Certo, perché viaggiando si
legge, e leggendo si viaggia. Ben arrivati ai nuovi lettori, e, visto che è
appena finito un “avventuroso” viaggio americano, eccovi qualche lettura di
precedenti viaggi. Letture un po’ sottotono, che altre volte i viaggi avevano
suscitato migliori fortune. Un saluto ai sempre cari sposini, un invito a
visitare il Vietnam leggendo le guide (o al massimo la biografia di Von Nguyen
Giap), e la speranza di tornare spesso e presto in India. Il Perù è sempre “’nu
piezz e’ core”, ma non sarà semplice il ritorno.
Mame Sanchez “La felicita es un tè contigo” Booklet s.p. (regalo di
Alessandra)
[A: 07/10/2014 – I: 12/11/2014 – T: 26/11/2014] - && e
½
[tit. or.: originale; ling. or.: spagnolo; pagine: 334;
anno 2013]
Un
libro entrato nella mia libreria come sotto-prodotto del matrimonio di Mario e
Inés. E, pur involontariamente credo, la donatrice ha fatto centro, che uno dei
nodi del romanzo è il rapporto e poi il matrimonio tra due persone di diversa
nazione. La donna, com’è giusto, è spagnola, mentre il cavaliere è inglese. Ma
lo spirito della interrazialità rimane e nella parte finale crea delle
situazioni che, alla luce dell’altro matrimonio, mi sono risultate di sottile
umorismo. La cavalcata attraverso il libro è stato comunque lunga, vuoi per
l’idioma ispanico, non propria la mia prima lingua, vuoi per l’utilizzo di
qualche puntata idiomatica che mi ha fermato nello scorrimento. Semplice invece
la sintassi, ed alla fine, comprensibile il tutto. Per venire al libro ed al
suo contenuto, in realtà mi aspettavo qualcosa di più smaccatamente umoristico
ed anche romantico, dove invece la storia, pur ben congegnata, alla fine dei
conti è un po’ troppo lineare e scontata. Da un alto c’è una rinomata casa editrice
inglese, costruita intono alla famiglia Craftsman. Famiglia tipicamente
anglo-sassone (soprattutto dipinta qui da una spagnola), un po’ ottusa nel suo
perbenismo, legata alla tradizione che i figli maschi prendano il nome di
personaggi letterari. Così il padre Marlowe chiama i suoi due figli Holden
(come il giovane salingeriano) e Atticus (con un omaggio, condiviso, al grande
Atticus Finch de “Il buio oltre la siepe”). Sempre pronta per un buon tè (ed
Atticus è drogato di Earl Grey, come qualcuno lo è del Darjeeling). La loro
vita scorre passabilmente, tra riunioni nella villa nel Kent, laurea ad Oxford,
ed altri inglesismi. Il giovane Holden (ah, ah) sparisce presto di scena, dopo
aver messo in cinta una sgallettata, ed averla dovuta sposare. Atticus, al
contrario, è destinato ad una grande strada gloriosa nell’editoria, finché il
padre non lo manda a fare il “tagliatore di teste” per chiudere la filiale
spagnola della casa editrice. Qui Atticus incontra una “banda” di donne
letterarie, simpaticamente e carnalmente spagnole. Gaby, la maga
dell’informatica e Asuncion l’indefessa organizzatrice, Soleá l’inviata
speciale e Maria la capo contabile, nonché Berta, il capo indiscusso. Le quali
si inventano non si sa quale panzana per spedire Atticus sulla pista di una
fantomatica poesia perduta di Garcia Lorca in quel di Granada. Ovviamente, con
al seguito la più bella del quintetto, quella di nero capello ed occhio
azzurro: Soleá. Ovviamente, denso di ironia l’incontro scontro inglese –
gitani. Ma Atticus (che aveva sempre una vena poetica in cuore, e cinque libri
erotici sul comodino) cade perdutamente innamorato della bella, che invece
sembra non pensarlo. Ed è talmente preso che decide di imparare a suonare la
chitarra e restare a Granada, tagliando i ponti con la famiglia. Il buon padre
Marlowe, dopo tre mesi di inutile attesa, decide di andare armi e bagagli a
Madrid, coinvolgendo la polizia spagnola, ed in particolare l’ispettore
Manchego, nelle indagini. Che portano a poco sul fronte Atticus, ma portano
Manchego ed innamorarsi di Berta, e questa a scoprire la tresca di Maria. La
quale, nonostante sposata e plurimadre, cade innamorata di un fotografo
freelance detto “Il pirata”. Che la convince a stornare prima piccole poi
sempre più ingenti somme dal bilancio della filiale spagnola. Per questo la
detta filiale era in perdita, e non per scarso rendimento. Una volta costrette
le spagnole alla confessione, tutti si recano in Granada, giusto in tempo per
assistere alla “caduta” di Soleá che finalmente accetta la corte di Atticus.
