E non stiamo parlando di marce
delle auto, ma di Guerre. Che questa volta si sono fatte letture storiche, che
vanno dalla prima guerra mondiale di Faulks, agli anni Trenta in Germania del
bellissimo Uhlman, alla storia di Schindler nella scrittura di Keneally, fino
al sempre da rileggere Fenoglio ed alla sua guerra partigiana. Per non
dimenticare e per sottolineare come questi libri si portino tutti sopra la
media. Sarà un caso?
Fred Uhlman “L’amico ritrovato” Feltrinelli s.p. (nella biblioteca di
mamma)
[A: 22/12/2000 – I: 20/12/2014 – T: 21/12/2014] - &&&&
[tit. or.: Reunion; ling. or.: inglese; pagine: 92;
anno 1971]
Un po’ strana la storia di questo
libro. Lo avevo letto una trentina di anni fa, e poi lasciato a depositarsi di
polvere nell’enorme biblioteca paterna (ora solo materna, purtroppo). In
partenza per il primo giro asiatico, in cerca di librini agili, che non
occupassero troppo spazio, mi è capitato tra le mani, ed ho deciso di
aggregarlo al viaggio. E bene ho fatto, che, in due giorni pieni di tosse, nel
ritemprarmi da fatiche sui monti del Vietnam del Nord, l’ho riletto e
nuovamente trovato di un ottimo livello, di scrittura e di contenuti. È una
storia da anni Trenta, tutta interna alla Germania, ed ai suoi sentimenti, che
si svolge quasi completamente a Stoccarda nel 1932. Narrata in prima persona da
Hans Schwarz, ragazzo ebreo di sedici anni, famiglia alto borghese, tranquilla
e rispettata, dalle idee aperte e quasi incurante della propria identità
ebraica. In una pagina, infatti, si capisce come loro si sentano prima di tutto
svevi, poi tedeschi e infine ebrei. Una famiglia che vive rapporti pacifici con
tutte le comunità religiose locali. Durante la seconda metà dell’anno
scolastico entra nella classe di Hans, il nobile Konradin von Hohenfels. Con i
suoi modi altezzosi, Konradin intimidisce e attrae tutti i ragazzi. In special
modo Hans che vorrebbe diventargli amico, cercando mille modi per attirarne
l’attenzione. Finché, inaspettatamente, Konradin rivolge la parola ad Hans,
iniziando una forte amicizia. Sono entrambi figli unici, nessuno dei due ha mai
avuto un vero amico, ed entrambi si sentono profondamenti soli. Piccolo inciso,
è bello fare un parallelo con i sentimenti che rivela il ragazzo Bassani in
“Dietro la porta”, anche se poi vicende e modi letterari sono ben diversi.
Tornando alla storia, Hans da allora invita spesso Konradin a casa sua,
aprendogli cuore e famiglia. Mentre non avviene l’analogo da parte di Konradin,
che, quando lo fa entrare nella sua magione, è sempre quasi di nascosto, e
quando non ci sono i genitori. Il motivo principe è l’odio feroce che la madre
del nobile ha verso gli ebrei, in questo assecondata dall’innamorato anche se
ignavo marito. E quando capita, in un teatro, che Hans incontri Konradin
insieme ai genitori, questi lo ignora. La loro amicizia, da questo momento, si
avvia a rotta di collo verso la rottura. accentuata e corroborata dalla graduale
intrusione dell'ideologia nazionalsocialista nella vita scolastica. Quando l’anno
successivo Hitler prende il potere, tutta la situazione, sociale e scolastica
si deteriora in maniera irreparabile. Hans viene spedito in America da degli
zii, dove rimarrà per sempre, studiando, laureandosi e facendo la sua vita
lontano dalla patria. La famiglia di Konradin rimane invece (come ovvio) a
Stoccarda. Dove rimane anche il padre di Hans, che, alla vista
dell’antisemitismo montante, quasi uno Stefan Zweig ante-litteram, decide di
togliersi la vita. La storia salta verso la vecchiaia di Hans, che viene
