domenica 5 luglio 2015

Noir Italia, sesta parte - 05 luglio 2015

Vi sono mancato, eh? Ed allora, sceso dall’aereo, ancora un po’ accaldato, ma sotto le 6 ore del fuso di new York, eccomi qui a riprendere le trame. Ed ovviamente con qualcosa di leggero, che altrimenti i appesantisce anche il ritorno. Siamo così alla penultima puntata della collana del Sole 24 ore, con due prove di buona fattura, quella di Adele Marini e quella di Claudio Pagliari, una quasi discreta del quasi omonimo Pagliero, ma di nome Antonio, ed una solita non riuscita prova (che spesso avviene in queste ultime uscite) di Michele Branchi.
Adele Marini “Milano sola andata” Sole 24 ore – Noir Italia 22 euro 6,90
[A: 06/12/2013– I: 16/11/2014 – T: 18/11/2014] - &&& e ½    
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 297; anno 2005]
Direi una buona prova di media riuscita della collana proposta dal “Il Sole”. Come ho ribadito più volte, è una collana che ha cercato di promuovere autori italiani in genere non molto noti, legando il noir alla località di svolgimento della vicenda. Un’operazione con alti e bassi, ma con una buona media di leggibilità. Così per questo libro della giornalista Adele Marini, vincitore di uno dei tanti premi “gialli” che si aggirano per l’Italia (l’Azzeccagarbugli del 2006). E tuttavia è un noir sui generis, che la trama, pur avendo alcuni momenti di mistero, non è tesa alla morte, ma a volte rilassata, a volte quasi stancamente avanzante per una città di Milano, altrimenti ben dipinta nei suoi momenti estivi di caldo e di traffico. Nonché in alcune sue zone, sia periferiche (e sappiamo come sia a volte degradata quella periferia) sia centrali (dove ritrovo le passeggiate nel parco del Castello Sforzesco che ricordo con piacere). Dicevo trama anomala, che il nodo centrale è legato a filo doppio con l’istituzione italiana della protezione ai collaboratori di giustizia ed alle persone in pericolo per motivi vari. L’altro centro della narrazione è la figura dell’ispettore Mauris, dove si tratteggia un valdostano di montagna, ancora e sempre legato ai suoi monti, che lavora in una Milano che non ama e che vorrebbe lasciare quanto prima. Il primo centro è invece Marcella, una ragazza di quasi trent’anni, adottata da una coppia di immigrati siciliani, morti di morte naturale or non è molto. La nostra, dopo appunto trenta anni di vita dura con i genitori adottivi, si domanda con insistenza quale sia la sua origine e da dove provengano alcuni strani ricordi che nottetempo le affiorano. Comincia così una ricerca un po’ campata per aria, appoggiandosi alla trasmissione “Chi l’ha visto?” (una che è stata tra le migliori ideate dalla Rai). Ed incrociandosi con il nostro ispettore. Che il padre adottivo sembra aver avuto collusioni mafiose in gioventù e Mauris viene coinvolto dal suo sodale amico e magistrato Collura che lavora in quel di Sicilia per inchieste sulle infiltrazioni mafiose al Nord. La sovraesposizione, pur momentanea, coincide con l’intrusione nella sua vita di un personaggio inquietante, un quarantenne sfigurato, che si muove molto nell’ombra, a volte con simpatia e partecipazione, a volte con freddezza estrema. Come quando, accidentalmente, addormentando con il cloroformio una conoscente di Marcella, ne provoca la morte per una inaspettata crisi d’asma. Mauris comincia a sospettare che ci sia qualcosa in più, sotto tutta questa finta normalità. Sospetti che aumentano quando, incaricando Marcella un ex poliziotto catanese in pensione di vedere se e come possano esserci tracce sue in quella città, tale poliziotto viene freddamente ucciso in un agguato di chiaro stampo mafioso (moto che accosta la macchina, e colpi di pistola a freddo). Sarà lo sfregiato, che in una passeggiata nel Parco