Quattro autori italiani, che
potevano essere migliori di quanto mi hanno restituito. Mi aspettavo molto da
Corrias che avevo sentito lodare, ma non mi ha convinto. Non conoscevo, e non
mi ha entusiasmato, Bellandi (anche se mi fa piacere parlarne un 25 aprile di
ricorrenze storiche). Aveva iniziato alla grande, ma poi è miseramente
naufragato De Marchi. Rimane Nicola Lagioia a tirare su una quaterna
complessivamente insufficiente. Un libro il suo pieno di stimoli, anche se non
è catalogabile in nessuna categoria standard.
Cesare De Marchi “La vocazione” Feltrinelli euro 9 (in realtà, scontato
a 6,75 euro)
[A: 17/07/2014– I: 23/10/2015 – T: 28/10/2015] - & e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 264;
anno 2010]
Un libro che prometteva molto e
che alla fine mi ha totalmente deluso, tanto che ero sul punto di obbedire a
Pennac e lasciarlo andare per la sua strada, come io continuo ad andare per la
mia. Ed è anche il primo libro consigliatomi da quella tutto sommato
interessante ed in altre segnalazioni positive riviste ora assai scomparsa,
“Satisfiction”. La trovai nel numero 9, per chi volesse dei reperti, a firma di
Lorenzo Morandotti del Corriere della Sera. Perché tante citazioni? Perché se
ne parlava entusiasticamente, un volo, forse onirico forse no, che percorre
metaforicamente lo sconcerto di una certa sinistra di fronte al precipitare
della realtà. Ecco, forse è talmente metaforico il romanzo, che io l’ho letto
come se ne narra, seguendo le parole, e, ad un certo punto, mi sono perso. Ho
trovato come se ci fossero due di libri, cuciti, tra la prima e la seconda
parte, dalla figura tragica di Luigi. Ma tra il primo ed il secondo libro ho
trovato un salto mortale all’ingiù, ed il romanzo, senza nessuna rete, si è
fatto molto male. La prima parte, il primo romanzo, è reale, concreto e
doloroso. A Luigi, appena diciottenne sull’orlo dell’esame di maturità, muore
il padre. La madre, pochi mesi dopo, lo lascia per altri lidi, e lui si trova,
intelligente, capace, innamorato della storia, a doversi trovare mezzi di
sostentamento. Fa mille lavori, da posteggiatore abusivo a commesso in una
fallimentare impresa libraria, sempre immerso con la testa nella sua vocazione.
La storia, con alcuni misteri cui si accanisce e su cui ragiona. In
particolare, spendendo buona parte del suo tempo presso le vicende di Attila e
del suo incontro con il Papa Leone Magno. De Marchi ha una cultura letteraria e
storica (ex-insegnante di liceo, poi scrittore, ora da anni trasferitosi in
Germania, e cresciuto da germanista e traduttore) e nelle more, citando Gibbon
ed altri, ci rende partecipi della perplessità di Luigi di fronte alla ritirata
di Attila dopo l’incontro con la delegazione papale presso Mantova. Dopo
alterne vicende, Luigi si stabilizza come cuoco di patatine in una friggitoria.
