Torniamo, dopo molti gialli, a
qualche romanzo, d’annata o meno. Incominciando in discesa con un Bowles da
molti osannato ma che non mi ha convinto. E continuando con un emergente
spagnolo, molto ammiccante ma poco pungente. Fortuna che c’è un passaggio con
un Chbosky, autore a me prima ignoto, ma qui di sicuro effetto. Per finire con
uno strano libro russo-americano, anche qui non eccelso, ma intrigante. Insomma,
uno sguardo oltre confine per ribadire che, anche dentro il confine, ci sono
libri da leggere con gusto.
Paul Bowles “Il tè nel deserto” Feltrinelli euro 9 (in realtà, scontato
a 8,10 euro)
[A: 05/05/2014– I:
23/09/2015 – T: 01/10/2015] - && e 3/4
[tit. or.: The Sheltering Sky; ling. or.: inglese; pagine: 268; anno 1949]
Non
c’era certo bisogno di alcuna spinta motivazionale per inserire un tale libro
cult nella lista delle mie letture. Solo una piccola idea in più, a valle
dell’interessante pamphlet regalatomi or sono due anni da Otto e Ale. E devo
dire che, interessante e degno di lettura, non mi ha convinto sino in fondo.
Per tre motivazioni forti che ho ricavato dalla lettura: la totale mancanza di
accenni all’islam come elemento fondante di una gran parte della vita
nordafricana, la poca conoscenza della cultura tuareg, laddove si adombra una
loro possibile vita poligamica mentre gli “uomini blu” sono intrinsecamente
monogami, l’inconsistenza quasi naif dell’approccio alla vita locale da parte
degli americani presenti nel libro. Anche se probabilmente quest’ultima
osservazione deriva dall’esasperazione che Bowles mette nel descrivere
caratteri d’oltreoceano, forse drogata dalle frequentazioni che nel suo eremo
di Tangeri aveva in quegli anni. Perché dal ’47 Bowles si trasferisce
dall’America in Marocco, dove vivrà gli ultimi 50 anni della sua vita, e dove
ospiterà tra gli altri Truman Capote, Tennessee Williams, Gore Vida, Allen Ginseng,
William S. Burroughs e Jack Kerouac. L’altro elemento di “disturbo” è che,
avendo visto il film di Bertolucci, mi aspettavo, certo erroneamente, una
maggior coscienza delle proprie personali motivazioni da parte dei coniugi
Moresby, sia Port (che sullo schermo ha la faccia problematica di John
Malkovich) sia Kit (che sempre nel film ha una maggior consapevolezza di cosa
voglia nelle sembianze di Debra Winger). Il libro di Bowles, invece, è un lungo
omaggio alla scomparsa di sé, alla ricerca delle proprie motivazioni di vita,
dove, scontrandosi con la realtà, quest’ultima vince alla grande. I personaggi
principali, come detto, sono Port e Kit. Una coppia decentemente in crisi e
ragionevolmente con dei soldi alle spalle, tanto che può permettersi non di
fare i turisti, ma bensì viaggiatori, che non hanno una reale meta, anche se
lontani da quella mitica proposizione di Robert Louis Stevenson (cui spero di
arrivare prima o poi): “Io non viaggio per arrivare, io viaggio per andare.” Ed
i due si trovano invischiati in tutta una serie di momenti che un viaggiatore
reale avrebbe affrontato in altro modo. Port è condotto da un sedicente arabo,
nottetempo, in una specie di bordello itinerante di belle signorine, con cui,
senza porsi scrupolo, giace, per poi tirarsi indietro, sentirne sensi di colpa,
ascoltare le loro parole senza capirne il significato. E guardando il proprio
ombelico, Port non trova meglio che ammalarsi di febbre tifoidea, di non
accorgersene, e di trovarsi isolato con Kit e senza reali possibilità di cure.
Kit stessa, come lei dice alla ricerca del proprio io, in una notte in treno
giace, più o meno consapevolmente, con Turner (più o meno, perché sembra che
Kit vada a letto con tanti senza capire perché). Rosa dai sensi di colpa non
saprà più gestire nulla, e non troverà di meglio che lasciarsi trasportare
dagli eventi. Fugge da Port morente, per paura non si sa di cosa. Si perde in
un primo deserto, salvata da un probabile Tuareg che la aggrega alle sue mogli,
per poi lasciarla in loro balia. Kit che continua a fuggire di arabo in arabo,
tanto che alla fine, partendo dal Marocco, si ritroverà in Sudan (!). Di
contorno abbiamo l’inutile Turner travolto prima da Kit, poi dai propri sensi
di colpa, poi da tutto il contorno (sembra proprio uno di quegli americani in
visita a Bowles a Tangeri). Un inutile burattino. Come inutili, se non come
macchiette, la strana coppia formata da Eric Lyle e dalla sua sedicente madre.
