venerdì 25 dicembre 2015

Un saggio Natale - 25 dicembre 2015

Non solo perché, per quest’uscita “straordinaria” propongo quattro saggi, ma anche perché sono quattro saggi che ho gradito molto leggere, e che ho riempito di libricini, come vedete. Anche se non sono una lettura omogenea. C’è l’interessante libro di Canfora sul 1914, c’è il coinvolgente libro della giapponese Kondo sul riordino, si parla dell’evoluzione della Grecia (e della democrazia) attraverso una rilettura critica di Omero, si conclude con una serie di analisi sullo stato del mondo attuale (ed anche su alcune proposte operative) di Jared Diamond. Insomma, un Natale in cui, come altrove detto, non spegniamo i nostri cervelli, pur lasciandoci andare ad un cordiale e collettivo augurio.
Luciano Canfora “1914” Sellerio euro 12
[A: 01/10/2014– I: 22/05/2015 – T: 24/05/2015] - &&&&  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 167; anno 2006]
Avevo comperato questo libretto proprio verso la fine dello scorso anno in quanto avevo intenzione, prima o poi, di leggere qualcosa intorno alla guerra ormai centenaria. Cosa che, non avendo fatto in occasione dell’inizio delle ostilità, ho comunque concluso nel centenario dell’entrata in guerra dell’Italia. Non so inoltre se questo sia il libro “giusto”, ma mi ha divertito, anche qui virgolettando. Anche perché non essendo io storico, e non essendolo neanche Canfora (è professore di Filologia Greca e Latina all’Università di Bari) mi sembrava un buon approccio all’anno mirabile. Data anche la ben nota vena di polemista dello stesso Canfora. Ed essendo un libro agile e polemico, probabilmente non tutte le affermazioni fatte sono, sempre, da prendere per buone al 100%. Ma tant’è, ce ne sono molte, anche foriere di discussioni, che me lo hanno reso un libro estremamente godibile. Intanto, per quella domanda iniziale, che riprende quanto avevo accennato in una trama su di un libro di genere del tutto diverso (un romanzo di Fabio Genovesi), dove ci si interroga da dove iniziare per raccontare qualcosa. Ed in entrambi la risposta è ben difficile, forse l’unica quella presa dagli Annales di Tito Livio, che bisognerebbe sempre cominciare dall’inizio del mondo. Che tutti gli avvenimenti si concatenano, creando cause ed accidenti. Ma non avendo tanto spazio, restringiamo, noi e Canfora, ad un più ristretto arco temporale. Che magari affonda nel tempo e nei modi verso gli ultimi trenta anni del XIX secolo, ma che non risale su (o giù) verso il Medioevo ed oltre. Canfora, quindi, per descrivere e parlare del 1914, parla di come inizia quella che chiamiamo Prima Guerra Mondiale, e che, dai manuali di storia e dalla storia tramandata, restringiamo nell’arco temporale “Guerra 14-18”. Tuttavia, mettendoci ora con occhio più lontano, da un punto di vista di cause ed effetti, è probabile che tra qualche secolo la guerra stessa venga dilatata, sicuramente per gli effetti post 1918, ma anche per qualche prolegomeno ante 1914. Sicuramente concordo con l’autore sul fatto che le guerre siano espressione di un più vasto moto, spesso uno sfogo anche per economie in crisi. Ed è per questo che lo scacchiere che si agita nella metà degli anni ’10 è ben complicato. Da un lato c’è la cosiddetta Triplice Alleanza, tra Germania, Austria ed Italia, con l’Italia un po’ coccio tra elefanti, che cerca un suo spazio sia interno (verso le terre considerate italiane di Trento e di Trieste), sia esterno (che da poco si è affacciata sullo scacchiere internazionale, ove tutte le potenze hanno già le loro pedine intorno al mondo, occupando zone strategicamente piene di risorse). E sempre l’Italia è dentro la Triplice pe fare in modo di potersi annettere le risorse libiche. Dall’altra parte ci sono intese bilaterali di mutuo soccorso tra Francia e Russia e tra Francia e Inghilterra. In mezzo c’è l’imminente possibile crollo dell’antico impero Ottomano, che sta implodendo su se stesso, perdendo pezzi, e rendendo golosi i suoi vicini di questi pezzi. In primo luogo la Russia, che cerca in tutti i modi uno sbocco agile verso il Mediterraneo. E subito dopo, tutte le etnie slave