Instaura un rapporto di amicizia con l’insegnante Giuseppe, con incontri
settimanali, che da un alto approfondiscono i reciproci interessi storici e
filosofici, dall’altro ci fanno partecipi della malattia degenerativa di
Giuseppe (malattia di Charcot-Marie-Tooth, una Neuropatia motorio-sensitiva ereditaria
meno fulminante della sclerosi multipla, ma con una progressiva degenerazione
del tono muscolare). Sarà Giuseppe a spingere Luigi ad uscire dal guscio, a
provare a volgere lo studio in saggio, deviandolo da Attila all’ultimo grande
re di Svezia, Carlo XII, ed alla sua misteriosa morte durante l’assedio di
quella che oggi sarebbe Oslo. Anche qui belle le pagine storiche, cui rimando gli
interessati. Bello il rapporto con il nume tutelare Ruggiero Romano, grande e
reale storico italiano. Che lo prende a ben volere, ma che lo lascia senza rete
quando improvvisamente muore. L’altro filone, su cui questo si congiunge, è il
rapporto con la ragazza-madre Antonella, cameriera nella friggitoria, e con il
di lei figlio Giorgino. Luigi trova momenti di pace con lei, anche se sempre
rabbiosi perché tolgono attimi allo studio. Ed Antonella, nonostante caparbietà
e tenerezza, non riesce ad acquietare le angosce di Luigi. Fino a turbarlo
profondamente prospettando una futura vita in comune. Queste tre convergenze,
il progredire della malattia di Giuseppe (che lo porterà al suicidio), la fine
dei sogni di scrittura e le richieste di Antonella, portano Luigi, con tutti i
piedi, dentro ad una crisi e ad un collasso nervoso. Siamo solo a metà libro,
ma da qui in poi diventa illeggibile. La discesa nell’alienazione mentale di
Luigi non è seguibile. Lui pensa di rapire una bambina a Genova (e lui vive a
Milano), ma lo pensa o lo ha letto sul giornale? Va a Genova a consegnarsi alla
polizia, ma nessuna bambina è stata rapita. Chiede di essere ricoverato a
Cogoleto (nel famoso ospedale psichiatrico di Pratozanino, di cui vi parlerò
altrove). E per pagine e pagine si riguarda l’ombelico della sua malattia,
parla e riparla con il dottore, e finalmente, intontito dagli psicofarmaci non
riconosce più nessuno, neanche la forse amata Antonella. Che dire? Dal falso
rapimento in poi tutto il libro mi si è trascinato via, senza emozioni e senza
partecipazione. Mi aspettavo altro dopo la prima metà, dolorosa ma ben
costruita. Mi aspettavo prese di posizione, anche cadute, ma qualcosa di
tangibile con cui fare i conti. Invece c’è il salto: tutta sta andando male, ed
allora saltiamo nel buio della pazzia, e così, senza più lottare, ci
abbandoniamo all’inutilità della vita non vissuta. Mi piaceva, mi è piaciuta la
prima parte. Non capisco, non entro in sintonia con la seconda. spero che voi
attenti lettori e più di me capaci di guardare oltre, riusciate a spiegarmi le
ragioni di tutto ciò. Io non l’ho capita. E mi ha sinceramente deluso. Metafore
della vita? certo di tutto possiamo parlare, e tutto possiamo inventare. Crollo
delle illusioni di una sinistra che aspettava altro? Non so, a me è sembrato un
tentativo, anche da parte dell’autore di fuggire dalla realtà. Con la quale, a
costi dolorosi, dobbiamo invece fare i conti. Rimboccandoci le maniche e non
fuggendo. Che delusione!
