domenica 12 luglio 2015

Viaggiando - 12 luglio 2015

Certo, perché viaggiando si legge, e leggendo si viaggia. Ben arrivati ai nuovi lettori, e, visto che è appena finito un “avventuroso” viaggio americano, eccovi qualche lettura di precedenti viaggi. Letture un po’ sottotono, che altre volte i viaggi avevano suscitato migliori fortune. Un saluto ai sempre cari sposini, un invito a visitare il Vietnam leggendo le guide (o al massimo la biografia di Von Nguyen Giap), e la speranza di tornare spesso e presto in India. Il Perù è sempre “’nu piezz e’ core”, ma non sarà semplice il ritorno.
Mame Sanchez “La felicita es un tè contigo” Booklet s.p. (regalo di Alessandra)
[A: 07/10/2014 – I: 12/11/2014 – T: 26/11/2014] - && e ½    
[tit. or.: originale; ling. or.: spagnolo; pagine: 334; anno 2013]
Un libro entrato nella mia libreria come sotto-prodotto del matrimonio di Mario e Inés. E, pur involontariamente credo, la donatrice ha fatto centro, che uno dei nodi del romanzo è il rap­porto e poi il matrimonio tra due persone di diversa nazione. La donna, com’è giusto, è spa­gnola, mentre il cavaliere è inglese. Ma lo spirito della interrazialità rimane e nella parte finale crea delle situazioni che, alla luce dell’altro matrimonio, mi sono risultate di sottile umorismo. La cavalcata attraverso il libro è stato comunque lunga, vuoi per l’idioma ispanico, non propria la mia prima lingua, vuoi per l’utilizzo di qualche puntata idiomatica che mi ha fermato nello scorrimento. Semplice invece la sintassi, ed alla fine, comprensibile il tutto. Per venire al libro ed al suo contenuto, in realtà mi aspettavo qualcosa di più smaccatamente umoristico ed an­che romantico, dove invece la storia, pur ben congegnata, alla fine dei conti è un po’ troppo li­neare e scontata. Da un alto c’è una rinomata casa editrice inglese, costruita intono alla fami­glia Craftsman. Famiglia tipicamente anglo-sassone (soprattutto dipinta qui da una spagnola), un po’ ottusa nel suo perbenismo, legata alla tradizione che i figli maschi prendano il nome di personaggi letterari. Così il padre Marlowe chiama i suoi due figli Holden (come il giovane sa­lingeriano) e Atticus (con un omaggio, condiviso, al grande Atticus Finch de “Il buio oltre la siepe”). Sempre pronta per un buon tè (ed Atticus è drogato di Earl Grey, come qualcuno lo è del Darjeeling). La loro vita scorre passabilmente, tra riunioni nella villa nel Kent, laurea ad Oxford, ed altri inglesismi. Il giovane Holden (ah, ah) sparisce presto di scena, dopo aver messo in cinta una sgallettata, ed averla dovuta sposare. Atticus, al contrario, è destinato ad una grande strada gloriosa nell’editoria, finché il padre non lo manda a fare il “tagliatore di te­ste” per chiudere la filiale spagnola della casa editrice. Qui Atticus incontra una “banda” di donne letterarie, simpaticamente e carnalmente spagnole. Gaby, la maga dell’informatica e Asuncion l’indefessa organizzatrice, Soleá l’inviata speciale e Maria la capo contabile, nonché Berta, il capo indiscusso. Le quali si inventano non si sa quale panzana per spedire Atticus sulla pista di una fantomatica poesia perduta di Garcia Lorca in quel di Granada. Ovviamente, con al seguito la più bella del quintetto, quella di nero capello ed occhio azzurro: Soleá. Ovviamente, denso di ironia l’incontro scontro inglese – gitani. Ma Atticus (che aveva sempre una vena poetica in cuore, e cinque libri erotici sul comodino) cade perdutamente innamorato della bella, che invece sembra non pensarlo. Ed è talmente preso che decide di imparare a suonare la chitarra e restare a Granada, tagliando i ponti con la famiglia. Il