Non perché il mio grande amore
per lo scrittore israeliano porti uno dei due alla pazzia, ma questa settimana
è (quasi) dedicata ad alcune sue brevi opere, nonché ad una raccolta di racconti
che mi è piaciuta per il concatenarsi dei personaggi tra i vari episodi. L’elemento
per così dire di disturbo è invece la storia dei fuori di testa del cuculo. Un libro
che mi ha riportato ad un grande film, e che è (anche) un grande libro.
Amos Oz “Una pantera in cantina” Feltrinelli euro 7,50 (in realtà,
scontato a 5,63 euro)
[A: 05/08/2014– I:
15/04/2015 – T: 17/04/2015] - &&& e ½
[tit. or.: “במרתף פנתר” Panther in the Basement; ling. or.: ebraico; pagine: 147; anno 1995]
In
attesa di leggere il primo libro di Oz che finalmente si prevede riesca ad
uscire prima di Natale, in questo intorno pasquale, tra le fatiche andine,
eccomi a leggere un suo vecchio scritto, che, se non è dei primi, certo delle
prime pulsioni che serpeggiavano in Israele dopo la Seconda Guerra parla. Ed a
lungo (anche se non in lungo). Lo stile è un po’ juvenilia, ma centra un punto
nodale, ancora attuale dopo tanti e tanti anni. Certo, siamo nel 1947 e non
ora, ma cosa succede se tra te ed il “nemico” c’è simpatia e non ostilità? La
storia, appunto, si dipana nel 1947, vista dagli occhi di un Amos dodicenne,
mascherato sotto lo pseudonimo di Proffy (in italiano reso con Profi), perché è
maturo e parla come un professore. Siamo nell’ultimo anno del Mandato Britannico
in Palestina, nel pieno del conflitto tra Inglesi e Sionisti. Profi ed i suoi
amici organizzano quindi, un po’ scimmiottando i grandi, un po’ trasponendo nel
gioco le angosce della vita, una cellula segreta di lotta, che si propone di
far saltare in aria Buckingham Palace e forse anche il 10 di Downing Street.
Amos/Profi in quegli anni si sente come una pantera in cantina. Un animale
intrappolato in uno spazio. Una creatura ansiosa che ha voglia di fuoriuscire,
si agita e si dimena. Tutte le veloci pagine sono giocate allora sul
contrappasso. Che Profi ricorda con maggior vivezza l'amicizia nata con il
nemico, un sergente inglese dall'animo buono affascinato dalla cultura del
popolo ebreo. Con il nemico, Profi ha un appuntamento quotidiano, in una saletta
tetra e fumosa di un pub. La loro amicizia è fondata sullo scambio rispettoso
di cultura. Diversa, ma sufficientemente preziosa, da annullare pregiudizi e
incomprensioni. Il ragazzo insegnerà al sergente la cultura ebraica ed in
cambio avrà lezioni di lingua inglese. Si accende, così, nell’animo del
ragazzo, quel contrasto di coscienza che lo porterà al bivio tra uno scrupolo
creato dai luoghi comuni e dalla diffidenza per ciò che non si conosce, e le
domande senza risposta che non giustificano, nella sua ingenua esperienza di
vita, l’odio, la falsa coerenza di ideali, ed un nazionalismo ottuso, che oggi
ha dato vita alla macchina bellica israeliana, davanti ad un nuovo nemico: lo
stato di Palestina. Da questa vicenda, da questo rapporto nasce una serie di
riflessioni sui valori, l'amicizia, il tradimento, nonché di racconti sulla
famiglia, lo stile di vita a quell'epoca e il tumultuoso periodo storico che la
Palestina si trovava ad affrontare. Perché i compagni della cellula accusano
Profi di connivenza e lo vogliono “processare” come traditore. E la pantera
Profi non riesce ad uscire da questa contraddizione. Sa che l’inglese è il
nemico, ma se che l’inglese che incontro al pub non è un “mostro”, anzi è una
persona discretamente timida, che vuole conoscere meglio il luogo in cui vive.
