domenica 22 maggio 2016

Libri in cucina - 22 maggio 2016

Iniziamo questa settimana una nuova collana, uscita per i tipi del Corriere della Sera e dedicata al rapporto con la cucina. Presenta libri di diverso genere, vuoi romanzi legati al mangiare vuoi dissertazioni sul cibo e sul cucinare. Queste prime rame sono divise in due: le prime in minore, una dei fratelli Carofiglio poco coinvolgente, ed una d’annata, di una esimia scrittrice di cucina, che però non mi ha coinvolto. Meglio la seconda parte, con il pedante cuoco Barnes, già protagonista di ben alte (non è un errore, alte non altre) letture, e con Pollan, che ci coinvolge in una lunga dissertazione sul cibo e sul nutrizionismo.
Gianrico & Francesco Carofiglio “La casa nel bosco” Corriere della Sera – Cucina 5 euro 7,90
[A: 20/02/2015– I: 14/10/2015 – T: 15/10/2015] - &&     
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 156; anno 2014]
Dopo aver acquistato con grandi speranze per l’interesse di entrambi i lati della collana, tutta la serie dedicata alle “Storie di Cucina” edita del Corriere della Sera, questo è il primo libro che ne leggo. E non nego di aver provato una prima delusione. Non mi aspettavo un libro di ricette, altrimenti avrei acquistato altro. E questo non lo è. Mi aspettavo però che non ci si discostasse dal titolo della collana. Immaginavo qualche avventura o qualche storia, che s’incrociasse con uno dei luoghi della casa dedicato al piacere. Dedicato, in fondo, ad uno strumento che, nel corso degli anni, ho utilizzato per conoscere meglio la gente che andavo incontrando. Pensavo infatti ad una scrittura dedicata al cibo ed al suo utilizzo. In questa prima lettura, invece, c’è una trama, inframezzata da cenni a piatti ed altre avventure culinarie. Di cui alla fine vengono presentate e commentate alcune ricette. Tuttavia senza unire i due elementi in qualcosa di organico. Questo per la collana. Anche dagli autori mi aspettavo uno spunto più coinvolgente. Sono fratelli, hanno esperienze artistiche simili, anche se fanno due percorsi diversi, l’una dalla magistratura l’altro dall’architettura. Qui, messi insieme per doveri familiari, in una macchina che va verso la vecchia casa familiare dell’infanzia, non trovano di meglio che scrivere un capitolo a testa, ognuno con i propri pensieri e con i propri ricordi di una crescita che dall’infanzia (nella casa del bosco) li porta sino all’età adulta (qui, ora, in auto). E dal racconto a due voci non può che emergere quello che ci aspettiamo. Due fratelli che già da piccoli non si erano mutualmente simpatici o empatici, passando il tempo non possono che approfondire le divergenze, sino a sfiorare (o raggiungere) una reciproca insofferenza, quasi senza rimedio. La vendita della casa li porta a ripercorrere momenti di vita, e soprattutto ad esaminare gli oggetti lì rimasti, ognuno che rimanda a momenti di vita ed a memorie. Anche divergenti. Un inventario di oggetti, che diventa una scusa per ripercorrere le proprie esistenze e le proprie scelte. Un tuffo nel passato, a scandagliare i profumi dell’infanzia, le avventure, grandi e piccole, gli amici comuni, e le comuni inimicizie, i sapori (culinari) della giovinezza. Ma questo non basta a farne un libro avvincente, non basta a farcelo entrare nel cuore. La traccia che stava venendo fuori dalle prime battute poteva essere sfruttata meglio. Invece rimane lì, con i suoi rimandi, con dei piccoli affondi, ma come in una partita di calcio dove si pensa più a difendersi che a segnare. Si segna, poco, forse solo con la storia della busta con le vecchie figurine, busta che potrebbe contenere quella mitica del “Dottor Destino”, ma non vi dico se ci sarà.  Certo, alla fine, i due fratelli sembrano ritrovare, oltre ai conflitti, che sono quelli che poi si ricordano di più, i momenti di grande affetto e reciproco sostegno. E non posso non pensare a quanto siano complicate le relazioni tra fratelli. E posso ben sostenerlo, con i molti ricordi di tanti anni trascorsi a non parlarsi. Per poi ritrovare elementi inaspettati di comunanza. Il viaggio mi porta alla memoria quello che, alla fine, proprio in fondo, dovremmo fare, sperando sia il più tardi possibile, io e mio fratello quando si tratterà di decidere il futuro della sempre più inutile casa di campagna. Chissà cosa potremmo trovare tra quei vestiti, quelle carte, ed anche quei giochi, se non nostri, dei nostri figli. Come detto, anche le ricette finali sono in tono minore, non vengono dispensate con la giusta tensione, ma quasi con sufficienza. Solo una, gli spaghetti all’assassina, mi ha colpito e mi ha dato voglia di provarla prima o poi. Soprattutto per quel tocco forte ed a me congeniale di “molto peperoncino”. Tirando le somme, tuttavia, un po’ poco per farne un libro da ricordare.
