giardiniere ed apprezzare i bei giardini ed i gigli in particolare coltivati dalla defunta Lady. Tra agnizioni e rimembranze si ricostruisce tutta la vicenda. La statuetta faceva parte di una serie di dieci custodite nell’abbazia. Mrs. Tilney, prima di morire, le porta a Pemberley e le nasconde nel giardino. Dove si trova anche la prima, in una scatola di legno con serratura segreta che da ragazzini Fitzwilliam e Wickham cercarono inutilmente di aprire. George se ne ricorda ancora, dopo più di 15 anni, e ne parla con i Thorpe che inscenano tutta una serie di mascheramenti per entrarne in possesso. Anche per che Isabella Thorpe era anche l’amante del Tilney militare, che tuttavia non la vuole sposare. E lei cerca in tutti i modi, alla morte di questi, di riprendersi quanto, ingiustamente, ipotizzava suo. Mettendo nei guai la famiglia Darcy. Che è anche nel pieno di una crisi, dovuta alla gravidanza di Elisabeth, alla presenza di medici incapaci che stanno per perderla, lei insieme alla creatura. Fortunatamente la vecchia levatrice salva tutte e due. Abbiamo così anche la famiglia Darcy allietata dalla nascita di Lily-Anne (in onore della nonna e dei gigli, e se leggete il libro capirete perché). La scrittura è una sapiente mescola di invenzioni e di rimandi alle più note scritture della Austen. Tuttavia solo ben conoscendo tutti i particolari se ne apprezza l’acume e l’ironia. Io ne ho ricostruito parte a ritroso, andando a fare un po’ di scavi nelle memorie in rete su Jane Austen ed i suoi scritti. Recuperando qualche sorriso, che altrimenti non ci sarebbe stato. Senza quelle conoscenze il libro è un po’ piatto. Certo ha la capacità di ricostruire duecento anni dopo atmosfere della campagna inglese, ma non certo in modo sufficiente a farne una lettura di buon livello. Forse un passatempo. Che non lascia molti segni dopo essere passato.
Candace Robb “La croce degli innocenti” Repubblica – Noir euro 7,90
[A: 08/10/2013– I: 25/09/2014 – T: 27/09/2014] - &&& e ½
[tit. or.: The Guilt of Innocents; ling. or.: inglese; pagine: 313; anno 2007]
A quasi un anno dalla fine della pubblicazione della collana dei “Neri nella Storia”, leggo anche l’ultimo libro della serie. Una serie altalenante, con alcuni nuovi autori (cioè nuovi per me) interessanti, ed altri meno. Quest’ultimo risolleva leggermente l’andamento un po’ decadente delle ultime uscite. Anche se è il 9° libro di una serie di 10 romanzi che l’autrice ha dedicato alle indagini del capitano Owen Archer, ed ambientati nell’Inghilterra tra il 1360 ed il 1380. Anzi, più precisamente a York, nel bel mezzo delle guerre e degli antagonismi tra Francia ed Inghilterra stessa. Il valente capitano, offeso ad un occhio, deve lasciare il suo posto di comando. Ma diventa una specie di Maigret del XIV secolo, riprendendo un po’ le atmosfere che abbiamo seguito in tutti i romanzi di Ellis Peters e della saga di fratello Cadfael (anche se questi si muoveva un 200 anni prima). Quindi, anche se entriamo nel romanzo a saga quasi ormai finita, non possiamo non rimarcare la buona resa storica del periodo descritto. In termini di contorni (la guerra, gli spostamenti), ed in termini di vita quotidiana (la città stretta intorno ai monasteri, il potere temporale, le guaritrici, e via