Tutto finirà in gloria, i due si sposano, si sposano Berta e Manchego, Maria
contribuirà all’arresto del pirata, ma, confessando le sue colpe, dovrà fare un
piccolo passaggio in prigione prima di tornare alla sua famiglia ed al suo
lavoro, Gaby rimane finalmente incinta, e Asuncion si mette a dieta. Tutto
comunque legato ancora e sempre dal filo della finzione letteraria, che le
poesie di Lorca erano una fuffa, ma Remedios, la nonna di Soleá, confessa di
essere (e ne ha le prove) una figlia segreta di Hemingway durante il tempo
spagnolo dello scrittore (che porta in dono alla bella quei deliziosi occhi
azzurri). L’ultimo tocco di classe umoristica è la preparazione della seconda
edizione del matrimonio, che dopo una
tre giorni spagnola, viene replicato nella dimora avita del Kent. Ed ho gustato
con finezza la presa in giro di mamma Moira, ma anche di tutti gli inglesi del
castello, che saranno presi da uno stesso vortice di passione, che prenderà
Atticus e Soleá durante la lettura di un capitolo del Kamasutra. E che
precederà di nove mesi la nascita dei loro due gemelli. Che si chiameranno …
Tom e Huckleberry! Ci sono altre battute che cospargono di piccoli pezzetti di
cioccolata questa felicità del tè, ma, come detto, la storia si capisce dalla
prima mezza pagina. È solo curiosamente intrigante il modo in cui Maria del
Carmen detta Mamen porta avanti la sua storia.
“Escuchaban a su amigo hablar de la … cincuentona y normalita … ya no
aceptaban que ellos mismos estaban a punto de cumplir los sesenta.” [Ascoltavano
il loro amico parlare della ... cinquantenne medio-bella ... e non s
accorgevano che loro stessi stavano arrivando ai sessanta.] (196)
Autori Vari « Histoires
drôles du people vietnamien » Editions Thé Giôi euro 2
[A: 20/12/2014– I: 20/12/2014 – T: 20/12/2014] - &&
e ½
[tit. or.: Truyện cười dân
gian Việt Nam; ling. or.: vietnamita; pagine: 147; anno 2011]
Stavo
nel tristissimo aeroporto di Hanoi (anzi Hà Nội come scrivono i locali), alla fine di un bellissimo viaggio attraverso
tutto il Vietnam, e, come al solito, cercavo un libro di un qualche autore
locale da portarmi a ricordo e memento del viaggio. Ci crederete? Non c’è un
libraio, un’edicola in tutto l’aeroporto. Storto come non mai, l’unica cosa
locale trovata è questo libricino, tradotto dal vietnamita in francese. Ed
allora prendiamolo comunque, e, breve e poco coinvolgente, l’ho letto nelle
otto ore di volo che mi riportavano a Roma. Devo dire che non mi ha coinvolto
in maniera entusiastica. Ho trovato le brevi storielle non particolarmente
“divertenti” almeno per un gusto direi occidentale. Mi ha però dato due spunti
di approfondimenti, che cercherò di condividere. Il primo riguarda la lingua,
il vietnamita. Dopo tre settimane che ronzava nell’orecchio, eccola ben
scritta. Ed allora approfondiamola un po’. Innanzi tutto, è la 19^ lingua
parlata al mondo come numero di utilizzatori (subito prima dell’italiano che è
la 20^). La cosa buffa è che, ovviamente oltre ad essere la più parlata in
Vietnam, è la terza lingua del Texas, dopo spagnolo e inglese! Ed è una lingua
strana, di cui si conosce poco l’origine, essendo passata dall’orale allo
scritto da pochi secoli, ed utilizzando un alfabeto latino per una pronuncia