Che vivacchiano rubacchiando agli altri turisti, che continuano a girare
lamentandosi di tutto. Esempio di come era facile ed anche inutile fare i
turisti subito dopo la Seconda Guerra mondiale. E di come il mondo arabo si sia
trovato invaso da gente che ha rovinato completamente la propria e l’altrui
esistenza. Un piccolo cammeo è dedicato anche alle guarnigioni francesi del
deserto algerino, con quel tanto di presupponenza che i francesi hanno sempre
avuto, e quel molto di impreparazione che tutti qui stanno mostrando. Certo,
gli avvenimenti si concatenano in modo talmente strano che ci si rende conto di
essere trascinati verso azioni e comportamenti quasi obbligati (e sempre
sbagliati). Con quel finale, che nel libro è l’unica cosa che preferisco al
film, dove la scomparsa di Kit assume una connotazione di coscienza e non di
paura. Rimangono, ahimè, soltanto i paesaggi, ed il Sahara, e tutti quegli
scorci senza personaggi che sono la parte migliore (soggettivamente) del libro.
Che spiace anche sia conosciuto con il fuorviante titolo della prima parte, e
non con l’originale: “Un cielo protettore”. E chi è stato nei deserti, capisce,
guardando il cielo, il senso di tutto ciò. Sia nelle giornate passate a
ripararsi nelle oasi dal grande calore, sia nelle notti a guardar le stelle,
finalmente senza altre luci che ne oscurino lo splendore. Non è un caso che
abbia impiegato molto a leggere questo romanzo, quindi. Da cui aspettavo un mio
ritorno mentale là dove, per problemi di guerre or non è possibile andare. Si,
ho ripensato ai miei deserti, ed ho rivissuto la morbidezza libica e l’asprezza
algerina. Ma per merito della mia immaginazione. Non di questo libro. Forse
andava letto come metafora del perdersi in una inutile ricerca di sé, laddove
il proprio io non stava. E forse questo sarebbe stato un altro libro. Rendo
comunque omaggio alla figura di Paul Bowles ed alla sua vita, anche se non alla
sua opera prima.
“Spesso, proprio durante un viaggio i suoi
pensieri divenivano particolarmente lucidi, e prendeva decisioni cui non poteva
arrivare quand’era fermo in un luogo.” (86)
“- Prima dei vent’anni … pensavo che la vita
fosse qualcosa che andasse via via acquistando slancio. Anno per anno sarebbe
diventata più ricca e più profonda. Uno imparava sempre più, diventava via via
più saggio…. – E ora sai che non è così,
vero? È piuttosto come fumare una sigaretta. Le prime boccate hanno un sapore
meraviglioso, e non pensi che possa mai esaurirsi. Poi cominci a darlo per
scontato. D’improvviso ti rendi conto che si è consumata quasi tutta, e proprio
allora ti accorgi che in fondo sa di amaro.” (138)
“Il deserto è un posto così grande, eppure
niente va veramente perduto, mai.” (265)
Jaime Miranda “Non sono qui per farmi degli amici” Gran Via s.p.
(prestito di Fako)
[A: 18/03/2015– I: 01/12/2015 – T: 04/12/2015] - &&
e ¾
[tit. or.: No
he venido aquì a hacer amigos; ling. or.: spagnolo; pagine: 271; anno 2005]
Una
discreta prova, che avrebbe potuto avere esiti migliori se l’autore non
guardasse troppo al proprio mondo ombelicale, ed avesse tentato di
generalizzare un po’ le esperienze ed il mondo che ci rappresenta. Un mondo che
ho visto subito, nel mio immaginario personale, trasportato in un film con
protagonista Edoardo Leo. Una persona (come spesso capita nei suoi film)
capitata lì quasi per caso, che sembra non capire cosa gli succede, e perché.
Che forse sarà capace di qualche scatto di sopravvivenza, e che alla fine sarà,
in qualche modo, premiato. Questa la breve e triste historia di Bruno
Medinaceli come ce la racconta Miranda (e come appunto la vedo io con i miei
occhiali da cinefilo). Per capire poi meglio quanto ho detto e quanto dirò, leggiamo
anche il sottotitolo “Le disavventure di un consulente IT” (ma in spagnolo
nella prima edizione riportava “Memories de un consultor IT” e solo nelle
successive cambiava in “Desventuras”). E l’autore, che si occupa di counselling
per aziende IT ben conosce il gergo ed il mondo di cui parla. Questo è appunto
il pregio ed il limite del libro. Per uno come me, che tanti anni ha passato in
quel mondo e con quel linguaggio, è stata (a volte) una sana boccata di
ossigeno, corroborata da qualche risata. Penso di capire chi, venendo da altre
realtà, si ponga alla lettura, e ne avrà sicuramente un minor apporto
umoristico. La trama si dipana in modo un po’ “casual”, in un lungo flashback,
dove, sfrecciando a folle velocità sulla BMW del capo, con lo stesso a fianco a
lui cadavere, Bruno ripercorre la sua vita da “consulente”. Che come molti
comincia con desideri altri, e, non trovando lavoro, ci si “arrangia” a fare un
mestiere che sembra non aver bisogno di nessun retroterra specifico. È tutto
condensato nell’immaginario del consulente che, come si narra da battute
raccolte nel corso degli anni, ti vende un orologio per poterti chiedere che
ore sono. E Bruno fa tutta la gavetta. Entra in una industria informatica che
si barcamena con contratti di piccolo cabotaggio dai quali cerca di spremere il
massimo risultato con il minimo sforzo (e tra il serio ed il faceto vedo
aggirarsi tra le righe lo spirito di Antonio Maria e le società di Vittorio).