discorrendo). Certo, la parte “gialla” è abbastanza diluita e se vogliamo scontata, ma forse è la parte meno saliente. C’è la famiglia Archer, con il capitano appunto, la moglie farmacista di nuovo incinta (e sembra che in quel periodo lo siano spesso, forse mancava la televisione…), i figli piccoli, ed il grande adottato. Ed è lui, il giovane Jasper che è un po’ il perno della situazione. È presente quando il barcaiolo Drogo cade nel fiume, e poi muore (ma di ferite avvelenate). È amico di Hubert cui Drogo ha rubato un portamonete. Accompagna il padre nella missione per ritrovare l’amico. Ed è ancora lui, nel finale, che sarà minacciato e quasi ucciso dal vero colpevole, per essere salvato da Owen, che nel contempo risolve il mistero. Che era della morte di Drogo, e poi di quella di un bieco apprendista orafo. Il tutto ruota non sul dominio di York, ma sulle vicine terre del barone de Weston. Appena tornato, sano e salvo, dall’assedio di La Rochelle in Francia, insieme al fido Aubrey, suo fittavolo. Che è sposato con Ysenda, contadinotta scaltra e piacente. E quindi padre di Hubert, anche se poi si scoprirà il ragazzo essere figlio naturale di… (primo mistero). Il barone torna con una giovane moglie, facendo sempre più preoccupare Osmond, il figlio di primo letto. Perno anche della vicenda, che sembra insidiare spesso Ysenda quando Aubrey non c’è. Il meccanismo scatenante è stata la sottrazione, da parte di Hubert, di una piccola croce d’oro, che dovrebbe aiutare le partorienti (la croce del titolo appunto). Hubert la prende pensando che sia della madre per avere un suo ricordo mentre è lontano a studiare (racconto nel racconto, c’è anche la lotta tra le scuole, quella ufficiale gestita dai preti, che insegna anche il canto e dove vanno Jasper e Hubert, e quella laica gestita da maestro Nicholas, che accetta anche le femmine). Drogo, che era stato amante di Ysenda in gioventù, riconosce la croce e la sottrae ad Hubert. Ma contemporaneamente, facendo loschi affari con il cattivo che si scoprirà alla fine (anche se noi lo si capisce molto prima), questi lo uccide. Come uccide l’orafo cui Drogo aveva mostrato la croce. Come cerca di uccidere Ysenda bruciandole la casa. E sarà proprio il salvataggio di Ysenda che porterà a scoprire gli altarini: il fatto che la donna rubacchiava oggetti nella casa del barone, che Hubert non è figlio di Aubrey, e tante piccole magagne che fanno arrivare Owen alle giuste conclusioni. Ed in un finale un po’ veloce, a mettere tutti i tasselli apposto. Anche la nascita della figlia Emma. Ripeto, un buon plot storico, una discreta caratterizzazione dei personaggi inseriti nella loro epoca (il maestro di grammatica, il balivo, e soprattutto la guaritrice – levatrice) e del modo di vivere di quel tempo (il signorotto, il vescovo, il contadino, gli artigiani), ma non molto altro. Poca la tensione verso il thriller o il mistero. Un prodotto di mestiere, ma di un buon mestiere.
Visto che siamo alla seconda uscita del mese, vi sorbite anche una cura di libri per coloro che (spesso) dimenticano le chiavi in casa e devono aspettare qualcuno che apra loro. Intanto, il viaggio vietnamita continua ad ingrossare le sue fila, anche se, per ora, l’organizzazione procede senza molti intoppi. Vedremo più in là. 