buon padre Marlowe, dopo tre mesi di inutile attesa, decide di andare armi e bagagli a Madrid, coinvolgendo la polizia spa­gnola, ed in particolare l’ispettore Manchego, nelle indagini. Che portano a poco sul fronte Atti­cus, ma portano Manchego ed innamorarsi di Berta, e questa a scoprire la tresca di Maria. La quale, nonostante sposata e plurimadre, cade innamorata di un fotografo freelance detto “Il pirata”. Che la convince a stornare prima piccole poi sempre più ingenti somme dal bilancio della filiale spagnola. Per questo la detta filiale era in perdita, e non per scarso rendimento. Una volta costrette le spagnole alla confessione, tutti si recano in Granada, giusto in tempo per assistere alla “caduta” di Soleá che finalmente accetta la corte di Atticus. Tutto finirà in gloria, i due si sposano, si sposano Berta e Manchego, Maria contribuirà all’arresto del pirata, ma, confessando le sue colpe, dovrà fare un piccolo passaggio in prigione prima di tornare alla sua famiglia ed al suo lavoro, Gaby rimane finalmente incinta, e Asuncion si mette a dieta. Tutto comunque legato ancora e sempre dal filo della finzione letteraria, che le poesie di Lorca erano una fuffa, ma Remedios, la nonna di Soleá, confessa di essere (e ne ha le prove) una figlia se­greta di Hemingway durante il tempo spagnolo dello scrittore (che porta in dono alla bella quei deliziosi occhi azzurri). L’ultimo tocco di classe umoristica è la preparazione della seconda edi­zione del  matrimonio, che dopo una tre giorni spagnola, viene replicato nella dimora avita del Kent. Ed ho gustato con finezza la presa in giro di mamma Moira, ma anche di tutti gli inglesi del castello, che saranno presi da uno stesso vortice di passione, che prenderà Atticus e Soleá durante la lettura di un capitolo del Kamasutra. E che precederà di nove mesi la nascita dei loro due gemelli. Che si chiameranno … Tom e Huckleberry! Ci sono altre battute che cospar­gono di piccoli pezzetti di cioccolata questa felicità del tè, ma, come detto, la storia si capisce dalla prima mezza pagina. È solo curiosamente intrigante il modo in cui Maria del Carmen detta Mamen porta avanti la sua storia.
“Escuchaban a su amigo hablar de la … cincuentona y normalita … ya no aceptaban que ellos mismos estaban a punto de cumplir los sesenta.” [Ascoltavano il loro amico parlare della ... cinquantenne medio-bella ... e non s accorgevano che loro stessi stavano arrivando ai ses­santa.] (196)
Autori Vari « Histoires drôles du people vietnamien » Editions Thé Giôi euro 2
[A: 20/12/2014– I: 20/12/2014 – T: 20/12/2014] - && e ½
[tit. or.: Truyện cười dân gian Việt Nam; ling. or.: vietnamita; pagine: 147; anno 2011]
Stavo nel tristissimo aeroporto di Hanoi (anzi Hà Nội come scrivono i locali), alla fine di un bellissimo viaggio attraverso tutto il Vietnam, e, come al solito, cercavo un libro di un qualche autore locale da portarmi a ricordo e memento del viaggio. Ci crederete? Non c’è un libraio, un’edicola in tutto l’aeroporto. Storto come non mai, l’unica cosa locale trovata è questo libricino, tradotto dal vietnamita in francese. Ed allora prendiamolo comunque, e, breve e poco coinvolgente, l’ho letto nelle otto ore di volo che mi riportavano a Roma. Devo dire che non mi ha coinvolto in maniera entusiastica. Ho trovato le brevi storielle non particolarmente “divertenti” almeno per un gusto direi occidentale. Mi ha però dato due spunti di approfondimenti, che cercherò di condividere. Il primo riguarda la lingua, il vietnamita. Dopo tre settimane che ronzava nell’orecchio, eccola ben scritta. Ed allora approfondiamola un po’. Innanzi tutto, è la 19^ lingua