domenica 19 luglio 2015

Dalla prima alla seconda - 19 luglio 2015

E non stiamo parlando di marce delle auto, ma di Guerre. Che questa volta si sono fatte letture storiche, che vanno dalla prima guerra mondiale di Faulks, agli anni Trenta in Germania del bellissimo Uhlman, alla storia di Schindler nella scrittura di Keneally, fino al sempre da rileggere Fenoglio ed alla sua guerra partigiana. Per non dimenticare e per sottolineare come questi libri si portino tutti sopra la media. Sarà un caso?
Fred Uhlman “L’amico ritrovato” Feltrinelli s.p. (nella biblioteca di mamma)
[A: 22/12/2000 – I: 20/12/2014 – T: 21/12/2014] - &&&&
[tit. or.: Reunion; ling. or.: inglese; pagine: 92; anno 1971]
Un po’ strana la storia di questo libro. Lo avevo letto una trentina di anni fa, e poi lasciato a depositarsi di polvere nell’enorme biblioteca paterna (ora solo materna, purtroppo). In partenza per il primo giro asiatico, in cerca di librini agili, che non occupassero troppo spazio, mi è capitato tra le mani, ed ho deciso di aggregarlo al viaggio. E bene ho fatto, che, in due giorni pieni di tosse, nel ritemprarmi da fatiche sui monti del Vietnam del Nord, l’ho riletto e nuovamente trovato di un ottimo livello, di scrittura e di contenuti. È una storia da anni Trenta, tutta interna alla Germania, ed ai suoi sentimenti, che si svolge quasi completamente a Stoccarda nel 1932. Narrata in prima persona da Hans Schwarz, ragazzo ebreo di sedici anni, famiglia alto borghese, tranquilla e rispettata, dalle idee aperte e quasi incurante della propria identità ebraica. In una pagina, infatti, si capisce come loro si sentano prima di tutto svevi, poi tedeschi e infine ebrei. Una famiglia che vive rapporti pacifici con tutte le comunità religiose locali. Durante la seconda metà dell’anno scolastico entra nella classe di Hans, il nobile Konradin von Hohenfels. Con i suoi modi altezzosi, Konradin intimidisce e attrae tutti i ragazzi. In special modo Hans che vorrebbe diventargli amico, cercando mille modi per attirarne l’attenzione. Finché, inaspettatamente, Konradin rivolge la parola ad Hans, iniziando una forte amicizia. Sono entrambi figli unici, nessuno dei due ha mai avuto un vero amico, ed entrambi si sentono profondamenti soli. Piccolo inciso, è bello fare un parallelo con i sentimenti che rivela il ragazzo Bassani in “Dietro la porta”, anche se poi vicende e modi letterari sono ben diversi. Tornando alla storia, Hans da allora invita spesso Konradin a casa sua, aprendogli cuore e famiglia. Mentre non avviene l’analogo da parte di Konradin, che, quando lo fa entrare nella sua magione, è sempre quasi di nascosto, e quando non ci sono i genitori. Il motivo principe è l’odio feroce che la madre del nobile ha verso gli ebrei, in questo assecondata dall’innamorato anche se ignavo marito. E quando capita, in un teatro, che Hans incontri Konradin insieme ai genitori, questi lo ignora. La loro amicizia, da questo momento, si avvia a rotta di collo verso la rottura. accentuata e corroborata dalla graduale intrusione dell'ideologia nazionalsocialista nella vita scolastica. Quando l’anno successivo Hitler prende il potere, tutta la situazione, sociale e scolastica si deteriora in maniera irreparabile. Hans viene spedito in America da degli zii, dove rimarrà per sempre, studiando, laureandosi e facendo la sua vita lontano dalla patria. La famiglia di Konradin rimane invece (come ovvio) a Stoccarda. Dove rimane anche il padre di Hans, che, alla vista dell’antisemitismo montante, quasi uno Stefan Zweig ante-litteram, decide di togliersi la vita. La storia salta verso la vecchiaia di Hans, che viene raggiunto da un opuscolo che vorrebbe adoperarsi per la costruzione di un monumento agli