molto “cantata” (alla cinese). Tant’è che per ogni sillaba ci possono essere
sei diverse tonalità di pronuncia. Impossibile da studiare. La sola cosa che mi
rimane è che praticamente è monosillabica, cioè ogni sillaba viene scritta a
sé, e siamo noi che la occidentalizziamo. Cioè loro scrivono non Vietnam ma Việt
Nam. Il secondo è legato al riso, all’uso del comico. Che non è solo
vietnamita, ma universale. Qui, nello specifico culturale, l’umorismo vietnamita si fonda sulla denuncia
in un modo satirico e/o ironico dell’epoca feudale in cui enormi ingiustizie
colpivano le persone più modeste e povere. La situazione umoristica così creata
cerca quindi di trasmettere messaggi in un modo leggero, ma pieno di
significati profondi e duri, al fine di colpire obiettivi ben definiti.
Tuttavia, l'umorismo, che provoca la risata, può essere compresa solo se si
appartiene alla stessa cultura ed alla stessa tradizione che la esprime (come
vedremo dagli esempi sotto riportati). Tutta la letteratura popolare vietnamita
è costellata dall’umorismo. Infatti, il popolo vietnamita è un popolo ottimista
ed amante della vita. E solo attraverso il riso è riuscito ad attraversa tutti
i momenti bui del suo passato lontano e vicino (dalla dominazione cinese a
quella khmer, dai francesi agli americani). Anche queste storie ne sono esempi
classici, ma, seguendo quanto detto sopra, sono talmente pieni di
“vietnamesità” che io li ho letti in modo antropologico, e di certo mi hanno
fatto ridere in maniera non proprio diretta. Vediamo, ad esempio, una delle
storielle più corte.
Un uomo ricco dice ad un mendicante "Ti
darò 1000 piastre e ti picchierò a morte. Sei d'accordo?” - Ti lascerò
picchiarmi solo fino a che il mio corpo sia mezzo morto, perché non ho bisogno
che di 500 piastre".
Fortunatamente, alcune spiegazioni (sia
interne che in seguito per mia documentazione) riportano che il riso scaturisce
dal fatto che non si possa “picchiare affinché sia mezzo morto”, perché la
morte non può essere divisa: o si è vivi o si è morti.
Capite bene come sia difficile ridere di
queste battute. Quando poi non siano legate talmente alla lingua come la
seguente:
“Una vecchia va al mercato perché gli si dica
il futuro, dato che spera di sposarsi; un indovino gli risponde ‘C’è
interesse/gengiva, ma denti no!”.
Il riso scatta perché viene usato il termine lợi che vuol dire
« interesse », ma che, unito al suffisso “dente” significa “gengiva”.
Quindi la vecchia ha pochi denti nella gengiva. Ce ne vuole per ridere, eh! Ma
torniamo alla genesi delle storie, e, benché non se ne rida più di tanto,
vediamo come la maggior parte, come sopra accennato, siano ancora e sempre
ambientate in ambito feudale, dove c’è il signore (o il mandarino, o il bonzo)
che fa la parte del cattivo ed il servo che fa la parte della vittima, ma che
cerca, con la sua intelligenza ed ottimismo, di riscattare il suo ruolo con
l’umorismo. Dopo il lungo soggiorno vietnamita, credo di concordare con questa
visione ironica della vita. Penso che solo con tutto questo corredo di
ottimismo, il popolo vietnamita sia potuto diventare quello che ora ho
incontrato. Comunque, il consiglio è di visitare il paese, e lasciare a momenti
diversi questa poco coinvolgente lettura.
