E stiamo arrivando (quasi) anche
al finale di quest’altra grande collana di gialli del Corriere della Sera, nata
all’insegna del grande Scerbanenco. Di cui abbiamo una raccolta di racconti,
fulminanti da poco più di un paio di pagine ciascuno. Contornato da due
epigoni: Porazzi di cui abbiamo già conosciuto ed apprezzato Alex Nero, e Paolo
Roversi con due prove, una dignitosa ed una, come vedrete dal commento, che non
mi ha convinto.
Pierluigi Porazzi “Nemmeno il tempo di sognare” Corriere della Sera 28 euro
6,90
[A: 03/06/2014 – I: 11/05/2015 – T: 13/05/2015] - &&&+
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 341;
anno 2013]
Come
immaginavo Porazzi (e Udine) tornano alle mie letture. Se da un lato ripeto un
po’ quello che ne scrissi, dall’altro qualcosa è cambiato. Non c’è molta Udine,
anche se la città è presente, come lo è il Friuli e quella Slovenia che ne è
legata. Qui, svincolati dalle costrizioni geografiche, ci si concentra sulla
trama. Che anche qui è ben complessa, anche un po’ ingarbugliata a tratti. Ma
questo è un po’ il metodo dello scrittore. Si mette molta carne al fuoco, e si
cerca, bene o male, di vedere che ne esca tutta ben cotta. Cosa che qui riesce
meglio della mia prima lettura delle vicende di Alex Nero. Anche se, alla fine,
qualcosa rimane sospeso. Forse anche soltanto per darci modo di poter gustare
una nuova storia della serie. Dicevo una storia ben complicata, come lo è la
vita odierna, dove molti sono i livelli che s’intrecciano. Qui si parte
dall’uccisione di una trans, soprannominata Barbie. E subito capiamo che c’è di
più. Barbie filmava i clienti, e, quelli danarosi, erano anche sulla via del
ricatto. Barbie lavora in coppia con un’altra trans, Chantal, che però alla sua
morte sparisce. Vediamo anche subito altri contorni. C’è il dottor Greco, un
trafficante d’alto bordo (di armi, droga e prostitute) con i suoi bei
poliziotti corrotti alle dipendenze. C’è il politico di turno, con le mani tra
il dottor Greco e la questura. C’è l’Interpol che cerca di infiltrare un suo
uomo nelle trame di Greco. Uomo che si rivela essere l’ispettore Cavani,
incaricato anche delle indagini su Barbie. Indagini condotte dal giudice
Martello, onesto, solitario, e forse irretito da qualche signorina poco
affidabile. Indagini dove entra di forza Alex, poiché ne viene accusato un tal
Stefano, e la di lui famiglia chiede al nostro bel tenebroso di occuparsene.
Poi ci sono due misteriosi esseri che sanno molto, e che molto fanno. Uno soprannominato
Taipan, che sta sulle tracce di Greco, e uccide una serie di scagnozzi del
losco individuo, nonché il contabile, per risalire ad un misterioso CD con la
documentazione delle di lui malefatte. L’altro, già presente anche nella prima
storia letta, è detto il Profeta, si aggira nell’ombra per l’alta Italia,
spesso in guisa di barbone. Ma quando serve (e i protagonisti lo avevano già
usato in passato) si fa vivo. E come in Tarantino, “è uno che risolve i
problemi”. Le indagini e le storie si accavallano, si fa vivo un attore
emergente, Carrasco, con strani interessi nella vicenda di Barbie. Soprattutto
l’attore si fa vivo quando viene ucciso il suo amico Laurenti (altro frequentatore
di Barbie), omicidio che serve solo a scagionare lo Stefano di cui sopra, al
momento della seconda morte in carcere. E le due morti sono legate. Come vi è
legata Aiko, una strana giapponese, che abita nel palazzo di Barbie, e le cui
impronte Alex trova sul luogo del delitto. I politici vogliono fermare il
giudice, che però ha avvertito nel frattempo il Profeta, che da Mantova si
trasferisce ad Udine (che coincidenza, due città che sono nel mirino delle mie
visite). Ma Martello viene ferito mortalmente dai poliziotti corrotti, che però
non riescono a trovare il famoso CD, ormai nelle possenti mani di Alex. Greco,
con l’aiuto del politico, scopre che Cavani è l’infiltrato e chiede ai
poliziotti di provvedere, ma, al momento della resa dei conti, arriva il
Profeta e, con una bella strage, risolve tutto. O almeno, risolve il problema
immediato di Cavani, anche se non si riesce ad incastrare Greco del malaffare.
