Vi sono mancato, eh? Ed allora,
sceso dall’aereo, ancora un po’ accaldato, ma sotto le 6 ore del fuso di new
York, eccomi qui a riprendere le trame. Ed ovviamente con qualcosa di leggero,
che altrimenti i appesantisce anche il ritorno. Siamo così alla penultima
puntata della collana del Sole 24 ore, con due prove di buona fattura, quella
di Adele Marini e quella di Claudio Pagliari, una quasi discreta del quasi
omonimo Pagliero, ma di nome Antonio, ed una solita non riuscita prova (che
spesso avviene in queste ultime uscite) di Michele Branchi.
Adele Marini “Milano sola andata” Sole 24 ore – Noir Italia 22 euro
6,90
[A: 06/12/2013– I: 16/11/2014 – T: 18/11/2014] - &&&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 297;
anno 2005]
Direi
una buona prova di media riuscita della collana proposta dal “Il Sole”. Come ho
ribadito più volte, è una collana che ha cercato di promuovere autori italiani
in genere non molto noti, legando il noir alla località di svolgimento della
vicenda. Un’operazione con alti e bassi, ma con una buona media di leggibilità.
Così per questo libro della giornalista Adele Marini, vincitore di uno dei
tanti premi “gialli” che si aggirano per l’Italia (l’Azzeccagarbugli del 2006).
E tuttavia è un noir sui generis, che la trama, pur avendo alcuni momenti di
mistero, non è tesa alla morte, ma a volte rilassata, a volte quasi stancamente
avanzante per una città di Milano, altrimenti ben dipinta nei suoi momenti
estivi di caldo e di traffico. Nonché in alcune sue zone, sia periferiche (e
sappiamo come sia a volte degradata quella periferia) sia centrali (dove
ritrovo le passeggiate nel parco del Castello Sforzesco che ricordo con
piacere). Dicevo trama anomala, che il nodo centrale è legato a filo doppio con
l’istituzione italiana della protezione ai collaboratori di giustizia ed alle
persone in pericolo per motivi vari. L’altro centro della narrazione è la
figura dell’ispettore Mauris, dove si tratteggia un valdostano di montagna,
ancora e sempre legato ai suoi monti, che lavora in una Milano che non ama e
che vorrebbe lasciare quanto prima. Il primo centro è invece Marcella, una
ragazza di quasi trent’anni, adottata da una coppia di immigrati siciliani,
morti di morte naturale or non è molto. La nostra, dopo appunto trenta anni di
vita dura con i genitori adottivi, si domanda con insistenza quale sia la sua
origine e da dove provengano alcuni strani ricordi che nottetempo le affiorano.
Comincia così una ricerca un po’ campata per aria, appoggiandosi alla
trasmissione “Chi l’ha visto?” (una che è stata tra le migliori ideate dalla
Rai). Ed incrociandosi con il nostro ispettore. Che il padre adottivo sembra
aver avuto collusioni mafiose in gioventù e Mauris viene coinvolto dal suo
sodale amico e magistrato Collura che lavora in quel di Sicilia per inchieste
sulle infiltrazioni mafiose al Nord. La sovraesposizione, pur momentanea,
coincide con l’intrusione nella sua vita di un personaggio inquietante, un
quarantenne sfigurato, che si muove molto nell’ombra, a volte con simpatia e partecipazione,
a volte con freddezza estrema. Come quando, accidentalmente, addormentando con
il cloroformio una conoscente di Marcella, ne provoca la morte per una
inaspettata crisi d’asma. Mauris comincia a sospettare che ci sia qualcosa in
più, sotto tutta questa finta normalità. Sospetti che aumentano quando, incaricando
Marcella un ex poliziotto catanese in pensione di vedere se e come possano
esserci tracce sue in quella città, tale poliziotto viene freddamente ucciso in
un agguato di chiaro stampo mafioso (moto che accosta la macchina, e colpi di pistola
a freddo). Sarà lo sfregiato, che in una passeggiata nel Parco di cui sopra
svela a Marcella i misteri della sua vita. La ragazza in realtà si chiama
Mariana e lui ne è il fratellastro. Lei sfuggita volontariamente lui
casualmente alla strage perpetrata nella villa di famiglia, quando Mariana
aveva quattro anni, dal padre di lei. Questi, non accettando la separazione
dalla moglie che si sarebbe portata in Germania, sua patria, figli e figliastri
(compresa Mariana), organizza un piano di strage lucido e folle. Liquida tutti
i suoi beni (comprese case e ospedali, essendo un chirurgo di grido), li fa
esportare in Svizzera collocandoli in un fondo fiduciario, chiude Mariana fuori
casa, e stermina tutta la famiglia, compresi i nonni tedeschi, e poi si uccide.
