Credo siano una quindicina le
trame dedicate alle scrittrici al femminile in tutti questi anni, e questa
volta non posso mancare di sottolineare come scelta fu più che mai azzeccata.
Tutte scritture sopra la media, tra il capolavoro indiscusso di Marguerite
Yourcenar e la bella prova d’epoca di Nancy Mitford, mettendo in mezzo l’unico
romanzo di Sylvia Plath ed il moderno romanzo islandese di Auður Ava
Ólafsdóttir. Certo, ben tre romanzi su quattro hanno tra i quarantacinque ed i
settanta anni di anzianità. Ma come tutti i vini di corpo, hanno solo guadagnato
con l’invecchiamento.
Sylvia Plath “La campana di vetro” Mondadori euro 9,50 (in realtà,
scontato a 7,12 euro)
[A: 05/06/2014– I: 12/07/2015 – T: 14/07/2015] - &&&&
e ½
[tit. or.: The Bell Jar; ling. or.: inglese; pagine: 232;
anno 1963]
Ci
sono coincidenze prevedibili ed altre meno. Avendo una sostanziosa dose di
libri (di tutti i generi, sia “classici” che moderni), è abbastanza prevedibile
che mi capiti di leggerne su giornali e riviste. L’imprevedibile è leggerne su
“Repubblica” in un articolo gustoso di Elena Stancanelli “durante” la mia
lettura del libro. Un libro che comincia bianco e grigio e finisce grigio,
grigio, quasi buio. Una semi-autobiografia, come scrisse qualcuno meglio
conoscitore di me delle lettere inglesi. In cui Sylvia ripercorre e trasmuta il
periodo della sua vita dai 19 ai 20 e qualcosa anni. E che comincia quasi come
il contemporaneo “Il gruppo” di Mary McCarthy (ed anche qui ci sarebbe da farne
alcuni paralleli, e neanche proprio banali). Atmosfera appunto di gruppo, di
una serie di post-licenziate da vari college, che si ritrovano a fruire di una
borsa di studio a New York nell’ambiente delle riviste di moda. Qui, nei primi
nove capitoli (come ci illustra la stringata ma puntuale post-fazione di
Claudio Gorlier) c’è la prima fase del romanzo. Quella in cui l’autrice,
narrando delle sue presenti difficoltà nel vivere l’ambiente glamour, ci fa
andare su e giù nel corso del suo tempo. Dove vediamo i segnali delle sue
difficoltà di adattarsi a quel tipo di vita, sottomessa, che si voleva
facessero le donne nei primi anni ’50 (e non solo allora, diremmo adesso). Il
difficile rapporto con la madre. L’attrazione-odio verso il coetaneo Buddy. La
frequentazione con Joan. La scrittrice riesce a farci capire (pur non entrando
mai in dettagli esterni, ma sempre in soggettiva; e rimango nella parentesi,
che avendo dei disturbi non è facile parlarne come se fossero “fuori da te”; ad
esempio quando una persona capisce ed ammette di essere depressa, è il momento
che sta guarendo dalla depressione) la sua complessità, che altri
diagnosticheranno come “disturbo bipolare”. Gli atteggiamenti maniacali (bellissima
la descrizione del pranzo alla moda, e l’indigestione di caviale). L’incapacità
di portare a termine i compiti assunti, se non nel breve periodo (scrive
piccole recensioni, poi si rifugia nel sogno di poter frequentare un corso di
scrittura creativa, solo perché lo desidera, non perché ne abbia le qualità).
Con una scivolata da una parte nell’autostima (come poco fa scritto) dall’altra
in comportamenti sessuali anomali. Laddove, diciottenne, non accetta di essere
vergine mentre Buddy ha avuto un’estate di sesso. Tanto che a poco a poco, lo
lascia. E non riesce ad entrare in sintonia con l’ambiente al femminile che
frequenta. Né con la “cattiva” Doreen, né con la “buona” Betsy. Tanto che
finisce la borsa, e deve tornare dalla madre, senza avere prospettive davanti.