Bruno, in questo “viaggio”, si premura di portare alla ribalta tutte le topiche
del bravo consulente e del suo posto di lavoro. In primis, la macchina del
caffè, che fornisce casualmente bevande, e tutte discretamente imbevibili. Il
posto di lavoro, in genere angusto, scarsamente illuminato, e destinato ad
essere frequentato per poco, dato che si lavoro (praticamente sempre) dal
cliente. Cliente che sovente è più informato del consulente stesso. Per questo
Bruno si porta gli “esperti”, e per questo riempie i suoi discorsi con parole
inglesi, e giri di parole tortuosamente inutili. E sommerge il cliente di slide
da Power Point, in genere molto colorate, quasi sempre inutili. Quindi,
sottolineare il lavoro conflittuale con il cliente stesso. Ma anche i conflitti
con i colleghi, in un ambiente dove, come riprendiamo dal titolo, non siamo lì
per farci degli amici. E sopra ogni caso, l’odio (con strane punte d’amore)
verso il suo capo Anton Goliardo, grasso, straripante, maleducato, logorroico,
tiranno verso tutti. Tanto che qualcuno vorrebbe ucciderlo, ma, per troppa
paura, preferisce il suicidio. Da qui si diparte l’oscura traccia meno
gradevole (o più contorta). Anche Bruno vorrebbe ribellarsi a Goliardo, senza
riuscirci. Finché questi muore d’infarto. Finché lo spirito di Goliardo entra
nella sua testa e lo convince a lanciarsi alla ricerca di una strega nella
regione di Oviedo. E qui finisce il percorso circolare del lungo flashback. Ma
quest’ultima parte è decisamente onirica e mal combinata. Una volta la strega
trovata, non si riesce a salvare Goliardo. Che rimane nella testa di Bruno fino
a che… Con un finale tra le lenzuola che vi lascio immaginare, ed anche
leggere. Certo Jaime ha risvegliato momenti sopiti (e fortunatamente
dimenticati). Le presentazioni in Libano, la folle corsa verso Bagdad per
parlare con un inesistente Ministero dei Trasporti, il karaoke di Pechino, la
presentazione in uno spagnolo inventato ad un convegno a Granada. Quando si
parlava di “customer”, di “break even point”, di “netiquette”. Quando si
passava la notte sui documenti per le consegne al cliente alle 8 del mattino
(mitici i 5 volumi preparati nottetempo per la Regione Sicilia). Ma come direbbe
un bravo informatico, questi sono tutti “in joke”, di cui pochi rideranno. Ed è
per questo, oltre che per una certa stanchezza di trama e difficoltà di chiudere
il finale, che il libro di Miranda non mi ha convinto più di tanto. Un plauso
solo a Gran Via, un editore che cerca di presentare giovani autori spagnoli
sulla ribalta italiana. Ed una tirata d’orecchie ancora a loro, che potevano
passare correttori di bozze, senza lasciare cose come la frase “macchie più
scure a cuasa dell’umidità” trovata a pagina 170.
Stephen Chbosky “Noi siamo infinito” Sperling & Kuipfer euro 13 (in
realtà, scontato a 9,75 euro)
[A: 24/06/2014– I:
18/12/2015 – T: 21/12/2015] - &&&& -
[tit. or.: The Perks of being a Wallflower; ling. or.: inglese; pagine: 273; anno 1999]
Non
sapevo nulla di questo libro, dell’autore e del film che ne fu tratto (nel
2012), ma spinto dai suggerimenti “delle cure”, l’avevo messo nella lista degli
acquisti. Lo avevo acquistato con altri e messo nella lista delle letture. Ora
l’ho letto. Interessante, abbastanza duro ma non di ferro, forse anche pieno di
possibilità inespresse, e che avrebbero potuto meglio uscire dalla pagina. Alla
fine, un libro che si legge veloce, che non mi fa rimpiangere di non aver visto
il film (anche se interpretato da Emma Watson, la mia Hermione preferita).
Intanto, il segno meno è dovuto alla pervicacia delle edizioni italiane (e dei
distributori del film): l’originale recita “Il vantaggio di essere una
tappezzeria”, che capisco sia difficile da rendere sinteticamente in italiano,
anche se tutti ci ricordiamo come alle feste “facesse tappezzeria” il ragazzo/a
che stava da una parte senza partecipare a nulla. Ed è così che sta passando
questo primo anno alle scuole superiori il nostro Charlie. Ragazzo molto
intelligente, e contemporaneamente pieno di problemi. Come direbbe Troisi, non
è che ha un complesso in testa, ma un’orchestra intera. Charlie è terrorizzato
dalla novità di cambiare scuola, di crescere, di perdere gli amici e di non
sapersene fare di nuovi. Per questo attraversa questo periodo appunto come
tappezziere, senza partecipare (così come tutti ad un certo punto gli dicono).