raggiunto da un opuscolo che vorrebbe adoperarsi per la costruzione di un
monumento agli ex-alunni del suo Ginnasio di Stoccarda. Qui assistiamo ad una
feroce lotta con se stesso del nostro, che legge e ripercorre con la memoria i
nomi dei compagni amati e odiati. Con una resistenza che vince solo a fatica
per arrivare a sfogliare la lettera H, dove alla fine trova il nome di Konradin:
giustiziato perché coinvolto nel complotto organizzato per uccidere Hitler, in
quella che fu chiamata “Operazione Valchiria” del 20 luglio 1944. Qui, non
senza qualche lacrima, il nostro Hans ritrova il suo amico di gioventù. L’ho
trovata ancora una storia intensa, e sempre leggibile a distanza di anni. Con
quel tocco problematico in più, che affianca il tema dell’amicizia tra
adolescenti e di tutti i problemi che questa comporta, derivante dal contesto
in cui viene inserita la trama. Alla fine anche noi ritroviamo i nostri amici,
Konradin (anche se sempre un po’ altezzoso), Hans ma soprattutto Fred, l’autore
con tutte le sue problematiche di tedesco ed ebreo fuggito anche lui nel ’33
(ma aveva già più di trenta anni) ed il suo errare per il mondo alla ricerca
(ritrovandola) della sua identità.
Beppe Fenoglio “Una questione privata” Einaudi s.p. (nella biblioteca
di mamma)
[A: 06/01/2015 – I: 20/01/2015 – T: 21/01/2015] - &&&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 128;
anno 1963]
Analoga la sorte di questo libro,
rispetto al simile di origine di Uhlman. Certo questo l’ho letto in India e non
in Vietnam, ma sempre derivandolo dalla biblioteca avita. Ne ero anche curioso,
avendo letto una quindicina d’anni fa altri due suoi libri (“La paga del
sabato” e “Il partigiano Johnny”) che ricordo mi avevano lasciato perplesso.
Ottima la scrittura (non sono certo io a doverne parlare bene, ma parla da
sola), senza che la trama mi lasciasse addosso grandi voglie. Cosa che, al
contrario, ha fato questo agile libro. Con tutte gli “accidenti” che porta con
sé. Ultimo libro scritto dall’autore, terminato poco prima di morire, ma pubblicato
“così com’è”, lasciando nel lettore e nei critici il dubbio: era proprio
finito? o mancavano ancora rifiniture ed aggiunte? Noi, fedeli a quanto se ne
scrive in giro, lo prendiamo per quello che è. Per uno dei migliori libri sulla
Resistenza scritti in Italia, come ci sottolineava a lungo nei suoi scritti
Italo Calvino. E come un lungo atto d’amore, con i due temi che si intrecciano
e si completano a vicenda. Con l’ottica di una Resistenza vista dalle file di
uno che comunista non era, ma che si pone dalla parte dei giusti. Con tutte le
problematiche che si ebbero allora (e che non si sono mai sopite) tra le
formazioni garibaldine (legate alla sinistra) e quelle badogliane (formate da
ex-soldati del re, di provenienza spesso monarchiche e liberali). Il
protagonista è per l’appunto un badogliano, di cui sappiamo solo il nome di
battaglia, Milton. Prima del fatidico settembre del ’43, l’allora ufficiale
Milton era di stanza ad Alba, dove frequentava la bella Fulvia, di cui si
innamora. Tanto che, durante la guerra partigiana, capitato nei pressi di Alba,
va alla ricerca della casa della bella, girando (e qui Fenoglio ha belle
descrizioni di un amore forse inespresso ma presente) per luoghi così pieni di
ricordi. Accolto dalla vecchia governante, che gli instilla il tarlo di una
possibile relazione tra Fulvia ed il suo amico Giorgio, ora anche lui nella
resistenza. Alla ricerca di una verità che comunque lo vedrebbe soffrire, si
mette sulle tracce di Giorgio, ma viene a sapere che questi è stato catturato
dai fascisti ed è in attesa di essere giustiziato. Benché macerato da opposti