parlata al mondo come numero di utilizzatori (subito prima dell’italiano che è la 20^). La cosa buffa è che, ovviamente oltre ad essere la più parlata in Vietnam, è la terza lingua del Texas, dopo spagnolo e inglese! Ed è una lingua strana, di cui si conosce poco l’origine, essendo passata dall’orale allo scritto da pochi secoli, ed utilizzando un alfabeto latino per una pronuncia molto “cantata” (alla cinese). Tant’è che per ogni sillaba ci possono essere sei diverse tonalità di pronuncia. Impossibile da studiare. La sola cosa che mi rimane è che praticamente è monosillabica, cioè ogni sillaba viene scritta a sé, e siamo noi che la occidentalizziamo. Cioè loro scrivono non Vietnam ma Việt Nam. Il secondo è legato al riso, all’uso del comico. Che non è solo vietnamita, ma universale. Qui, nello specifico culturale, l’umorismo vietnamita si fonda sulla denuncia in un modo satirico e/o ironico dell’epoca feudale in cui enormi ingiustizie colpivano le persone più modeste e povere. La situazione umoristica così creata cerca quindi di trasmettere messaggi in un modo leggero, ma pieno di significati profondi e duri, al fine di colpire obiettivi ben definiti. Tuttavia, l'umorismo, che provoca la risata, può essere compresa solo se si appartiene alla stessa cultura ed alla stessa tradizione che la esprime (come vedremo dagli esempi sotto riportati). Tutta la letteratura popolare vietnamita è costellata dall’umorismo. Infatti, il popolo vietnamita è un popolo ottimista ed amante della vita. E solo attraverso il riso è riuscito ad attraversa tutti i momenti bui del suo passato lontano e vicino (dalla dominazione cinese a quella khmer, dai francesi agli americani). Anche queste storie ne sono esempi classici, ma, seguendo quanto detto sopra, sono talmente pieni di “vietnamesità” che io li ho letti in modo antropologico, e di certo mi hanno fatto ridere in maniera non proprio diretta. Vediamo, ad esempio, una delle storielle più corte.
Un uomo ricco dice ad un mendicante "Ti darò 1000 piastre e ti picchierò a morte. Sei d'accordo?” - Ti lascerò picchiarmi solo fino a che il mio corpo sia mezzo morto, perché non ho bisogno che di 500 piastre".
Fortunatamente, alcune spiegazioni (sia interne che in seguito per mia documentazione) riportano che il riso scaturisce dal fatto che non si possa “picchiare affinché sia mezzo morto”, perché la morte non può essere divisa: o si è vivi o si è morti.
Capite bene come sia difficile ridere di queste battute. Quando poi non siano legate talmente alla lingua come la seguente:
“Una vecchia va al mercato perché gli si dica il futuro, dato che spera di sposarsi; un indovino gli risponde ‘C’è interesse/gengiva, ma denti no!”.
Il riso scatta perché viene usato il termine lợi che vuol dire « interesse », ma che, unito al suffisso “dente” significa “gengiva”. Quindi la vecchia ha pochi denti nella gengiva. Ce ne vuole per ridere, eh! Ma torniamo alla genesi delle storie, e, benché non se ne rida più di tanto, vediamo come la maggior parte, come sopra accennato, siano ancora e sempre ambientate in ambito feudale, dove c’è il signore (o il mandarino, o il bonzo) che fa la parte del cattivo ed il servo che fa la parte della vittima, ma che cerca, con la sua intelligenza ed ottimismo, di riscattare il suo ruolo con l’umorismo. Dopo il lungo soggiorno vietnamita, credo di concordare con questa visione ironica della vita. Penso che solo con tutto questo corredo di ottimismo, il popolo vietnamita sia potuto diventare quello che ora ho incontrato. Comunque, il consiglio è di visitare il paese, e lasciare a momenti diversi questa poco coinvolgente lettura.