ex-alunni del suo Ginnasio di Stoccarda. Qui assistiamo ad una feroce lotta con se stesso del nostro, che legge e ripercorre con la memoria i nomi dei compagni amati e odiati. Con una resistenza che vince solo a fatica per arrivare a sfogliare la lettera H, dove alla fine trova il nome di Konradin: giustiziato perché coinvolto nel complotto organizzato per uccidere Hitler, in quella che fu chiamata “Operazione Valchiria” del 20 luglio 1944. Qui, non senza qualche lacrima, il nostro Hans ritrova il suo amico di gioventù. L’ho trovata ancora una storia intensa, e sempre leggibile a distanza di anni. Con quel tocco problematico in più, che affianca il tema dell’amicizia tra adolescenti e di tutti i problemi che questa comporta, derivante dal contesto in cui viene inserita la trama. Alla fine anche noi ritroviamo i nostri amici, Konradin (anche se sempre un po’ altezzoso), Hans ma soprattutto Fred, l’autore con tutte le sue problematiche di tedesco ed ebreo fuggito anche lui nel ’33 (ma aveva già più di trenta anni) ed il suo errare per il mondo alla ricerca (ritrovandola) della sua identità.
Beppe Fenoglio “Una questione privata” Einaudi s.p. (nella biblioteca di mamma)
[A: 06/01/2015 – I: 20/01/2015 – T: 21/01/2015] - &&& e ½  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 128; anno 1963]
Analoga la sorte di questo libro, rispetto al simile di origine di Uhlman. Certo questo l’ho letto in India e non in Vietnam, ma sempre derivandolo dalla biblioteca avita. Ne ero anche curioso, avendo letto una quindicina d’anni fa altri due suoi libri (“La paga del sabato” e “Il partigiano Johnny”) che ricordo mi avevano lasciato perplesso. Ottima la scrittura (non sono certo io a doverne parlare bene, ma parla da sola), senza che la trama mi lasciasse addosso grandi voglie. Cosa che, al contrario, ha fato questo agile libro. Con tutte gli “accidenti” che porta con sé. Ultimo libro scritto dall’autore, terminato poco prima di morire, ma pubblicato “così com’è”, lasciando nel lettore e nei critici il dubbio: era proprio finito? o mancavano ancora rifiniture ed aggiunte? Noi, fedeli a quanto se ne scrive in giro, lo prendiamo per quello che è. Per uno dei migliori libri sulla Resistenza scritti in Italia, come ci sottolineava a lungo nei suoi scritti Italo Calvino. E come un lungo atto d’amore, con i due temi che si intrecciano e si completano a vicenda. Con l’ottica di una Resistenza vista dalle file di uno che comunista non era, ma che si pone dalla parte dei giusti. Con tutte le problematiche che si ebbero allora (e che non si sono mai sopite) tra le formazioni garibaldine (legate alla sinistra) e quelle badogliane (formate da ex-soldati del re, di provenienza spesso monarchiche e liberali). Il protagonista è per l’appunto un badogliano, di cui sappiamo solo il nome di battaglia, Milton. Prima del fatidico settembre del ’43, l’allora ufficiale Milton era di stanza ad Alba, dove frequentava la bella Fulvia, di cui si innamora. Tanto che, durante la guerra partigiana, capitato nei pressi di Alba, va alla ricerca della casa della bella, girando (e qui Fenoglio ha belle descrizioni di un amore forse inespresso ma presente) per luoghi così pieni di ricordi. Accolto dalla vecchia governante, che gli instilla il tarlo di una possibile relazione tra Fulvia ed il suo amico Giorgio, ora anche lui nella resistenza. Alla ricerca di una verità che comunque lo vedrebbe soffrire, si mette sulle tracce di Giorgio, ma viene a sapere che questi è stato catturato dai fascisti ed è in attesa di essere giustiziato. Benché macerato da opposti sentimenti, si pone sulle tracce di un possibile scambio di prigionieri, anche se le formazioni partigiane al momento non ne hanno. Trova