sentimenti, si pone sulle tracce di un possibile scambio di prigionieri, anche
se le formazioni partigiane al momento non ne hanno. Trova tuttavia le tracce
di un ufficiale fascista che frequenta una ragazza del luogo, fuori dagli
schemi. Con uno stratagemma lo cattura, ma l’ufficiale tenta la fuga, e Milton
è costretto ad ucciderlo. Ormai non ha più mezzi per salvare Giorgio, e per
sapere in ogni caso la verità, torna alla villa dalla governante. Ma mentre sta
per farsi rivelare “la verità” (che né lui né noi sapremmo mai) viene sorpreso
dai fascisti. Fugge, inseguito e mitragliato dalle bande repubblichine. Milton,
probabilmente ferito e spossato, giungerà dopo una folle corsa nei pressi di un
bosco e crollerà a terra. Qui il libro finisce (o secondo alcuni si
interrompe). Fenoglio non ci dice se Milton è colpito dai proiettili, né se
muore, una volta caduto a terra. Ho detto probabilmente ferito, ma Fenoglio non
parla di sangue. Pensiamo solo, intravedendolo tra i ragionamenti di Milton che
corre, che abbia raggiunto una sua consapevolezza sul comportamento di Giorgio
e di Fulvia. Ed il tradimento dei due alla sua amicizia ed al suo indichiarato
amore, forse sono più dolorose delle eventuali ferite. Ripeto, e mi ripeto, un
bel libro sull’amore e sulla Resistenza. Apprezzandone l’intreccio nei
tormentati pensieri di Milton. Che vanno dal trasporto verso Fulvia,
all’incredulità sul comportamento di Giorgio, alla rabbia, ed infine,
all’accettazione. E la guerra, con tutti i suoi dolori, con i non facili
rapporti tra badogliani e garibaldini, lotte aspre, con morti da tutte le
parti. Con la rabbia di non riuscire, sovente, ad avere una unità di lavoro se
non di intenti. Unità che già si portava tutto appresso dalle dolorose pagine
spagnole di dieci anni prima. E, mutando scene e tempi, ancora oggi continua a
fare guasti su tutta la scena politica. Chissà se riuscirò a vedere una pace,
prima di…
Thomas Keneally “La lista di Schindler” Sperling euro 10,50
[A: 04/01/2014– I: 25/02/2015 – T: 01/03/2015] - &&&
e ½
[tit. or.: Schindler’s List; ling. or.: inglese; pagine: 385;
anno 1982]
Se
non avete visto il film di Spielberg, leggetelo. Se lo avete visto, leggetelo.
Non ha lo stesso impatto emotivo, ma è ben scritto. E serve sempre, per non
dimenticare. Intanto, appunto per non dimenticare, tracciamone alcuni contorni
(cioè parliamo un po’ del contesto, dato che sul testo seppur noto torneremo
poi). Il libro nasce dalla casuale conoscenza dell’autore con un ebreo polacco
sopravvissuto allo sterminio, Leopold Pfefferberg. Questi, ex-insegnante a
Cracovia ai tempi dell’invasione nazista, fu uno dei “salvati” da Schindler e
passò la vita a raccogliere testimonianze su quel periodo. L’incontro tra i due
scatenò la scintilla in Keneally, di scrivere un libro basato su quella
avvincente storia. Nasce così, nel 1982, un libro che si intitola “Schindler’s
Ark”, e che con questo titolo vince uno dei più prestigiosi premi letterari britannici,
il Booker Prize (premio aggiudicato ogni anno al miglior romanzo originale
scritto in inglese). Il premio apre le porte a pubblicazioni in tutto il mondo,
tra cui l’America, dove però viene ribattezzato “Schindler’s List”. Capita così
tra le mani di Spielberg che ne intuisce subito le potenzialità, e, dopo una
lunga gestazione (aiutato dallo stesso Keneally) viene da lui trasferito sullo
schermo. Esce nel 1993 e vince 7 premi Oscar (film, regista, sceneggiatura non
originale, colonna sonora, scenografia, fotografia e montaggio). Ma lasciamo da