Ed allo stesso tempo, si interroga (ed interroga) su tutto. Tanto che spesso,
soprattutto il padre, gli chiede addirittura di non fare domande, e di seguire
le cose così come vengono. Charlie ha un fratello grande, che sta
all’Università e si mantiene con borse di studio dovute alla sua attività sportiva.
Ha una sorella, di poco più grande, che sbaglia sempre nella scelta dei ragazzi
con cui andare. Tanto che rimane pure incinta, ed è partecipativa la scena di
Charlie che la porta in clinica ad abortire. Nonostante il terrore di “stare
solo”, Charlie fa comunque dei passi in avanti. Inciso: un terrore che gli
deriva dal grande amore che aveva avuto per la sorella della madre, zia Helen,
morta quando lui aveva sette anni. E dal suicidio del suo amico delle medie
Michael. Per fare un esempio delle intempestività di Charlie, dopo quasi un
anno dal suicidio, incontrando Susan, la ragazza di Michael, che si sta
divertendo con degli amici, le chiede a bruciapelo: “Non senti mai la sua
mancanza?” Fa dei passi avanti, dicevo, incontrando Patrick e sua sorella Samantha
detta Sam. Sono più grandi, stanno all’ultimo anno, sosterranno l’esame finale,
ma con loro si trova bene. Charlie comincia così a descrivere questo suo anno
vissuto ai margini. Si prende una sbandata per Sam, che però gli fa capire la
differenza d’età. È empatico con Patrick, gay con una cotta per Brad, ma la cui
storia finisce male (molto per colpa di Brad che non accetta la sua
omosessualità). Si mette con Mary Elizabeth, una ragazza che ha il solo difetto
di parlare molto. E che lui ascolta. Ma non ama, lo fa perché “così fan tutti”.
Fuma spinelli. A volte si ubriaca come un cavallo. Prova anche qualche cosa di
più pesante, ma va fuori di testa. Lo aiuta, tra gli altri, il professore di
inglese, che gli dà montagne di libri da leggere e recensire (tra cui Il buio
oltre la siepe di Harper Lee, Peter e Wendy di J. M. Barrie, Il grande Gatsby
di F. Scott Fitzgerald, Il giovane Holden di J. D. Salinger, Sulla strada di
Jack Kerouac, e altri). Fino allo scioglimento finale, la festa di fine anno,
e, finalmente, sappiamo perché Charlie è un po’ strano. Si vede che lo
scrittore è anche sceneggiatore, che il libro è già quasi un copione. Ed è un
bell’esempio del “mondo” americano. Certo, i genitori sono come si vorrebbe
fossero. Gli amici, con tutti i loro difetti, anche. Ma si ha il coraggio,
anche, di dire che c’è gente che beve, si droga, che ci sono rapporti difficili
con gli altri, che ognuno è sé stesso a modo suo. Insomma, non mi è dispiaciuto
leggerne, con tutti i distinguo che ho appena fatto. A volte scivola nel
“kinsellaggio”, ma è sopportabile. Ed ogni tanto è bene ricordarsi che anche
noi abbiamo avuto sedici anni.
“Il fatto è che non so di cose parlasse,
anche se lo faceva molto bene.” (156)
“Immagino che siano tanti i fattori che ci
fanno essere come siamo. Molti, forse, non li conosceremo mai. Ma, anche se non
possiamo essere noi a decidere da dove veniamo, possiamo scegliere la nostra
meta.” (269)
David Benioff “La città dei ladri” Beat euro 9
[A: 01/07/2014– I: 29/12/2015 – T: 05/01/2016] - &&&
e ½
[tit. or.: City of Thieves; ling. or.: inglese; pagine: 281; anno 2008]
Da
una vecchissima segnalazione del supplemento libri di Repubblica (qualcosa di
almeno sette anni fa) sbuca fuori questo libro, che dalla seconda pagina di
quel riferimento ha aspettato qualche anno per uscire in edizione economica, e
piazzarsi nell’elenco delle mie pantagrueliche letture. Non conoscevo l’autore,
ma una volta letto il libro, non mi ha sorpreso scoprire che la sua maggiore
attività sia quella di sceneggiatore. In particolare è lo sceneggiatore in capo
della mitica serie tanto cara alla mia amica Rosa de “Il trono di spade”. Questo
libro ne ribadisce la specifica capacità di scrittura, in quanto esce quasi
come se già fosse pronto per una trasposizione cinematografica. Ha anche
qualche facilità in più nella storia, dovuta alla storia della stessa famiglia
Benioff (anzi Friedman, come in realtà si chiama il nostro David), avendo in
comune la fuga dall’est ebreo verso la “salvezza americana”. David racconta
quindi con un interessante artificio letterario (che non svelo) la storia di
nonno Lev, e della sua infanzia a Leningrado (come si chiamava durante lo
stalinismo), o a Piter, come la chiamavano e la chiamano i locali. Infanzia di
cui si comincia a narrare dal 1941, epoca dei famosi 900 giorni di assedio alla
città da parte dei tedeschi (e per averne una narrazione non romanzata, rimando
a “I Novecento Giorni” di Harrison Salisbury, dove ho imparato che i russi
chiamano la Seconda Guerra Mondiale con il nome di Grande Guerra Patriottica).