Mariana/Marcella erediterà il malloppo al trentesimo anno se non sarà ancora
sposata. Per questo dopo la strage, i nonni la danno in adozione ma facendo in
modo che i genitori adottivi siano in realtà dei carcerieri neanche tanto soft.
Che la “famiglia” vuole riprendersi tutto anche con la forza. Costringendo il
fratellastro, che dalla strage aveva avuto la faccia sfigurata dai pallettoni
della lupara, senza lesioni in organi vitali, a fare da controllore della
vicenda e da tutore cattivo della sorellastra, con la promessa che una parte
dei soldi sarebbero serviti ad una plastica facciale. Marcella si confida però
con Mauris, cui comincia ad essere legata anche sentimentalmente. E va in
Svizzera, dove è riconosciuta come erede legittima. A questo punto le si
presentano due strade davanti: seguire il piano del fratellastro, consegnare
tutto alla famiglia e tornare alla sua vita (con il pericolo, vero o falso, che
qualcuno non rispetti i patti) o seguire il piano di Melis, consegnando tutto
(denaro e famiglia) alla Divisione Antimafia e sparire come collaboratrice di giustizia
in pericolo di vita. Non vi dico quale sarà la scelta di Marcella, che, quale
che sia, ne avrà la vita cambiata. La debolezza della trama sta in alcune
scelte “ambigue” della scrittrice: non sono chiari tutti i meccanismi della
strage (che potrebbe anche essere stata inventata dal fratellastro come
descrizione, visto che questi dodici anni aveva all’epoca), né è ben chiara la
posizione proprio del fratellastro (a volte presentato come vittima e quindi
solidale con altre vittime, a volte come freddo killer della mafia, senza che
nessuno dei due nodi venga realmente sciolto). La scrittura è comunque solida,
ed il finale, quale che sia, realistico. Per cui credo sia un libro giustamente
premiato, e gradevolmente letto. Un punto a favore dell’autrice e della
collana.
Claudio Paglieri “L’enigma di Leonardo” Sole 24 ore – Noir Italia 24
euro 6,90
[A: 20/12/2013– I: 21/11/2014 – T: 25/11/2014] - &&&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 360;
anno 2013]
Dopo
quella di Adele Marini, una nuova bella riuscita della collana del Sole, con la
scrittura di buona presa di Claudio Paglieri, non a caso giornalista. L’uso
delle parole e delle frasi non si inventa o non si improvvisa. E Paglieri ne dà
un buon esempio, riuscendo a scrivere quasi 400 pagine senza stancare troppo il
lettore. Certo potrebbe utilmente essere ridotto, qua e la, e tuttavia dovrebbe
invece essere allungato nel finale, dove, come purtroppo spesso accade, la
risoluzione dei dubbi e dei misteri seminati lungo la trama risulta essere un po’
troppo veloce. Altrettanto gradevole è l’ambientazione ligure, incentrata su
Genova, con qualche puntata su Camogli, e su altre descrizioni ambientali che
non dispiacciono. Si nota tuttavia che questa, pur essendo una trama
consistente in sé, ha dei riflessi e dei richiami sul precedente libro di
Paglieri (“La cacciatrice di teste”). Rimandi che sono a volte un po’ criptici,
anche se, dall’inizio, costituiscono l’ossatura su cui si sviluppa la trama. In
quel libro, credo, il protagonista, il commissario Luciani risolve un mistero
aiutato da una ragazza, Sofia Lanni, con la quale sicuramente ha una storia, ed
è responsabile della morte di un uomo. Qui, in tutto il libro, Luciani si trova
a dover gestire un bimbo, lasciatogli cripticamente in custodia da Sofia, che
un sodale del morto cerca di uccidere. Cercando anche di uccidere il
commissario. Ma questa, appunto, è l’ossatura, che serve a Paglieri per dare
umanità al protagonista, a metterlo alle prese con la crescita di un bimbo da
ragazzo – padre, con tutte le implicazioni lavorative che si trovano
quotidianamente ad affrontare le ragazze – madri. In questo contesto, mentre
scoppia una guerra tra pusher locali e marocchini, si innesta la vicenda
principale. Dove trova la morte il conte Moncalvo, pluriottantenne custode di
un enigmatico dipinto. La di lui badante, la polacca Agnizka, rimasta senza
eredità dalla morte del vecchio (che accudisce da vent’anni e di cui era anche
stata amante), decide di vendere mobili ed arredamento ad un rigattiere. Il
quale è aiutato da un ragazzo sbandato, sempre sul filo del rasoio con la legge
e la droga, che, visto il malloppo che la badante rimedia, decide di
appropriarsene indebitamente, con l’aiuto di un suo sodale marocchino. Peccato
che in una strana colluttazione Agnizka muoia accidentalmente. A prima vista
sembrano morti accidentali, ma ecco che salta fuori Fiammetta, esperta d’arte
in crisi matrimoniale, cui il conte aveva chiesto una expertise sul dipinto.