parte il film, e le semplificazioni che forzatamente si devono fare per ridurre
un libro ed una storia, ad un evento visivo (anche se su qualcosa torneremo), e
torniamo subito all’autore, che era ed è un prolifico scrittore, australiano di
nascita, in patria già precedentemente noto per i suoi scritti, ma che con
questo raggiunge un apice di successo e notorietà che, in effetti, metterà in
ombra tutto il resto della sua produzione. Lo stile che adotta è molto giornalistico,
con riprese ed anticipazioni, laddove tuttavia la materia narrata è talmente di
suo, forte e di grande impatto, che sembrerebbe facile farne comunque un buon
libro. Io credo di no, e credo che il merito di Keneally sia stato proprio
quello di rendere una materia complessa, ed avvenimenti non chiari, con uno
stile ed una capacità di non perdere fili di una intricata matassa per tutto il
lungo svolgersi dei 6 anni intensamente narrati. Il fulcro della narrazione si
spande dall’occupazione nazista della Polonia nel 1939 alla fine della Seconda
Guerra Mondiale nel maggio del 1945. Se si dovesse solo citarne lo scarso filo
che lega le quasi quattrocento pagine, dovremmo parlare dell’epopea di Oskar,
delle sue fabbriche, della sua empatia verso gli ebrei di Cracovia, e tutto
quello che ne conseguì. L’attrito latente (ma potente) con i tedeschi
occupanti, l’amore iniziale verso il nazismo trionfante negli anni ’30 all’odio
sempre più aperto verso le crudeltà di regime. Non siamo qui per ripercorrere tutti
i momenti forti del libro, sottolineando solo la capacità di Keneally di
descriverli quasi asetticamente, ma proprio perché descritti quasi senza
partecipazioni non possiamo che capirne (e sentirlo su di noi) l’orrore.
Seguiamo Schindler che cerca di neutralizzare il depravato Amon Goeth (il “re”
del campo di concentramento dei “suoi ebrei”, e che finirà impiccato a fine
guerra per i suoi crimini). Schindler che si sporca le mani, che minaccia, che
corrompe, che viene arrestato più volte, ma che riesce ad uscirne, più o meno
bene. Fino all’ultima avventura: la guerra si avvia verso la sua conclusione
(scontata) e, a fronte dell’avanzata russa, molti campi vengono chiusi e gli
ebrei spostati o direttamente uccisi sul posto. Schindler tenta la sua ultima carta:
spostare la (finta) fabbrica in Moravia, con più di mille ebrei catalogati come
“specialisti”, ma assolutamente incapaci di avvitare bulloni. Così si salvano
Stern, Pemper dalla memoria di ferro, e Pfefferberg (quello che darà avvio al
processo di “beatificazione” di Schindler). Una volta finita la guerra, Oskar
non riuscirà ad avere più alcun successo. Si trasferisce in Argentina, e la sua
fabbrica fallisce. Torna in Germania, lasciando la moglie in Sudamerica, e
colleziona un fallimento dopo l’altro. Fino a morire a 68 anni nel 1974 e venir
sepolto sul monte Sion a Gerusalemme, ricordato come uno dei “Giusti
dell’umanità”. Il libro, più che il film, insiste sulla contraddittorietà della
figura di Schindler, del suo oscillare tra gaudente incosciente e cosciente
salvatore della patria. Sicuramente, gli
Stern, i Pemper e gli altri a lui vicini lo indirizzarono verso una strada che
da solo non avrebbe forse percorso. Di suo, ci mise la giovinezza guascona, il
desiderio di rivalsa sulle sconfitte del padre, ed altro (ardore sessuale che
lo portava ad avere una moglie e due amanti contemporaneamente sparse sul
territorio, voglia di godere, mangiando e bevendo al limite della cirrosi
epatica). Keneally ha molte immagini forti nel suo scritto (tra cui quella della
bimba con il vestito rosso che sarà un marchio della pellicola di Spielberg).