di cui sopra svela a Marcella i misteri della sua vita. La ragazza in realtà si chiama Mariana e lui ne è il fratellastro. Lei sfuggita volontariamente lui casualmente alla strage perpetrata nella villa di famiglia, quando Mariana aveva quattro anni, dal padre di lei. Questi, non accettando la separazione dalla moglie che si sarebbe portata in Germania, sua patria, figli e figliastri (compresa Mariana), organizza un piano di strage lucido e folle. Liquida tutti i suoi beni (comprese case e ospedali, essendo un chirurgo di grido), li fa esportare in Svizzera collocandoli in un fondo fiduciario, chiude Mariana fuori casa, e stermina tutta la famiglia, compresi i nonni tedeschi, e poi si uccide. Mariana/Marcella erediterà il malloppo al trentesimo anno se non sarà ancora sposata. Per questo dopo la strage, i nonni la danno in adozione ma facendo in modo che i genitori adottivi siano in realtà dei carcerieri neanche tanto soft. Che la “famiglia” vuole riprendersi tutto anche con la forza. Costringendo il fratellastro, che dalla strage aveva avuto la faccia sfigurata dai pallettoni della lupara, senza lesioni in organi vitali, a fare da controllore della vicenda e da tutore cattivo della sorellastra, con la promessa che una parte dei soldi sarebbero serviti ad una plastica facciale. Marcella si confida però con Mauris, cui comincia ad essere legata anche sentimentalmente. E va in Svizzera, dove è riconosciuta come erede legittima. A questo punto le si presentano due strade davanti: seguire il piano del fratellastro, consegnare tutto alla famiglia e tornare alla sua vita (con il pericolo, vero o falso, che qualcuno non rispetti i patti) o seguire il piano di Melis, consegnando tutto (denaro e famiglia) alla Divisione Antimafia e sparire come collaboratrice di giustizia in pericolo di vita. Non vi dico quale sarà la scelta di Marcella, che, quale che sia, ne avrà la vita cambiata. La debolezza della trama sta in alcune scelte “ambigue” della scrittrice: non sono chiari tutti i meccanismi della strage (che potrebbe anche essere stata inventata dal fratellastro come descrizione, visto che questi dodici anni aveva all’epoca), né è ben chiara la posizione proprio del fratellastro (a volte presentato come vittima e quindi solidale con altre vittime, a volte come freddo killer della mafia, senza che nessuno dei due nodi venga realmente sciolto). La scrittura è comunque solida, ed il finale, quale che sia, realistico. Per cui credo sia un libro giustamente premiato, e gradevolmente letto. Un punto a favore dell’autrice e della collana.
Claudio Paglieri “L’enigma di Leonardo” Sole 24 ore – Noir Italia 24 euro 6,90
[A: 20/12/2013– I: 21/11/2014 – T: 25/11/2014] - &&& e ½    
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 360; anno 2013]
Dopo quella di Adele Marini, una nuova bella riuscita della collana del Sole, con la scrittura di buona presa di Claudio Paglieri, non a caso giornalista. L’uso delle parole e delle frasi non si inventa o non si improvvisa. E Paglieri ne dà un buon esempio, riuscendo a scrivere quasi 400 pagine senza stancare troppo il lettore. Certo potrebbe utilmente essere ridotto, qua e la, e tuttavia dovrebbe invece essere allungato nel finale, dove, come purtroppo spesso accade, la risoluzione dei dubbi e dei misteri seminati lungo la trama risulta essere un po’ troppo veloce. Altrettanto gradevole è l’ambientazione ligure, incentrata su Genova, con qualche puntata su Camogli, e su altre descrizioni ambientali che non dispiacciono. Si nota tuttavia che questa, pur essendo una trama consistente in sé, ha dei riflessi e dei richiami sul precedente libro di Paglieri (“La cacciatrice di teste”). Rimandi che sono a volte un po’ criptici, anche se, dall’inizio, costituiscono l’ossatura