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

NOVEMBRE 2014
Questo mese torniamo a patologie “normali”, o, meglio, a disturbi e modalità per affrontarli. Chi è che non ha dimenticato le chiavi in casa almeno una volta? Ovviamente non tutti hanno la fortuna di avere Sara con le chiavi di riserva a pochi passi...

CHIUSI FUORI, RESTARE

Per passare il tempo mentre aspettate il fabbro, di si­curo avete bisogno di un grande romanzo poliziesco, o magari di spionaggio. Tenetene una pila nella rimessa, in giardino (dove - ehm - fareste bene a tenere anche una chiave di riserva). Magari vi daranno qualche idea per scassinare la serratura.
I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER QUANDO SI RESTA CHIUSI FIORI
Andrea Camilleri       La forma dell’acqua
Vincenzo Consolo      Il sorriso dell’ignoto marinaio
Jean-Claude Izzo      Casino totale
Milan Kundera          Lo scherzo
John Le Carré          La spia perfetta
Nagib Mahfouz         Il ladro e i cani
Raymond Queneau   Zazie nel metrò
Leonardo Sciascia     Il giorno della civetta
Michel Tournier        Venerdì o il limbo del Pacifico
Kurt Vonnegut         Madre notte

Bugiardino

In realtà, di questi dieci libri, ne ho letti ben otto, anche se molti in tempi “pre-trame”. Se devo andare indietro con la mente e con il tempo, ricordo che il primo di questa serie ad essere divorato fu ovviamente Queneau, con la sua splendente Zazie (con quell’immortale “Makifastapuzza” delle prime righe). Poi venne il tempo legato alla fantascienza ed ai suoi epigoni, per cui m’innamorai e lessi tutto Vonnegut, cominciando ovviamente da Mattatoio 5, che per me rimane il suo indiscusso capolavoro, per passare, tra gli altri, anche a questo “Madre Notte” (dove sempre si torna al periodo nazista ed alle sue conseguenze). In seguito venne il tempo dell’impegno, in tutti i sensi. Non poteva mancare, sul fronte politico quindi, Sciascia e la sua civetta. Mentre, sul fronte della cultura, m’impegnai, anche se con scarso successo, a digerirmi mattoni illeggibili, come questo “Venerdì” di Tournier, una rivisitazione del mito di Crusoe, ma che mi ricordo veramente indigesto. Passano gli anni, e si arriva ai romanzi polizieschi moderni, all’amore per il simpatico siciliano, il più presente nella mia libreria (credo di averne una cinquantina di titoli), e fu subito Montalbano, compresa questa “forma dell’acqua”. Si arriva poi alle trame pubblicate. A quella di Izzo, che fu una delle prime, in un Natale di tanti anni fa, dove citai 50 libri da leggere, e, per non rendere pesante la lettura, dedicai poco più di una riga a testa. Non può però mancare il Nobel egiziano, di cui riuscii a leggere un paio di pagine del libro anche in originale. E per finire, il libro di Consolo, finito pochi giorni fa, non ancora tramato in pubblico, per cui qui ne avete un’anteprima.
Jean-Claude Izzo Casino totale Edizioni e/o 8
[trama del 24 dicembre 2006]
Il marsigliese al meglio. Tristezza. Comicità di poveri. Ed una città vera, come oggi è Marsiglia.
Naguib Mahfouz “Il ladro e i cani” Repubblica Novecento euro 4,90
[trama del 01 gennaio 2012]
Strana e contorta la storia di questo libro. Mahfouz è stato uno degli elementi che a suo tempo mi avevano spinto ad iniziare lo studio della lingua araba. Mi piaceva la lettura della Trilogia del Cairo e (tra le tante cose) mi dicevo: pensa che bello sarebbe leggerlo in originale. Ora, dopo tempo e fatica, posso dire che fu un’illusione. Bella ovviamente, che mi ha insegnato poco di arabo e molto di amicizia (vero Paola, Otto, Nico, Rosy, ecc…). E qui torniamo al libro, che proprio in una delle prime lezioni della mia meravigliosa maestra si parlò di letteratura, e di questo libro, che mi affrettai ad acquistare alla libreria araba a Tiburtino. Ovviamente mai letto più di una pagina. Ora, ne leggo la traduzione (ottima di Valentina Colombo), ed il mio giudizio su questo libro si è ridimensionato. In realtà, non è che mi sia piaciuto molto. Certo, Mahfouz tocca alcuni elementi peculiari della sua produzione  letteraria. Soprattutto quello della doppia lettura