“Diciassette anni di lavoro insensato e avvilente, e aveva lavorato
solo per poter lavorare veramente e fare lo storico.” (140)
Pino Corrias “Dormiremo da vecchi” Chiarelettere euro 16,90 (in realtà,
scontato a 8,45 euro)
[A: 01/10/2015– I: 01/11/2015 – T: 10/11/2015] - &&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 249;
anno 2015]
Ecco
un libro che non avrei comprato, che non mi è piaciuto tanto, ma che sono
contento di aver letto. C’è di certo contraddizione in tutto ciò, ma è proprio
della natura di questo libro essere contradittorio. L’ho quindi comprato perché
mi è stato suggerito, in una delle tante conversazioni amicali, come libro che
dovevo assolutamente leggere. Proprio per questo, invece di lasciarlo
decantare, l’ho subito affrontato in questo novembre indiano. Mi è sembrato,
infatti, un utile aggancio alla realtà che stavo lasciando per qualche
settimana, ed a cui tornavo mentre affrontavo le lunghe notti dei treni
indiani. Conoscevo solo di nome l’autore, giornalista e scrittore, natio di
quella Savona che ogni tanto ritorna nella mia sfera affettiva (come patria di
uno dei più grandi amici di mio padre e come punto di avvio della storia varazzesca
di mia nonna). Di certo fluente (come dimostra anche questo libro), forse ne
avrei apprezzato di più la lettura del suo precedente scritto, dedicato a
quell’artista geniale che fu Alighiero Boetti. Qui tuttavia ci stiamo
allontanando dal seminato, per cui torniamo invece al libro, dove il primo
elemento di disturbo è stata per me la copertina. A molti piace la donna con
gli occhi chiusi da una zip di Giuseppe Mastromatteo. A me ha dato solo
angoscia, come di una persona cui non fosse concesso neanche di piangere. La
storia in sé, poi, è tutta intrisa della “Roma da bere”, antagonista e
posteriore alla “Milano da bere”, tanto che la si ribattezza Dolceroma. Un
mondo di artisti, registi, cinematografari, amanti, tirapiedi, questuanti,
agenti, tenutarie di terrazze vip, attrici in disarmo, gossippari al soldo dei
potenti. Insomma, tutto quel mondo dell’apparire che ho visto (talvolta da
lontano, talvolta da vicino) ma che non mi ha mai convinto nella sua inutile
falsità (o falsa inutilità, vai a sapere). In questo mondo finto ma non
inventato, si muove il motore primo della storia, Oscar Martello, un produttore
che vive a Roma e che nel corso degli anni ha tessuto la sua tela di contatti e
di favori e di azioni non certo esemplari per raggiungere il posto che occupa e
vedere Roma dall’alto e affacciarsi sui tetti della Capitale. Lo vediamo
sull’orlo di una crisi per aver inventato e prodotto un film inguardabile. E lo
vediamo inventarsi un’improbabile trama per salvarlo (o salvare i suoi soldi).
Fingere una fuga d’amore degli altri due personaggi cardine del libro:
l’attrice e lo sceneggiatore. Lei, Jacaranda Rizzi (improbabile fin dal nome),
angelo bello e dannato, occhi color miele, cuore ibernato e un bel po’ di vuoti
da riempire, a cominciare da quello lasciatole da un segreto che la tormenta da
tempo. Lui, Andrea Serrano, uno che campa scrivendo storie lacrime e sangue,
come tocca alla maggior parte degli sceneggiatori di fiction televisive. E che
ha un legame forte quanto inspiegabile con Martello. Il piano è perfetto e
funziona pure, ma non tiene conto di quelle variabili che sono insite
nell’essere umano, con la sua voglia di una vita vera, di amore e anche di
vendetta. Martello vuol dare il circo neroniano al suo pubblico. Ma non siamo
più nell’antica Roma, ed il piano perfetto diventa sottotraccia di filoni
gialli, di misteri che si scioglieranno lungo tutto il percorso del libro.
Filoni di mafia, di droga, di prostituzione di alto bordo. Tuttavia io non mi
appassiono a nessun personaggio, e nessun personaggio si salva dal marasma
finale. Non vi dico né come né perché, anche se questo non è un giallo, ma solo
un romanzo su di una città che, purtroppo, esiste anche se a me non piace.