Mary Frances Kennedy Fisher “Biografia sentimentale dell’ostrica” Corriere della Sera – Cucina 15 euro 7,90
[A: 18/05/2015– I: 16/11/2015 – T: 19/11/2015] - &&-- 
[tit. or.: Consider the Oyster; ling. or.: inglese; pagine: 117; anno 1941]
Seconda lettura della collana “cucinera” del Corriere della Sera, ed ancora non ci siamo. Non sono convinto, non mi prende come pensavo. Forse sto leggendone le parti peggiori? Non credo, anche perché questo libro, pur nel diverso gradimento che ne ho avuto, è un caposaldo della “food writing” e la sua autrice, una donna ed una scrittrice interessante. Sicuramente risente dei 75 anni trascorsi dalla scrittura (gusti, sentimenti, ristoranti, quanto sono cambiati in tutti questi anni?). E di quel titolo italiano “appiccicato”, perché non rimaniamo all’originale di pensare alle ostriche? Certo, Mary prende spunto dall’ostrica per parlare di sé, della sua vita, dei suoi sentimenti. Mary che ha avuto una vita interessante e complicata. Nasce in America nel 1908 in una famiglia che, se fosse collocata negli anni Settanta, sarebbe stata etichettata come “famiglia hippie”. Studia poco, legge molto, a ventun anni si sposa con Al, che per completare i suoi studi si trasferisce in Francia. Qui, Mary scopre “LA” cucina, senza dimenticare le sue radici americane. Anno dopo anno si intristisce il rapporto con Al, fino ad innamorarsi dell’amico Tim, sposarlo nel ’36 e trasferirsi con lui in Svizzera. Lì, purtroppo, Tim ha un embolo, gli amputano una gamba. Lei per distrarlo comincia a scrivere dell’ostrica. Ma Tim non supera lo choc, si spara. Mary termina il libro, ha un gran successo editoriale, si trasferisce ad Hollywood, dove tenta inutilmente la carriera di scenografa. Lì avrà come soli amici i fratelli Marx, metterà alla luce la sua amata figlia, senza mai dire chi ne sia il padre. Altre avventure avrà la sua vita, ma dagli anni Cinquanta alla morte (1992) mi rimane impresso il suo fare su e giù tra le sue due amate sponde: Francia e California. Il libro, come detto, mi prende e mi lascia. A volte coinvolge, ma non so, non ho ancora compreso quale sia il modo migliore di abbinare cucina e scrittura. Ricordo solo che il miglior libro di questa tipologia lo lessi in gioventù, mentre cercavo di confezionare pranzi “letterari”, senza troppo riuscirvi. Dopo aver spulciato il libro di Courtine sulla cucina della signora Maigret, m’innamorai del “Libro di cucina di Alice B. Toklas”, che rimane il mio faro assoluto. Ma torniamo alle ostriche. Come dicevo, la parte che più mi ha coinvolto ed interessato sono stati i primi capitoli, che raccontano la storia della bivalve. Con un attacco fulminante: “l’ostrica conduce un’esistenza terribile e al tempo stesso eccitante”. Citando l’ostrica detta “giapponese”, ermafrodita ciclica, un anno maschio ed un anno femmina. E come mi suggerirebbe il mio amico Ciccio, mia fonte principale per animali e simili, avendo nature diversissime: l’ostrica forata è ovipara, l’ostrica piatta è vivipara. In questa parte apprendiamo come e perché l’ostrica sia stata sempre considerata, sin dall’antichità, un cibo