Lev rimane in città, mentre tutti sfollano, perché, da giovane e visionario
com’è, vuole diventare un grande eroe proteggendo la Madre Patria russa.
Purtroppo Lev non è un eroe, è mingherlino, non sa combattere, ma per salvare
l’amica Vera in difficoltà viene fermato lui dall’Armata Russa, mentre
trafugava un coltello ad un tedesco morto. Reato che in tempo di guerra è
punito con la morte. Ma il colonnello che deve decidere sulla fucilazione ha un
problema: si deve sposare la figlia, e manca la torta nuziale, perché a Piter
non ci sono uova. Se Lev, coadiuvato dal disertore Kolija, trova le uova avrà
salva la vita, altrimenti… Da qui cominciano le avventure dei nostri Don
Chisciotte della guerra, dove la guerra diventa il fondale della storia e noi
seguiamo Lev e Kolija nelle loro peripezie, dove hanno solo cinque giorni per
trovare le uova, per cui decidono di rompere l’accerchiamento e di cercare le
uova nelle lontane campagne. Comico-tragiche avventure aspettano i nostri, che
rischiano di cadere nelle grinfie di un macellaio cannibale e di sua moglie o
di essere catturati dalle Squadre della Morte naziste. Vengono catturati da
altri tedeschi, finiscono in un bordello di ragazze russe costrette a
compiacere i tedeschi. Accolti in una formazione di russi della resistenza,
conoscono Vika, un’esile ragazzina che si rivela il più abile cecchino del
gruppo ed una giustiziera senza pietà che non ci pensa due volte a sgozzare con
il coltello quelli che considera nemici; sperimentano che cosa vuol dire
marciare ventiquattr’ore filate in un deserto di neve con trenta gradi sotto
zero e affamati. Per Lev arriva anche il momento in cui per la prima volta in
vita sua ucciderà un uomo accoltellandolo. In tutto questo, i due ragazzi non perdono
mai di vista il loro obiettivo primario: trovare le uova maledette, da cui
dipende il loro futuro. Perché sanno che, anche se riescono a salvare la pelle
dai tedeschi, se scade il termine e loro non si presentano con le uova,
verranno uccisi dagli uomini dei Servizi Segreti russi (il famigerato NKDV, che
non è altro che il padre bellico del KGB). Riusciranno, Lev e Kolija, a trovare
le uova e a salvare la pelle? E che ne sarà di Vika? Questo, insieme
all’espediente di cui accennavo sopra, lo lascio a voi che vorrete leggere
questo certo non indimenticabile libro, ma di certo un libro che ha un buon
ritmo ed un sapiente equilibrio di drammaticità (tutti gli elementi storici,
cannibalismo compreso, provengono da fonti storiche serie), umorismo e leggerezza.
Noto di passaggio la capacità di Benioff anche di riprodurre un modo molto
russo di narrare le storie: quello, a volte, di fissarsi su di un particolare
marginale, lasciare il filone principale, ed immergersi nella descrizione, che
so, delle pendici del monte coperte di neve, e la bellezza di un albero, o di
un fiore che sbuca in tutto quel bianco. Nelle sue opere di letteratura, sembra
infine che Benioff s’imponga una costrizione: racchiudere tutto in un limitato
orizzonte temporale. Qui sono cinque giorni, nel suo primo libro ventiquattro
ore. Devo dire che questo espediente si rivela efficace, che alla fine si deve,
appunto, arrivare ad una conclusione. E Benioff vi arriva, non sempre ai
livelli narrativi (sulla guerra) di Vasilij Grossman o (sulle sofferenze degli
assedi) di Lev Tolstoj. Ma piacevole e godibile.
Infine,
essendo già il secondo week-end del mese, ci mettiamo anche il primo allegato, quello
curativo, questa volta dedicato ad una piccola disamina dei libri da leggere
dopo esserci svegliati di colpo, nottetempo, assaliti da un incubo selvaggio.
Redigo velocemente queste note a
valle di un viaggio genetliaco in quel di Mantova, città cui consiglio di
dedicare un week-end. Ne vale la pena. Sperando che questo piccolo viaggio sia
propedeutico al più grande e possibile viaggio giugnesco.
CURARSI CON I LIBRI di
Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
MAGGIO 2016
Qualche mala lingua potrebbe
pensare che, essendo un mese compleannico, gli incubi vengano dall’inesorabile
passare degli anni. Sfatiamo subito l’assunto, che, ancorché bello di sfama e
di sventura, continuo a girellare (ma anche a baciare la mia Itaca).
INCUBI
Se vi capita
spesso di avere degli incubi nelle prime ore del mattino, un romanzo rilassante
vi aiuterà a tranquillizzare la vostra anima. Tenete vicino al letto un po’ di
questi romanzi che parlano di fiumi e rimettetevi a dormire cullati dalla loro
corrente.