E mentre da un lato cerca di fuggire alla morsa del processo che i suoi amici
gli vogliono intentare, dall’altro il suo sguardo dodicenne vede tante cose più
grandi di lui, che magari travisa nel suo ingenuo ardore. Ma noi da qui ne
vediamo i germi pericolosi e le possibili uscite vittoriose (e magari
pacifiche). E da queste pagine, con Amos, sorge potente l’altro interrogativo
angoscioso che getterà i primi semi in quegli anni, ma che ora, dopo 60 anni, è
ancora vividamente doloroso. Come stabilire un rapporto “paritario” e non
traditore anche con l’altro nemico, con l’arabo che vorrebbe restare nella sua
terra, e che il sionista (non l’ebreo, non l’israeliano) vuole cacciare?
Altrettanto ben riuscita è la foto di copertina di Yoni Hamenachem
probabilmente scattata appositamente per questo libro, poiché lo riassume alla
perfezione. Un libro che si legge veloce, ma che velocemente non passa, e
rimane ad innaffiare i nostri dubbi e le nostre preoccupazioni.
“Ancora oggi non posso rischiare di aprire
un’enciclopedia o un dizionario [o Wikipedia] … significa almeno mezza giornata
persa.” (17)
Ken Kesey “Qualcuno volò sul nido del cuculo” BUR euro 9,90
[A: 12/03/2014– I:
04/06/2015 – T: 11/06/2015] - &&&&--
[tit. or.: One Flew Over the Cuckoo's Nest; ling. or.: inglese; pagine: 393; anno 1962]
Anche
questo è un libro che si è infilato nella mia libreria sulla scia dei grandi
film che ho amato, e che il libro di cura sui libri mi ha indotto a comperare e
leggere. Ora sono indeciso, tra libro e film. Il film era potente, e
giganteggiava la figura di Jack Nicholson. Anche il libro è potente, ma a me
rimane più impressa qui la figura di “Ramazza” Bromden, il capo indiano mezzosangue,
voce narrante del libro. È lui che osserva e descrive gli avvenimenti, lui
paziente della clinica psichiatrica dove si finge sordo e muto per non dover
interagire con le istituzioni mediche. E che osserva l’ascesa verso la serenità
del suo reparto, per poi constatarne, inesorabilmente, la caduta verticale di
fronte all’autorità implacabile. L’autore (“troppo giovane per essere beat,
troppo vecchio per essere hippie” secondo una sua definizione) è partecipe
della grande cultura americana tra la fine dei Cinquanta ed i primi Sessanta. È
amico di Neal Cassady (a sua volta sodale di Jack Keruac), conosce Timothy
Leary e tutti gli allucinogeni e psicotropi di quegli anni. E confeziona questo
libro come protesta verso la cultura americana, come grido ed atto di
ribellione. Con l’ovvio ed amaro finale. Un’anticipazione del ’68: McMurphy e
Ratched l’infermiera sarebbero le due facce della stessa medaglia americana, il
primo a simboleggiare lo scontro violento contro l'autorità, la seconda a
rappresentare quell'autorità del potere che non si può scalzare. Storia tutta
“girata” nel moderno ospedale psichiatrico, con l’indiano che tutto guarda e
osserva e registra. Dove ci sono pazienti più o meno cronici, come il balbuziente
ed introverso Billy Bibbit, il logorroico Harding Dale, il maniaco delle carte Cheswick
Charley. E pazienti ridotti a larve da elettroshock devastanti e lobotomie
sperimentali. Un’isola che potrebbe essere felice, se non fosse dominata dalla
rigida caposala, Miss Ratched, che usa un pugno di ferro per affermare il suo
dominio su questo mondo in rovina. È qui che arriva Randy McMurphy, che si
finge pazzo per scontare un periodo di detenzione in seguito ad una condanna
per gioco d’azzardo, invece di passarlo in carcere. E da subito c’è lotta dura
tra i due. Randy, comunque insofferente, comunque con una vena d’alienazione,
porta venti di novità. Crea un tavolo da gioco, organizza partite di basket,
fomenta una ribellione per poter vedere il basket in tv. Ottiene inoltre di
organizzare una gita in mare, con i pazienti meno “pericolosi”, dove si
accompagna con qualche donnina, e dove scorre birra a profusione. Insomma,
spinge tutti a ricercare se stessi, invece di lasciarsi guidare acriticamente
da Miss Ratched. Ed anche una seduta di elettroshock non doma il suo spirito
ribelle. Che raggiunge il culmine in una notte brava, con medicine psicotrope a
go-go, con altre donnine che fa entrare in ospedale, e con una di queste che
seduce il poco esperto Billy. Ma l’alcol scorre a fiumi, e la mattina la
caposala giunge che sono in piena baldoria, scopre l’amplesso di Billy, lo
ridicolizza, e questi, colmo di vergogna, si uccide. Randy cerca a sua volta di
uccidere Miss Ratched, ma viene fermato, lobotomizzato, e ridotto ad una larva.