speciale. Si sente lo stacco, quando Tim muore, e si passa a momenti più personali, quasi a lenire il dolore. Ai ricordi: uno stufato di ostriche alla Rockefeller cucinate dal miglior chef della Louisiana, di ostriche gustate in piedi alla stazione di Norimberga, di un pane alle ostriche mangiato in collegio, di notte. Alla fine, contornata da ricette varie, si delineano due elementi che mi rimangono: i nemici delle ostriche ed i mangiatori. Tra i primi, senza che ve li elenco tutti, il primo in assoluto (ed è stata una sorpresa per me) è la stella marina (che ho scoperto essere un animale assassino). Sul secondo punto, Mary ci avverte che esistono tre categorie di mangiatori d’ostriche: i tipi dalla mentalità aperta che le mangerebbero in tutti i modi, calde, fredde, vive, morte, in brodo o in zuppa, basta che siano ostriche; quelli che le mangiano solo e soltanto crude e quelli che, con lo stesso rigore, le gustano cotte e in nessun altro modo. Io personalmente sono ben collocato nel secondo gruppo, anche se non mi tirerei indietro nell’assaggiare ostriche cotte (e mi domando se le stesse ricette non possano andare per le cozze, che mangio volentieri anche cotte). E ricorderò sempre la scorpacciata di ostriche al saloon bar di New Orleans, or sono trenta anni, nel French Quarter, in una città viva, palpitante, ancora molto lontana dal tifone Katrina. Quindi, bello il ricordo di Mary Frances Kennedy Fisher, belle alcune spigolature, ma niente di particolarmente salvabile a livello di ricette o a livello di “food writing”. Vedremo cosa ci riservano gli altri libri.
Julian Barnes “Il pedante in cucina” Corriere della Sera Cucina 17 euro 7,90
[A: 25/05/2015– I: 23/12/2015 – T: 25/12/2015] - &&&
[tit. or.: The Pedant in the Kitchen; ling. or.: inglese; pagine: 125; anno 2003]
Julian Barnes è uno scrittore che ho amato subito e senza riserve per quel libro che rimane uno dei miei preferiti (“Il senso di una fine”). Penso che leggerò altro di lui, intanto mi sono dedicato a questa divagazione di cucina, dove il mio amato scrittore si mette ai fornelli. E mentre cucina, comincia a riflettere sulla cucina e sulle sue implicazioni. In questo libretto, riproposto nell’esimia collana del Corriere facendone risalire le sorti iniziate un po’ al ribasso, sono riportati alcuni articoli che nel corso del tempo Barnes ha pubblicato sulla “Guardian Review”, l’inserto colto del Guardian. Qui esce fuori il lato ironico di Barnes, che affronta la cucina con il suo rapporto ironico con la vita, gli ingredienti, la spesa, tanto, appunto, che da pedante qual è nello svolgersi dei giorni, intitola i suoi elzeviri, per l’appunto, “Il pedante in cucina”.  