Qui inizia la fase dura, la fase in cui, per quattro o cinque capitoli, vediamo
come cerchi di suicidarsi, non trovando prospettive alla sua vita. Entrando con
tutte le scarpe nella fase depressiva. E vediamo come questi tentativi (alcuni
seri, altri al limite del sorriso, benché tragico, come quando pensa di tagliarsi
le vene e comincia a provare la lametta sul polpaccio, per poi spaventarsi e
fermarsi), siano sempre al limite tra la pratica seria, e l’urlo nella notte:
“Sto male, venite ad aiutarmi!”. Tanto che l’ultimo tentativo, lo fa nascondendosi
nel lavatoio di casa, sperando (come avverrà) di essere salvata. Così è, e da
lì comincia la terza parte, quella degli ospedali psichiatrici. Esperienza che,
come sappiamo, anche Sylvia aveva percorso, proprio per un tentativo abortito
di suicidio. E che descrive quindi dal di dentro della realtà dei malati
mentali. Come tutti i depressi, pur concentrata su di sé, riesce a dipingere
con cruda realtà il mondo degli alienati di allora. Con quelle sedute di
elettroshock che abbiamo da poco ritrovato nell’altro bel libro di Kesey sul
Cuculo. Ospedali dove Sylvia denuncia i cattivi medici (e ce n’erano tanti, e
forse ce ne sono ancora). Ma sottolinea anche i buoni e capaci. Ci mostra un
momento altro di vita, laddove anche la sua rivale nell’amore di Buddy viene
ricoverata. La protagonista fa capire anzi che ci potrebbe essere dell’amor
saffico in Joan. Tanto che quando lei finalmente perde la verginità (per
pareggiare i conti con Buddy), Joan si uccide. Morte che invece sembra spingere
la protagonista ad uscire finalmente dal cerchio in cui si stava rinchiudendo.
E come Sylvia, alla fine di quei tre anni tragici, pare ne esca. Qui il romanzo
finisce. Ma noi non possiamo non proseguirlo in parallelo proprio con la vita
della scrittrice. Con la possibilità di identificare Buddy con il marito di
Sylvia, il poeta Ted Hughes. Che proprio poco prima che venga iniziato il
romanzo, lascia la poetessa, invaghendosi della comune amica Assia (che Sylvia
vorrebbe vedere in Joan). Ed è durante il tormentato periodo delle pratiche di
divorzio che viene scritto il romanzo. Che viene pubblicato a gennaio del 1963.
Un mese dopo, Sylvia Plath, aprendo il gas del forno, si toglie la vita. E
visto che abbiamo parlato di coincidenze all’inizio, mi cade sott’occhio
un’ultima casualità. Nel libro Joan-Assia si uccide quando scopre che
Esther-Sylvia ha perso la verginità. Nella vita, dopo alcuni anni di tormentati
rapporti, Assia si suiciderà anche lei, nell’anniversario del giorno in cui Ted
e Sylvia fecero per la prima volta l’amore. Seppur coperto dai grigi di cui si
diceva, è un vero buon romanzo, che illustra, con vivida mano, la difficoltà di
essere donna e di seguire i propri valori in un mondo dominato dagli uomini,
come era (molto) l’America degli anni ’50. Com’è, ancora, purtroppo, buona
parte del mondo attuale. Forse in modo diverso. Ma pur sempre ancora così.
“Se
nevrotica vuol dire volere nel medesimo istante due cose che si escludono a
vicenda, bene, allora io sono infernalmente nevrotica. Continuerò a volare
eternamente avanti e indietro tra l'una e l'altra per il resto dei miei
giorni." (82)
“Nota mia: peccato che a pagina 53,
traducano Walter the Penniless, uno dei due personaggi che guidò la crociata
dei poveri in Terra Santa insieme a Pietro l’Eremita, con un ‘normale’
Gualtiero Senzaveri, invece del più corretto Gualtieri Senza Averi”
Marguerite Yourcenar “L’opera al nero” Feltrinelli euro 9 (in realtà,
scontato a 7,65 euro)
[A: 02/04/2014– I:
01/08/2015 – T: 24/08/2015] - &&&&&
[tit. or.: L’œuvre
au noir; ling. or.: francese; pagine: 299; anno 1969]
Non
meravigliatevi della lunga lettura. Non è solo per la difficoltà intrinseca del
libro, ma anche perché non l’ho portato nei Paesi Baltici, riprendendo la
lettura iniziata nell’estate agostana, e terminata solo dopo altri giorni d’intensa
applicazione. Anche perché la Yourcenar è comunque un osso duro, tanto che di
lei lessi molti ma molti anni fa le “Memorie” e poi non riuscii a leggerne più.