Fiammetta avrebbe le prove che si tratta di un autoritratto di Leonardo (da cui
il titolo) ma che, nelle vicende della morte del Conte, risulta introvabile.
Luciani, da un alto con Alessandro, il piccolo a rimorchio, cerca di
barcamenarsi per trovare Sofia. Da un altro, non è insensibile al fascino di
Fiammetta, che conosceva dai tempi del liceo, e con la quale riannoda un veloce
seppur molto reciprocamente gradevole rapporto. Il terzo elemento è la ricerca
della soluzione verso il mistero della scomparsa del dipinto. Altre storie si
intrecciano intorno a questi fili, già tanti e ingarbugliati. Il vice di
Luciani, bravo ma non diplomatico, si vede scavalcato nella carriera da un
lecchino assolutamente incapace. Questo lo manda in crisi, e manda in crisi
anche la sua vita familiare. Dovendo Luciani fare anche “il mammo”, chiede di
necessità aiuto al sottoposto. Il tandem dei due con qualche colpo di fortuna,
riesce a far luce sulla vicenda. Agnizka, temendo appunto di rimanere solo e
senza soldi, dà troppe medicine al conte che ne muore. Lei, come detto, perisce
in una colluttazione forzata. Il ragazzo sbandato, per pagarsi la droga, è
costretto dai pusher ultrà ad uccidere un marocchino, che guarda caso è il
fratello del suo sodale di rapine. Il quale lo ricatta, ed a sua volta viene
fatto fuori dagli ultrà di cui sopra, mentre il ragazzo viene ucciso dai sodali
dei marocchini. Alla fine, nelle carte del ragazzo, si trova il benedetto
dipinto. Tutto questo costringe Luciani a venire sulla ribalta, cosa che era
attesa con ansia dal killer di cui alle prime righe. E come detto, il finale va
di corsa. Fiammetta ritrova il dipinto e la famiglia (anche perché Luciani le
fa uno sgarbo grosso), si rifà viva Sofia. Arriviamo così alla scena madre, in
cui tutti i nodi vengono al pettine, tutti i fili vengono sciolti, ed ogni
storia ha la sua soluzione. Quella di Sofia, quella del piccolo Alessandro,
quella del killer, quella del vice, nonché, ovviamente, tutte quelle di
Luciani. Quale sono le soluzioni? Beh, leggete il libro e lo saprete, mica
posso dirvi tutto! Ripeto, comunque, uno dei capitoli buoni dei 40 libri del
Sole. Un autore da seguire, in altre possibili prove.
“Solo molto più tardi, quando era rimasto
solo con se stesso … si era guardato allo specchio e aveva capito cosa voleva
davvero fare della sua vita. E la risposta era stata: niente. Assolutamente
niente.” (20)
“Non si può mica diventare padri così, da un
giorno all’altro. I nove mesi servono alla madre per farlo, e al padre per
abituarsi all’idea. Un figlio cambia tutto, non sei più tu la tua priorità, ma
è lui.” (36)
Antonio Pagliaro “I cani di Via Lincoln” Sole 24 ore – Noir Italia 27
euro 6,90
[A: 21/01/2014– I: 25/11/2014 – T: 27/11/2014] - &&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 250;
anno 2010]
Pagliaro
è uno dei pochi autori che la lunga collana del Sole sul Noir italiano
ripropone due volte. In questa seconda prova, l’autore (e l’editore) cercano di
diversificare un po’ l’andamento della trama, ma come una pallina della
roulette, visto che siamo a Palermo, sempre lì si ferma: su Mafia e vicinanze.