Madhumita Mukherjee
“The other side of the table” Fingerprint euro 3
[A: 01/02/2015– I: 09/02/2015 – T: 11/02/2015] - &&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: inglese; pagine: 240;
anno 2012]
Dopo
la delusione patita all’aeroporto di Hanoi, in occasione del viaggio in India,
ho deciso di ricercare una libreria nell’ultima grande città prima della
partenza, per poter riportare con me un ricordo ed un ripasso del viaggio trascorso.
Ed a Kolkata ho trovato una libreria fantastica, la Oxford Bookshop,
fornitissima, dove ho preso questo libro che è scritto da un’autrice della
stessa Kolkata. Non solo, era stato anche presentato al pubblico da pochi
giorni, ed ho ricevuto in sovrappiù un libro con la dedica dell’autrice. Fatte
queste belle premesse, tuttavia, mi aspettavo qualcosa di meglio, non tanto
nella scrittura, che risulta gradevole e leggibile, ma nella trama stessa, che,
ad una prima occhiata, mi aveva intrigato. Un libro basato su di uno scambio di
lettere tra una signorina di Kolkata ed un suo amico, di qualche anno più
grande, da alcuni anni trasferitosi a Londra. Avevo ancora nella mente il
romanzo epistolare di 84, Charing Cross, e pensavo a qualcosa di quanto meno
appassionante. Un procedere nel tempo, con la visuale di avvenimenti condivisi
ma visti con due sguardi diversi. Chi rimane in patria, e chi da essa si
allontana, pur portandola sempre con sé. Seguiamo invece la corrispondenza tra
Uma, studentessa al Kolkata National Medical College, ed il suo amico Abhi,
specializzando in medicina a Londra. I due condividono tutto apertamente: le
infatuazioni, gli insegnanti, i professori, le classi, il primo bacio, il primo
corteggiamento, il matrimonio, la gravidanza, l’aborto, il divorzio, da parte
di Uma; i colleghi, la vita in ospedale, le donne, le convivenze, da parte di
Abhi. Non sembra esserci, almeno apertamente, un coinvolgimento sentimentale
tra i due. Inoltre, ci sono 10 anni di differenza tra i due. Che all’inizio
della storia, con Uma non ancora ventenne, si sentono più che nove anni dopo,
alla fine del romanzo. Certo è spesso più di Uma che seguiamo le vicende,
quando decide di diventare chirurgo, unica donna del suo corso, quando usa un matrimonio forzato per uscire dalla cerchia
familiare (per cadere senza difese nella cerchia dell’ignavo marito), e quando
decide di divorziare, in seguito all’aborto del possibile figlio. Ed è sempre
Abhi che da lontano la sostiene in ogni sua decisione. Può non essere pienamente
d’accordo, può sottolineare i pericoli, ma gli amici sono lì per sostenerti
lungo la via. Solo verso il finale entriamo di più nella vita del londinese,
quando ad Abhi viene diagnosticato un tumore al cervello. Ne seguiamo il
dramma, lui che doveva e poteva diventare un grande chirurgo, ritrovarsi a non
poter riprendere il bisturi in mano, dato che la malattia ha portato tremori,
abbassamenti improvvisi della vista, ed altre marginali disabilità, che però
sono micidiali nella professione di un chirurgo. Ed è solo a questo punto che
Uma esce allo scoperto, e decide, contro tutto e tutti, di raggiungere Abhi a
Londra, e di aiutarlo da vicino. Nascerà una storia? Qualcosa in più? L’autrice
non lo dice, anche se possiamo intuire i connotati di un possibile futuro.