Madhumita Mukherjee “The other side of the table” Fingerprint euro 3
[A: 01/02/2015– I: 09/02/2015 – T: 11/02/2015] - && e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: inglese; pagine: 240; anno 2012]
Dopo la delusione patita all’aeroporto di Hanoi, in occasione del viaggio in India, ho deciso di ricercare una libreria nell’ultima grande città prima della partenza, per poter riportare con me un ricordo ed un ripasso del viaggio trascorso. Ed a Kolkata ho trovato una libreria fantastica, la Oxford Bookshop, fornitissima, dove ho preso questo libro che è scritto da un’autrice della stessa Kolkata. Non solo, era stato anche presentato al pubblico da pochi giorni, ed ho ricevuto in sovrappiù un libro con la dedica dell’autrice. Fatte queste belle premesse, tuttavia, mi aspettavo qualcosa di meglio, non tanto nella scrittura, che risulta gradevole e leggibile, ma nella trama stessa, che, ad una prima occhiata, mi aveva intrigato. Un libro basato su di uno scambio di lettere tra una signorina di Kolkata ed un suo amico, di qualche anno più grande, da alcuni anni trasferitosi a Londra. Avevo ancora nella mente il romanzo epistolare di 84, Charing Cross, e pensavo a qualcosa di quanto meno appassionante. Un procedere nel tempo, con la visuale di avvenimenti condivisi ma visti con due sguardi diversi. Chi rimane in patria, e chi da essa si allontana, pur portandola sempre con sé. Seguiamo invece la corrispondenza tra Uma, studentessa al Kolkata National Medical College, ed il suo amico Abhi, specializzando in medicina a Londra. I due condividono tutto apertamente: le infatuazioni, gli insegnanti, i professori, le classi, il primo bacio, il primo corteggiamento, il matrimonio, la gravidanza, l’aborto, il divorzio, da parte di Uma; i colleghi, la vita in ospedale, le donne, le convivenze, da parte di Abhi. Non sembra esserci, almeno apertamente, un coinvolgimento sentimentale tra i due. Inoltre, ci sono 10 anni di differenza tra i due. Che all’inizio della storia, con Uma non ancora ventenne, si sentono più che nove anni dopo, alla fine del romanzo. Certo è spesso più di Uma che seguiamo le vicende, quando decide di diventare chirurgo, unica donna del suo corso, quando usa un  matrimonio forzato per uscire dalla cerchia familiare (per cadere senza difese nella cerchia dell’ignavo marito), e quando decide di divorziare, in seguito all’aborto del possibile figlio. Ed è sempre Abhi che da lontano la sostiene in ogni sua decisione. Può non essere pienamente d’accordo, può sottolineare i pericoli, ma gli amici sono lì per sostenerti lungo la via. Solo verso il finale entriamo di più nella vita del londinese, quando ad Abhi viene diagnosticato un tumore al cervello. Ne seguiamo il dramma, lui che doveva e poteva diventare un grande chirurgo, ritrovarsi a non poter riprendere il bisturi in mano, dato che la malattia ha portato tremori, abbassamenti improvvisi della vista, ed altre marginali disabilità, che però sono micidiali nella professione di un chirurgo. Ed è solo a questo punto che Uma esce allo scoperto, e decide, contro tutto e tutti, di raggiungere Abhi a Londra, e di aiutarlo da vicino. Nascerà una storia? Qualcosa in più? L’autrice non lo dice, anche se possiamo intuire i connotati di un possibile futuro. Perché quello che a Madhumita importa, oltre alla descrizione degli ambienti medici e sociali anglo-indiani, è proprio il discorso della disabilità e della ripresa. Infatti, lei è (era) un pediatra di successo, cui cinque anni fa viene diagnosticato un tumore aggressivo al seno. Motivo per cui, lei