su cui si sviluppa la trama. In quel libro, credo, il protagonista, il commissario Luciani risolve un mistero aiutato da una ragazza, Sofia Lanni, con la quale sicuramente ha una storia, ed è responsabile della morte di un uomo. Qui, in tutto il libro, Luciani si trova a dover gestire un bimbo, lasciatogli cripticamente in custodia da Sofia, che un sodale del morto cerca di uccidere. Cercando anche di uccidere il commissario. Ma questa, appunto, è l’ossatura, che serve a Paglieri per dare umanità al protagonista, a metterlo alle prese con la crescita di un bimbo da ragazzo – padre, con tutte le implicazioni lavorative che si trovano quotidianamente ad affrontare le ragazze – madri. In questo contesto, mentre scoppia una guerra tra pusher locali e marocchini, si innesta la vicenda principale. Dove trova la morte il conte Moncalvo, pluriottantenne custode di un enigmatico dipinto. La di lui badante, la polacca Agnizka, rimasta senza eredità dalla morte del vecchio (che accudisce da vent’anni e di cui era anche stata amante), decide di vendere mobili ed arredamento ad un rigattiere. Il quale è aiutato da un ragazzo sbandato, sempre sul filo del rasoio con la legge e la droga, che, visto il malloppo che la badante rimedia, decide di appropriarsene indebitamente, con l’aiuto di un suo sodale marocchino. Peccato che in una strana colluttazione Agnizka muoia accidentalmente. A prima vista sembrano morti accidentali, ma ecco che salta fuori Fiammetta, esperta d’arte in crisi matrimoniale, cui il conte aveva chiesto una expertise sul dipinto. Fiammetta avrebbe le prove che si tratta di un autoritratto di Leonardo (da cui il titolo) ma che, nelle vicende della morte del Conte, risulta introvabile. Luciani, da un alto con Alessandro, il piccolo a rimorchio, cerca di barcamenarsi per trovare Sofia. Da un altro, non è insensibile al fascino di Fiammetta, che conosceva dai tempi del liceo, e con la quale riannoda un veloce seppur molto reciprocamente gradevole rapporto. Il terzo elemento è la ricerca della soluzione verso il mistero della scomparsa del dipinto. Altre storie si intrecciano intorno a questi fili, già tanti e ingarbugliati. Il vice di Luciani, bravo ma non diplomatico, si vede scavalcato nella carriera da un lecchino assolutamente incapace. Questo lo manda in crisi, e manda in crisi anche la sua vita familiare. Dovendo Luciani fare anche “il mammo”, chiede di necessità aiuto al sottoposto. Il tandem dei due con qualche colpo di fortuna, riesce a far luce sulla vicenda. Agnizka, temendo appunto di rimanere solo e senza soldi, dà troppe medicine al conte che ne muore. Lei, come detto, perisce in una colluttazione forzata. Il ragazzo sbandato, per pagarsi la droga, è costretto dai pusher ultrà ad uccidere un marocchino, che guarda caso è il fratello del suo sodale di rapine. Il quale lo ricatta, ed a sua volta viene fatto fuori dagli ultrà di cui sopra, mentre il ragazzo viene ucciso dai sodali dei marocchini. Alla fine, nelle carte del ragazzo, si trova il benedetto dipinto. Tutto questo costringe Luciani a venire sulla ribalta, cosa che era attesa con ansia dal killer di cui alle prime righe. E come detto, il finale va di corsa. Fiammetta ritrova il dipinto e la famiglia (anche perché Luciani le fa uno sgarbo grosso), si rifà viva Sofia. Arriviamo così alla scena madre, in cui tutti i nodi vengono al pettine, tutti i fili vengono sciolti, ed ogni storia ha la sua soluzione. Quella di Sofia, quella del piccolo Alessandro, quella del killer, quella del vice, nonché, ovviamente, tutte quelle di Luciani. Quale sono le soluzioni? Beh, leggete il libro e lo saprete, mica posso dirvi tutto! Ripeto, comunque, uno dei capitoli buoni dei 40 libri del Sole. Un autore da seguire, in altre possibili prove.