Ora, spinto dalle solite libropeute ad allargare confini, ecco che si ritorna
alla solida scrittrice ed al suo Zenone. Che non è, come io speravo, quello di
Achille, ma è un libero pensatore la cui vita scorre nella tumultuosa Europa
del 1500. Nel mio percorso di lettura, dopo il romanzo leggo la quarta e poi,
se presenti, prefazioni e postfazioni. Così, leggendo la quarta mi stupivo
della ricchezza di dotti particolari sulle connessioni di Zenone con altri
pensatori del suo tempo (ed invero anch’io avevo pensato a Campanella e Bruno).
Poi la postfazione dell’autrice ha spiegato tutto. Chi ha scritto la quarta ha
solo letto (e male) le note di Margherita, rimasticandole per far apparire
appetibile il romanzo. Ed invece le suddette note, una volta tanto, spiegano, e
bene, la genesi del tormentato scritto. E la genesi della sua scrittura. Che il
romanzo comincia a formarsi sin dalla fine degli anni Venti, con dei primi
abbozzi di vita fiamminga, poi confluiti nella prima parte del romanzo (dal
sottotitolo “La vita errante”). Su quelle pagine la nostra torna e spesso, per
poi andare di getto sulla seconda (“La vita immobile”) e sulla terza parte (“La
Prigione”). Leggendone, si nota questa genesi, dove la prima parte è un
bellissimo e duro affresco della vita del tempo, che non a caso potrebbe
essere, come un tempo aveva sottolineato la stessa autrice, un commento ai
pittori del tempo, da Dürer a Bosch. Vediamo il crescere, nella Bruges dei
primi anni del secolo, la famiglia Ligre, il cui capostipite spande figli a
destra e sinistra, con il primogenito che ne seguirà le orme di banchiere
efficace e prosperoso, ed il secondo che, senza arte né parte, si avvierà alla
carriera militare. Mentre il fratellastro Zenone, dopo alcuni tentativi in
vesti ecclesiali, prenderà anche lui la vita errabonda, ma con maggior
successo. Scrive libri da “libero pensatore” che ne fanno bersaglio da parte
della chiesa ufficiale (Campanella e Bruno dixit). Segue alchimisti vari e
studia e professa medicina (Paracelso e Miguel Servet dixit). Ma è presente in
tutte le arti liberali, con ragionamenti e disegni (Copernico e Leonardo dixit).
Ma su di lui si ritorna, perché nel frattempo ne seguiamo la madre, Hildezonde,
sposa ad un buon cristiano, divenuto poi anabattista, e con lei trasferitosi a
Munster, dove si svolse la famosa guerra con i “Fratelli in Cristo” nel 1535.
La seconda, sulla scia di un invecchiato Zenone (non direi anziano, visto che
la seconda parte comincia ai suoi 53 anni) tornato a Bruges, come per chiudere
un cerchio della sua vita. Lì, sotto mentite spoglie, esercita la professione
medica, filosofeggia con il priore, si trova ai margini di vicende quasi
eretiche, ed alla fine, non riuscendo neanche a fuggire, dopo sei anni di vita
immobile, viene arrestato. A causa dei suoi scritti giovanili, processato,
riconosciuto colpevole di eresia, e condannato a morte. In tutta la parte sulla
prigionia, si fa più alto il ragionamento di Zenone, che racchiudendo in sé le
molte anime dell’uomo Rinascimentale, testimonia il duro passaggio, anche
mentale, dal Medioevo all’Età moderna. Non entro nello specifico delle diatribe
che percorrono ed innervano il romanzo di linfe felici, che per mia incapacità
non credo aver seguito e capito fino in fondo. Anche se non sfugge
l’intolleranza, il piegare la Chiesa ai servigi di stati e potentati. Un lungo
percorso, quello esemplificato da Zenone, che allora, appunto, non poteva che
finire con la morte del nostro eroe. Ma che mi ha fatto riflettere su
intolleranze ed irrispettosità ben presenti nel mondo attuale. Ho sempre
pensato (e non credo di essere il solo) che il mondo arabo fosse troppo legato
ai dettami della parola coranica, senza riuscire a fare un vero sforzo di
“ammodernamento” ed adattamento del pensiero, così come riuscì a farlo la
Chiesa, nelle sue varie forme, anche se con un precorso lungo ed in parte non
ancora finito. Nella fase cruenta di transizione (quest'epoca così ben dipinta
con Zenone), forti furono le iconoclastie, le uccisioni, i martiri di cui oggi
ci si vergogna. È con una piccola speranza nel cuore che guardo allora
all’Isis-Torquemada. Si riuscirà ad arrivare ad un rinascimento arabo? Che
bella speranza sarebbe. Queste le personali riflessioni che alla fine mi
suscita questo libro, che come detto, è bello e difficile, ma che deve essere
letto e meditato. Forse proprio ora.