Alex, comunque, prosegue le sue indagini. Ed il ritrovamento di Chantal viva e
vegeta dà una svolta alla vicenda. Seppur tutto collegato, l’omicidio di Barbie
era legato alla carriera di uno dei personaggi, che inscena una bella trama per
ucciderla e procurarsi l’alibi. Ma che deve poi liberarsi di Laurenti, che
troppo sa, e per questo lo uccide. E di Chantal, che molto immagina, anche
senza prove. E la paga per scomparire. In un convulso finale, saltabeccando di
storia in storia, Alex trova il colpevole, salva la vita a Martello (anche se
questi è ancora più di là che di qua), scopre chi sia Taipan, ma poiché questi
è fuori dalle sue competenze, se ne disinteressa. Fa avere il CD con le prove
contro Greco a Cavani. E noi aspettiamo la prossima puntata. Come detto c’è
molta altra carne al fuoco, di cui tralascio menzione. Come non indico, almeno chiaramente,
chi ha ucciso e come. Il libro merita di essere letto, per questo. Alla fine,
ho sollevato con un libricino in più l’autore, che mi sembra maneggi meglio la
materia in questo scritto. O forse (visto che sono malfidato), l’editor della
Marsilio è migliore di quello della Mondadori.
Giorgio Scerbanenco “Il centodelitti” Corriere della Sera 14 euro 6,90
[A: 21/02/2014 – I: 23/05/2015 – T: 26/05/2015] - &&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 420;
anno 1970]
In
realtà, i 100 racconti di questa raccolta furono scritti e pubblicati in
riviste varie tra la fine del 1962 e la metà del 1969, e solo nel 1970, a pochi
mesi dalla morte, furono raccolti e pubblicati tutti insieme in un unico
volume. Al solito, il nostro li aveva fatti uscire su “Novella”, “Novella
2000”, “Annabella” e “Stampa Sera”. Il mandato degli editor delle riviste era
chiaro: i racconti dovevano stare tutti in una pagina delle riviste e avere un
tema diverso ogni settimana. Per questo venivano di volta in volta passati a
Scerby i temi: la guerra, gli innamorati, le grandi città di notte, avere
sedici anni, i sogni, a che servono i soldi?, la moglie in vacanza… Secondo le
testimonianze della compagna del nostro poi, erano scritti con una rapidità
unica (“Li scriveva in un’oretta dopo cena.”). Siccome il progetto iniziale
prevedeva che gli fosse dedicata una pagina della rivista, e nella pagina ce ne
dovevano essere quattro, Scerbanenco era praticamente costretto a confezionare
un racconto lungo con tre brevissimi di corredo. Grazie a queste costrizioni di
stampa, Scerby si sbizzarrisce nel condensare le vicende in poche righe, spesso
con una sorpresa contenuta propria alla fine. In questo il nostro era un
maestro. Ma è altrettanto vero che, pur apprezzabili, denotano in molti casi la
necessità della sorpresa. Per questo sono a corrente alterna. Con l’effetto
finale anche già prevedibile (non si riesce sempre a confezionare una sorpresa
vera e propria). Sono comunque racconti noir duri, asciutti, spesso fulminanti
nella loro brevità. È emblematico “L’uomo che non voleva morire”, una storia
che piacerebbe a Tarantino (ne ha tratto un film per la tv Lamberto Bava nel
1989, che venne bloccato dalla censura ed è passato in tv una volta nel 2007).
Dove c’è una rapina, con uno dei ladri che vorrebbe abusare della moglie del
custode, ma che questi riesce a sventare ferendolo a morte. Ma non muore,
allora i compari lo portano via, poi lo abbandonano morente lungo il passo
della Cisa. Continua a non morire, ed è preso dai carabinieri, portato in ospedale.
I ladri, frenati dal loro capo, uno dei classici duri di Scerby, aspettano,
stanno per cedere quando il morente si risveglia. Ma questi riesce solo a dire
“assassini”, e spira. Ed i ladri la faranno franca. Ma vicino a questo c’è
anche un diverso narrare, laddove il crimine non è inevitabilmente un omicidio,
ma sono elementi che si accumulano per far andare in pezzi la vita di qualcuno.