“Solo molto più tardi, quando era rimasto solo con se stesso … si era guardato allo specchio e aveva capito cosa voleva davvero fare della sua vita. E la risposta era stata: niente. Assolutamente niente.” (20)
“Non si può mica diventare padri così, da un giorno all’altro. I nove mesi servono alla madre per farlo, e al padre per abituarsi all’idea. Un figlio cambia tutto, non sei più tu la tua priorità, ma è lui.” (36)
Antonio Pagliaro “I cani di Via Lincoln” Sole 24 ore – Noir Italia 27 euro 6,90
[A: 21/01/2014– I: 25/11/2014 – T: 27/11/2014] - && e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 250; anno 2010]
Pagliaro è uno dei pochi autori che la lunga collana del Sole sul Noir italiano ripropone due volte. In questa seconda prova, l’autore (e l’editore) cercano di diversificare un po’ l’andamento della trama, ma come una pallina della roulette, visto che siamo a Palermo, sempre lì si ferma: su Mafia e vicinanze. L’editore cerca di strizzare un occhio per farci capire che stiamo cambiando tiro, passando la palla del personaggio che si suppone centrale dal giornalista Lo Coco del precedente libro al suo sodale tenente dei Carabinieri, Nino Cascioferro. Ma pur restando i due dentro la trama, non c’è un vero personaggio, quanto una fotografia di un “momento” palermitano, utile a descrivere connessioni e varia malavita. L’autore cambia invece due cose, il contraltare estero della Mafia ed il finale non troppo oscuro del primo libro. Al posto dei russi, abbiamo i cinesi, e la fine, questa volta, dà poco adito alla speranza. Sui cinesi, devo dire, anche con l’ausilio di una tesi di laurea citata nei ringraziamenti, fornisce un quadro ampio e ben documentato. A volte con qualche semplificazione di troppo, anche se sembra accertato che di cinesi, in Italia, ne muoiano pochino. Anche sulla Mafia, è ovvio, con tutta quella piramide di organismi para-militari, di collusioni massoniche, nonché, di passaggio nel finale, quasi a volerne dire e non dire, qualche aggancio con i Servizi Segreti. Ma queste sono storie note: la città divisa in zone di competenza, il pizzo rilevato in ogni zona, la suddivisione degli affari, siano essi loschi (come ovvio) siano essi legali (anche far girare le autoambulanze degli ospedali prevede pagamenti ed interessamenti vari). Sulla storia, non c’è grande suspense, anche se il nostro autore ce la mette tutta per cercare di tenerci sul filo. A fronte di una strage perpetrata in un ristorante cinese, con una decina di morti, tra cui almeno 6 “limoni”, come li chiama il tenente, si aprono una serie di indagini a catena. Che portano alla ricostruzione di una complessa trama “al di fuori della legge”. La comunità cinese, che per trasferirsi all’estero deve poggiarsi su qualche ramo delle Triadi (o Mafia cinese volgarmente detta), esercita una sua giustizia interna ed un suo codice comportamentale. Un cinese che sgarra viene processato e giudicato secondo le leggi patrie, che prevedono anche la pena di morte. La comunità si trova quindi a dover gestire una serie di cadaveri: i giustiziati e le morti “naturali” (incidenti, vecchiaia o altro). I cadaveri che hanno soldi possono essere rispediti in patria. Gli altri, possono venir utilizzati per trapianti di organi di sicuro lucro. In entrambi i casi i cinesi si devono appoggiare alla Mafia locale. Quella che, usando le ambulanze di cui sopra, porta i cadaveri buoni al porto, e quelli cattivi nell’ospedale di proprietà del capo mafia di Palermo e del presidente della Regione. Da qui la mira di Pagliaro si fa alta. Che il presidente Cusimano risulta colluso con tutti (e tanto per non farci mancare nulla finirà anche in televisione a parlare di mafia con Andreotti). Ed ha le sue mani sia in Procura sia con il Vecchio, il grande Capo dei Capi, quello protetto dai Servizi Segreti. Poiché la zona cinese è nel territorio di Saro Trionfante, questi pretende il pizzo su tutto. Ma la mafia di Bagheria, che controlla la parte “medica”, vuole la propria fetta senza aumentare quella di Saro. Qui succede il fattaccio: i bravi di Saro, per mettere paura ai cinesi, fanno irruzione nel ristorante dove questi però li aspettano. Ne nasce un conflitto