“A poco a poco … cessava d’esser per loro una
persona, un volto, un’anima, un uomo che vive in qualche luogo su un punto
della circonferenza del mondo; diventava un nome, meno di un nome, un’etichetta
sbiadita sopra un barattolo nel quale lentamente imputridivano alcuni ricordi
del loro passato, incompleti e morti. Ne parlavano ancora. In realtà, lo
dimenticavano.” (54)
“Il racconto di poco fa mi dispone a
riesaminare la mia esistenza. Non mi lamento, ma è tutto diverso da quello che
mi ero immaginato.” (102)
“Morirò un po’ meno sciocco di come sono nato.”
(104)
“Si sopporta meno facilmente per gli altri
ciò che si accetta abbastanza agevolmente per sé.” (190)
Nancy Mitford “Inseguendo l’amore” Giunti s.p. (regalo di
Sara&Giampaolo)
[A: 07/05/2014– I:
05/10/2015 – T: 08/10/2015] - &&&
[tit. or.: The Pursuit of Love; ling. or.: inglese; pagine: 241; anno 1945]
Libro
nato dalla congiuntura di una segnalazione delle ormai troppo citate libropeute
e dal desiderio dei due carissimi S&G di farmi come gradito regalo un
mega-buono feltrinelliano. E libro che non si apprezza fino in fondo se non si
segue anche un po’ di contesto. Che ad una lettura diretta (la prima che ho
dato) è un libro gradevole con qualche puntata verso il divertente. Poi ho
approfondito il personaggio – autore e la lettura si è approfondita di tutto il
contorno che Nancy Freeman-Mitford si porta appresso. Come figlia primogenita
di David Freeman-Mitford, secondo Barone Redesdale, come una delle sei “sorelle
Mitford” che riempirono la scena londinese nel periodo delle due guerre, come
pronipote di quel Bertie Mitford (il primo Lord della famiglia) che s’imparentò
con la casata di Ogilvy, conti di Airlie, dove un loro discendente sposò la
principessa Alexandra, cugina della regina Elisabetta II. Ed a proposito delle
“sorelle”, da segnalare da un lato dello “schieramento politico” Diana (che
prima sposa un Guinness erede della birra omonima, poi sir Mosley, capo
indiscusso del Partito Fascista Britannico, a cui darà il figlio Max ora uno
dei grandi capi della Formula 1 automobilistica) e Unity (che cercò la morte
per il conflitto di essere inglese e seguace di Hitler) e dall’altra Jessica
(fuggita in USA ed una dei leader del comunismo americano). In mezzo a tutta
questa confusione (vogliamo ricordare tra l’altro che la figlia della zia
materna sposò Winston Churchill, e che il nonno materno fu il fondatore di
“Vanity Fair”?) si colloca la nostra scrittrice ed il suo romanzo. Fatte tutte
queste premesse, qualcuno si sarebbe aspettato un romanzo alla Casati Modignani
o Danielle Stell. Ed invece, pur avendo dei tratti singolarmente convergenti,
la scrittura di Nancy ci porta altrove. Sicuramente ad uno sguardo ironico
sulla società presente. Non è un caso, che, ironia per ironia, negli anni
Cinquanta la scrittrice divenne la maestra dello snobismo inglese scrivendo una
dissertazione sulla distinzione tra i termini U e quelli nonU (intesi come
Upper e nonUpper class, dove ad esempio i primi usano il termine graveyard ed i
secondi cemetery, come da noi i primi userebbero camposanto ed i secondi
cimitero). Con questo sguardo ironico, seguiamo allora la vita di una tipica
famiglia U, che vive in campagna, con padre alla camera dei Lord, e figlie
femmine con istitutrici (perché una donna che studia è nonU). La storia è
narrata da Fanny, la cugina che entra ed esce dalla famiglia, che ha i genitori
divorziati e vive con la zia Emily. Fanny ci parla un po’ della sua famiglia:
quasi nulla del padre, molto di sfuggita della madre molto amata, chiamata in
famiglia la Puledra, perché scalpita ed entra ed esce da situazioni amorose le
più improbabili. Ma soprattutto, Fanny ci parla di sua cugina Linda, sua
coetanea, con la quale condivide gioie e pene dell’adolescenza, con la quale
cresce insieme, e che lei prende (inconsapevolmente lei, consapevolmente Nancy)
come esempio di rotture nel tessuto borghese degli U. E con lo sguardo di Fanny
vediamo Linda convolare a nozze con il banchiere Tony (di progenie tedesca e
quindi inviso allo zio Matthew). Fa una figlia, Moira, che non riuscirà mai ad
amare. Mentre Fanny sposa un decano di Oxford con il quale condurrà una vita
ritirata ed amorosa, Linda, dopo nove anni di matrimonio s’innamora
perduratamene di Christian, un comunista di razza. Christian pensa alle
rivoluzioni e non agli uomini, s’imbarca in situazioni sempre più improbabili.