Sono squarci di vita vissuta, ritratti a volte appena delineati di abbandoni,
fallimenti, inganni, solitudini, spesso mutuate da tutte le lettere che
Scerbanenco riceveva come redattore di Bella o Annabella. Lo scrittore nella
sua profonda umanità racconta con parole semplici storie di cose terribili che
possono succedere alla povera gente. E si sente, profondamente, la
partecipazione dell’autore, la considerazione quasi per la dignità dei suoi
personaggi, l’empatia verso il dolore, la descrizione, quasi da tragedia greca
in miniatura, di chi si scontra con un fato più grande di lui ed al quale non
sa fare fronte. Ogni tanto, qualcuno ha degli sprazzi di luce (anche se solo un’esigua
minoranza), dove Scerby quasi non ha il coraggio di affondare il coltello, e
cerca di far vedere un possibile riscatto, un barlume di speranza. Come ho
detto altre volte parlando dei suoi scritti, la pagina ci restituisce
quell’Italia degli anni del boom economico, “della seicento pagata a rate,
della lavatrice” (citazione da Ivan Della Mea). Un mondo di impiegati,
segretarie, commesse, laureati, ricchi, ognuno al suo posto, imbiancati da un
perbenismo di facciata, ma sempre alla ricerca dei soldi facili. In fondo non è
molto diverso dai lati negativi presenti nell’Italia attuale. Ci sono anche
alcune chicche storiche e letterarie. Come la chiamata telefonica attraverso il
centralino (così si usava ancora nei primi anni sessanta), centralino della
STIPEL, una delle tante società telefoniche sparse sul territorio. Che solo nel
1964 vennero incorporate nella grande SIP. O lo struggente “Un poliziotto, una
bambina, un capretto” che nell’impianto generale ricorda molto “La promessa” di
Dürrenmatt. Ma sarebbe troppo lungo ed oneroso entrare nello specifico dei
cento racconti, anche perché (sebbene non siano il massimo) consiglio di
leggerli così, uno dopo l’altro, nell’ordine scelto dal bravissimo e compianto
curatore Oreste Del Buono. Come una piccola enciclopedia del disagio di vivere.
PS: volendo vi potrei travolgere mettendo tutti e cento i titoli di questi
racconti. Ma penso finirebbe qui la nostra amicizia.
Paolo Roversi “L’ira funesta” Corriere della Sera 20 euro 6,90
[A: 01/04/2014 – I: 17/07/2015 – T: 19/07/2015] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 286;
anno 2013]
Un
libro di gustosa lettura, anche se non è particolarmente inseribile nella
collana in cui è presentato. Un libro di atmosfera, certo non ascrivibile, come
richiede la pubblicazione, al “Giallo italiano”. Certo c’è un morto, ed in
qualche maniera il commissario Valdes indaga. Ma verso la metà del libro si
comprendono i meccanismi dell’uccisione (per chi vuole leggere un po’ tra le
righe). Soprattutto, quello che più interessa Roversi (e noi) è l’atmosfera e
le mille storie che s’intrecciano in Piccola Russia, questo paesino della
Bassa, che ci prende. Con il clima, e più di tutto con i personaggi. Per togliere
di mezzo subito la parte “gialla”, c’è un morto ad un certo punto, che poi si
scopre essere un piccolo malfattore (a suo tempo), poi fuggito in America il
giorno dopo la fine di un piccolo rapimento locale. Ora, dopo trent’anni,
ritorna in patria, con il suo carico di dischi di De André (e se ne era partito
a settembre del ’79), e la sua fine non stupisce, né è difficile (avuti questi
dettagli) ricostruirla. Ma come ho detto, quello che più interessa Roversi, e
che a me ha incuriosito e divertito, è la descrizione di questo piccolo
microcosmo della Bassa Padana. Che se l’argine del Po nel ’51 avesse ceduto un
po’ più in là, forse ora non esisterebbe più. Tuttavia esiste. Con un paese
compatto su ricordi alla Peppone, con (una volta) consensi di livello bulgaro
(così almeno si dice, anche se prima o poi dovremmo sfatare la leggenda dei
voti di Sofia). Con la chiesa ma senza curato fisso. Con il centro del mondo
che una volta era la Casa del Popolo, ed ora è la Poli. Abbreviazione per
Polisportiva, dove si riunisce tutto il paese, perché c’è il bar, ma soprattutto
la piscina, costruita a furor (e soldi) di popolo dopo la morte di un giovane
tuffatosi da un’ansa del fiume e mai più risalito. E si diceva che sono le
storie, quelle che escono fuori dalla Poli e da Piccola Russia, mentre
aspettiamo che il Gaggina (andato fuori di testa) finisca le sue mattane. Ce ne
sono di piccole, come quella di Marchino detto Skegia, per la velocità con cui
finisce i suoi approcci sessuali. O quella del postino Nestore (e della sua