che si affacciano sull’Adriatico. Che sono sempre in lotta tra loro. E che hanno appena finito di guerreggiare, ridisegnando un po’ di quelle terre, con i Serbi che si allargano, i Bosniaci che sbuffano, i rumeni ed i bulgari che vanno su e giù nelle alterne fortune. Si arriva così, e ben lo descrive Canfora, al giugno del 1914, con l’attentato che costa la vita al principe ereditario d’Austria, commesso a Sarajevo (in Bosnia) da Gavilo Princip (un serbo, forse solo autore materiale, ma con dietro, chissà?). Qui s’innescano tante vicende sicuramente creanti concause di deflagrazione. L’Austria fa un ultimatum alla Serbia, ma non aspetta la risposta, praticamente innestando contestualmente le procedure di battaglia. La Germania, leggendo la risposta serba all’ultimatum sembra propendere per una soluzione “transazionale” dei conflitti, ma da un lato è travolta dall’impeto austriaco, dall’altro ipotizza uno scenario (colpire la Francia in poco tempo lasciando l’Inghilterra neutrale) che fa gola ai militari teutonici. Peccato che per fare ciò debbano invadere il neutrale Belgio (ma lo fanno con gioia, visto che i poveri fiamminghi si potevano permettere un Congo coloniale precluso ai tedeschi). Peccato inoltre che il Belgio resista a lungo, vanificando lo sforzo inziale, e consentendo agli Inglesi una riflessione che li porterà alla guerra a fianco della Francia, così come con i Francesi si schiera da subito sull’altro fronte la Russia zarista. Ci sarebbe molto altro da dire su tutte le spigolature che tira fuori l’autore. Io rimango solo su di un ultimo (o penultimo) punto. L’atteggiamento dei partiti socialisti in questo fatidico 1914. Era un momento di grande fermento sociale in tutta l’Europa, ed i socialisti stavano avendo sempre maggior peso parlamentare e sociale. Di fronte alle istanze di guerra, ben differenti si rivelano i comportamenti. I tedeschi si schierano per, i francesi cercano una mediazione. Fino all’assassinio del loro leader Jean Jaurés, che li porta alla difesa della patria. Gli italiani per lungo tempo riescono a far prevalere l’astensionismo, guidati dal capopopolo Benito Mussolini. Anche perché il governo Giolitti cerca di capire chi gli può dare maggiori concessioni a fine guerra. Mussolini, e bisognerebbe leggere l’ottimo studio di De Felice per capirne di più, si muta in guerrafondaio, e trascina popolo e governo a quel fatidico 24 maggio. Solo i russi sembrano aver capito meglio le possibili dinamiche, si tirano fuori, per poi lavorare nelle retrovie e preparare la rivoluzione del febbraio ’17. Ma qui scivoliamo in altre discussioni ed altre analisi, che non so fare qui (e non faccio). Ritorno solo allo scritto, ben congeniato, intelligente, con tanti spunti che qualche storico più informato (e capace) saprà meglio di me riprendere. Io mi accontento di aver letto un libro che smuove i pochi neuroni rimasti. E non è poco. L’ultima notazione, come dicevo prima, riguarda il film che Canfora cita e che anche io ritengo uno dei più belli su questa guerra: “Orizzonti di gloria” di Stanley Kubrick.
“È noto che quando in un paese ci sono tensioni sociali, problemi irrisolti, scatenare una guerra è una magnifica trovata per convogliare le tensioni altrove, fuori dal proprio paese, dando un obbiettivo esterno, magari sbagliato e fittizio.” (54)
Marie Kondo “Il magico potere del riordino” Vallardi s.p. (prestito di Alessandra)
[A: 12/06/2015– I: 01/07/2015 – T: 06/07/2015] - &&&&& 
[tit. or.: Jinsei ga Tokimeku Katazuke no Maho; ling. or.: giapponese; pagine: 245; anno 2011]