I DIECI MIGLIORI ROMANZI DA LEGGERE DOPO UN INCUBO
André Brink “La
polvere dei sogni”
Gesualdo Bufalino “Diceria dell'untore”
Albert Camus “La
peste”
Ismail Kadaré “Il
palazzo dei sogni”
Norman McLean “In
mezzo scorre il fiume”
Manuel Puig “Il
bacio della donna ragno”
Anne Rice “Intervista
col vampiro”
Bernard Schlink “A voce alta”
Mark Twain “Le
avventure di Huckleberry Finn”
Marguerite Yourcenar “L'opera al nero”
Bugiardino
Allora,
di questi libri per “calmare gli incubi”, come dicono le nostre due amiche, ne
ho letti abbastanza. Almeno da non farmi venire molti incubi. Alcuni, devo
dire, si perdono forse nella notte della giovinezza. Dove si colloca, letto e
mai più toccato, Mark Twain. Verso l’esame di maturità invece abbiamo “La
peste” di Camus. Che incoscientemente, proprio alla maturità, portai francese
ed una tesina su Camus e la sua scrittura (inciso tra parentesi, portai anche
una tesina in italiano, che si intitolava. “Gramsci e la scrittura
nazional-popolare”, un vero presentimento!!). Mentre collochiamo alla metà
degli anni Novanta le dicerie di Bufalino ed il romanzo claustrofobico e gay di
Puig. Rimangono fuori dal giro, per ora, Kadaré (che ho provato a leggere ma
non ci sono riuscito), i vampiri della Rice (che non so se proverò a leggere)
ed il fiume di McLean. Quindi ci possiamo concentrare su tre romanzi veramente
eccellenti (nelle zone altissime dei miei gradimenti), anche se il primo,
veramente una delle prime recensione, ne contiene un accenno telegrafico.
André Brink “La polvere dei sogni” Feltrinelli euro 9
[trama pubblicata 17/05/2007]
Molto
bello, una saga al femminile che tra sogni e realtà (ri-)costruisce l’atmosfera
della fine apartheid in Sud Africa. Potente il ritratto delle due Kristein. Da
leggere assolutamente. E pieno di frasi che mi sono rimaste attaccate, e che vi
regalo:
“Ma tu non hai mai dipinto … o sì? Non da
quando mi conosci. Ma tu di me cosa sai in realtà?”
“Com’è sconcertante scoprire che nel
presente non c’è nulla di reale, che il presente può essere afferrato solo dopo
che è già scivolato nel passato”
“Mi scelgo un vestito per oggi… ci metto
sempre un po’… (per) il bisogno di trovare un io per la giornata, di
appropriarmene… finché qualcosa prende forma e la giornata diventa un po’ più
facile”
“Sono andato a trovare i miei morti… finché
ci sono loro io posso sempre tornarci, solo per sedermi e guardare il mare di
lassù. Per questo so di appartenere a questo paese, è la mia casa.”
“Non si può tornare a quelli che si sono
amati e illudersi che sarà tutto come prima”
“Sei così vecchia? L’età non è una questione
di anni, ma di stile”
“Sono belle persone. Sono proprio come dei
bianchi, solo che sono neri”
“Io sono una che crede, solo che non ha
ancora trovato qualcosa in cui credere”
“Immagino che avessimo commesso il vecchio
errore di confondere l’essere innamorati con la capacità di vivere insieme”
Bernhard Schlink “A voce alta” Garzanti euro 9,90
[trama pubblicata 29/06/2014]
Ultimamente,
nella mia fornita biblioteca, stanno entrando alcuni libri da cui sono stati
tratti film (più o meno) famosi. Ho sempre pensato che queste due forme
espressive siano disgiunte, e da giudicare nella loro specificità. Ciò
nonostante, quando capitano punti di intersezione è anche interessante annotare
come, queste due espressioni, muovano diverse sensazioni, a fronte di una
materia omologa. Tutto questo panegirico per introdurre il bel libro di
Schlink, e ricordarne l’interessante film che ne fu tratto nel 2008, dal titolo
“The reader” con Ralph Fiennes e Kate Winslet. E se nel film esce fuori
prepotentemente la figura di Winslet – Hanna, tanto che prenderà l’Oscar, il
libro tutto in diversa soggettiva, ne fa sì uscire la problematica, ma anche i
problemi generali dei tedeschi verso l’Olocausto. Comunque cominciamo con la
solita tirata d’orecchi agli editor italiani che l’hanno ribattezzato “A voce
alta”, dopo che in tutto il mondo il libro è intitolato come nell’originale
tedesco, “Il lettore”. Perché si legge a voce alta? Ma non è la voce, il punto.
È proprio l’azione di leggere. Venendo al libro, ha una sua struttura
tripartita molto ben scandita. La prima parte è l’innamoramento e poi la storia
d’amore tra Michael e Hanna. Lui sedici anni, lei qualche cosa in più di
trenta. Lui va scuola, si sente male, lei lo aiuta. Comincia così prima una
frequentazione. Poi sempre qualcosa in più. Fino ad una bella storia d’amore.