vecchia storia d’amore con la nonna del Gaggina). E di più lunghe ed
articolate. Il Giuanin andato a lavorare a New York nella pizzeria dello zio,
cresciuto nel mestiere in quella Little Italy vicino a SoHo (che come sanno i
frequentatori di New York non è un quartiere giapponese, ma indica le
abitazioni che si trovano a sud – South – di Houston street) e sposatosi una
italo-americana, comincia a fare fortuna. Mette su una catena di ristorazioni
italiane, per poi decidere di puntare su di un unico ristorante. Che fa
anch’esso fortuna, peccato che sorga nel complesso delle Twin Tower, e cade
come tutto GroundZero nel settembre famoso. Così che il Giuanin passa gli
ultimi anni a curare la moglie malata, e morta questa, torna in patria per
morire a sua volta. Il Musso, invece, metallaro e puttaniere, decide che il suo
futuro è Berlino. Dove si trasferisce, avvia buoni lavori, visto che, pur non
studiando, sa fare bene il saldatore, sposa la giunonica Kristina, con cui fa
due figlie. Peccato non sappia tenere a freno il suo appetito sessuale, e che
Kristina, scopertolo, lo butti fuori di casa. Musso non demorde, e tornato in
Piccola Russia, mette su un redditizio commercio di armi storiche (tra cui
spiccano la katana del Gaggina e lo spadone usato per il delitto). C’è poi la
giornalista Giulia, quella di un’agenzia di stampa che la manda in giro ma che
non accetta i suoi pezzi dedicati più all’umanità degli immigrati a Lampedusa
che al numero di morti. E che per togliersela di mezzo la manda a Piccola
Russia per seguire la crisi del Gaggina (allargatasi a dismisura con sequestri
più o meno consenzienti, ed insipienza dei Nuclei Speciali). E lì Giulia
troverà modo di esprimersi al meglio, anche nel campo privato (e non vi dico
con chi). Infine c’è lui, il commissario Omar “Ombra” Valdes, una volta membro
della famosa squadra del capitano Ultimo e poi con tutta la squadra congelato e
vituperato. E dopo peregrinazioni italiche, finalmente a suo agio nel buen
retiro di Piccola Russia, dove ha modo di usare la sua condizione per salvare
il salvabile dal ridicolo, e risolvere i problemi. Del morto, ma soprattutto
del Gaggina (in questo aiutato alla grande da Musso e Marchino). Insomma se c’è
l’ira funesta del pelato Gaggina, il libro è gradevole per questo tuffo nella realtà
padana. E nelle frecciate che Roversi tiri ai giornali, alle autorità, alla
polizia, ed a tutte le opprimenti istituzioni italiche. Un libro che si legge
con un sorriso sulla bocca, lasciando un po’ di allegria nel cuore. E non è
poco.
Paolo Roversi “Milano criminale” Corriere della Sera 23 euro 6,90
[A: 22/04/2014 – I: 19/09/2015 – T: 21/09/2015] - &&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 449;
anno 2011]
Leggo per secondo questo che
invece è un romanzo scritto prima del precedente. E sono contento, che, se mi
fosse capitato questo non credo che avrei avuto voglia di leggere altro. Fa un
po’ il paio con il più brutto dei libri di questa collana, “Il paese che amo”
di Sarasso, che ho già avuto modo di tartassare. Qui si distanzia un po’, che
si parla comunque di azioni criminali, utilizzando tuttavia la stessa tecnica.
Cioè quella di narrare un pezzo della storia italica, vista con gli occhi quasi
di un cronista di nera, avendo cura di cambiare i nomi ai protagonisti,
lasciandone invariate solo le iniziali. Roversi tenta in un certo senso di
inserirsi nel solco del “Romanzo criminale” di De Cataldo, laddove questi
parlava della mala romana, della banda della Magliana e delle connivenze con il
potere, mentre Roversi parla della mala milanese, del solista del mitra,
accennando, ma molto alla lontana, alcune tematiche politiche. Ora, il
personaggio cui ruota tutta la storia, e che seguiamo da giovinetto alla
maturità viene indicato come Antonio Santi, e noi pensiamo subito ad Achille
Serra, capo della squadra mobile a Milano, poi prefetto, e poi anche senatore
(a parte un leggero ringiovanimento, che nel ’58, Serra ha già 16 anni e mezzo
non i 14 che gli dà l’autore). L’altro capo della matassa è rivolto al bandito
Roberto Vandelli, che in effetti ha 8 anni all’epoca del colpo di via Osoppo,
ma di cui Roversi ci fa percorrere passo dopo passo la storia, come appunto
Renato Vallanzasca. E nell’Americano, poi definito dal quotidiano milanese “La
Notte” il “solista del mitra”, che nelle pagine è indicato come Leandro Lampis,
non si fa fatica a scoprirne le vere fattezze in Luciano Lutring. Oppure la
mente della rapina di via Osoppo Ugo Ciappina che diventa Umberto Carminati.