Questo è un libro indissolubilmente legato ad Alessandra. Glielo regalai conoscendo la sua attitudine all’ordine. E me lo sono fatto prestare conoscendo la mia attitudine al disordine. O meglio la mia scarsa predisposizione a trovare posto alle cose. Devo dire che, con la sua “ingenua” filosofia e le sue regole pratiche mi ha avvinto al di là delle mie aspettative. Certo, non vi aspetterete che io abbia già messo in pratica tutte le regole della vita ordinata secondo KonMari (questo il nome dato alla modalità di ordinamento propugnata dalla consulente giapponese). Ma so dove trovare un elenco di micro-attività che prima o poi cercherò di mettere in pratica. La nostra giapponesina, quindi, infarcisce la narrazione di esempi (anche se molto giapponesi) con l’intento di spiegare come l’atto stesso di ordinare le cose favorisca nelle persone una tranquillità mentale, che poi ricarica tutto il proprio essere. Altro assioma fondamentale di Marie, che condivido in pieno, è che il modo di archiviare gli oggetti (e questo vale in tutti i livelli delle attività umane) non è una qualità innata, una “idea platonica”, ma è un qualcosa che si può studiare e si deve imparare. E sono anche d’accordo, con Marie, con i riordinatori italiani, e gli psicologi, che l’attività di ordinare è un rimedio naturale ed efficacia contro l’ansia. Certo, deve essere affrontato con tutti i crismi. Bisogna, quindi, fare del riordino un vero e proprio avvenimento (regola n.1 della KonMari). La seconda regola fondamentale è forse, almeno per me, una delle più difficili. Liberarsi del superfluo, e questo si può accettare. Ma non è facile accettare di buttare via qualcosa. Sono d’accordo, in linea di principio, che tenere in casa oggetti che in dieci anni non vengono mai presi in considerazione, è un’inutile occupazione di spazio. Ci vuole però coraggio e forza d’animo, nel mettersi davanti ad ognuno di loro, e capirne la reale interazione con se stessi. Saremmo (sarò) mai capaci di decidere che qualcosa non ci sta più veramente a cuore? Facile è la parola d’ordine sbarazzarsi del superfluo. Anche se Marie fa subito un esempio calzante (seppur femminile). Superfluo: aggettivo maschile singolare che denota questa gonna acquistata due anni fa e che ancora porta la sua etichetta con il prezzo. E dopo regole generali, la forza dell’idea giapponese è quella di fare, di iniziare da qualcosa, e di portarla avanti sino in fondo. Ad esempio, prendere gli oggetti della stessa natura, metterli al centro di una stanza, e non fermarsi fino a che non se ne sono esaurite o l’ordine o la decisione di privarsene. Altra, ed ultima, regola fondamentale (ripeto che queste lo sono per me, che forse ce ne sono altre e diverse quando voi leggerete questo libro), è quella di scegliere un posto per ogni cosa. Ogni oggetto può avere, dovrà avere, per noi il suo posto preferito. Un posto cui l’oggetto deve tornare una volta utilizzato. Mentalmente la ritenevo una perdita di tempo, ma tornare a casa, e collocare al loro posto tutte le cose che con noi, in quel momento, si sono introdotte, da un senso alla loro introduzione in casa, ce ne fa capire il loro successivo uso, e ci lascia quello spazio mentale cui il riordino ci sta portando. Per fare, meglio, tutte le altre cose che avevamo in mente di fare da quel momento in poi. Ci sono poi momenti spiccioli, dedicati a singoli momenti di riordino. Per esempio sui vestiti, sulle magliette. Conservarle in verticale e non in orizzontale. Impilate una sull’altra le magliette intristiscono, e quando ci si accorgerà dell’ultima, quella finita in fondo a tutte, e che dopo un anno ci accorgeremo di possedere ma di non aver mai avuto l’idea di indossare. Mettere i calzini in una scatola, arrotondati e non insaccati. Dividere i vestiti non per stagione o per attività (festa, ufficio, sport, ecc.), ma per categoria (abiti, giacche, T-shirt, pantaloni, ecc.). E perché no, e so bene che c’è chi lo fa già, classificarli anche in base al colore. Un suggerimento poi che sto già facendo mio, soprattutto in cucina, e quello di non accumulare barattoli e cosettine con intingoli che prima o poi andranno a male. Meglio avere quantità limitate ma mirate, ed acquistarne eventualmente alla bisogna. Quello che sento veramente giusta è l’esortazione ad avere più spazio intorno. Mi ricordo delle case giapponesi visitate, dove, ad esempio, al mattino arrotolavano il tatami usato nella notte per dormire. Ed anche la stanza da letto riusciva ad avere un suo spazio ed una sua dimensione vivibile ed ordinata. Concludo con l’idea di base, semplice ancorché ingenua, ma efficace. Trasformare i propri spazi per trasformare la propria vita.