Quella città che ora esce sui giornali come “mafia capitale”, quella che
permette a Martello di convocare nel suo attico tutta la Dolceroma con il
seguente biglietto “Ore 21 – Vi aspetto a casa – Aventino – Roma, RSVP”. Non si
mette indirizzo, perché se sei della cerchia, sai dov’è di casa Oscar. Se non
lo sei, non riceverai neanche l’invito. Un penultimo commento sull’uso
improprio di un vocabolo inglese, come spesso accade in Italia. Quando una
persona annuncia la propria omosessualità fa “coming out”, e non “outing”, come
dice Corrias, che significa altro, anche se con finalità parallele. L’ultimo
commento è una riflessione su alcune motivazioni del mio disagio finale e del
non amore verso il romanzo. Che non amo la materia di cui tratta, e questo,
sicuramente, influenza il giudizio. Tuttavia non amare il contesto, non
significa denigrare il testo. Ho cercato, brevemente, di motivare il mio
rifiuto del contesto. Ripeto allora, che il testo è scritto decisamente bene,
anche se non è un testo cui farei ritorno per altre letture (che i miei pochi
lettori sanno che i libri a me cari, ogni tanto sono ripercorsi da brevi
letture, anche solo di frasi, per tenerne sempre un’eco vicina).
Nicola Lagioia “Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (senza
risparmiare sé stessi)” Minimum fax euro 8 (in realtà, scontato a 5,12 euro)
[A: 13/07/2015– I: 13/11/2015 – T: 16/11/2015] - &&&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 124;
anno 2001]
Romanzo
d’esordio di Nicola Lagioia, uno degli editor di punta della casa editrice
minimum fax, a me molto cara, e recente vincitore del Premio Strega con il suo
ultimo romanzo. Io confesso che questo l’ho comprato perché volevo leggere
qualcosa di suo, e perché il titolo mi è sembrato troppo bello per non entrare
a far parte della mia libreria. A proposito, ho scritto romanzo, ma in realtà
cosa sono queste 124 pagine? Non certo un “romanzo”, certo una sequenza di
parole che è stato piacevole leggere e cercare, come dice l’autore, di scardinare, decostruire, abbattere.
Iniziando da quelle prime pagine dove l’io narrante cerca un’ispirazione,
fittizia, partendo da un cocktail di parole ritagliate da una Garzantina e
mescolate a casaccio. Un espediente come un altro. Simile a una sperimentazione
cui è divertente prestare fede. Ovviamente come in ogni buon racconto sono
presenti amore, amicizia e i loro epigoni. C’è l’amore, si chiama Giulia. Si
allontana e ritorna, decisa a convivere col nostro non-protagonista, dopo
cinque anni (o solo tre settimane?). Il viaggio per andare a prenderla in
stazione si smonta in episodi vari ed eventuali. Ogni volta la mutazione di un
elemento ne trasforma il corso ed anche l’epilogo, sdoganando Caso e Destino.
C’è l’amicizia-antagonismo, impersonata dal mitico Tolstoj. Che non è più in
Russia, l’ha abbandonata da tempo per sfuggire a una moglie insopportabile. Ora
vive a Roma, sulla Nomentana. Ama la coca-cola, mangia gelato, gioca a scopa e
si accontenta di una partita a dama, la sorella povera degli scacchi. Ha il suo
bel carattere, il vecchio scrittore, e non abbandona l’idea di lavorare ad un
romanzo spettacolare la cui trama, però, somiglia fin troppo al capolavoro di
Joyce, l’Ulysses. È un po’ infastidito dalla mole della sua opera omnia sugli
scaffali della Feltrinelli e sembra comunque una persona felice. E Lev fa il
confidente del protagonista, tra caffè al bar e partite a dama. Mitico
l’intervento di Lev e la risposta di Nicola: “Ci sono vari modi per terminare
una partita a dama: 1) Vincere. 2) Perdere. 3) Rovesciare la scacchiera. 4)
Eliminare sé stessi e l'avversario.” Sarà che Lagioia ha uno dei nomi di
Tolstoj, ma a lungo si misura con lui, a parte il discorso di Giulia, per
imbastire un duello senza possibilità di vittoria sulla scrittura. Altro punto
fondamentale, il consiglio di leggere “Guerra e pace” lasciandolo macerare per
giorni sul bagnasciuga della spiaggia, per poi leggerne solo le pagine che