a fuoco da cui i morti citati sopra. Sarebbe tutto da “silenziare” se non fosse di turno il sostituto procuratore Elisa Rubicone, toscana da poco trasferita in Sicilia, che invece vuole far luce su tutta la vicenda. Con l’aiuto (marginale) di Lo Coco e (sostanziale) di Cascioferro, Elisa riesce ad illuminare la trama sopra descritta. Dove però anche la Mafia si muove, che Saro fece uno sgarro sia ai cinesi che al Vecchio. Dopo che le armi della diplomazia sono andate all’aria, il Vecchio decide che sia fatta piazza pulita. In un finale di terrificante realtà, quindi, con il beneplacito del fratello, vengono uccisi Saro ed il figlioletto Benedetto. Riesce a fuggire Tanuzzo il killer, ma i cattivi, per stanarlo, fanno fuori la moglie ed i suoi tre figli. Tano si consegna a Cascioferro, che deve aspettare Elisa per convalidare la confessione. Ma il Vecchio, prima della verbalizzazione, riesce a neutralizzare tutti i buoni. Non vi dico come, ma è tutto un po’ scontato, come detto all’inizio. La sola utilità del libro è piuttosto nella parte cinese, ben documentata. Purtroppo manca la parte ambientale, che la città è vista di striscio, quasi inesistente. Insomma, una discreta opera di routine mafiosa, che utilizza il Noir per fare para-denunce, ma che non morde più di tanto. Neanche con quei cani all’inizio, che danno il titolo al libro, e che sono dei poveri randagi impiccati a pagina 3 per dare un avvertimento. E poi scomparsi. Archiviamo Pagliaro e la sua Palermo, in attesa di future prove più coinvolgenti (che alcuni personaggi delle sue opere meriterebbero di rimanere in altri romanzi).
Michele Branchi “L’infinito buio” Sole 24 ore – Noir Italia 31 euro 6,90
[A: 07/02/2014 – I: 18/03/2015 – T: 20/03/2015] - &    
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 329; anno 2008]
Che peccato! Un libro che aveva ingranato con delle buone premesse, si è andato via via perdendo e disperdendo in banalità poliziesche e criminologiche, nonché facili stereotipi comportamentali, tanto che alla fine si slava solo uno scarso libricino. E forse solo per le prime quattro-cinque pagine in cui ci parla di Genova. Non conosco Branchi, e credo che non ne approfondirò ulteriormente la conoscenza, ma la prima parte del libro sembrava promettere. abbiamo un commissario di polizia, Giorgio “Doddo” Capurro incline a nascondersi nelle pieghe del lavoro, solitario e single, che vive con le due zie, Colomba e Liliana, che lo accudiscono e pensano di lui tutto il bene possibile. Il nostro viene incaricato, in mancanza d’altri, dell’indagine sull’uccisione di tal Elena, strangolata nel giorno del suo compleanno. Caso in cui Capurro si applica con diligenza, facendoci tra l’altro percorrere i meandri delle attuali direttrici di indagine poliziesca (autorizzazioni, gip, inchieste, perquisizioni giuste e meno giuste, intercettazioni legali e non). Intavolando l’attuale campionario di possibilità (dell’accusa e della difesa) che rendono difficile l’indagine ed il suo svolgimento sino alla fine, a meno che non ci sia il reo che confessi. Penetriamo così oltre la cortina delle apparenze del mondo di Elena, un po’ guidati dall’amica quasi perversa ma redimenda Sara. Scopriamo il sordido Vitali, profumiere ed adescatore di giovani in cerca di sensazioni forti. Sentiamo il profumo “Agrifoglio Nero” che aleggia sulla scena del delitto. Vediamo aggirarsi nell’ombra Lucifero, l’autista del Vitali. Un piccolo inciso: fin qui, e cioè per circa metà del libro, non si palesano le doti delle zie come da quarta di copertina. E quando lo faranno, sembra proprio che l’estensore delle note non abbia letto il libro, né una sua sinopsi dei lettori della casa editrice. Definire zia Colomba diabolica giallista le dona uno spessore di analisi poliziesca che lei non avrà mai per tutto il libro. Zia Liliana è di certo amante della poesia, e dotata di sensibilità estrema, molto affine a quella del nostro Capurro, ma se la poesia darà aiuto, tutta la parte sulla medianicità la salterei a piè pari. Quanto poi a ritrovarsi nella mente dell’assassino, transeat… Questo stacco ci consente di passare dalla parte interessante del libro, a quella piena di