Ho amato l’idea di questo libro, anche se il libro in sé, non sempre è stato all’altezza delle mie aspettative. Spesso troppo infarcito di citazioni di libri e situazioni anglosassoni che non sono riuscite a penetrare la barriera dei miei interessi. Barriera invece subito bucata dalle domande fondamentali che si fa il pedante, e che mi sono spesso fatto anch’io leggendo i libri di cucina. Quant’è grande “una cipolla media”? Quant’è “uno schizzo di limone”? E “una presa di sale”? Quanta uvetta occorre per fare “qualcheduna uvetta di Corinto”? Questo perché Barnes (ed io con lui) non avendo un terreno fertile di cucina alle spalle non può fare a meno dei libri di cucina. E spulciandone le ricette, alla fine, riesce a convivere con lo scritto, soprattutto “interpretandolo”. Perché all’inizio, invece (come io continuo a fare tuttora), Barnes rileva come un manuale di cucina dovrebbe essere preciso e pratico. Come sostiene fortemente: “Perché un libro di cucina dovrebbe essere meno preciso di un manuale di chirurgia?”. Non è tramabile un tale libro, se non dandone un senso, una direzione. Per questo vi suggerisco alcuni punti salienti su come scegliere un libro di cucina, elenco che ci dà il polso della scrittura di Barnes. Ecco allora che ci consiglia di non comprare mai un libro per le sue immagini. Né tanto meno uno con le impaginazioni furbette (che ci dovrebbero consentire di fare infiniti pranzi di tre portate). Bisogna evitare libri troppo ampi (“I grandi piatti del mondo”) o troppo ristretti (“Il pesce del Mar dei Sargassi”). Non ci si deve azzardare a comprare un libro sui succhi di frutta se non si possiede una centrifuga. Bisogna infine resistere al fascino delle antologie di ricette regionali (come anche per i viaggi all’estero): i piatti migliori della Bolivia sono cucinati in Bolivia. E conclude, ed io con lui, che il miglior libro di ricette è il proprio quadernetto di ricette personali, dove si sono appuntate le nozioni verso i piatti che abbiamo appreso. E dove, anche se lo conosciamo a memoria, grati ritorniamo per aver il conforto delle nostre scelte. Infatti, non bisogna comunque vergognarsi di seguire lo scritto, per poi interpretarlo. Barnes se la prende a morte con coloro che sostengono di non seguire mai le ricette. ribattendo fulminante: “come se cucinare seguendo un libro fosse come fare l’amore con un manuale di sesso aperto sul comodino”. Riprendendo un commento che mi è molto piaciuto proprio sul ricettario personale, Barnes consiglia di incollare le ricette trovate in giro solo dopo averle provate un paio di volte, certi della buona riuscita del piatto. In tal modo il quaderno di ritagli terrà traccia, anno dopo anno, dello strano percorso della vostra cucina. E infine, proprio come un album di fotografie, vi farà rivivere alcuni momenti passati: davvero preparavo questo piatto? E questa torta di verdure? Sarete sorpresi da quanta storia emotiva e psicologica potrete immagazzinare incollando innocentemente un ritaglio di giornale con qualche macchia d’unto. Con quel pizzico di autobiografia che non manca, e con quel tanto di gratitudine verso la sua compagna (che battezza “Colei per la Quale”) è uno scritto non imperdibile, ma gradevole, e castigante per un cuoco mancato come me (cioè che avrei voluto sempre saper cucinare, senza trovare quel guizzo interiore per farlo). Per fortuna che c’è al mondo chi lo fa. E bene (vero Ale?). Un solo appunto: a pagina 92 si parla (negandola) della doppia frittura delle patatine. Ebbene io l’ho visto fare (e le ho mangiate) in Belgio.