L’editore cerca di strizzare un occhio per farci capire che stiamo cambiando
tiro, passando la palla del personaggio che si suppone centrale dal giornalista
Lo Coco del precedente libro al suo sodale tenente dei Carabinieri, Nino
Cascioferro. Ma pur restando i due dentro la trama, non c’è un vero
personaggio, quanto una fotografia di un “momento” palermitano, utile a
descrivere connessioni e varia malavita. L’autore cambia invece due cose, il contraltare
estero della Mafia ed il finale non troppo oscuro del primo libro. Al posto dei
russi, abbiamo i cinesi, e la fine, questa volta, dà poco adito alla speranza.
Sui cinesi, devo dire, anche con l’ausilio di una tesi di laurea citata nei
ringraziamenti, fornisce un quadro ampio e ben documentato. A volte con qualche
semplificazione di troppo, anche se sembra accertato che di cinesi, in Italia,
ne muoiano pochino. Anche sulla Mafia, è ovvio, con tutta quella piramide di organismi
para-militari, di collusioni massoniche, nonché, di passaggio nel finale, quasi
a volerne dire e non dire, qualche aggancio con i Servizi Segreti. Ma queste
sono storie note: la città divisa in zone di competenza, il pizzo rilevato in
ogni zona, la suddivisione degli affari, siano essi loschi (come ovvio) siano
essi legali (anche far girare le autoambulanze degli ospedali prevede pagamenti
ed interessamenti vari). Sulla storia, non c’è grande suspense, anche se il
nostro autore ce la mette tutta per cercare di tenerci sul filo. A fronte di
una strage perpetrata in un ristorante cinese, con una decina di morti, tra cui
almeno 6 “limoni”, come li chiama il tenente, si aprono una serie di indagini a
catena. Che portano alla ricostruzione di una complessa trama “al di fuori
della legge”. La comunità cinese, che per trasferirsi all’estero deve poggiarsi
su qualche ramo delle Triadi (o Mafia cinese volgarmente detta), esercita una
sua giustizia interna ed un suo codice comportamentale. Un cinese che sgarra
viene processato e giudicato secondo le leggi patrie, che prevedono anche la
pena di morte. La comunità si trova quindi a dover gestire una serie di
cadaveri: i giustiziati e le morti “naturali” (incidenti, vecchiaia o altro). I
cadaveri che hanno soldi possono essere rispediti in patria. Gli altri, possono
venir utilizzati per trapianti di organi di sicuro lucro. In entrambi i casi i
cinesi si devono appoggiare alla Mafia locale. Quella che, usando le ambulanze
di cui sopra, porta i cadaveri buoni al porto, e quelli cattivi nell’ospedale
di proprietà del capo mafia di Palermo e del presidente della Regione. Da qui
la mira di Pagliaro si fa alta. Che il presidente Cusimano risulta colluso con
tutti (e tanto per non farci mancare nulla finirà anche in televisione a
parlare di mafia con Andreotti). Ed ha le sue mani sia in Procura sia con il
Vecchio, il grande Capo dei Capi, quello protetto dai Servizi Segreti. Poiché
la zona cinese è nel territorio di Saro Trionfante, questi pretende il pizzo su
tutto. Ma la mafia di Bagheria, che controlla la parte “medica”, vuole la
propria fetta senza aumentare quella di Saro. Qui succede il fattaccio: i bravi
di Saro, per mettere paura ai cinesi, fanno irruzione nel ristorante dove
questi però li aspettano. Ne nasce un conflitto a fuoco da cui i morti citati
sopra. Sarebbe tutto da “silenziare” se non fosse di turno il sostituto procuratore
Elisa Rubicone, toscana da poco trasferita in Sicilia, che invece vuole far
luce su tutta la vicenda. Con l’aiuto (marginale) di Lo Coco e (sostanziale) di
Cascioferro, Elisa riesce ad illuminare la trama sopra descritta. Dove però
anche la Mafia si muove, che Saro fece uno sgarro sia ai cinesi che al Vecchio.