dello scritto. C’è il racconto, che parla della caduta in abisso di un ladro nel girone infernale del Cairo contemporanea allo scritto (siamo nel ’61). Un ladro ex-studente promettente con idee “rivoluzionarie” che, non trovando sbocchi sociali, si rivolge agli sbocchi privati, di una sua personale lotta contro il sistema a colpi di ruberie. E che viene tradito sia da altri ladri sia dal suo mentore, il professore che gli aveva instillato le idee nuove. Cerca di ribellarsi, cerca di vendicarsi. Ma tutto si rivolge contro di lui. I cani ne avranno ragione, e la sua lotta sarà sterile e lo porterà … Beh questo lo lascio in sospeso che comunque dovete leggerlo, anche se non eccelso. E c’è la lettura in controluce, la critica alla società nasseriana degli squilibri. Adombrando pulsioni verso il nuovo, verso un modo diverso di convivere, verso un ruolo maggiore, più libero della donna. Una critica al sistema corrotto dei giudici e dei mass-media (che al tempo erano principalmente la carta stampata). Una critica che ah quanto sentiamo attuale anche passati ormai ben cinquanta anni. Purtroppo, per la riuscita completa dello scritto, la parte finale la trovo un po’ debole rispetto a tutta la costruzione che Mahran ha fatto degli elementi della sua ribellione. Come irrisolta rimane la sua storia con la sfortunata Nur. Chi legge di arabo mi dice che la forza del romanzo sta nell’uso della tecnica di “flusso di coscienza”, già da tempo utilizzata nei romanzi occidentali, ma che qui viene per la prima volta utilizzata in arabo. Sono, infatti, i pensieri non organizzati ma come vengono in testa a Mahran che Mahfouz cerca di riprodurre. E con efficacia. Tuttavia, il risultato non può che risentire del passare degli anni. Ma in complesso, una lettura interessante, ed anche da consigliare a chi voglia avere visione di un modo interno di riproporre la vita nei paesi arabi, senza le mediazioni occidentali che ne annacquano la visione. Una buona lettura, da portarsi a Zamalek, e sfogliare su qualche terrazzo di pensioni locali.
“Nessun lavoro è meschino, se rispettabile.” (40)
“Egli … dichiara: ‘Approfitterò della tua ospitalità per un lungo periodo.‘ Raggiante, Nur solleva la testa e mormora: ‘Puoi restare tutta la vita, se vuoi!’” (83)
“Talvolta accade che la luce di una lampadina venga oscurata da escrementi di mosche.” (135)
“Questo … gli rivela che …. è ormai una parte insostituibile di lui, al di sopra di ogni aspettativa: è una componente fondamentale della sua inutile vita, sospesa in equilibrio sull’orlo del precipizio. Nel buio, chiude gli occhi e tacitamente confessa a se stesso che ne è innamorato e che non esiterebbe a sacrificare la propria vita pur di vederla tornare.” (143)
Vincenzo Consolo “Il sorriso dell’ignoto marinaio” Mondadori euro 9 (in realtà, scontato a 8,10 euro)
[anteprima del 30 ottobre 2014]
Vincenzo Consolo è stato senza dubbio un intellettuale a tutto tondo nel panorama italiano, forse mai realmente al centro dell’attenzione, con un’aria schiva proveniente da radicate origini sicule (come non ricordare la provenienza da S. Agata di Militello nel Parco dei Nebrodi, non lontano da Capo d’Orlando). Con piacere se ne legge vita e opere nella bella introduzione non didascalica al libro. Tuttavia, il romanzo in sé non mi è piaciuto. Consolo, da intellettuale, scrive di testa e non di pancia (per me, lo scrittore dovrebbe usare entrambe). Anche se, al nocciolo, la storia ha una sua bellezza a prescindere, motivo per cui almeno due libricini di gradimento li merita tutti. Usando un metro che sciacqua il Gattopardo nel lago di Como manzoniano, in modo stringato, seguiamo il percorso personale di agnizione da parte di Francesco Pirajno barone di Mandralisca. Nel 1852 è uno sfaccendato possidente, interessato ad uno studio delle lumache presenti in Sicilia (si propone di scrivere un grande trattato di malacologia), che riesce fortuitamente ad entrare in possesso di un dipinto di Antonello da Messina (“Ritratto d’ignoto marinaio” ora conservato nel Museo Mandralisca di Cefalù). Nella nave che da Lipari lo riporta