rimangono intonse dalla corruzione della salsedine. Lagioia inoltre continua a
citare tutti i più “grandi” di tutte le epoche. Nomi altisonanti e pesantissimi
costellano le righe scritte (sia direttamente che in modo velato): Deleuze,
Guattari, Miller, Cage (qui mi sono fermato per ricordare il mitico seminario
sulla musica elettronica cui partecipai con Laura e Vito!), Socrate, Bréton,
Brecht, Galileo, Duchamp, Manzoni (Alessandro, anche se con i Baustelle non
dimenticherei Piero), Stendhal, Sartre, Proust, Céline, Marinetti, Goncarov,
Majakovskij, Musil e non solo. Come ad esempio Guy Debord, inarrivabile
fondatore dell’Internazionale Situazionista. A conoscerli tutti si diventa vecchi
(un po’ come me…). Forse la parte che meno mi riesce a far sorridere e
compenetrare è quando si parte con droghe e simili. Burroughs l’ho letto (e
forse lo rifarò) ma non mi è piaciuto. Preferisco rimanere con Nicola a cercare
di defenestrare Nikolaevic. E mi riferisco al suo significato originale, quello
relativo al 23 maggio 1618, quando l’aristocrazia boema gettò dalla finestra il
governatore imperiale (ed altri lacchè) che si salvò solo perché cadde su un
mucchio di … letame. Probabilmente è tempo che cerchi altro di Lagioia, per
capire la sua evoluzione, per tornare a minimum fax, al suo passaggio a
Einaudi, ed ai premi. Che stranamente il nostro autore ha scritto quattro
libri. Questo, il primo, ha vinto il Premio Lo Straniero, il secondo “Occidente
per principianti” ha vinto il premio Scanno, il terzo “Riportando tutto a casa”
il premio Viareggio 2010, e l’ultimo, “La ferocia”, il premio Strega. Sono
tanti i premi italici o io sono malizioso e non ve lo dico?
Riccardo Bellandi “Lo spettro greco” Youcanprint s.p. (regalo di
Alessandra)
[A: 01/01/2016– I: 01/01/2016 – T: 04/01/2016] - &&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 286;
anno 2015]
Si
stava in una piacevole vacanza nel triangolo Udine – Aquileia – Gorizia, ed Ale
è riuscita a trovare questo libro in una bellissima libreria proprio di
Gorizia, specializzata nella storia locale. E questo è proprio un libro “ad
hoc”, che ci porta nell’ultimo dopoguerra, in quel territorio che tante ebbe a
patire proprio in quegli anni. È stata anche una scommessa, visto che è un
libro auto-prodotto (categoria che non sempre mi convince). Scommessa vinta a
metà, che per ambientazione e collegamenti con gli avvenimenti del periodo è
senza dubbio interessante. Meno, e cercherò di spiegarlo meglio, nell’intreccio
in sé, che mi ha lasciato alcuni punti oscuri e dubbiosi. Infatti, e
sinceramente, benché ne abbia letto, non ho una percezione completa di tutto quello
che successe nel triangolo veneto-giuliano nell’immediato dopoguerra. Bellandi
ha sicuramente studiato a lungo la materia, sia per l’abbondante corredo
biografico, sia per l’uso di una serie di personaggi, nella finzione
letteraria, che, senza una conoscenza puntuale non si sarebbero potuti usare. E
non dico tanto degli italiani, che tutti conosciamo (con citazioni puntuali di
Massimo Girotti e Natalino Otto), quanto degli americani come Dean Acheson o
James Angleton, ed a maggior ragione degli salvi come Edvard Kardelj o Ivan
Macek. Siamo nel primo periodo del dopoguerra, e la zona è in fermento: il
confine orientale italiano è diviso, dalla linea Morgan, in una zona A (che
comprende Trieste, Gorizia e l’enclave di Pola) ed una zona B (con Capodistria e
le grotte di Postumia). Mentre a Parigi si stava discutendo dell’assetto del
mondo, in questa zona si svolgevano lotte cruente e crudeli, tra tutta una
serie di personaggi e di popoli che “nel pensier spaurano”. Ci sono gli
Ustascia, i fascisti croati di Ante Pavelic, i Padalci, cittadini italiani di
lingua slovena, i cetnici, nazionalisti serbi fedeli all’esiliato re Pietro II,
i drughi di Tito, i Domobranci, sloveni alleati ai tedeschi. Di sicuro ne
dimentico molti (chiedo aiuto agli storici per dipanare la matassa).