tuttavia le tracce di un ufficiale fascista che frequenta una ragazza del luogo, fuori dagli schemi. Con uno stratagemma lo cattura, ma l’ufficiale tenta la fuga, e Milton è costretto ad ucciderlo. Ormai non ha più mezzi per salvare Giorgio, e per sapere in ogni caso la verità, torna alla villa dalla governante. Ma mentre sta per farsi rivelare “la verità” (che né lui né noi sapremmo mai) viene sorpreso dai fascisti. Fugge, inseguito e mitragliato dalle bande repubblichine. Milton, probabilmente ferito e spossato, giungerà dopo una folle corsa nei pressi di un bosco e crollerà a terra. Qui il libro finisce (o secondo alcuni si interrompe). Fenoglio non ci dice se Milton è colpito dai proiettili, né se muore, una volta caduto a terra. Ho detto probabilmente ferito, ma Fenoglio non parla di sangue. Pensiamo solo, intravedendolo tra i ragionamenti di Milton che corre, che abbia raggiunto una sua consapevolezza sul comportamento di Giorgio e di Fulvia. Ed il tradimento dei due alla sua amicizia ed al suo indichiarato amore, forse sono più dolorose delle eventuali ferite. Ripeto, e mi ripeto, un bel libro sull’amore e sulla Resistenza. Apprezzandone l’intreccio nei tormentati pensieri di Milton. Che vanno dal trasporto verso Fulvia, all’incredulità sul comportamento di Giorgio, alla rabbia, ed infine, all’accettazione. E la guerra, con tutti i suoi dolori, con i non facili rapporti tra badogliani e garibaldini, lotte aspre, con morti da tutte le parti. Con la rabbia di non riuscire, sovente, ad avere una unità di lavoro se non di intenti. Unità che già si portava tutto appresso dalle dolorose pagine spagnole di dieci anni prima. E, mutando scene e tempi, ancora oggi continua a fare guasti su tutta la scena politica. Chissà se riuscirò a vedere una pace, prima di…
Thomas Keneally “La lista di Schindler” Sperling euro 10,50
[A: 04/01/2014– I: 25/02/2015 – T: 01/03/2015] - &&& e ½ 
[tit. or.: Schindler’s List; ling. or.: inglese; pagine: 385; anno 1982]
Se non avete visto il film di Spielberg, leggetelo. Se lo avete visto, leggetelo. Non ha lo stesso impatto emotivo, ma è ben scritto. E serve sempre, per non dimenticare. Intanto, appunto per non dimenticare, tracciamone alcuni contorni (cioè parliamo un po’ del contesto, dato che sul testo seppur noto torneremo poi). Il libro nasce dalla casuale conoscenza dell’autore con un ebreo polacco sopravvissuto allo sterminio, Leopold Pfefferberg. Questi, ex-insegnante a Cracovia ai tempi dell’invasione nazista, fu uno dei “salvati” da Schindler e passò la vita a raccogliere testimonianze su quel periodo. L’incontro tra i due scatenò la scintilla in Keneally, di scrivere un libro basato su quella avvincente storia. Nasce così, nel 1982, un libro che si intitola “Schindler’s Ark”, e che con questo titolo vince uno dei più prestigiosi premi letterari britannici, il Booker Prize (premio aggiudicato ogni anno al miglior romanzo originale scritto in inglese). Il premio apre le porte a pubblicazioni in tutto il mondo, tra cui l’America, dove però viene ribattezzato “Schindler’s List”. Capita così tra le mani di Spielberg che ne intuisce subito le potenzialità, e, dopo una lunga gestazione (aiutato dallo stesso Keneally) viene da lui trasferito sullo schermo. Esce nel 1993 e vince 7 premi Oscar (film, regista, sceneggiatura non originale, colonna sonora, scenografia, fotografia e montaggio). Ma lasciamo da parte il film, e le semplificazioni che forzatamente si devono fare per ridurre un libro ed una storia, ad un evento visivo (anche se su qualcosa torneremo), e torniamo subito all’autore, che era ed è un prolifico scrittore, australiano di nascita, in patria già precedentemente noto per i suoi scritti, ma che con