Quello che purtroppo non risalta è il susseguirsi di persone dietro gli
avvenimenti. Tanti sono i nomi, tante le vicende che a volte ci si perde un
po’, non riuscendo a seguire bene chi sia che fa cosa, e come, e chi ad un
certo punto muore e chi si salva. Comunque, un libro come detto sopra per non
dimenticare, e, seppur letto con difficoltà, di impatto superiore alla media.
Ah, Oskar Schindler era un Toro.
Sebastian Faulks “Il canto del cielo” Beat euro 13,90
[A: 04/01/2014– I: 05/03/2015 – T: 07/03/2015] - &&&
[tit. or.: Birdsong; ling. or.: inglese; pagine: 489; anno 1993]
Ecco
un altro libro che, senza le mie
libropeute, difficilmente avrebbe trovato spazio tra le mie letture. Un libro
che basicamente si svolge in Francia tra il 1910 ed il 1918, ed è pieno,
stracolmo direi, di Prima Guerra Mondiale. Che non è (nonostante i centenari e
le celebrazioni) tra le priorità dei miei interessi. Eppur sono onnivoro, ed
alla fine mangio anche questo, che, tra alti e bassi, ha comunque un suo
interesse ed un suo spazio. Certo a volte sembra ripetere altre trame ed altri
filoni, già letti o sentiti. Ma (a parte una personale critica sulle ultime 100
pagine di cui dirò) è stata una lettura interessante, con qualche domanda che
affiora alla testa. La prima, di carattere solo filologico, è la trasmigrazione
del titolo da Birdsong (il canto egli uccelli) a “Il canto del cielo”.
L’originale ha una duplice attinenza al testo, dove è vero che gli uccelli
volano nel cielo dove, durante la maggior parte del libro, volano granate ed
altre bombe, così che si collega il loro canto alla morte (e questo rimane
nella traduzione italiana). Ma è anche vero che gli uccelli venivano portati
nelle gallerie che si scavavano sottoterra per piazzare mine ed altri ordigni
(servivano a controllare che ci fosse ancora aria con il loro canto), e questa
parte (che poi è uno dei cardini del libro) si perde e viene ignorata. Seconda
domanda è la mistificazione palese della quarta di copertina, dove viene
indicato come “Romanzo nominato Best British Book of the Last 25 years”.
Purtroppo in italiano nominato ha un significato molteplice, ma tutti
convergeranno subito su quello più evidente (tipo “Renzi era un sindaco
nominato Primo Ministro”) Ma il libro non ha vinto la tenzone, ha solo avuto
una “nomination”, cioè è tra quelli indicati come “interessanti” dopo i primi
10. Ed il primo fu “Vergogna” di J. M. Coetzee. Ciò premesso, il libro scorre
con interesse, mentre iniziamo a seguire le vicenda della vita di Stephen
Wraysford, un inglese mandato nel 1910 in Francia, ad Amiens, per indagare su
un possibile investimento inglese in una fabbrica tessile francese. Si installa
quindi nella casa del proprietario della filanda, René Azaire. Ne seguiamo il
percorso cognitivo della vita lavorativa francese, ma soprattutto il continuo
avvicinarsi alla giovane moglie di Azaire, Isabelle. ovviamente scoppia
l’amore, i due, creando scandalo, fuggono insieme. Vivono del tempo nella cittadina
di St. Rémy grazie al lavoro di lui. Poi Isabelle, incinta, sparisce. E Stephen
non la cerca. Passano 6 anni, e troviamo il nostro impegnato nella Prima Guerra
Mondiale. In tutta questa parte c’è un tentativo molteplice: far vedere la
follia della guerra, farci percepire gli orrori della stessa (con tutte le
scene cruente, le morti violente ed insensate), farcene percepire l’intensa
umanità negli uomini che la combattono. E mentre Stephen sprofonda sempre più
nel suo orrore interno, dove, una volta senza Isabelle, comincia a sentirsi
cadere addosso l’inutilità della vita. Ma è un tipo strano, Stephen, per cui fa