amante dei viaggi (come rilevo da un’intervista rilasciata dopo la presentazione), per un anno è costretta a fare un unico viaggio: dal divano al letto, e viceversa. Ed in questo anno matura la decisione di scrivere, anche in modo trasposto, della sua personale esperienza. adottando lo stile epistolare, proprio perché ama il libro da me sopra citato, e l’altro, anch’esso bello e da poco letto, di Alice Walker “Il colore viola”. Riuscendo anche nell’intento di farci capire cosa succede ad un  medico (Abhi nel romanzo) quando diventa paziente, quando, come dice il titolo, si siede “dall’altro lato del tavolo”. Ma pur se ben scritto, e con qualche squarcio della vita indiana, così come mi aspettavo quando l’ho acquistato (in particolare quando Uma si aggira per la parte di Kolkata dove io avevo il mio alloggio), non è incisivo come credevo. Certo si capisce il dramma del dottore, ed altre dolenti note che sono molto vicine all’autrice. senza però affondare il bisturi sino in fondo. Ed anzi, lasciando poi dei margini di aleatorietà che farebbero dire ad un maligno: ma ci sarà una seconda puntata? Fortunatamente, credo che il mio rapporto con Madhumita finisca qui. Anche se le auguro di superare e per sempre tutti i suoi problemi.
“To each of us, we are the centre of the world. The only life that really matters.” [Per ognuno di noi, siamo il centro del mondo. L’unica forma di vita che conta davvero.] (194)
Santiago Roncagliolo “Abril Rojo” Alfaguara euro 20
[A: 25/04/2015 – I: 25/04/2015 – T: 29/04/2015] - &&    
[tit. or.: originale; ling. or.: spagnolo; pagine: 329; anno 2006]
Al solito alla fine di un nuovo viaggio, acquisto un libro del paese che sto pe lasciare, e laddove posso, nella sua lingua. Qui siamo nell’idioma ispanico, quindi si può fare. E si evita il pluri-acclamato Vargas Llosa, che a me, onestamente, non è che piaccia gran che. Mi capita quindi questo Roncagliolo, che mi intriga in quanto vincitore di quel premio Alfaguara che vinse un altro libro che mi accompagnò qualche viaggio fa (“Guarda come ti amo” di Luis Leante). Purtroppo, a libro letto, una piccola delusione. Mi aspettavo di più. Forse qualcosa di più concreto, mentre sempre la scrittura rimane sospesa tra realismo e sogno, tanto che ci si chiede, alla fine, se gli avvenimenti che abbiamo seguito siano stati reali o siano (in tutto o in parte) frutto della mente che man mano si va deteriorando del protagonista, il procuratore distrettuale aggiunto Félix Chacaltana Saldívar. Avvenimenti che, nello specifico, hanno anche un interesse che va oltre la scrittura in sé, in quanto percorrono momenti che nella realtà peruviana sono di grande intensità: le attività del gruppo rivoluzionario “Sendero Luminoso” (cui ricordo il nome completo sia “Partito Comunista del Perù sul sentiero luminoso di Mariátegui”, dove ricordo ancora che José Carlos Mariátegui è stato un letterato e politico peruviano morto nel 1930, e noto per le sue idee di formare una via indios al comunismo), le contro-attività delle forze di polizia, fino alla resa dei vertici storici (anche se ci sono ancora fazioni del gruppo operanti nelle valli peruviane). La storia si colloca intorno alla Pasqua del 2000, intrecciandosi con le elezioni provinciali, che porteranno, alle fine dell’anno, a quelle presidenziali ed alla caduta del corrotto Fujimori. Qui siamo ad Ayacucho, una delle roccaforti storiche di Sendero, e dove si susseguono una serie di morti in stile truculento. Ognuna delle persone assassinate viene private di una parte del corpo. Si comincia dalle braccia, per