ovvietà. Capurro è infestato da sogni in cui rivede la sua tata Alba, morta da svariata anni, forse lustri, nonché Verena, la nipote di Alba, impiccatasi in un bagno scolastico dieci anni prima. Noi ci fermiamo un attimo, ritorniamo a pagina sette in cui casualmente Capurro vede passare una ragazza di là dai vetri di un negozio, con un fascio di rose rosse in mano. Veniamo incidentalmente a sapere che Verena amava i fiori. Elena fu trovata con una rosa rossa nella vagina. Quando muore una seconda ragazza, Gabriella, strangolata e sempre nel giorno del compleanno, a noi vengono sospetti su fantastici collegamenti. Siamo a pagina 158, e posso dirvi che: essendo le due ragazze morte ad un mese di distanza, sono coetanee, ed essendosi Verena impiccata a 16 anni, or che ne sono passati 9, le tre avevano la stessa età. Domanda: perché Capurro impiega 100 pagine circa prima di capire che magari si poteva indagare negli anni del liceo delle tre? E perché lo fa solo quando vi viene spinto dalla nonna di Elena e dai suoi ricordi? Perché, dopo che la seconda morte scagionerebbe il Vitali, ai domiciliari, di lui e del suo autista si perdono le tracce? Perché tutti i sospetti si appuntano sul padre di Verena, sessantenne poco agile e molto disturbato, che aveva manifestato più volte rancore verso le compagne di scuola di Verena, nonché verso la signorina Giovanna, loro insegnante di ginnastica nonché laureata in lettere? Intanto Capurro, prima di farsi tutte queste domande, viene omaggiato di attenzioni dall’assassino/a. una lettera con un verso storpiato di Gozzano (il falso “amai le rose che non colsi” da Cocotte), da cui l’intrepida zia Liliana capisce il motivo del ritrovamento del corpo di Elena nella zona di Corigliano, dove visse Gozzano. Il ritrovamento del corpo di Gabriella ai piedi dell’ascensore del Portello, dove è inciso un verso del poeta Caproni. Ci voleva tanto per capire che chi uccide ha una profondo conoscenza della poesia italiana. Sospetti che si aggravano quando, benché in allerta, Capurro ed i suoi non riescono a salvare da strangolamenti anche Gaia, un’altra compagna delle altre morte. Noi, dalla pagina di cui sopra, sappiamo che sia dietro tutte queste morti. E la lettura di frasi del diario di Verena non può che confermarlo. Solo l’autore e Capurro possono pensare ad altro. E ci tediano per 170 pagine prima di arrivare all’ovvia conclusione, imbastendo anche un ulteriore stereotipo, con l’infatuazione di Capurro per l’indolente Giovanna. E quindi, tiriamo le somme di questo poco avvincente giallo. Basato su di una morte avvenuta 9 anni prima, causata dalle angherie giovanili di compagne liceali, verso una ragazzina indifesa, e protetta sola dalla professoressa Palumbo. Le ragazze, che dopo il suicidio, da un lato si redimono, dall’altro continuano ad esplorare il loro lato oscuro. Il padre pazzo di dolore che medita vendetta. Il deus ex machina di tutta la vicenda che non potrà che confessare (visto le premesse sulla giustizia italiana) prima di uccidersi. L’inutile poesia di Camillo Sbarbaro (inutile ai fini della storia, benché bella ed intensa, intitolata “Vita” e piena di sentimenti contrapposti di amore e odio, che l’autore vuol farci credere pervadere tutta la vicenda) che contiene il verso terminante con “infinito buio”, preso a prestito per titolare il libro. Insomma, una vicenda, un libro che parte con un piede buono, ma che si perde per strada, non avendo seguito gli insegnamenti di Flaubert; dopo aver scritto, cominciate a togliere, togliere, togliere, che molto è superfluo, e quello che resta è il romanzo. Come detto altrove, la collana del Noir italiano, partita con buone premesse, si è voluto allungarla per il successo in edicola, riempiendola però di nuovi titoli che non sono all’altezza delle premesse editoriali.
Non vi meraviglierete se questa settimana, data la fretta, lascio da parte liste e cure, lasciandole a più calme settimane. Vi ho ben pensato, durante le oltre 4000 miglia macinate nei Parchi Americani, in un paese diverso e profondo, che non è né New York, né Obama. E ci sarebbe da riflettere intorno a ciò. 

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