questo raggiunge un apice di successo e notorietà che, in effetti, metterà in ombra tutto il resto della sua produzione. Lo stile che adotta è molto giornalistico, con riprese ed anticipazioni, laddove tuttavia la materia narrata è talmente di suo, forte e di grande impatto, che sembrerebbe facile farne comunque un buon libro. Io credo di no, e credo che il merito di Keneally sia stato proprio quello di rendere una materia complessa, ed avvenimenti non chiari, con uno stile ed una capacità di non perdere fili di una intricata matassa per tutto il lungo svolgersi dei 6 anni intensamente narrati. Il fulcro della narrazione si spande dall’occupazione nazista della Polonia nel 1939 alla fine della Seconda Guerra Mondiale nel maggio del 1945. Se si dovesse solo citarne lo scarso filo che lega le quasi quattrocento pagine, dovremmo parlare dell’epopea di Oskar, delle sue fabbriche, della sua empatia verso gli ebrei di Cracovia, e tutto quello che ne conseguì. L’attrito latente (ma potente) con i tedeschi occupanti, l’amore iniziale verso il nazismo trionfante negli anni ’30 all’odio sempre più aperto verso le crudeltà di regime. Non siamo qui per ripercorrere tutti i momenti forti del libro, sottolineando solo la capacità di Keneally di descriverli quasi asetticamente, ma proprio perché descritti quasi senza partecipazioni non possiamo che capirne (e sentirlo su di noi) l’orrore. Seguiamo Schindler che cerca di neutralizzare il depravato Amon Goeth (il “re” del campo di concentramento dei “suoi ebrei”, e che finirà impiccato a fine guerra per i suoi crimini). Schindler che si sporca le mani, che minaccia, che corrompe, che viene arrestato più volte, ma che riesce ad uscirne, più o meno bene. Fino all’ultima avventura: la guerra si avvia verso la sua conclusione (scontata) e, a fronte dell’avanzata russa, molti campi vengono chiusi e gli ebrei spostati o direttamente uccisi sul posto. Schindler tenta la sua ultima carta: spostare la (finta) fabbrica in Moravia, con più di mille ebrei catalogati come “specialisti”, ma assolutamente incapaci di avvitare bulloni. Così si salvano Stern, Pemper dalla memoria di ferro, e Pfefferberg (quello che darà avvio al processo di “beatificazione” di Schindler). Una volta finita la guerra, Oskar non riuscirà ad avere più alcun successo. Si trasferisce in Argentina, e la sua fabbrica fallisce. Torna in Germania, lasciando la moglie in Sudamerica, e colleziona un fallimento dopo l’altro. Fino a morire a 68 anni nel 1974 e venir sepolto sul monte Sion a Gerusalemme, ricordato come uno dei “Giusti dell’umanità”. Il libro, più che il film, insiste sulla contraddittorietà della figura di Schindler, del suo oscillare tra gaudente incosciente e cosciente salvatore della patria. Sicuramente,  gli Stern, i Pemper e gli altri a lui vicini lo indirizzarono verso una strada che da solo non avrebbe forse percorso. Di suo, ci mise la giovinezza guascona, il desiderio di rivalsa sulle sconfitte del padre, ed altro (ardore sessuale che lo portava ad avere una moglie e due amanti contemporaneamente sparse sul territorio, voglia di godere, mangiando e bevendo al limite della cirrosi epatica). Keneally ha molte immagini forti nel suo scritto (tra cui quella della bimba con il vestito rosso che sarà un marchio della pellicola di Spielberg). Quello che purtroppo non risalta è il susseguirsi di persone dietro gli avvenimenti. Tanti sono i nomi, tante le vicende che a volte ci si perde un po’, non riuscendo a seguire bene chi sia che fa cosa, e come, e chi ad un certo punto muore e chi si salva. Comunque, un libro come detto sopra per non dimenticare, e, seppur letto con difficoltà, di impatto superiore alla media. Ah, Oskar Schindler era un Toro.