Certo, è soprattutto Michael che è preso da Hanna. Ma è ben descritto il loro
prendersi e litigare (meglio che nel film). Il tempo passa, Michael cresce, ed
Hanna ad un certo punto sparisce. Prima però, c’è tutto il tempo che il nostro
ragazzo passerà a leggere libri ad alta voce alla sua bella. Stacco sulla
seconda parte. Il ragazzo cresce, fa legge all’Università. E per un seminario
partecipa da uditore ad un processo. Che coinvolge Hanna ed altre donne
accusate di essere aguzzine di un lager durante la Seconda Guerra Mondiale. Qui
esce fuori la capacità giuridica dell’autore, anche lui avvocato, che ci fa
partecipi del processo. Ma tutto dalla prospettiva di Michael che si interroga:
perché Hanna fece quello che fece nel lager? Perché non si difende dalle
accuse, molto labili, che le vengono mosse? Durante un insight sulla sua
vicenda, il nostro capisce: Hanna non sa leggere. E questa “vergogna” è più
forte della volontà di essere assolta. Michael, pur nolente, capisce e rispetta
questa espiazione. Ed Hanna viene condannata all’ergastolo. Nella terza parte,
vediamo il nostro cresciuto, poi sposato, divorziato, sempre problematico con
le donne. Al fine l’unico legame che gli resta è proprio con Hanna. E comincia
ad inviarle cassette con le sue letture. Fino alla grazia che dopo 18 anni
riceve l’ergastolana. Michael finalmente la va a trovare. Scambi di sguardi.
Possibilità di amicizia in tarda età. Ma Hanna rimane legata alla sua storia, e
prima di uscire dalla prigione, si impicca. Prima di lasciarci Michael
esaudisce l’ultimo desiderio della sua vecchia amante, devolvendo i denari di
lei per un’associazione che si occupa di analfabeti. La seconda parte della
storia, devo dire che è meglio resa nel film, dove lo scandire delle immagini,
e delle letture di Michael, viene meglio in video che in scrittura. Quindi dire
che tra libro e film c’è un sostanziale pareggio. Quello che esce più forte nel
libro è forse la domanda (o le domande) sull’Olocausto. Quanti cittadini
“normali” hanno fatto cose “anormali” in quegli anni? Esce forte quella
banalità del male di cui parlava la Arendt nel suo bellissimo libro sul
processo ad Eichmann (ma perché viene citato il poeta Auden dal nostro
scrittore? C’è forse qualche poesia che mi sfugge?). E ci tormenta fino in
fondo la domanda su quanto la vergogna di non saper leggere sia prevalente sul
bisogno di espiazione di Hanna. Dov’è nasce il confine tra i due? Merito di Schlink
di porre queste domande, e di porle dall’interno della Germania. Un ottimo
libro, che narrando altro ci pone queste domande e ci riporta sempre lì, al
conflitto tra obbedienza e follia. Consiglio a tutti la lettura (anche e
soprattutto chi non ha visto il film).
“Quand’ero ragazzo, io mi sentivo sempre o
troppo sicuro o troppo insicuro. O mi vedevo totalmente incapace,
insignificante e indegno, o pensavo che sarei riuscito in tutto e che tutto
dovesse riuscirmi. Se mi sentivo sicuro potevo superare le più grandi
difficoltà. Ma il minimo insuccesso bastava per convincermi della mia
indegnità.” (57)
“Siccome la verità di ciò che si dice, è ciò
che si fa, si può anche fare a meno di dire.” (143)
Marguerite Yourcenar “L’opera al nero” Feltrinelli euro 9 (in realtà,
scontato a 7,65 euro)
[trama pubblicata 21/02/2016]
Non
meravigliatevi della lunga lettura. Non è solo per la difficoltà intrinseca del
libro, ma anche perché non l’ho portato nei Paesi Baltici, riprendendo la
lettura iniziata nell’estate agostana, e terminata solo dopo altri giorni
d’intensa applicazione. Anche perché la Yourcenar è comunque un osso duro,
tanto che di lei lessi molti ma molti anni fa le “Memorie” e poi non riuscii a
leggerne più. Ora, spinto dalle solite libropeute ad allargare confini, ecco
che si ritorna alla solida scrittrice ed al suo Zenone. Che non è, come io
speravo, quello di Achille, ma è un libero pensatore la cui vita scorre nella
tumultuosa Europa del 1500. Nel mio percorso di lettura, dopo il romanzo leggo
la quarta e poi, se presenti, prefazioni e postfazioni. Così, leggendo la
quarta mi stupivo della ricchezza di dotti particolari sulle connessioni di
Zenone con altri pensatori del suo tempo (ed invero anch’io avevo pensato a
Campanella e Bruno). Poi la postfazione dell’autrice ha spiegato tutto. Chi ha
scritto la quarta ha solo letto (e male) le note di Margherita, rimasticandole
per far apparire appetibile il romanzo. Ed invece le suddette note, una volta
tanto, spiegano, e bene, la genesi del tormentato scritto. E la genesi della
sua scrittura. Che il romanzo comincia a formarsi sin dalla fine degli anni