Per non dimenticare il lato “politico” dove Mario Capanna diventa Massimo Castelli
o il commissario Calabresi che si trasforma in commissario Catalano. Per
terminare (ma potrei dilungarmi per pagine e pagine) con il famoso omicidio
della Cattolica, quello dove fu uccisa Simonetta Ferrero che si trasforma in
Sandra Fontana (e dove Serra/Santi non partecipò alle indagini, ma come
prefetto ricevette una lettera nel 1991 che svelava alcuni retroscena indicando
il presunto colpevole). Insomma Roversi tenta di ricostruire la storia milanese
criminale e politica partendo appunto dal 27 febbraio 1958, quando in via
Osoppo cominciò la trasformazione della mala milanese in criminalità
organizzata, sino al primo arresto di Vallanzasca, opera appunto di Achille
Serra, avvenuto nel 1972. In questi 14 anni seguiamo da una parte la realtà “trasformata”
con i cambi di nome, e dall’altra quella romanzata, che non appare nei libri,
per creare dei punti di raccordo tra i vari momenti. Ma è come leggere le
vecchie annate del Corriere della Sera. Da un lato, appunto, via Osoppo,
Lutring, Vallanzasca, la rapina di via Monte Napoleone ad opera del Clan dei
Marsigliesi di Albert Bergamelli, gli efferati colpi della banda Cavallero.
Dall’altro il lato politico, la nascita del ’68 alla Statale di Milano, con
Capanna e gli altri leader del movimento, le manifestazioni, gli scontri tra
poliziotti e Katanga (e chi non sa chi siano stati i Katanga meglio astenersi),
e poi la “strage di Stato”, con Pinelli, Calabresi e Valpreda. Nel mezzo alcuni
intarsi, come la descrizione della morte per infarto del grande Scerbanenco, la
poesia su Valle Giulia di Pierpaolo Pasolini, le canzoni di protesta alla
Pietrangeli (“Contessa”) o alla Barry McGuire (“Eve of destruction”). C’è la
vita privata di Serra/Santi, cui auguro di aver vissuto il grande amore con
Carla e di aver apprezzato le poesie di Paul Valéry, ci sono le entrate ed
uscite dal gabbio di Vandelli/Vallanzasca, ci sono infine le canzoni che fanno
da colonna sonora a tutti quegli anni da Fred Buscaglione a Lucio Dalla, per
passare attraverso il famoso scandalo di “Tua” di Julia de Palma e le
bellissime parole di Paolo Conte in “Insieme a te non ci sto più” cantata da
Caterina Caselli. Insomma, se volete fare un ripasso della Milano di quei 14
anni, questo è un utile Bignami, non certo un
libro di “storia”. Un libricino che vi porta anche spigolature, sul
Giambellino, sul bar da Mario, sulla mala “buona” dei primi anni Cinquanta e su
quella cattiva degli anni Sessanta. Ma appunto è un Bignami che elenca cose e
fatti, che cerca di ammiccare e di far finta di sapere più di quello che sa, ma
senza convincerci troppo. Quanto distante dalle ricostruzioni, con nomi e fatti
reali e concreti, che prima e dopo ci ha fatto Carlo Lucarelli! Un abisso per
me. E con qualche imprecisione che mi ha fatto rabbrividire: Vandelli nel ’64
al Beccaria si trastulla tra “Piccola Katy” dei Pooh (che uscirà nel ’67) e “Un
ragazzo di strada” de I Corvi (che è del ’66). Ma anche con un brivido di
ricordo piacevole, quando ricorda l’atterraggio dell’Apollo 11 (o meglio
l’allunaggio), avvenuto il 20 luglio 1969 alle 22:18 ora italiana, che seguii
in diretta, in un’estate tortoretana, beandomi dei commenti di Tito Stagno e di
Ruggero Orlando, insieme alle precisazioni in diretta che mi faceva mio zio
Nino. Un momento magico ed irripetibile.
Ormai
siamo sempre più vicini al Natale, ai suoi doni ed agli auguri, anche di amici
e amiche che in questi pochi giorni aggiungono una candelina al loro vissuto.
Io mi appresto invece , come sapete, a fare valigie ed altro per le prossime
partenze.
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