Allora, il capo indiano che sempre seguiamo con affetto, pietosamente lo
soffoca con un cuscino, per poi fuggire in Canada, verso la libertà. Cantandosi
internamente la filastrocca che da piccolo gli ripeta la sua nonna indiana:
“Three geese in a flock / One flew East / One flew West / And one flew over the
cuckoo's nest” (“tre oche in uno stormo / una volò ad Est / una volò ad Ovest /
ed una volò sul nido del cuculo”). Qui sta tutto il bello e l’atroce del libro,
che monta pagina dopo pagina, che ci avvolge con questa lotta di potere che
sappiamo già come andrà a finire. Perché Randy andrà sempre sul suo solco comportamentale,
non accettando di scendere sul piano delle istituzioni, della caposala. E non capendo
i meccanismi dell’antagonista, la ribellione sarà inevitabilmente repressa nel
sangue. Ecco, il libro mette forse più su questo lato l’accento, mentre Milos
Foreman nel film lo sposta più sul lato psichiatrico, quasi a voler parlare
solo di sanità e pazzia e non di potere e ribellione. Manca solo, per essere
nelle vette top dei miei gradimenti, una punta di consapevolezza in più. Che
tuttavia possiamo scusare guardando alla data di scrittura del libro (1962). Ed
al fatto di quanto consapevoli e forse non più tanto ribelli siamo noi ora.
Piccolo appunto finale: si nota anche che la traduzione è datata, coeva forse
al romanzo stesso, laddove, ad esempio, a pagina 19 si lascia un inutile
“pallabase” rispetto all’utilizzo del più corretto “baseball”. Ce ne sono
altri, di piccoli intoppi, ma il libro è comunque bello e da leggere.
Amos Oz “La vita fa rima con la morte” Feltrinelli euro 6,50 (in
realtà, scontato a 5,85 euro)
[A: 01/03/2015– I:
24/06/2015 – T: 27/06/2015] - &&&+
[tit. or.: “והמוות החיים
חרוזי” Rhyming
Life and Death; ling. or.: ebraico; pagine: 106; anno 2007]
Dato
che tutti conoscono la mia passione per Oz, entro subito nel merito di questo
scritto, interessante, anche se una prima lettura mi aveva lasciato leggermente
spaesato. Ripensando e riflettendo ho poi rivalutato questo che a me sembra un
lungo interrogativo sullo scrivere e sulla scrittura. Qualcuno (anzi qualcuna,
citando la bella recensione di Maria Serena Palieri) pensa anche ad una specie
di outing di Oz verso il suo lato “rubacuori”. Che lo scrittore e lo scrivente
hanno un debole per il lato femminile, cosa che qui viene palesata alla grande.
Ma io ritorno sulla mia idea. Sulle frasi che fin dalle prime righe Amos mette
in bocca al deutero-protagonista dello scritto. Perché scrivere? Per chi
scrivere? Diretto al Centro
culturale dove è previsto presenti un suo libro, lo "Scrittore" si
anticipa mentalmente le domande che gli arriveranno dal pubblico - sempre
quelle... - e si siede in un caffè per programmare le risposte. Qui lo sguardo
gli cade su quello slip asimmetrico della ragazza che lo serve e, sull'onda del
desiderio, presta a questa un nome, Riki, e una love-story, immagina cioè una
sua tre-giorni di sesso con un portiere della squadra Bne Yehuda. La maratona
erotica, che Oz analizza nel dettaglio, trascina con sé un altro personaggio,
Lucy, ragazza arrivata seconda a un concorso per miss bikini, con cui la star
dello sport soppianta Riki. Poi, altre propaggini dell'immaginazione lo
Scrittore le trova nella sala, nel ragazzino corrucciato seduto in fondo, cui
affibbia il nome di Yuval Dahan e un'attività di aspirante poeta così come
nella signora massiccia che ribattezza Miriam La Nehurai e per cui prefigura
che seduca il giovane Yuval. Ma, da due versi citati dal facondo responsabile
della Casa della Cultura, prende corpo anche un vecchio poeta fuori moda,
Zofonia Beit Halachmi. E, soprattutto, prende corpo in senso letterale Ruchale