 “La conclusione cui sono giunta per rendere meno difficile cosa buttare … l’ordine è questo : prima i vestiti, poi i libri, in seguito le carte, gli oggetti misti e in ultimo i ricordi.” (65)
“Stabilite che cosa conservare in base a ciò che vi emoziona.” (165)
Eva Cantarella “Itaca” Feltrinelli s.p. (prestito di Fako)
[A: 24/10/2014– I: 16/07/2015 – T: 21/07/2015] - &&&&   
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 236; anno 2002]
Da qualche anno mi ronzava in testa la voglia di leggere qualcosa di questa scrittrice, ma più che altro saggista nonché professore di Diritto Romano e Greco antico alla Statale di Milano. Da quando, accostato all’uscita di un saggio di Baricco, vidi negli scaffali di Feltrinelli un libro dal titolo accattivante (“Dammi mille baci. Veri uomini e vere donne nell’antica Roma”). Beh quel libro non l’ho ancora comperato, ma ho approfittato delle periodiche offerte dell’amico Fako, e mi sono accaparrato questo scritto, che è precedente, e che tocca l’altra delle sponde di conoscenza del prof. Cantarella: la Grecia. Cosa di meglio poi che averne in prestito da un cultore del ΌΧΙ moderno qual è il mio caro amico? Ma veniamo, per ora, al saggio. Che non è proprio semplicissimo, in quanto, attraverso un’attenta lettura del testo omerico, cerca di spiegare e dimostrare l’evolversi del mondo antico. Il passaggio cioè da città isolate (mi verrebbe da dire città-stato) con degli ordinamenti interni non codificati e dissimili, a situazioni rapportabili l’una all’altra. Cioè alla nascita di un ordinamento giuridico cui rispondere, per evolvere da un mondo disordinato ad uno quanto meno regolato da consuetudini, se non da leggi. È la nascita del diritto che andiamo seguendo, e questa è la parte che meno mi è facile da digerire. Ma lo facciamo, con la maestria che vi sa mettere l’autrice, seguendo i testi omerici. Ed incentrando la nostra attenzione sulla piccola isola di Itaca. Io non so, e non posso, seguire i vari passi che portano le duecento pagine alla dimostrazione dell’assunto. Non è nelle mie corde. Quello che seguo, e con piacere, sono alcuni spunti ed alcune spigolature. La prima è la a-sincronia seppur coerente di Omero. Il suo racconto, in entrambi i testi magistrali, serve ad illustrare brandelli del mondo che si dovrebbe collocare nel VII° secolo a.C., prendendo e spiegando usi e costumi che, seppur non coevi, comunque fanno parte di una visione complessiva di quel mondo. E non è un caso. Mettiamo ad esempio di collocarci a cinque-seicento anni da oggi. Pensiamo forse di riuscire in quel frangente a distinguere temporalmente la caduta del muro di Berlino, la strage di Srebrenica, la caduta delle torri gemelle, le guerre irachene, la lotta al califfato ed il (possibile) disgregarsi dell’Unione Europea? Così per allora, dove, in una narrazione comunque soffusa dell’alone poetico che l’aedo poteva mettervi per incuriosire i suoi ascoltatori, Omero ci narra momenti diversi che sono però tesi ad un unico disegno. La rappresentazione di quello che è il mondo greco antico, nel momento del passaggio da un’epoca micenea (che si allungo dal XX° al XII° secolo a.C.) ad una dorica (intorno all’XI° a.C.). A me che sono stato un lettore del testo così come fossero piccoli racconti, seppur collegati, rimangono alcuni momenti ed alcune situazioni. L’attenzione posta alla figura femminile nell’Odissea: non è un caso che, contraltare dell’errare d’Ulisse, sono i suoi incontri con diverse figure femminili, ognuna con una sua ben nota caratterizzazione. Vediamo, infatti, Circe (la maga che tenne il vagabondo con sé per un anno, dandogli un figlio, Telegono), Calipso (la bella immortale che ebbe con sé Ulisse per sette anni, dandogli da uno a tre figli), Nausicaa (la giovane che vorrebbe tenere per sé il naufrago, ma che, per amore, convince il padre a dare una nave ad Ulisse per il suo ritorno in patria), Penelope (la moglie fedele, bella ed astuta, ma che non tutti sono d’accordo che aspettò vent’anni Ulisse mantenendosi illibata), tanto per citare i primi nomi che ci vengono in mente. Sempre un passo indietro rispetto all’uomo (siamo pur sempre in una società maschile), di volta in volta designano la fedeltà, l’astuzia (ma quella femminile, più diretta della tortuosa astuzia maschile), l’indipendenza (ed una donna che vive da sola non potrà che vivere vendendo il suo corpo), la morte. Solo chi poi conosce a fondo tutti i testi omerici poteva darci una descrizione così esauriente e viva dello scudo d’Achille (di cui si narra nell’Iliade), utilizzando il secondo cerchio di figure per tratteggiare e dilungarsi su due aspetti fondanti della civiltà greca: un matrimonio ed un processo. E su quest’ultimo che copre i versi dal 690 al 706 del 18° libro che si sviluppa a pieno l’estro di Eva Cantarella. Partendo dalla scarna descrizione, ne fa un racconto avvincente, sia del testo (che vede una contesa per il risarcimento di una morte) sia del contesto (che da quella veleggia verso l’amministrazione della giustizia, e la nascita, qui si reale, del diritto). Non torno e non mi dilungo d’altro, che tanto si avrebbe da narrare, così come faceva il non vedente Omero. Di Telemaco, di Alcinoo, di Anfinomo, dei supplizi di Tantalo e di Sisifo, di Briseide (l’elemento scatenante dell’ira funesta, ve lo ricordate?). E di tanti altri. Io mi fermo qui. Chi è dotto (ed io non mi ritengo tale a tutto tondo, ma solo settorialmente), chi sa di greco (ed io non sono sicuramente tra questi), potrà godere anche del ricco e ben documentato corredo di note al testo. Noi si è letto come un bel racconto, che ci serve per capire un po’ di come si è evoluto il mondo, sperando di usare le stesse armi per capire il nostro mondo attuale. E soprattutto di questa Grecia di oggi, che da quella omerica comunque discende. Ma anche l’Egitto viene dai faraoni. Si potrebbe aprire un dibattito?