Sebastian Faulks “Il canto del cielo” Beat euro 13,90
[A: 04/01/2014– I: 05/03/2015 – T: 07/03/2015] - &&& 
[tit. or.: Birdsong; ling. or.: inglese; pagine: 489; anno 1993]
Ecco un  altro libro che, senza le mie libropeute, difficilmente avrebbe trovato spazio tra le mie letture. Un libro che basicamente si svolge in Francia tra il 1910 ed il 1918, ed è pieno, stracolmo direi, di Prima Guerra Mondiale. Che non è (nonostante i centenari e le celebrazioni) tra le priorità dei miei interessi. Eppur sono onnivoro, ed alla fine mangio anche questo, che, tra alti e bassi, ha comunque un suo interesse ed un suo spazio. Certo a volte sembra ripetere altre trame ed altri filoni, già letti o sentiti. Ma (a parte una personale critica sulle ultime 100 pagine di cui dirò) è stata una lettura interessante, con qualche domanda che affiora alla testa. La prima, di carattere solo filologico, è la trasmigrazione del titolo da Birdsong (il canto egli uccelli) a “Il canto del cielo”. L’originale ha una duplice attinenza al testo, dove è vero che gli uccelli volano nel cielo dove, durante la maggior parte del libro, volano granate ed altre bombe, così che si collega il loro canto alla morte (e questo rimane nella traduzione italiana). Ma è anche vero che gli uccelli venivano portati nelle gallerie che si scavavano sottoterra per piazzare mine ed altri ordigni (servivano a controllare che ci fosse ancora aria con il loro canto), e questa parte (che poi è uno dei cardini del libro) si perde e viene ignorata. Seconda domanda è la mistificazione palese della quarta di copertina, dove viene indicato come “Romanzo nominato Best British Book of the Last 25 years”. Purtroppo in italiano nominato ha un significato molteplice, ma tutti convergeranno subito su quello più evidente (tipo “Renzi era un sindaco nominato Primo Ministro”) Ma il libro non ha vinto la tenzone, ha solo avuto una “nomination”, cioè è tra quelli indicati come “interessanti” dopo i primi 10. Ed il primo fu “Vergogna” di J. M. Coetzee. Ciò premesso, il libro scorre con interesse, mentre iniziamo a seguire le vicenda della vita di Stephen Wraysford, un inglese mandato nel 1910 in Francia, ad Amiens, per indagare su un possibile investimento inglese in una fabbrica tessile francese. Si installa quindi nella casa del proprietario della filanda, René Azaire. Ne seguiamo il percorso cognitivo della vita lavorativa francese, ma soprattutto il continuo avvicinarsi alla giovane moglie di Azaire, Isabelle. ovviamente scoppia l’amore, i due, creando scandalo, fuggono insieme. Vivono del tempo nella cittadina di St. Rémy grazie al lavoro di lui. Poi Isabelle, incinta, sparisce. E Stephen non la cerca. Passano 6 anni, e troviamo il nostro impegnato nella Prima Guerra Mondiale. In tutta questa parte c’è un tentativo molteplice: far vedere la follia della guerra, farci percepire gli orrori della stessa (con tutte le scene cruente, le morti violente ed insensate), farcene percepire l’intensa umanità negli uomini che la combattono. E mentre Stephen sprofonda sempre più nel suo orrore interno, dove, una volta senza Isabelle, comincia a sentirsi cadere addosso l’inutilità della vita. Ma è un tipo strano, Stephen, per cui fa comunque il suo dovere, e, spesso, i suoi uomini si salvano mentre intorno fioccano i morti. Certo, a ben vedere la scrittura e le descrizioni di Faulks sono debitrici di grandi lasciati, primi fra tutti gli scritti di Remarque sul lato della riflessione intorno alla guerra e quelli di Hemingway sulle azioni e sugli