Reznik, la ragazza un po' attempata incaricata di leggere brani del suo romanzo
e che, per via di quel collo che le si arrossa, diventerà protagonista di una
vera-finta notte d'amore, con baci, carezze, fremiti, gemiti. Lo scrittore
incontra dettagli di vita. Da quei dettagli costruisce storie. Che possono
essere vere. Costruisce mondi. Inventa intrecci. E questo infinito intreccio di
ipotesi diventa, nella penna di Oz, la trama di un racconto sulla difficoltà
stessa dello scrivere. Questo è uno degli elementi che mi hanno attratto sulla
pagina: da dettagli rubati creare scenari plausibili. Perché quanto sopra
narrato, seppur segue le pagine scritte, può essere vero o solo immaginato. C’era
la linea intravista delle mutandine di una cameriera. C’è una persona sfiorata
camminando. Una faccia. Una vena gonfia. Una parola intrasentita. Ed assonando
la domanda iniziale (“Perché scrivi?”) con quella sottesa per tutto il testo
(“Perché vivi?”), si arriva alla confessione perno di Amos (confessione che noi
lettori attenti e partecipi abbiamo già intuito pagine e pagine prime): “…tutti
i personaggi di questa storia, in fondo, non sono altri che l’autore in
persona…. Esiste e continuerà a esistere che tu ne scriva o meno…”. La risposta
non può essere di tipo utilitaristico perché l’unica molla che spinge lo
scrittore è l’ossessione per quei dettagli contenuti negli estranei e grazie ai
quali riesce a toccarli senza toccarli e senza essere toccato. Lo scrittore è
un regista, è un fotografo che dispone meticolosamente i personaggi prima dello
scatto. Noi lettori ci mettiamo davanti a voi scrittori, e non abbiamo, non
possiamo avere risposte facili alle vostre domande. Magari avremo altre domande
ancora, perché (e qui ripeto una mia vecchia sensazione) tu che scrivi hai un
tuo percorso mentale, che io che leggo non seguo. Io seguo e penso al mio, a
quello che le tue parole mi suscitano. E che spesso vanno in una direzione
diversa. Finirei citando una parafrasi che ho letto in giro sul web (grazie a
Michele Nigro), laddove si parlava di questo romanzo. Prendendo a prestito una
frase storica di Archimede, potremmo chiosare l’infinita gioia che si prova
nell’imprigionare le sfumature della vita in parole pensate e tornite con:
“Datemi un dettaglio e vi immaginerò il mondo!”
“Alla
morte dell’ultimo che [lo] ricorda, il morto muore un’altra volta, definitiva,
ed è come se non fosse mai esistito.” (50)
“Che ruolo assolvono, se pure ne hanno uno,
le tue storie? A chi servono?” (83)
Amos Oz “Tra amici” Feltrinelli euro 8
[A: 07/05/2015– I:
28/06/2015 – T: 30/06/2015] - &&&--
[tit. or.: “חברים בין” Between Friends; ling. or.: ebraico; pagine: 131; anno 2012]
In
questo lungo viaggio nel mondo di Oz, stiamo andando, seppur di poco, in
calando. Anche se questo non è il miglior Amos che ho letto, riprende un motivo
che mi rende cari i libri imperniati su racconti. Perché di racconti si tratta,
un po’ alla maniera che ho descritto varie volte in Alice Munro. Qui Oz
ambienta il suo microcosmo in un kibbutz degli anni Cinquanta, quando, pur non
essendoci ancora la spinta eversiva dei primi kibbutz degli anni Trenta, dopo
la nascita dello stato d’Israele, questi luoghi di vita collettiva diventano
embrioni di quello che poteva essere Israele, ma che poi non è stato. Ed
utilizza un registro narrativo particolarmente coinvolgente, laddove i
protagonisti di un brano, diventano comprimari di un altro. Non c’è quindi una
trama completa, un romanzo “classico”. Ma come in “Scene da un villaggio”, ci
sono momenti che illustrano la vita nel kibbutz, lo spirito dei suoi abitanti,
nonché le contraddizioni stesse che permeano la vita di molti nativi d’Israele.