Perché quello che a Madhumita importa, oltre alla descrizione degli ambienti
medici e sociali anglo-indiani, è proprio il discorso della disabilità e della
ripresa. Infatti, lei è (era) un pediatra di successo, cui cinque anni fa viene
diagnosticato un tumore aggressivo al seno. Motivo per cui, lei amante dei
viaggi (come rilevo da un’intervista rilasciata dopo la presentazione), per un
anno è costretta a fare un unico viaggio: dal divano al letto, e viceversa. Ed
in questo anno matura la decisione di scrivere, anche in modo trasposto, della
sua personale esperienza. adottando lo stile epistolare, proprio perché ama il
libro da me sopra citato, e l’altro, anch’esso bello e da poco letto, di Alice
Walker “Il colore viola”. Riuscendo anche nell’intento di farci capire cosa
succede ad un medico (Abhi nel romanzo)
quando diventa paziente, quando, come dice il titolo, si siede “dall’altro lato
del tavolo”. Ma pur se ben scritto, e con qualche squarcio della vita indiana,
così come mi aspettavo quando l’ho acquistato (in particolare quando Uma si
aggira per la parte di Kolkata dove io avevo il mio alloggio), non è incisivo
come credevo. Certo si capisce il dramma del dottore, ed altre dolenti note che
sono molto vicine all’autrice. senza però affondare il bisturi sino in fondo.
Ed anzi, lasciando poi dei margini di aleatorietà che farebbero dire ad un
maligno: ma ci sarà una seconda puntata? Fortunatamente, credo che il mio
rapporto con Madhumita finisca qui. Anche se le auguro di superare e per sempre
tutti i suoi problemi.
“To each of us, we are the centre of the world. The only life that
really matters.” [Per ognuno di noi, siamo il centro del mondo. L’unica
forma di vita che conta davvero.] (194)
Santiago Roncagliolo “Abril Rojo” Alfaguara euro 20
[A: 25/04/2015 – I: 25/04/2015 – T: 29/04/2015] - &&
[tit. or.: originale; ling. or.: spagnolo; pagine: 329;
anno 2006]
Al
solito alla fine di un nuovo viaggio, acquisto un libro del paese che sto pe
lasciare, e laddove posso, nella sua lingua. Qui siamo nell’idioma ispanico,
quindi si può fare. E si evita il pluri-acclamato Vargas Llosa, che a me,
onestamente, non è che piaccia gran che. Mi capita quindi questo Roncagliolo,
che mi intriga in quanto vincitore di quel premio Alfaguara che vinse un altro
libro che mi accompagnò qualche viaggio fa (“Guarda come ti amo” di Luis
Leante). Purtroppo, a libro letto, una piccola delusione. Mi aspettavo di più.
Forse qualcosa di più concreto, mentre sempre la scrittura rimane sospesa tra
realismo e sogno, tanto che ci si chiede, alla fine, se gli avvenimenti che
abbiamo seguito siano stati reali o siano (in tutto o in parte) frutto della
mente che man mano si va deteriorando del protagonista, il procuratore
distrettuale aggiunto Félix Chacaltana Saldívar. Avvenimenti che, nello
specifico, hanno anche un interesse che va oltre la scrittura in sé, in quanto
percorrono momenti che nella realtà peruviana sono di grande intensità: le
attività del gruppo rivoluzionario “Sendero Luminoso” (cui ricordo il nome
completo sia “Partito Comunista del Perù sul sentiero luminoso di Mariátegui”,
dove ricordo ancora che José Carlos Mariátegui è stato un letterato e politico
peruviano morto nel 1930, e noto per le sue idee di formare una via indios al
comunismo), le contro-attività delle forze di polizia, fino alla resa dei
vertici storici (anche se ci sono ancora fazioni del gruppo operanti nelle
valli peruviane). La storia si colloca intorno alla Pasqua del 2000,
intrecciandosi con le elezioni provinciali, che porteranno, alle fine
dell’anno, a quelle presidenziali ed alla caduta del corrotto Fujimori. Qui
siamo ad Ayacucho, una delle roccaforti storiche di Sendero, e dove si
susseguono una serie di morti in stile truculento. Ognuna delle persone