ospedali militari. E come non vederci, in controluce, un riflesso di “Orizzonti di gloria” di Kubrick? Non ve ne dico però il motivo (fate lo sforzo di vedere il film, stupendo, e di leggere questo libro). C’è in tutta la parte militare il contro-altare proletario di Stephen nella figura di Jack, quello che scava sottoterra, capitato per soldi nella guerra, dove anche lui rimane in trappola. E come per Stephen, anche a lui muoiono tutti gli amici intorno (e muore di difterite il figlio di otto anni che aveva lasciato a Londra). La casualità della guerra porta Stephen ancora ad Amiens, dove ricerca Isabelle, colà tornata. E mutilata da una scheggia di granata, nonché innamorata di un tenente tedesco, ora tornato in patria. Trova anche Jeanne, la sorella di Isabelle. Capisce che la storia con il suo primo amore ormai è sepolta, e questo aggiunge altra amarezza alla già notevole sua. Tuttavia, trova (o comincia a trovare) un aiuto in Jeanne (mentre non sa che, oltre la porta, c’è Françoise, figlia sua e di Isabelle). Poi c’è tutta la scena madre, che io avrei tagliato di decine di pagine, dove Jack e Stephen, agli sgoccioli della guerra, rimangono intrappolati sottoterra. Ci sono grandi parole, proclami, amicizie, rinvangamenti. Ma c’è anche la morte di Jack, ed il salvataggio di Stephen da parte di una plotone tedesco. E quando esce al sole (per sentire di nuovo il canto degli uccelli) sa che la guerra è finita. Noi tutto ciò lo sappiamo anche in retrospettiva, perché una grossa parte del racconto si svolge anche nel 1978, dove Elizabeth, la nipote di Stephen, attraversando anche lei una storia d’amore tormentata, comincia a chiedersi chi sia suo nonno. Elizabeth è inglese, ma sappiamo che la madre è francese e si chiama Françoise. La nipote scoprirà i diari del nonno, ed in un colloquio rivelatore con la madre saprà tutta la storia, della rinascita, dopo due anni dalla fine della guerra, di una scintilla di vita in Stephen, del suo matrimonio con la nonna, e di tutto il resto. Non vi svelo però se la nonna sia Isabelle o Jeanne. Ma vi dico che, al piccolo che nasce (in una nascita che fa rabbrividire per quanto poco realistica sia), la nostra Elizabeth vorrà dare il nome di John, il figlio morto del minatore Jack. Finisce qui questo pur bello e interessante libro contro la guerra. Ma anche con quel sentimento sotterraneo di indecisione tra paternità e sua assenza e sua presenza coatta. Che vediamo in Stephen che non sa di aver una figlia, in Isabelle che scappa senza dirglielo, in Robert (l’amante sposato di Elizabeth) che non sa se accettarlo, in Jack che perde il figlio e da quel momento ne parla con tutto l’amore possibile. Insomma, un elemento di discussione bello ed intrigante su biologia e natura.
“Quando c’è vero amore fra le persone, come ce n’era fra noi, i dettagli non contano.” (479)
Come sapete, o meglio dovreste sapere, la seconda (ma qui terza per ragioni viaggiatrici) contiene anche la cura del mese dell’ormai annoso ma sempre presente “Curarsi con i libri”, questo mese dedicato all’evasione (mentale, non fisica). In attesa che passi il caldo romano, saluto chi già parte per i lidi turchi, e chi si prepara ad altri viaggi avventurosi tra Namibia e Perù.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

LUGLIO 2015
Anche questo mese l’apporto delle mie dottoresse è abbastanza scarno. Fanno un elenco di quelli che ritengono i dieci migliori romanzi di evasione, e ce lo mettono lì senza tanti commenti. Peccato, che poteva nascere un bel dibattito.