E presentando le sue storie, Oz ha anche modo di affrontare tematiche a lui
care: quelle dello spirito delle colonie (lui che fu uno dei primi a decidere
di andarci a vivere), quello del rapporto con gli arabi che abitavano quella
terra, quello della donna e del suo ruolo nella comunità, quello dei rapporti
tra genitori e figli, quello dello spirito (libero?) delle famiglie allargate.
Quindi, in una specie di girotondo alla Schnitzler, cominciamo a conoscere Zvi
Provizor, uno scapolo che ha la passione per le brutte notizie. Ne cerca sui
giornali, ne legge e ne sparge per la comunità, con un contrasto eclatante con
la sua capacità di giardiniere. E vediamo il tentativo di avvicinare la vedova
Luna, anch’essa solitaria, e come questo tentativo si esaurisca quasi senza un
perché (o forse ce ne sono tanti, che i due non riescono ad affrontare). Tra un
andare ed un venire di Zvi e Luna, s’inserisce la curiosa amicizia tra Ariela e
Osnat. La prima ha preso il marito alla seconda, ma Osnat ragiona su se stessa
e sul suo uomo, quasi a giustificarne l’allontanamento. E quasi ad accettare
una solidarietà con Ariela. Ma nel kibbutz ci sono anche scuole per grandi e
per bambini. In quella degli adulti si consuma il tormento di Nahum che non
capisce come la figlia diciottenne Edna si metta insieme al suo insegnante
David, che è un suo coetaneo (ecco uno degli altri temi dei rapporti nella
colonia). Mentre i bambini sono, per la legge interna di quel tempo, subito
separati dai genitori. Nelle scuole, ma anche e soprattutto la notte, dove
assistiamo ai drammi del piccolo Yuval (5 anni) che viene preso e dileggiato
nella “Casa dei bambini”, tanto che se la fa sotto la notte, che scappa. Ed i
genitori, Roni quello che in tutti i racconti fa il buffone e Leah, si mettono
contro tutta la comunità per salvaguardarlo. C’è Yoav il capo della comunità,
che entra ed esce anche lui dai racconti, che sembra inflessibile, ma che cede
(umanamente) a delle pressioni che non riesce a controbattere. Anche quella
della moglie Dana, che vorrebbe lui facesse carriera, per uscire dal kibbutz e
tornare nella grande città. Ci sono le due storie parallele e contrapposte di
due giovani. Moshe, che vorrebbe fuggire dal kibbutz, ma che in un lungo
rapporto con il padre malato decide di restare. Yotam che vorrebbe andare dallo
zio in Italia, ma è indeciso, anche se la madre, la vedova Helena cerca di
convincere Yoav ad aiutarla. Niente da fare, ma avremo una bella descrizione
della fuga di Yotam che va a dormire nel villaggio abbandonato di Dir Ajlun.
Abbandonato dagli arabi dopo il ’48. E non torno sulle facili tematiche del
rapporto tra ebrei “occupanti” ed arabi “cacciati”, che meglio ne parla,
dall’interno lo stesso Amos. Ed ho messo volutamente le virgolette, che è uno
degli argomenti difficili che nessuno, in questi quasi sessanta anni, ha mai
risolto (anche se segnalo, per chi lo avesse mai perso uno dei più racconti in
proposito, ”Ritorno ad Haifa” di Ghassan Kanafani). Poi tutto l’ultimo brano
incentrato sull’utopia dell’ebreo olandese Martin, che vuole insegnare a tutti
l’esperanto, per superare le barriere, per avere un mondo senza barriere, con tutti
che parlano la stessa lingua. Martin che era sopravvissuto alla shoah, e che
muore qui, in terra d’Israele, circondato dagli amici del kibbutz. In una
specie di passerella finale, tutti intorno alla tomba: Yoav che fa l’orazione,
David che ricorda la figura dell’idealista, Roni che lo seppellisce, e Osnat
che ci accompagna con le sue ultime, pacate riflessioni. Sempre bello leggere
di Oz, ho detto, anche se, appunto, anche nel corale del racconto si perde un
po’ di mordente. Ma non c’è niente di meglio che un suo scritto per tornare a
pensare a questa terra martoriata. Ora in particolare, che non sappiamo quando
potremo tornarci.
“Tutti sono compagni ma ben pochi sono amici
veri. Io, ad esempio, qui ho solo due o tre amici personali. Quelli con cui mi
va persino di tacere insieme.” (106)
Siamo
alla seconda uscita del mese e la mia controanalisi delle patologie porta
questo mese ad un libro, cui sono caro, e che dovrebbe (ma non sono così
proprio in accordo) parlare di felicità.