Venti, con dei primi abbozzi di vita fiamminga, poi confluiti nella prima parte
del romanzo (dal sottotitolo “La vita errante”). Su quelle pagine la nostra
torna e spesso, per poi andare di getto sulla seconda (“La vita immobile”) e
sulla terza parte (“La Prigione”). Leggendone, si nota questa genesi, dove la
prima parte è un bellissimo e duro affresco della vita del tempo, che non a
caso potrebbe essere, come un tempo aveva sottolineato la stessa autrice, un
commento ai pittori del tempo, da Dürer a Bosch. Vediamo il crescere, nella
Bruges dei primi anni del secolo, la famiglia Ligre, il cui capostipite spande
figli a destra e sinistra, con il primogenito che ne seguirà le orme di
banchiere efficace e prosperoso, ed il secondo che, senza arte né parte, si
avvierà alla carriera militare. Mentre il fratellastro Zenone, dopo alcuni
tentativi in vesti ecclesiali, prenderà anche lui la vita errabonda, ma con
maggior successo. Scrive libri da “libero pensatore” che ne fanno bersaglio da
parte della chiesa ufficiale (Campanella e Bruno dixit). Segue alchimisti vari
e studia e professa medicina (Paracelso e Miguel Servet dixit). Ma è presente
in tutte le arti liberali, con ragionamenti e disegni (Copernico e Leonardo
dixit). Ma su di lui si ritorna, perché nel frattempo ne seguiamo la madre,
Hildezonde, sposa ad un buon cristiano, divenuto poi anabattista, e con lei
trasferitosi a Munster, dove si svolse la famosa guerra con i “Fratelli in
Cristo” nel 1535. La seconda, sulla scia di un invecchiato Zenone (non direi
anziano, visto che la seconda parte comincia ai suoi 53 anni) tornato a Bruges,
come per chiudere un cerchio della sua vita. Lì, sotto mentite spoglie,
esercita la professione medica, filosofeggia con il priore, si trova ai margini
di vicende quasi eretiche, ed alla fine, non riuscendo neanche a fuggire, dopo
sei anni di vita immobile, viene arrestato. A causa dei suoi scritti giovanili,
processato, riconosciuto colpevole di eresia, e condannato a morte. In tutta la
parte sulla prigionia, si fa più alto il ragionamento di Zenone, che
racchiudendo in sé le molte anime dell’uomo Rinascimentale, testimonia il duro
passaggio, anche mentale, dal Medioevo all’Età moderna. Non entro nello
specifico delle diatribe che percorrono ed innervano il romanzo di linfe
felici, che per mia incapacità non credo aver seguito e capito fino in fondo.
Anche se non sfugge l’intolleranza, il piegare la Chiesa ai servigi di stati e
potentati. Un lungo percorso, quello esemplificato da Zenone, che allora,
appunto, non poteva che finire con la morte del nostro eroe. Ma che mi ha fatto
riflettere su intolleranze ed irrispettosità ben presenti nel mondo attuale. Ho
sempre pensato (e non credo di essere il solo) che il mondo arabo fosse troppo
legato ai dettami della parola coranica, senza riuscire a fare un vero sforzo
di “ammodernamento” ed adattamento del pensiero, così come riuscì a farlo la
Chiesa, nelle sue varie forme, anche se con un precorso lungo ed in parte non
ancora finito. Nella fase cruenta di transizione (quest'epoca così ben dipinta
con Zenone), forti furono le iconoclastie, le uccisioni, i martiri di cui oggi
ci si vergogna. È con una piccola speranza nel cuore che guardo allora all’Isis-Torquemada.
Si riuscirà ad arrivare ad un rinascimento arabo? Che bella speranza sarebbe.
Queste le personali riflessioni che alla fine mi suscita questo libro, che come
detto, è bello e difficile, ma che deve essere letto e meditato. Forse proprio ora.
“A poco a poco … cessava d’esser per loro
una persona, un volto, un’anima, un uomo che vive in qualche luogo su un punto
della circonferenza del mondo; diventava un nome, meno di un nome, un’etichetta
sbiadita sopra un barattolo nel quale lentamente imputridivano alcuni ricordi
del loro passato, incompleti e morti. Ne parlavano ancora. In realtà, lo
dimenticavano.” (54)
“Il racconto di poco fa mi dispone a
riesaminare la mia esistenza. Non mi lamento, ma è tutto diverso da quello che
mi ero immaginato.” (102)
“Morirò un po’ meno sciocco di come sono
nato.” (104)
“Si sopporta meno facilmente per gli altri
ciò che si accetta abbastanza agevolmente per sé.” (190)
Conclusioni
Non so dirvi di incubi ed altre
angosce, di sciuro sono libri che lasciano un loro segno, laddove ci
costringono a pensare. Dove è spesso il pensiero che genera incubi. Se non lo
condividiamo, se non ne facciamo materia di discussione. Per me sono stato
questo, e spero lo possano essere anche per voi.
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