comunque il suo dovere, e, spesso, i suoi uomini si salvano mentre intorno
fioccano i morti. Certo, a ben vedere la scrittura e le descrizioni di Faulks
sono debitrici di grandi lasciati, primi fra tutti gli scritti di Remarque sul
lato della riflessione intorno alla guerra e quelli di Hemingway sulle azioni e
sugli ospedali militari. E come non vederci, in controluce, un riflesso di
“Orizzonti di gloria” di Kubrick? Non ve ne dico però il motivo (fate lo sforzo
di vedere il film, stupendo, e di leggere questo libro). C’è in tutta la parte
militare il contro-altare proletario di Stephen nella figura di Jack, quello
che scava sottoterra, capitato per soldi nella guerra, dove anche lui rimane in
trappola. E come per Stephen, anche a lui muoiono tutti gli amici intorno (e
muore di difterite il figlio di otto anni che aveva lasciato a Londra). La
casualità della guerra porta Stephen ancora ad Amiens, dove ricerca Isabelle,
colà tornata. E mutilata da una scheggia di granata, nonché innamorata di un
tenente tedesco, ora tornato in patria. Trova anche Jeanne, la sorella di
Isabelle. Capisce che la storia con il suo primo amore ormai è sepolta, e questo
aggiunge altra amarezza alla già notevole sua. Tuttavia, trova (o comincia a
trovare) un aiuto in Jeanne (mentre non sa che, oltre la porta, c’è Françoise,
figlia sua e di Isabelle). Poi c’è tutta la scena madre, che io avrei tagliato
di decine di pagine, dove Jack e Stephen, agli sgoccioli della guerra,
rimangono intrappolati sottoterra. Ci sono grandi parole, proclami, amicizie,
rinvangamenti. Ma c’è anche la morte di Jack, ed il salvataggio di Stephen da
parte di una plotone tedesco. E quando esce al sole (per sentire di nuovo il
canto degli uccelli) sa che la guerra è finita. Noi tutto ciò lo sappiamo anche
in retrospettiva, perché una grossa parte del racconto si svolge anche nel
1978, dove Elizabeth, la nipote di Stephen, attraversando anche lei una storia
d’amore tormentata, comincia a chiedersi chi sia suo nonno. Elizabeth è
inglese, ma sappiamo che la madre è francese e si chiama Françoise. La nipote
scoprirà i diari del nonno, ed in un colloquio rivelatore con la madre saprà
tutta la storia, della rinascita, dopo due anni dalla fine della guerra, di una
scintilla di vita in Stephen, del suo matrimonio con la nonna, e di tutto il
resto. Non vi svelo però se la nonna sia Isabelle o Jeanne. Ma vi dico che, al
piccolo che nasce (in una nascita che fa rabbrividire per quanto poco
realistica sia), la nostra Elizabeth vorrà dare il nome di John, il figlio
morto del minatore Jack. Finisce qui questo pur bello e interessante libro
contro la guerra. Ma anche con quel sentimento sotterraneo di indecisione tra
paternità e sua assenza e sua presenza coatta. Che vediamo in Stephen che non
sa di aver una figlia, in Isabelle che scappa senza dirglielo, in Robert
(l’amante sposato di Elizabeth) che non sa se accettarlo, in Jack che perde il
figlio e da quel momento ne parla con tutto l’amore possibile. Insomma, un
elemento di discussione bello ed intrigante su biologia e natura.
“Quando c’è vero amore fra le persone, come
ce n’era fra noi, i dettagli non contano.” (479)
Come
sapete, o meglio dovreste sapere, la seconda (ma qui terza per ragioni
viaggiatrici) contiene anche la cura del mese dell’ormai annoso ma sempre
presente “Curarsi con i libri”, questo mese dedicato all’evasione (mentale, non
fisica). In attesa che passi il caldo romano, saluto chi già parte per i
lidi turchi, e chi si prepara ad altri viaggi avventurosi tra Namibia e Perù.