Siamo
anche sette giorni più vicini al Natale, festeggiando oggi il secondo
compleanno di Tommaso, ed aspettando di poterci muovere, prima per il Nord a
Natale e poi per l’agognata Cuba con l’anno nuovo.
CURARSI CON I LIBRI di
Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
DICEMBRE 2015
Giacché si è passato quasi tutto
il mese di novembre in India, può essere una buona premessa alla patologia
odierna, quella, appunto, di una felicità da raggiungere. In qualche modo? O in
tutti?
FELICITÀ, RICERCA DELLA
Ray Bradbury “Fahrenheit 451”
La
felicità: lo scopo ultimo della vita. Oppure no?
Molti
di noi, in Occidente, passano la vita alla ricerca di questo stato transitorio:
in amore, nel lavoro, nei viaggi, nella decorazione della propria casa. Il
fatto che se ne parli nei messaggi pubblicitari e nei programmi di reality in televisione
è un malessere moderno, ma è importante ricordare che la gente non ha mai
considerato la felicità come un diritto fino al ventesimo secolo - e in molte
culture orientali ancora non è così. Per molte persone la vita è un peso che
bisogna sopportare, e dal quale al massimo si può imparare qualcosa, piuttosto
che una fonte di piacere. Avere del cibo, un tetto sopra la testa e la libertà
di seguire le vostre credenze religiose, è già sufficiente. Cominciate a
pensare che dovreste essere felici e vi esporrete a delusioni di ogni genere.
Su
questo la pensiamo come gli orientali: la ricerca incessante della felicità è
una malattia, e deve essere curata. Anche Ray Bradbury lo sapeva. Fahrenheit 451, romanzo in anticipo sui
tempi pubblicato nel 1953, era molto vicino a mostrare la vita come la
conosciamo oggi. Nel suo futuro distopico, nessuno legge più romanzi.
All’inizio succede perché la gente preferisce assumere narrativa in dosi sempre
più piccole, non avendo abbastanza attenzione né pazienza per leggere un libro
intero. Ma dopo un poco tutti cominciano a pensare che i libri sono il nemico
perché offrono, in maniera irresponsabile, punti di vista e stati d’animo
diversi. Di sicuro, sarebbero più felici in una terra di nessuno priva di
emozioni e sensazioni forti.
Sprovviste
di cultura e di riflessioni profonde come sono, per contrastare questo vuoto
emotivo le persone cominciano a vivere sempre più velocemente, guidando per la
città a rotta di collo (nel futuro immaginato da Bradbury i Maggiolini della
Volkswagen sono i padroni della strada) e uccidendo tutto quello che incontrano
sul loro cammino. Non vedono quasi mai i figli, che vanno a scuola nove giorni
su dieci. Avere figli è comunque una perdita di tempo, secondo loro; le donne
preferiscono restare a casa a guardare una soap opera interattiva, “La famiglia”,
che non termina mai, e dare più importanza al destino dei suoi personaggi
piuttosto che al loro (per quanto fosse bravo, Bradbury non riuscì a fare il
salto e immaginare un tempo in cui le donne volessero lavorare a loro volta).
Storditi da questa saga, vanno a letto con dei «gusci» sulle orecchie che
trasmettono tutta la notte insulsi notiziari e altri sceneggiati privi di
senso. Buttano giù sonniferi come caramelle. Il suicidio è diffuso, e non ci si
fa troppo caso.
Quando
Montag, un pompiere che per lavoro brucia libri illegali - e talvolta anche le
persone che li leggono - incontra una ragazza che si prende il tempo per
guardare le stelle, annusare l’odore dell’erba e interrogare le margherite
sull’amore, si rende conto che nel suo stato di castrazione emotiva non è
felice come credeva. Comincia a prendere coscienza di un mondo di bellezza e sentimento
e si domanda che cosa possano contenere i libri che brucia. Una sera legge agli
invitati della moglie una poesia di Matthew Arnold, «Dover Beach»,
interrompendo un episodio de “La famiglia”, e il risultato è un pianto doloroso
e incontrollabile: «Poesia e lacrime, poesia e suicidio e sensazioni terribili,
poesia e malessere; che porcheria!» esclama uno degli ospiti, turbato.