Jared Diamond “Da te solo a tutto il mondo” Einaudi euro 13 (in realtà, scontato a 9,75 euro)
[A: 27/07/2015– I: 16/08/2015 – T: 19/08/2015] - &&&& +
[tit. or.: originale; ling. or.: inglese; pagine: 126; anno 2014]
Non pensate né ad un mio errore né ad una contraddizione. Il titolo è quello originale di una serie di lezioni che il professor Diamond ha tenuto alla Luiss di Roma nel 2014 in lingua inglese. Lezioni qui raccolte in volume, ma mai pubblicate in patria (oppure, ancora non pubblicate). Venendo allo specifico, avevo sentito parlare di Jared Diamond da un mio viaggiatore avventuroso, e da allora cercavo un modo di leggerne, anche perché ne avevo visto in libreria e mi sembravano volumi troppo ponderosi per le mie scarse capacità. Questo, al contrario, mi ha affascinato per la sua brevità. E quando nel risvolto ho scoperto che l’autore è professore di geografia. Amore a prima vista, allora. Confortato da una lettura che si è rivelata agile, nonostante la non semplicità della materia. In queste lezioni, l’autore cerca di spiegare e di spiegarci, alcuni grandi interrogativi, mutuati dalle scienze sociali, ma che attanagliano tutti, in questo nostro attuale mondo globale. E lo fa partendo dalla sua esperienza di geografo, cosa che a me già da un brivido di piacere, anche se, da geografo, si occupa di ornitologia, materia a me completamente aliena. Eppure i sei capitoli sono facili di comprensione, forse a volte perché si semplifica qualcosa (d’altra parte stiamo parlando di lezioni orali, quindi con tutti i possibili tagli che ne possono conseguire). Ma c’è un discreto apparato bibliografico per approfondire i vari temi. Da buon parlatore, Diamond affronta il primo argomento (le ragioni del divario tra paesi ricchi e paesi poveri) con esempi semplici ma efficaci: perché l’agricoltura si sviluppa in modo differente tra le fasce tropicali e quelle equatoriali? La difficoltà di coltivazioni porta ad uno studio sull’accumulazione che non si sviluppa laddove tutto sembra nascere dal terreno e senza sforzo. Non scadendo, fortunatamente, nel banale razzismo del negro indolente, ma circostanziando con dovuti esempi le sue affermazioni. Altrettanto semplice, se vogliamo, è la disamina sulle istituzioni nazionali. Laddove sono affidabili e “degne di fede”, là meglio si sviluppa una coscienza sociale e nazionale. Si affronta poi la visione di un paese emergente come la Cina, senza cercare di risolvere tutto in poche righe, ma anche qui cercando di sviluppare una consonanza tra geografia terrestre e geografia politica. Uno speciale capitolo quasi di “psicologia politica”, ci mette una pulce nell’orecchio. Ognuno di noi ha affrontato, affronta problemi personali. Per superarli utilizza i propri mezzi, le proprie peculiarità. Con alcuni esempi ben mirati, Diamond generalizza il problema, consigliando (o facendo vedere come) alcune crisi nazionali siano state affrontate e risolte proprio utilizzando quell’ottica personale, anche se a livello paese. I due capitoli finali della disamina mi hanno coinvolto meno, sia nello specificare come affrontare i rischi in maniera salvifica (solo il bell’esempio dell’accampamento “pericoloso” mi è stato d’aiuto) sia nello sviluppare modalità personali per proteggere la qualità della propria vita. Come molti degli scrittori che analizzano l’esistente, anche quelli che io amo come il grande Baumann, Dared non propone, né