Dopo che le armi della diplomazia sono andate all’aria, il Vecchio decide che
sia fatta piazza pulita. In un finale di terrificante realtà, quindi, con il
beneplacito del fratello, vengono uccisi Saro ed il figlioletto Benedetto.
Riesce a fuggire Tanuzzo il killer, ma i cattivi, per stanarlo, fanno fuori la
moglie ed i suoi tre figli. Tano si consegna a Cascioferro, che deve aspettare
Elisa per convalidare la confessione. Ma il Vecchio, prima della verbalizzazione,
riesce a neutralizzare tutti i buoni. Non vi dico come, ma è tutto un po’
scontato, come detto all’inizio. La sola utilità del libro è piuttosto nella
parte cinese, ben documentata. Purtroppo manca la parte ambientale, che la
città è vista di striscio, quasi inesistente. Insomma, una discreta opera di
routine mafiosa, che utilizza il Noir per fare para-denunce, ma che non morde
più di tanto. Neanche con quei cani all’inizio, che danno il titolo al libro, e
che sono dei poveri randagi impiccati a pagina 3 per dare un avvertimento. E
poi scomparsi. Archiviamo Pagliaro e la sua Palermo, in attesa di future prove
più coinvolgenti (che alcuni personaggi delle sue opere meriterebbero di
rimanere in altri romanzi).
Michele Branchi “L’infinito buio” Sole 24 ore – Noir Italia 31 euro
6,90
[A: 07/02/2014 – I: 18/03/2015 – T: 20/03/2015] - &
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 329;
anno 2008]
Che
peccato! Un libro che aveva ingranato con delle buone premesse, si è andato via
via perdendo e disperdendo in banalità poliziesche e criminologiche, nonché
facili stereotipi comportamentali, tanto che alla fine si slava solo uno scarso
libricino. E forse solo per le prime quattro-cinque pagine in cui ci parla di
Genova. Non conosco Branchi, e credo che non ne approfondirò ulteriormente la
conoscenza, ma la prima parte del libro sembrava promettere. abbiamo un
commissario di polizia, Giorgio “Doddo” Capurro incline a nascondersi nelle
pieghe del lavoro, solitario e single, che vive con le due zie, Colomba e
Liliana, che lo accudiscono e pensano di lui tutto il bene possibile. Il nostro
viene incaricato, in mancanza d’altri, dell’indagine sull’uccisione di tal
Elena, strangolata nel giorno del suo compleanno. Caso in cui Capurro si
applica con diligenza, facendoci tra l’altro percorrere i meandri delle attuali
direttrici di indagine poliziesca (autorizzazioni, gip, inchieste,
perquisizioni giuste e meno giuste, intercettazioni legali e non). Intavolando
l’attuale campionario di possibilità (dell’accusa e della difesa) che rendono
difficile l’indagine ed il suo svolgimento sino alla fine, a meno che non ci
sia il reo che confessi. Penetriamo così oltre la cortina delle apparenze del
mondo di Elena, un po’ guidati dall’amica quasi perversa ma redimenda Sara.
Scopriamo il sordido Vitali, profumiere ed adescatore di giovani in cerca di
sensazioni forti. Sentiamo il profumo “Agrifoglio Nero” che aleggia sulla scena
del delitto. Vediamo aggirarsi nell’ombra Lucifero, l’autista del Vitali. Un
piccolo inciso: fin qui, e cioè per circa metà del libro, non si palesano le
doti delle zie come da quarta di copertina. E quando lo faranno, sembra proprio
che l’estensore delle note non abbia letto il libro, né una sua sinopsi dei lettori
della casa editrice. Definire zia Colomba diabolica giallista le dona uno
spessore di analisi poliziesca che lei non avrà mai per tutto il libro. Zia
Liliana è di certo amante della poesia, e dotata di sensibilità estrema, molto
affine a quella del nostro Capurro, ma se la poesia darà aiuto, tutta la parte
sulla medianicità la salterei a piè pari. Quanto poi a ritrovarsi nella mente
dell’assassino, transeat… Questo stacco ci consente di passare dalla parte
interessante del libro, a quella piena di ovvietà. Capurro è infestato da sogni
in cui rivede la sua tata Alba, morta da svariata anni, forse lustri, nonché
Verena, la nipote di Alba, impiccatasi in un bagno scolastico dieci anni prima.