Montag
è costretto a bruciare i propri libri - e la propria casa insieme a loro - ma
resta convinto che un futuro senza libri sia intollerabile. Meglio soffrire, e
trovare qualcosa, piuttosto che vivere nello stato comatoso che per la
«civiltà» si identifica con la strada verso la felicità.
“Fahrenheit
451” vi insegnerà che la vita è fatta di una grande varietà di esperienze.
Vivetela fino in fondo, senza inseguire la felicità, e dedicatevi invece alla
conoscenza, alla letteratura, alla verità e a ogni genere di sensazione e
sentimento. Se la visione di Bradbury dovesse trasformarsi in realtà, imparate a
memoria almeno un romanzo, come fa Montag. Non si sa mai, potreste aver bisogno
di tramandarlo al resto dell’umanità.
Bugiardino
Ho letto più volte il libro di
Bradbury. Da giovane, nel mio furore fantascientifico (e dove tuttavia,
preferivo il solido Asimov al pericolante Bradbury). Da persona matura,
usufruendo di un gradito Ale-regalo. Erano tempi “veloci”, ed anche la trama
era stringata ed essenziale.
Ray Bradbury “Fahrenheit 451” Mondadori
s.p.
[pubblicato il 18 aprile 2010]
Un
classico, ma ci sono alcuni punti in cui è di un’attualità da far paura.
Risente i suoi quasi sessanta anni, ma sono contento di averlo in un certo
senso riletto ora, carico d’anni e di esperienze. La storia è ormai un classico
e sembra quasi banale riportarla, ma ha delle pieghe interessanti. In un
imprecisato futuro, l’informazione giornalistica viene bandita, le case
diventano dei grandi televisori, dove chi è benestante si permette di avere un
salotto con quattro pareti tutto schermo, diventando parte integrante degli
spettacoli televisivi (interagendo anche con essi). I libri, che potrebbero far
riflettere la gente su quanto di guasto sta avvenendo, vengono prima
considerati pericolosi, poi a loro volta proibiti, ed infine viene istituito un
corpo speciale dedito al loro incenerimento (ed a quello delle persone che li
leggono). È da paura quanto tutto ciò suoni attuale. Il fuochista Guy Montag,
non si sa come e perché, inizia a riflettere su questo stato di cose, trova il
coraggio di ribellarsi, e prospetta un futuro dove… si tornerà alla lettura.
Guy dovendo scegliere tra bruciare libri e bruciare il suo capo, sceglie di appiccare
il fuoco a quest’ultimo e poi fugge per unirsi ai ribelli. Il tutto con una
guerra che sembra esserci ma che (avendo tolto l’accesso all’informazione) nessuna
sa di sicuro. Se invece di guerra con armi, ci mettiamo la crisi economica
sembra di leggere la cronaca dei gironi nostri. Dobbiamo trovare il coraggio
delle piccole azioni, della ribellione allo strapotere televisivo che annienta
le voci fuori dal coro. Bisognerebbe prendere tutta la parte centrale del libro
che spiega il passaggio dai libri al monopolio televisivo e farne un monumento.
Alla fine si arriva veramente stremati. E lì che andremo a finire? DICIAMO DI
NO!!!
“Guy voi avete davanti un vigliacco. Io
vedevo la piega che stavano sempre più prendendo le cose, ma molto tempo fa; ma
non ho detto nulla; sono uno degli innocenti che avrebbero potuto parlare
chiaro e tondo quando nessuno era disposto a dar retta al ‘colpevole’ ma non ho
aperto bocca, diventando così colpevole a mia volta.” (96)
“I libri sono odiati e temuti … perché
rivelano ... la vita. La gente comoda vuole solo facce di luna piena, …
inespressive. Viviamo un tempo in cui i fiori tentano di vivere sui fiori
invece di nutrirsi di buona pioggia” (98)
Conclusioni
Sono solo in parte d’accordo con
l’uso di Montag per la ricerca (impossibile) della felicità, come sembrano
sostenere le due signorine. Penso ed ho sempre pensato che la felicità sia una
vetta aguzza di difficile riposo, e che sia meglio cercare la serenità (con
punte di felicità, ovvio, e nessun abisso di tristezza). La vicenda descritta
da Bradbury mi sta più sul versante triste, con tutta quella condivisibile
tirata anti-televisiva. Speriamo, tuttavia, con Montag, di bruciare i cattivi e
di cercare la serenità insieme ai nostri affetti.
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