può farlo, delle ricette risolutive, dei modi di svoltare e di avviarsi ad un futuro migliore e/o più sostenibile. Tuttavia ha l’onestà di mettersi in gioco, proponendo tre terreni, dove, secondo la sua personale ottica, si gioca il prossimo futuro del nostro mondo. Dared individua come principali problemi odierni. I cambiamenti climatici (e come non dargli torto, visto gli ultimi mesi pazzi del clima che stiamo vivendo), le disuguaglianze (ed anche qui, ho una sola parola per riassumere tutto quanto si sta soffrendo: migranti), e la gestione delle risorse naturali. Spenderei una parola in più proprio per quest’ultimo punto. Ricordando, come fa l’autore, la decadenza verticale di alcuni grandi popoli che, sfruttando senza senso le loro risorse al momento disponibili, sono, da un giorno all’altro, completamente collassati. E parlo dei Maya in America Latina o dei Khmer in Asia. Laddove ci sono detentori del potere (economico e politico) che continuano a fare il proprio comodo senza vedere al di là del proprio naso, pensando al proprio tornaconto personale, e senza, in ultima, avere di fronte lo spauracchio di un’adeguata e giusta punizione alle malefatte che stanno perpetrando, non avremo modo di fare (noi e la nostra terra) quella svolta che è urgente ed imprescindibile. È insomma, un libro talmente breve che ad ogni pagina ci sarebbe da discutere e da comprendere. Anche da dibattere, che non sempre è tutto giusto, non sempre si può concordare con alcune affermazioni fatte (credo) anche per amore di platea. Ma ben vengano libri che fanno discutere e che si possono discutere. Che fanno pensare, anche mettendoci sotto gli occhi situazioni che ci sembrano ovvio, ma che dobbiamo fermarci per capirne la più lunga portata. Forse alla fine, non saremo allora così più “soli” ad affrontare i mali del mondo. Anche se, come ci insegnava il grande di Barbiana, sempre e comunque da noi si deve partire. Se non siamo noi in prima persona a comportarci come pensiamo che si debbano comportare gli altri, faremo veramente pochi passi avanti.
“È quindi auspicabile che gli Stati Uniti e i paesi del Primo Mondo, Italia compresa, si rendano conto quanto sia meno dispendioso e più efficace aiutare i paesi poveri a risolvere le loro difficoltà economiche, piuttosto che combattere in eterno contro problemi sostanzialmente senza soluzione.” (22)
Avete ormai capito che approfitto delle due feste “comandate” per recuperare i libri curativi che, per ragioni varie, ho saltato di menzionare nel giusto tempo. E così avviene anche oggi, in occasione di questa ricorrenza natalizia, dove ci aspettano feste collettive, feste personali, viaggi e viaggetti. 

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

NATALE 2015
Approfitto di questo piccolo “buco temporale” festeggiante, per recuperare alcuni nuovi autori di cure già descritte. Perché la mia biblioteca aumenta di libri (ma ci sarà una cura per questo?), e qualche volta s’inizia a leggere, per queste cure, qualcosa che, come malattia ho già descritto.

RECUPERO DI LIBRI LETTI PER CURE GIÀ DESCRITTE

  1. Cancro
Fred Uhlman                                L’amico ritrovato
  1. Divorzio
Richard Ford                                Sportswriter

Bugiardino

Non torno sulle malattie, ricordando solo, ai pochi disattenti lettori che il cancro è stato trattato nella CURA di Ottobre 2014 ed il divorzio nella CURA di Maggio 2015.