Siamo nella metà degli anni ’30, e Christian e Linda si trasferiscono a
Perpignano, per aiutare i profughi della guerra civile spagnola. Lì incontrano
Matt, il fratello di Linda fuggito in Spagna a combattere. Ma soprattutto c’è
Lavander, una vecchia amica londinese. Quando Linda si accorge della passione
tra lei e Christian decide di lasciarlo e di tornare a casa. Ma a Parigi
finisce i soldi, e lì incontra casualmente ma proficuamente il ricco duca Fabrice
de Sauveterre, di cui ben presto diviene amante e mantenuta. Scoppia la seconda
guerra mondiale. Fabrice, che lavora per i Servizi segreti, rimanda Linda in
Inghilterra. Lì Linda si scopre incinta, anche se i medici le avevano
sconsigliato un nuovo parto. E durante i bombardamenti si ritrovano tutti
riuniti. Fanny, anche lei incinta, la madre di Fanny con il suo nuovo amante,
il simpatico cuoco spagnolo Juan, quel che resta dei fratelli Radlett, e Linda.
La quale, benché Fabrice sia alquanto stralunato, sa di aver con lui trovato
finalmente l’amore che inseguiva da tutta la vita. In una cupa notte, Fanny e
Linda partoriscono, ma Linda non sopravvive al parto. Arriva anche la luttuosa
notizia della morte in guerra di Fabrice. Fanny allora decide di adottare il
figlio di Linda e di chiamarlo Fabrice. Quanti avvenimenti in meno di trecento
pagine. Allietati da una scrittura coinvolgente, che alla fine, con le premesse
che ho detto in apertura, mi ha convinto ad assegnare un buon posto al libro,
ed una menzione alla scrittrice nel mio pantheon letterario.
“I compagni sono molto cari, ma non
chiacchierano mai, fanno solo discorsi.” (127)
Auður Ava Ólafsdóttir “La donna è un’isola” Einaudi euro 12 (in realtà,
scontato a 9 euro)
[A: 01/07/2014– I: 11/10/2015
– T: 14/10/2015] - &&&&+
[tit. or.: Rigning í nóvember; ling. or.: islandese; pagine: 275; anno 2004]
Appena
tornato dall’Islanda, oltre ad approfondire le letture che già avevo e
proseguivo di Indriðason e del commissario Erlandur (letture che ancora
continuano) avevo trovato, letto e gustato un libro della figlia di Olaf. Al
solito, con il tempismo che le case italiane hanno, dopo il successo di “Rosa
Candida” esce un secondo libro della scrittrice e storica dell’arte. Che in realtà
è stato pubblicato prima. Fatte salve tutte le remore, infine riesco a
leggerne, ritornando magicamente al “mio” giro islandese. Che, e poi vedremo
come e perché, l’io narrante passa la maggior parte del tempo seguendo il “ring”,
la mitica N1, la strada che fa il giro di tutta l’isola. Che io ho fatto, e che
rifarei per la bellezza dei luoghi, la poesia delle montagne, la durezza delle
spaccature nella terra, la delicatezza bollente dei geyser, l’azzurro in tutte
le sue gradazioni del ghiaccio. Pur essendo un libro che i conoscitori della
lingua assicurano singolarmente ben tradotto da Stefano Rosatti (anche se,
dalle mie letture mi sembra che siano sempre migliori le traduzioni di Silvia
Cosimini, di cui consiglio, a chi si vuole “islandesizzare”, quella di “Gente
Indipendente” del premio Nobel Halldór Laxness), ha la solita pecca del titolo,
che parla della pioggia di Novembre, e non di donne né di isole (ma il titolo
italiano è sempre meglio dell’immaginifico titolo inglese “Le farfalle di
novembre”). Il libro in sé è, tuttavia, valido, con tutte le impurità di
un’opera (quasi) d’esordio. Con qualche elemento di puro piacere: la presenza
di una co-protagonista, parte saggia (o quasi) dell’io narrante, che si chiama Auður
come l’autrice. Quasi a voler indicare una sorta di dualismo, tra le sue parti
razionali e quelle magiche. Con Auður che ha una vita molto libera, continuando