a Cefalù, incontra fortuitamente un marinaio che ha lo stesso sorriso del quadro. Quattro anni dopo, quel marinaio si presenta a casa del Barone, rivelando di essere in realtà l’avvocato Giovanni Interdonato, uno dei liberali che lottano per la sollevazione della Sicilia dai Borboni. E si trova in quelle terre per incontrare dei cospiratori, con l’aiuto del Barone. Il quale però, non è ancora pronto alla lotta, e fornisce, come si direbbe ora, un aiuto “esterno”. I giovani sobillati dall’avvocato tentano comunque una rivolta, guidata da Toto Spatuzza. Rivolta che finisce nel sangue, con lo Spatuzza venticinquenne fucilato ed altri congiurati in catene. Si avvicina comunque l’anno della rivolta, ed assistiamo allo sbarco dei Mille a Marsala l’11 maggio del 1860, all’avanzata di Garibaldi ed ai colpi di resistenza, città dopo città dei Borboni e dei potentati isolani. In quel di Alcàra Li Fusi, tra Militello e Capo d’Orlando, i braccianti locali vengono spinti all’insurrezione da qualche scalmanato. Il nostro Barone, per studiar lumache, si trova propri in città, assistendo sgomento alla battaglia. Che anticipa e ricorda Bronte e simili azioni. I contadini uccidono una ventina di nobili, e si arrendono all’arrivo dei garibaldini. I quali, invece di accoglierli, li arrestano, li processano e molti ne fucilano in poco tempo. Rimangono un pugno di carcerati che devono essere giudicati in Tribunale. Dove l’ago della bilancia è proprio il sunnominato Interdonato. Sarà il Barone, con un’accorata lettera a convincere la giuria della non colpevolezza dei giovani. Ovviamente, questo scatenerà malumori tra i nobili che, vista la mala parata borbonica, erano anzi tempo riparati sotto l’ala dell’Italia unitaria. Il nostro Barone, come seguendo il percorso a spirale delle sue care lumache, esce dal guscio, abbandona studi sterili, e si dedicherà alla fondazione di scuole popolari. Questa la bella storia, raccontata, ahimè, in un linguaggio di difficile penetrazione, con uso di termini colti, più che dialettali, di ripetizioni, di ricerche di immedesimazioni nello spirito del tempo. Manzoniano, dicevo sopra, che Consolo irrobustisce la narrazione con documenti d’epoca, stralci ed altro, a volte autentici, e spesso leggermente manipolati per seguire l’andamento della trama. E Gattopardo, nell’immancabile vittoria che i nobili e i potenti avranno su braccianti e contadini, cambiando tutto perché nulla cambi. Ecco, lo sforzo è grande, per un piccolo risultato. Capisco che il romanzo abbia attirato la benevolenza di intellettuali per ogni dove, e primo fra tutti Sciascia che ben ne riconosceva l’impegno civile. Tuttavia, la lingua e la modalità di scrittura ne fanno un romanzo strettamente legato al tempo della sua scrittura (per l’impegno della testa profusovi), che letto ora, noi purtroppo abituati sì anche al dialetto siciliano, ma nella versione musicale del Camilleri agrigentino, piuttosto che nelle parlate oscure dei messinesi, risulta di faticosa lettura e di difficile uso. Letto comunque anche sotto la spinta libropatica che voi conoscete bene. E per capire le mie perplessità di lettura, ecco alcune righe casuali di pagina 67:
“Sedette sui gradini. Dalle bisacce pane pecorino fave, acqua dalla zucca. Satollo, sbadigliante, stira e sgranchia per dormire. Luccichio, al vacillare de' moccoli, dei manici di rame del tabuto, piedi a zampe di grifo, impugnatore d'oro a raggera sul manto di velluto nero di sette spade nel cuore di Maria, spalancati occhi d'argento, occhio fisso, occhi, cuori fiammanti, canne a salire e scendere d'ottone sopra l'organo..”

Conclusioni


Qui devo dire che mi trovo in totale sintonia, almeno con l’80% delle necessità terapeutiche. Izzo, Montalbano, Sciascia e probabilmente Le Carré (che non ho ancora letto) avvincono. Mahfuz, Queneau e Vonnegut incuriosiscono e legano alla pagina. Mentre Tournier, Consolo e probabilmente Kundera (per altri libri che ne ho letto) sono talmente in arzigogolo che si farà in tempo ad aspettare il fabbro senza dare in escandescenze. 

Nessun commento:

Posta un commento