EVASIONE, I DIECI MIGLIORI ROMANZI DI

Quando avete bisogno di scordare la pena che avete nella testa, nel cuore o nel corpo; quando aspettate un autobus che non arriva mai; quando volete sganciarvi dalla routine quotidiana, svignatevela con uno di questi.
 Roberto Bolaño        I detective selvaggi
 Raymond Chandler   Il lungo addio
 Joseph Conrad         I duellanti
 Julio Cortázar          Il gioco del mondo
 Alexandre Dumas     Il conte di Montecristo
 E. M. Forster           Passaggio in India
 Graham Greene       Il nostro agente all’Avana
 Jerome K. Jerome    Tre uomini in barca. Per non parlare del cane
 Stephen King           Stagioni diverse
 Nevil Shute             Una città come Alice

Bugiardino

Forse evado troppo in maniera diversa dalle nostre dottoresse. Fatto sta che ben quattro “evasioni” le ho praticate molto tempo fa. Mi riferisco a Alexandre Dumas (negli anni Settanta), a Raymond Chandler (fine anni Ottanta), Forster (inizio anni Novanta) e Graham Greene (più volte, l’ultima a metà degli anni Novanta). In attesa di trovare il “coraggio” di acquistare Bolaño, la curiosità di conoscere Shute, o di tornare su autori che non pratico da anni come Conrad e Cortazar, o la poca voglia di leggere ancora di Stephen King, cosa ci rimane? Un unico, grandissimo, Jerome K. Jerome.
Jerome Klapka Jerome "Tre uomini in barca” Rizzoli euro 6,80
[pubblicato il 28 novembre 2007]
Perché ogni tanto bisogna immergersi nei classici ed io Jerome l'avevo letto da dodicenne e mi ricordavo dei sorrisi. Ora, seppur molto datato, ne trovo l'infinita vena comica (e molta della comicità successiva viene da lì, per cui a volte sembra obsoleto, ma è solo precursore). D’altra parte Jerome è un toro! Seguendo la corrente del fiume, infatti, i tre amici Jerome, Harris e George, assieme al fido cane Montmorency, viaggiano per giorni sulla loro fragile imbarcazione, scorrendo lungo le campagne inglesi, e vivono sempre nuove e inattese avventure. Una serie di gag comiche sulle gioie e sui dolori della vita in barca, unite a divertenti divagazioni che costituiscono storie a sé stanti, nel miglior stile dello humour inglese, e dove divagando si passano pagine e pagine, e poi si ritorna al fiume. Il tutto condito da descrizioni realistiche delle regioni attraversate dalla simpatica brigata e brevi notazioni di filosofia per non addetti ai lavori. Se volete fare uno sforzo però, vi consiglio di leggerlo nella versione originale inglese scaricabile gratuitamente da Wikipedia.

Conclusioni


E già, parliamo di evasione mentale (il divertente Jerome) o fisica (come quella di Montecristo dal Castello d’If)? Parliamo di una evasione dal reale (come l’agente cubano di Greene) o di una confusione con il reale (nell’India di Forster)? Non mi hanno convinto questa volta. Evadere, portare la mente altrove, include leggerezza, allegria ed altri stati d’animo “positivi”, non sempre presenti. Io, ad esempio, avrei citato i primi tre volumi della saga di Asterix e Obelix, dove il mai raggiunto (ed indimenticato) scrittore e comico Marcello Marchesi, riuscì a fare una traduzione che per me rimane epica. In “Asterix e i Goti”, per una serie di motivi, il nostro eroe riesce a far scontrare i Visigoti con gli Ostrogoti, e commenta: “I Goti che combattono contro i Goti. Che goturia!” Inarrivabile. Un’evasione di risata che non si arresta dopo più di trenta anni.

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