proseguire con le gambe e finire con la testa. Ed è proprio Félix che viene quasi costretto ad indagare su questi assassini, lui che non ha una grande esperienza pregressa, che ha chiesto di essere trasferito da Lima nella natia Ayacucho in seguito alla morte della madre. Madre con la quale ha un morboso rapporto, quasi tenendola in vita con una casa piena di immagini della genitrice (e nessuna dello scomparso padre). Nel corso delle sue indagini si incontra e scontra con il comandante poliziesco Carrion, che ebbe un peso nella repressione anti-sandinista negli anni ottanta e novanta. Va spesso a visitare in carcere il terrorista Hernán Durango (quasi una prefigurazione del comandante Guzman, capo di Sendero arrestato nel 1992). E viene affiancato dalla bella Edith, di cui si innamora, e che solo alla fine scopre essere figlia di capi storici di Sendero, e che probabilmente prende parte alle diverse uccisioni, vuoi per vendicarsi dei militari torturatori, vuoi per vendicarsi di traditori e delatori. Parallelamente, seguiamo la discesa nella follia del procuratore aggiunto, che all’inizio vediamo come un pedante compilatore di rapporti, poi, toccate con mano le possibilità di abuso che gli sta dando il potere, quasi ne viene coinvolto, e stravolto. Sino a cadere nella lucida follia finale, che è tragica pur mantenendo, a volte, aspetti di risibile comicità. Ma come detto è un’occasione mancata, che non si approfondisce né l’aspetto rivoluzionario (o terrorista, parliamone) di Sendero Luminoso, né della repressione militare. Lasciandoci solo con la follia di Félix e della strana morte della madre. Forse sono io che manco qualche riferimento troppo locale, anche se ho cercato di documentarmi. Quello che meglio risalta, al fine, per me, sono alcuni aspetti storici proprio della città di Ayacucho, antica capitale del popolo Warì, uno dei pochi che non si sottomise mai allo strapotere degli Incas. Città simbolo, in quanto si trova a metà strada tra Cuzco, la capitale inca, e Lima, la capitale degli spagnoli. E di alcune usanze religiose locali (e non a caso, Ayacucho è considerata la culla della spiritualità andina), come la festa della corrida tra tori e condor chiamata “turupukllay”, al centro della novella dello scrittore peruviano José Maria Arguedas “Festa di sangue”). Insomma, alla fine è stato un buon esercizio di lingua, meno un coinvolgimento letterario.
Quindi, riprendiamo la retta via in tutti i suoi aspetti, riportando le letture del mese di aprile. Letture limitate (c’è stato il viaggio andino) e niente di eclatante da segnalare. Si alzano sopra la media solo i sempre interessanti racconti di Alice Munro ed il libretto di Jean Echenoz sul grande Zatopek.

#
Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Paul Auster
Mr. Vertigo
Einaudi
11
3
2
Alice Munro
In fuga
Einaudi
12
4
3
Francesco Piccolo
Momenti di trascurabile infelicità
Einaudi
13
3
4
Andrea Fazioli
Il giudice e la rondine
Guanda
8
3
5
Jean Echenoz
Correre
Adelphi
10
4
6
Amos Oz
Una pantera in cantina
Feltrinelli
7,50
3
7
Laura Esquivel
Dolce come il cioccolato
Garzanti
9,90
2
8
Paolo Foschi
Vendetta ai Mondiali
E/O
14,50
2
9
Santiago Roncagliolo
Abril Rojo
Alfaguara
20
2
10
Valerio Varesi
È solo l’inizio, commissario Soneri
Pickwick
9,90
3

Finisco rassicurandovi che l’operazione dentistica sta procedendo in maniera egregia, che sto soffrendo il caldo come tutti qui a Roma, e che spero di essere più produttivo nel futuro (tutte le attività sono rallentate dal calore e dal torpore). 


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