assassinate viene private di una parte del corpo. Si comincia dalle braccia,
per proseguire con le gambe e finire con la testa. Ed è proprio Félix che viene
quasi costretto ad indagare su questi assassini, lui che non ha una grande
esperienza pregressa, che ha chiesto di essere trasferito da Lima nella natia
Ayacucho in seguito alla morte della madre. Madre con la quale ha un morboso
rapporto, quasi tenendola in vita con una casa piena di immagini della
genitrice (e nessuna dello scomparso padre). Nel corso delle sue indagini si
incontra e scontra con il comandante poliziesco Carrion, che ebbe un peso nella
repressione anti-sandinista negli anni ottanta e novanta. Va spesso a visitare
in carcere il terrorista Hernán Durango (quasi una prefigurazione del
comandante Guzman, capo di Sendero arrestato nel 1992). E viene affiancato
dalla bella Edith, di cui si innamora, e che solo alla fine scopre essere
figlia di capi storici di Sendero, e che probabilmente prende parte alle
diverse uccisioni, vuoi per vendicarsi dei militari torturatori, vuoi per
vendicarsi di traditori e delatori. Parallelamente, seguiamo la discesa nella
follia del procuratore aggiunto, che all’inizio vediamo come un pedante
compilatore di rapporti, poi, toccate con mano le possibilità di abuso che gli
sta dando il potere, quasi ne viene coinvolto, e stravolto. Sino a cadere nella
lucida follia finale, che è tragica pur mantenendo, a volte, aspetti di
risibile comicità. Ma come detto è un’occasione mancata, che non si
approfondisce né l’aspetto rivoluzionario (o terrorista, parliamone) di Sendero
Luminoso, né della repressione militare. Lasciandoci solo con la follia di
Félix e della strana morte della madre. Forse sono io che manco qualche
riferimento troppo locale, anche se ho cercato di documentarmi. Quello che
meglio risalta, al fine, per me, sono alcuni aspetti storici proprio della
città di Ayacucho, antica capitale del popolo Warì, uno dei pochi che non si
sottomise mai allo strapotere degli Incas. Città simbolo, in quanto si trova a
metà strada tra Cuzco, la capitale inca, e Lima, la capitale degli spagnoli. E
di alcune usanze religiose locali (e non a caso, Ayacucho è considerata la
culla della spiritualità andina), come la festa della corrida tra tori e condor
chiamata “turupukllay”, al centro della novella dello scrittore peruviano José
Maria Arguedas “Festa di sangue”). Insomma, alla fine è stato un buon esercizio
di lingua, meno un coinvolgimento letterario.
Quindi,
riprendiamo la retta via in tutti i suoi aspetti, riportando le letture del
mese di aprile. Letture limitate (c’è stato il viaggio andino) e niente di
eclatante da segnalare. Si alzano sopra la media solo i sempre interessanti
racconti di Alice Munro ed il libretto di Jean Echenoz sul grande Zatopek.
#
|
Autore
|
Titolo
|
Editore
|
Euro
|
J
|
1
|
Paul Auster
|
Mr. Vertigo
|
Einaudi
|
11
|
3
|
2
|
Alice Munro
|
In fuga
|
Einaudi
|
12
|
4
|
3
|
Francesco Piccolo
|
Momenti di trascurabile infelicità
|
Einaudi
|
13
|
3
|
4
|
Andrea Fazioli
|
Il giudice e la rondine
|
Guanda
|
8
|
3
|
5
|
Jean Echenoz
|
Correre
|
Adelphi
|
10
|
4
|
6
|
Amos Oz
|
Una pantera in cantina
|
Feltrinelli
|
7,50
|
3
|
7
|
Laura Esquivel
|
Dolce come il cioccolato
|
Garzanti
|
9,90
|
2
|
8
|
Paolo Foschi
|
Vendetta ai Mondiali
|
E/O
|
14,50
|
2
|
9
|
Santiago Roncagliolo
|
Abril Rojo
|
Alfaguara
|
20
|
2
|
10
|
Valerio Varesi
|
È solo l’inizio, commissario Soneri
|
Pickwick
|
9,90
|
3
|
Finisco rassicurandovi che l’operazione
dentistica sta procedendo in maniera egregia, che sto soffrendo il caldo come
tutti qui a Roma, e che spero di essere più produttivo nel futuro (tutte le
attività sono rallentate dal calore e dal torpore).
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