Ovviamente, le diplomazie trattano, e sul campo succede di tutto. Di questo
Bellandi cerca di parlarci, mentre seguiamo le vicende personali e politiche di
Aldo Ganz. Qui entriamo nell’opinabile e nelle parti che mi lasciano più ombre.
Sebbene, credo correttamente, Bellandi cerchi di mantenere un asettico
neutralismo rispetto agli attori della vicenda, la scelta di Ganz come motore
dell’azione è pur sempre significativa. Ganz è un dalmata, che ha conosciuto solo
la guerra. Entrato nelle milizie men che ventenne, viene sballottato da una
parte all’altra del conflitto. Come molti italiani nati in territori “altri”
mostra un viscerale attaccamento alla nazione d’elezione. Tanto da rimanere
fedele ai suoi ideali anche dopo l’8 settembre (una scelta, ma ricordo sempre
la storia di Cristiano Federico Ferrari narrata dal mio amico Luciano). Sceglie
di continuare la lotta a fianco dei tedeschi, pur sapendo che è la parte
sbagliata, quella maledetta e destinata a perdere. Si arruola, infatti, nei
Repubblichini, viene catapultato nuovamente in Dalmazia (poiché parla molte
delle lingue serbo-croate). Arrestato dai titini (le milizie di Josip Broz),
miracolosamente scampato, vivacchia in quel di Trieste in attesa di un visto
per la Spagna. Qui, in quest’autunno del '46 è intenzionato a portare a termine
la missione messa in piedi dai Servizi americani, ad ogni costo, nonostante
pericoli letali e ostacoli apparentemente insormontabili. Missione messa in
piedi al fine di contrastare una riunione che si dovrebbe tenere in territorio
jugoslavo, tra emissari di Tito e l’ala sinistra del Partito Comunista
Italiano. In quest’attività Ganz è sostenuto da un comando locale, guidato
dalla slovena Jana. Tralascio tutte le storie che s’intrecciano, tra buoni e
cattivi, anche se i buoni non mi sembra che ci siano. Tradimenti di elementi
del comando italiano. Tradimenti di elementi del comando sloveno. Ambiguità
degli americani e degli alleati. E Ganz, che con vari flash-back va su e giù
nella memoria, incontrando nuovamente l’aguzzino che lo torturò nei campi
slavi, ora pezzo grosso dell’armata di Tito. La chiave di volta, anche se non
vi do i particolari, sarà l’atteggiamento della Russia di Stalin verso il
comunismo di Tito, una lotta intestina al blocco dell’Est che CIA ed amici loro
non avevano contemplato potesse sussistere. Quindi, onore alla scrittura, onore
alla riproposizione di un pezzo di storia che sto approfondendo, e che comunque
ho gradito leggere mentre attraversavo le contrade friulane (ma Udine è molto
più bella di Gorizia). Non sono convinto del taglio che viene dato allo
scritto, per cui me ne rimane una valutazione monca. Anche se, lo sapevo prima
e lo so tutt’ora, i Servizi Segreti Americani negli anni ’46-’56 molto hanno
fatto, anche di sbagliato, in tutta l’area del Patto di Varsavia.
Come avete sicuramente notato,
non siamo di domenica, avendo passato un rilassante e ricaricante weekend
sorianese. Quindi, approfittando di questo 25 aprile di ricorrenza vi inoltre
oggi le mie solite trame, aspettando altri viaggi che non arrivano.