Fred Uhlman “L’amico ritrovato” Feltrinelli s.p. (nella biblioteca di mamma)
[trama pubblicata il 19 luglio 2015]
Un po’ strana la storia di questo libro. Lo avevo letto una trentina di anni fa, e poi lasciato a depositarsi di polvere nell’enorme biblioteca paterna (ora solo materna, purtroppo). In partenza per il primo giro asiatico, in cerca di librini agili, che non occupassero troppo spazio, mi è capitato tra le mani, ed ho deciso di aggregarlo al viaggio. E bene ho fatto, che, in due giorni pieni di tosse, nel ritemprarmi da fatiche sui monti del Vietnam del Nord, l’ho riletto e nuovamente trovato di un ottimo livello, di scrittura e di contenuti. È una storia da anni trenta, tutta interna alla Germania, ed ai suoi sentimenti, che si svolge quasi completamente a Stoccarda nel 1932. Narrata in prima persona da Hans Schwarz, ragazzo ebreo di sedici anni, famiglia alto borghese, tranquilla e rispettata, dalle idee aperte e quasi incurante della propria identità ebraica. In una pagina, infatti, si capisce come loro si sentano prima di tutto svevi, poi tedeschi e infine ebrei. Una famiglia che vive rapporti pacifici con tutte le comunità religiose locali. Durante la seconda metà dell’anno scolastico entra nella classe di Hans, il nobile Konradin von Hohenfels. Con i suoi modi altezzosi, Konradin intimidisce e attrae tutti i ragazzi. I special modo Hans che vorrebbe diventargli amico, cercando mille modi per attirarne l’attenzione. Finché, inaspettatamente, Konradin rivolge la parola ad Hans, iniziando una forte amicizia. Sono entrambi figli unici, nessuno dei due ha mai avuto un vero amico, ed entrambi si sentono profondamenti soli. Piccolo inciso, è bello fare un parallelo con i sentimenti che rivela il ragazzo Bassani in “Dietro la porta”, anche se poi vicende e modi letterari sono ben diversi. Tornando alla storia, Hans da allora invita spesso Konradin a casa sua, aprendogli cuore e famiglia. Mentre non avviene l’analogo da parte di Konradin, che, quando lo fa entrare nella sua magione, è sempre quasi di nascosto, e quando non ci sono i genitori. Il motivo principe è l’odio feroce che la madre del nobile ha verso gli ebrei, in questa assecondata dall’innamorata anche se ignavo marito. E quando capita, in un teatro, che Hans incontri Konradin insieme ai genitori, questi lo ignora. La loro amicizia, da questo momento, si avvia a rotta di collo verso la rottura. accentuata e corroborata dalla graduale intrusione dell'ideologia nazionalsocialista nella vita scolastica. Quando l’anno successivo Hitler prende il potere, tutta la situazione, sociale e scolastica si deteriora in maniera irreparabile. Hans viene spedito in America da degli zii, dove rimarrà per sempre, studiando, laureandosi e facendo la sua vita lontano dalla patria. La famiglia di Konradin rimane invece (come ovvio) a Stoccarda. Dove rimaneva anche il padre di Hans, che, alla vista dell’antisemitismo montante, quasi uno Stefan Zweig ante-litteram, decide di togliersi la vita. La storia salta verso la vecchiaia di Hans, che viene raggiunto da un opuscolo che vorrebbe adoperarsi per la costruzione di un monumento agli ex-alunni del suo Ginnasio di Stoccarda. Qui assistiamo ad una feroce lotta con se stesso del nostro, che legge e ripercorre con la memoria i nomi dei compagni amati e odiati. Con una resistenza che vince solo a fatica per arrivare a sfogliare la lettera H, dove alla fine trova il nome di Konradin: giustiziato perché coinvolto nel complotto organizzato per uccidere Hitler, in quella che fu chiamata “Operazione Valchiria” del 20 luglio 1944. Qui, non senza qualche lacrima, il nostro Hans ritrova il suo amico di gioventù. Lo trovata ancora una storia intensa, e sempre leggibile a distanza di anni. Con quel tocco problematico in più, che affianca il tema dell’amicizia tra adolescenti e di tutti i problemi che questa comporta, derivante dal contesto in cui viene inserita la trama. Alla fine anche noi ritroviamo i nostri amici, Konradin (anche se sempre un po’ altezzoso), Hans ma soprattutto Fred, l’autore con tutte le sue problematiche di tedesco ed ebreo fuggito anche lui nel ’33 (ma aveva già più di trenta anni) ed il suo errare per il mondo alla ricerca (ritrovandola) della sua identità.