CURARSI CON I LIBRI di
Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
LUGLIO 2015
Anche questo mese l’apporto delle
mie dottoresse è abbastanza scarno. Fanno un elenco di quelli che ritengono i
dieci migliori romanzi di evasione, e ce lo mettono lì senza tanti commenti.
Peccato, che poteva nascere un bel dibattito.
EVASIONE, I DIECI MIGLIORI ROMANZI DI
Quando avete bisogno di scordare
la pena che avete nella testa, nel cuore o nel corpo; quando aspettate un
autobus che non arriva mai; quando volete sganciarvi dalla routine quotidiana,
svignatevela con uno di questi.
Roberto Bolaño I
detective selvaggi
Raymond Chandler Il lungo addio
Joseph Conrad I
duellanti
Julio Cortázar Il
gioco del mondo
Alexandre Dumas Il conte di Montecristo
E. M. Forster Passaggio
in India
Graham Greene Il
nostro agente all’Avana
Jerome K. Jerome Tre uomini in barca. Per non parlare del cane
Stephen King Stagioni
diverse
Nevil Shute Una
città come Alice
Bugiardino
Forse evado troppo in maniera
diversa dalle nostre dottoresse. Fatto sta che ben quattro “evasioni” le ho
praticate molto tempo fa. Mi riferisco a Alexandre Dumas (negli anni Settanta),
a Raymond Chandler (fine anni Ottanta), Forster (inizio anni Novanta) e Graham
Greene (più volte, l’ultima a metà degli anni Novanta). In attesa di trovare il
“coraggio” di acquistare Bolaño, la curiosità di conoscere Shute, o di tornare su autori che non
pratico da anni come Conrad e Cortazar, o la poca voglia di leggere ancora di
Stephen King, cosa ci rimane? Un unico, grandissimo, Jerome K. Jerome.
Jerome Klapka Jerome "Tre uomini in barca” Rizzoli euro 6,80
[pubblicato il 28 novembre
2007]
Perché ogni tanto bisogna
immergersi nei classici ed io Jerome l'avevo letto da dodicenne e mi ricordavo
dei sorrisi. Ora, seppur molto datato, ne trovo l'infinita vena comica (e molta
della comicità successiva viene da lì, per cui a volte sembra obsoleto, ma è
solo precursore). D’altra parte Jerome è un toro! Seguendo la corrente del
fiume, infatti, i tre amici Jerome, Harris e George, assieme al fido cane
Montmorency, viaggiano per giorni sulla loro fragile imbarcazione, scorrendo
lungo le campagne inglesi, e vivono sempre nuove e inattese avventure. Una
serie di gag comiche sulle gioie e sui dolori della vita in barca, unite a divertenti
divagazioni che costituiscono storie a sé stanti, nel miglior stile dello
humour inglese, e dove divagando si passano pagine e pagine, e poi si ritorna
al fiume. Il tutto condito da descrizioni realistiche delle regioni
attraversate dalla simpatica brigata e brevi notazioni di filosofia per non
addetti ai lavori. Se volete fare uno sforzo però, vi consiglio di leggerlo
nella versione originale inglese scaricabile gratuitamente da Wikipedia.
Conclusioni
E già, parliamo di evasione
mentale (il divertente Jerome) o fisica (come quella di Montecristo dal
Castello d’If)? Parliamo di una evasione dal reale (come l’agente cubano di
Greene) o di una confusione con il reale (nell’India di Forster)? Non mi hanno
convinto questa volta. Evadere, portare la mente altrove, include leggerezza,
allegria ed altri stati d’animo “positivi”, non sempre presenti. Io, ad
esempio, avrei citato i primi tre volumi della saga di Asterix e Obelix, dove
il mai raggiunto (ed indimenticato) scrittore e comico Marcello Marchesi, riuscì
a fare una traduzione che per me rimane epica. In “Asterix e i Goti”, per una
serie di motivi, il nostro eroe riesce a far scontrare i Visigoti con gli
Ostrogoti, e commenta: “I Goti che combattono contro i Goti. Che goturia!”
Inarrivabile. Un’evasione di risata che non si arresta dopo più di trenta anni.
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