a far figli con uomini diversi (caratteristica molto islandese), continuando a
fare la pianista e l’insegnante di musica. Ed ora, incinta di due gemelle, non
può badare al piccolo Tumi, quattro anni, mezzo sordo, anche un po’ miope, e
che si esprime a monosillabi. Lo affida quindi all’io narrante, che, di per suo
è già scombinatella anzi che no. Ha trenta anni, sta divorziando da un marito
che mi sta notevolmente sui cabasisi (a cominciare da quella parte inziale, in
cui, per l’appunto annuncia di volere il divorzio poiché ha messo incinta una
collega e vuole andare a vivere con lei). La nostra non ne è particolarmente
traumatizzata, anche perché subito dopo vince due volte di fila alla lotteria
(e vince una somma ingente che le consente tranquillità), quindi parte per un
viaggio in macchina verso il villaggio dell’est in cui viveva la nonna e in cui
lei ha passato l’infanzia e l’adolescenza. Viaggio in cui si aggira per la
mitica N1, e dove, per l’appunto, si accompagna con Tumi. La prima parte è un
po’ incartata, come se si facesse fatica ad ingranare, come se la scrittrice
non sapesse decidersi tra una chiave narrativa e l’altra. Con la partenza da
Reykjavík e l’immersione nella pioggia dell’autunno-inverno islandese (e del
titolo) il libro si ravviva. L’idea del viaggio-conversazione di un adulto con
un bambino inadatto alla vita non è originale ma funziona; si avverte inoltre,
in tutto il libro, un sotterraneo senso di violenza (ci sono un mucchio di
animali morti e di maschi sbrigativi, e qua e là presagi di apocalissi) che
forse avrebbe meritato uno sviluppo maggiore. Quando i due arrivano a
destinazione, nel villaggio dell’est, la trama torna a sfilacciarsi in incontri
e in gesti casuali, stenografati nel diario-romanzo. La protagonista trova un
amante, fa il bungee jumping, si rompe un polso, va a vedere “La vita è bella”
di Benigni, riceve la visita dell’ex marito, legge dei libri, se ne sta molto
per conto suo. Quel che più mi preme è che acquista consapevolezza, è decisa
nel trattare con Tumi vedendolo com’è e non come si vorrebbe che i bambini
fossero. Sembra in fondo aver capito cosa vuole dalla vita. Tutto, bisogna
dire, immerso in un’atmosfera serena, quasi euforica: Ólafsdóttir è lontana
mille miglia dal piagnisteo esistenzialista, vive, e fa vivere alla sua
protagonista il qui ed ora. Altro elemento gradito la non conclusione. Lei e
Tumi salgono in machina, e parte una strana post-conclusione, francamente
preferibile, che raccoglie in ordine cronologico tutte le ricette dei piatti
menzionati nel corso del libro. Consiglio ai più quella a pagina 272 (la
bistecca di balena). Continuerò a leggere autori islandesi, ed anche a sentirne
la musica (Bjork e Sigur Ros), consigliando a tutti di visitare questo
simpatico ed accogliente (anche se un po’ caro) paese.
Mi preme segnalare la riuscita
della prima riunione post-cubana (in attesa della grande reunion di aprile), allietata
da una splendida serata musicale per seguire il basso elettrico di (Stanley) Carlo.
Non decolla invece la possibile meta sudamericana (cosa di cui ero già
consapevole fin dall’inizio) e, per i soliti problemi gestionali dei viaggi
avventurosi, non riesco neanche ad ottenere alternative. Ma questa è una trama
positiva, e vedremo di sicuro rimettersi tutto nel giusto solco.
PS: giunge, ma non a ciel sereno,
la notizia della morte di Umberto Eco, che ho sempre letto con gran rispetto, e
che qui omaggio di un ultimo ma non definitivo saluto. Lui che è salito di uno
come tutti i grandi che passano (nato il 5 gennaio 1932 à il numero “due”, morto
il 19 febbraio 2016 à
il numero “tre”; sfida alle soluzioni).
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