Richard Ford “Sportswriter” Feltrinelli euro 9
[trama pubblicata il 2 agosto 2015]
Giusto una settimana fa ne parlavo nel supplemento sulle “Cure”, dove questo libro veniva citato come esempio – modello da non seguire, rispetto al grande problema del “divorzio”. Già in quella sede espressi i miei dubbi su come veniva affrontato l’argomento. Ed anche ora, dopo la lettura del libro dell’oramai settantenne Ford (ma quando scrisse il libro ne aveva solo 42), rimango dell’idea che sul divorzio si debba e si possa dire altro. Ma questo non è solo un libro sul divorzio, è un libro sulla grande “fatica” di essere americani. Il protagonista riesce ad incarnare tutti i modi negativi in cui si può presentare “lo spirito americano”. Nei rapporti con gli altri, con le donne, con i figli, con la morte, con la vita. Insomma con tutto. E da questo punto è un libro esemplare (anche se datato, ma i trent’anni si sentono poco). Ma, esauriti gli spunti, il racconto si prolissa per pagine e pagine. E devo dire che ho impiegato quasi due settimane a leggerlo, cosa che qualcosa vorrà pure dire. Frank Bascombe, l’io-narrante delle quasi 400 pagine, è appunto un tipico americano, che vorrebbe sotterrarsi in provincia, vorrebbe non pensare, vorrebbe avere una vita tutta tv – barbecue – lavoro (anche non molto complicato) – qualche avventura con donne compiacenti (e piacenti). E sembra che, con qualche aggiustata, ci stia riuscendo. Da giovane scrisse una serie di racconti con un piccolo successo di critica. Poi cerca il “grande passo” verso la scrittura professionista. Ma molti hanno un solo libro dentro, e Frank forse neanche quello. Allora, ricerca della minima resistenza: matrimonio con la bella signorina X (non è che non ricordo il nome, ma è indicata così per tutto il libro), ripregarsi a scrivere per una rivista di sport (da cui il titolo), e qualche figlio. Qui il nostro normo americano comincia a grippare il suo motore: il figlio maggiore si ammala della sindrome di Reye (malattia infantile dall’esito quasi sempre letale), lui sembra fermarsi a guardare, anche se ha una famiglia ed altri figli, e continua a tradire la moglie. Ma lo fa sempre con quella noncuranza di chi forse non è che sia proprio lì. Ma X alla fine lo manda a ramengo. Pur rimanendo discretamente amici. Pur continuandosi a vedere nell’anniversario della morte di Ralph. Frank cerca di avere un rapporto anche con i figli rimasti, ma sembra sempre essere un passo al di qua della normalità. Tanto che frequenta una “lettrice di futuro” (altra follia americana). E tenta di avere anche altre storie. Lo seguiamo in un viaggio fallimentare a Detroit con un’infermiera anche lei divorziata. Lui nei rapporti non ci mette la testa, ed anche questo è destinato al fallimento. Nella sua prolissa auto-esposizione lo seguiamo da un lato nel ripercorrere momenti della sua vita (incontri, viaggi, i racconti che potevano dargli la fama ma che poi non hanno seguito, il tentativo di insegnare, anche questo senza partecipazione e con il solito finale negativo). E dall’altro ricostruirne alcuni attuali, come il tentativo di intervista ad un campione sportivo ridotto su di una sedia a rotelle. Poteva essere un momento di riflessione (su di sé, sullo sport, sulla vita). Diventa l’esempio dell’ennesimo andamento fallimentare della sua vita. Certo scriverà qualcosa, ma tutto lunga lo linea di minimo sforzo, di minima rottura. Lui ritorna sempre a X, a Ralph. Insomma a tutto quello che poteva essere e non è stato. Ma non si domanda mai, non arriva mai ad interrogarsi su cosa lui potesse fare di diverso, su come lui potesse e dovesse cambiare la propria vita. C’è anche un inciso con lo strano rapporto con un altro divorziato, latentemente gay. Ma ne prenderà coscienza Frank che lo può aiutare? Nulla e sempre più nulla. Arriviamo alla fine di queste quasi 400 pagine con Frank che sta lì a rintontirsi con false idee sul suo futuro. Riuscirà a trovare un affetto? Vivrà ancora in quella cittadina? Continuerà a scrivere di sport, anche se si è stufato? Noi ci siamo un po’ stufati di Frank, delle sue paturnie e dell’irrisolutezza che Ford instilla in tutto il romanzo. Una fotografia della realtà americana, quando ci allontaniamo da Obama e dai palazzi del potere e vediamo la vita reale? Forse, ma ne abbiamo visti esempi migliori e più coinvolgenti. E certo, come manuale per un divorzio ben guidato, abbiamo letto senz’altro di meglio.
“Avevo idea di scrivere un romanzo da quando avevo letto i diari di viaggio di Joshua Slocum.” (42) [Nota mia: Slocum è il primo viaggiatore in solitario, il primo a circumnavigare il globo dal 1895 al 1898]
“Ormai avevo scritto tutto quello che potevo scrivere … Se gli scrittori che se ne rendono conto fossero di più, ci sarebbe risparmiata una quantità di brutti libri e molte più persone vivrebbero una vita più felice e meno improduttiva.” (43)
“Qual è la vera misura dell’amicizia? … Ammonta esattamente alla quantità di tempo prezioso che si sciupa per ascoltare le sventure e i casini altrui.” (104)
“Ho letto da qualche parte che se un Toro dice che ti ama bisogna credergli.” (134)

Conclusioni

Non ne traggo neanche particolari conclusioni, ricordando solo che Uhlman raggiunge (e quasi supera) i quattro libricini di giudizio mentre Ford non ne raggiunge neanche due (diciamo due meno, meno). Inciso di metodo, quando indico pubblicata, è una trama uscita nelle settimanali. Altrimenti ne indico la data di scrittura.

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