Noi ci fermiamo un attimo, ritorniamo a pagina sette in cui casualmente Capurro
vede passare una ragazza di là dai vetri di un negozio, con un fascio di rose
rosse in mano. Veniamo incidentalmente a sapere che Verena amava i fiori. Elena
fu trovata con una rosa rossa nella vagina. Quando muore una seconda ragazza,
Gabriella, strangolata e sempre nel giorno del compleanno, a noi vengono
sospetti su fantastici collegamenti. Siamo a pagina 158, e posso dirvi che:
essendo le due ragazze morte ad un mese di distanza, sono coetanee, ed
essendosi Verena impiccata a 16 anni, or che ne sono passati 9, le tre avevano
la stessa età. Domanda: perché Capurro impiega 100 pagine circa prima di capire
che magari si poteva indagare negli anni del liceo delle tre? E perché lo fa
solo quando vi viene spinto dalla nonna di Elena e dai suoi ricordi? Perché,
dopo che la seconda morte scagionerebbe il Vitali, ai domiciliari, di lui e del
suo autista si perdono le tracce? Perché tutti i sospetti si appuntano sul
padre di Verena, sessantenne poco agile e molto disturbato, che aveva manifestato
più volte rancore verso le compagne di scuola di Verena, nonché verso la
signorina Giovanna, loro insegnante di ginnastica nonché laureata in lettere?
Intanto Capurro, prima di farsi tutte queste domande, viene omaggiato di
attenzioni dall’assassino/a. una lettera con un verso storpiato di Gozzano (il
falso “amai le rose che non colsi” da Cocotte), da cui l’intrepida zia Liliana
capisce il motivo del ritrovamento del corpo di Elena nella zona di Corigliano,
dove visse Gozzano. Il ritrovamento del corpo di Gabriella ai piedi
dell’ascensore del Portello, dove è inciso un verso del poeta Caproni. Ci
voleva tanto per capire che chi uccide ha una profondo conoscenza della poesia
italiana. Sospetti che si aggravano quando, benché in allerta, Capurro ed i
suoi non riescono a salvare da strangolamenti anche Gaia, un’altra compagna
delle altre morte. Noi, dalla pagina di cui sopra, sappiamo che sia dietro
tutte queste morti. E la lettura di frasi del diario di Verena non può che
confermarlo. Solo l’autore e Capurro possono pensare ad altro. E ci tediano per
170 pagine prima di arrivare all’ovvia conclusione, imbastendo anche un
ulteriore stereotipo, con l’infatuazione di Capurro per l’indolente Giovanna. E
quindi, tiriamo le somme di questo poco avvincente giallo. Basato su di una
morte avvenuta 9 anni prima, causata dalle angherie giovanili di compagne
liceali, verso una ragazzina indifesa, e protetta sola dalla professoressa
Palumbo. Le ragazze, che dopo il suicidio, da un lato si redimono, dall’altro
continuano ad esplorare il loro lato oscuro. Il padre pazzo di dolore che
medita vendetta. Il deus ex machina di tutta la vicenda che non potrà che
confessare (visto le premesse sulla giustizia italiana) prima di uccidersi.
L’inutile poesia di Camillo Sbarbaro (inutile ai fini della storia, benché
bella ed intensa, intitolata “Vita” e piena di sentimenti contrapposti di amore
e odio, che l’autore vuol farci credere pervadere tutta la vicenda) che
contiene il verso terminante con “infinito buio”, preso a prestito per titolare
il libro. Insomma, una vicenda, un libro che parte con un piede buono, ma che
si perde per strada, non avendo seguito gli insegnamenti di Flaubert; dopo aver
scritto, cominciate a togliere, togliere, togliere, che molto è superfluo, e
quello che resta è il romanzo. Come detto altrove, la collana del Noir
italiano, partita con buone premesse, si è voluto allungarla per il successo in
edicola, riempiendola però di nuovi titoli che non sono all’altezza delle
premesse editoriali.
Non vi meraviglierete se questa
settimana, data la fretta, lascio da parte liste e cure, lasciandole a più
calme settimane. Vi ho ben pensato, durante le oltre 4000 miglia macinate nei
Parchi Americani, in un paese diverso e profondo, che non è né New York, né Obama.
E ci sarebbe da riflettere intorno a ciò.
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