“Gli scrittori di libri da cucina non sono diversi da tutti gli altri scrittori: molti di loro hanno dentro di sé un solo libro (e alcuni, tanto per cominciare, non avrebbero nemmeno dovuto farlo uscire).” (32)
“Ogni libro è, nelle sue intenzioni più intime, una lettera aperta agli amici di colui che scrive.” (68)
Michael Pollan “In difesa del cibo” Corriere della Sera Cucina 8 euro 7,90
[A: 19/03/2015– I: 09/02/2016 – T: 12/02/2016] - &&& e ½
[tit. or.: In Defense of Food: An Eater’s Manifesto; ling. or.: inglese; pagine: 226; anno 2008]
Michael Pollan è un giornalista, impegnato, da sempre attivista nel campo della difesa del cibo, scrivendo articoli di giornali e libri su quest’argomento. Per inciso, è il fratello maggiore di Tracy Pollan, ex-attrice e moglie del sempre a me caro Michael J. Fox (chi può dimenticare “Ritorno al Futuro”?). E finalmente, dopo alcune alterne prove, una buona riuscita della serie sulle “Storie di Cucina” del Corriere. Da fare il paio con la precedente letta di Barnes. Qui, in particolare, si parla essenzialmente di cibo, e non di ricette. Anche se lo fa partendo dalla sua ottica, ovviamente americano-centrica, gli strali che Pollan lancia colpiscono il segno, ed una serie di suggerimenti in positivo sono da prendere e meditare. Tutto nasce, tra l’altro come ci confessa nei saluti finali, da un suo “fortunato” articolo sul cibo, pubblicato il 28 gennaio 2007 sul New York Times, dal titolo “Unhappy Meals” (“Pasti Infelici”, sia per ribattere alla pubblicità ossessiva dei McDonald sia per entrare nello specifico problema di cosa mangiamo; se volete andare alla fonte ecco il link http://michaelpollan.com/articles-archive/unhappy-meals/). In entrambi c’è il grido inziale di sfida e la summa finale di consigli/suggerimenti su come affrontare il cibo. La sfida si condensa in tre slogan sintetici (e quindi efficaci come marketing): “Eat food. Not too much. Mostly plants”. Che traduciamo con “Mangiare cibo”, “Non troppo”, “Per lo più piante (verdi, quindi vegetali)”. Partendo da questi punti, per poi tornarci alla fine, Pollan fa un lungo, per me convincente, excursus sul “nutrizionismo”. Forse, tra l’altro, questa prima parte, più generale e meno specifica, risulta meno “americanizzata” del resto. Tutti, io per primo, abbiamo avuto a che fare con nutrizionisti, che scindevano al capello le proprietà degli alimenti, per poi riaggregarne (parte) in consigli nutritivi che, secondo loro, avrebbero anche migliorato la salute. La più semplice critica di Pollan è: facile suddividere un cibo nei suoi componenti “nutritivi”, impossibili, allo stato attuale delle conoscenze, aggregare componenti elementari per riottenere il cibo. Perché l’alimento è maggiore della somma dei suoi componenti. Ci sono interazioni tra i vari elementi (e qui si fermano le mie scarse cognizioni chimiche) che neanche si riesce ad elencare. Molto spesso, inoltre, il discorso è a doppia facciata (ed entrambe deleterie). Una è la moda, che passa e va: meglio i grassi insaturi, meglio gli omega3, e via “megliando”. L’altra è l’industria alimentare che deve guadagnare, e lo fa producendo “cibo artificiale”. Non mi soffermo sugli OGM, che altri ne possono parlare meglio di me. Mi soffermo su tutti quei cibi che troviamo negli scaffali del supermercato e che (soprattutto in America, ma ora spesso anche da noi) contengono di tutto, meno cibo che proviene dalla natura. Un esempio su tutti: il cioccolato bianco che NON contiene traccia di cioccolato. Tutto ciò provoca guasti irreparabili alla salute (aumento di tumori, di cardiopatie, di diabete). Essenzialmente di tutto ciò che si voleva “guarire” con gli additivi “nutrienti” nel cibo. Se tutta la lotta al nutrizionismo mi trova concorde, ho difficoltà a seguirlo nella polemica con le multinazionali (per mia ignoranza e per la differenza di fondo tra Italia e America su questi temi di difesa del consumatore). Non entro nel dettaglio e nelle spiegazioni, ma vorrei terminare con la sua lista di consigli alimentari: 1. Mangiate cibo (ovvio, non additivi); 2. Evitate i prodotti che si pubblicizzano come benefici per la salute; 3. Evitate prodotti che contengono ingredienti: a) sconosciuti, b) impronunciabili, c) ed in numero maggiore di cinque; 4. Abbandonate i supermarket; 5. Paga di più, mangia di meno (e su questo ritorno); 6. Mangia vegetali in foglia ed evita i semi; 7. Cucina; 8. Mangia come un onnivoro. Il punto 5 è quello che mi ha lasciato perplesso. Sebbene abbia un fondamento (meglio, ad esempio, bere, poco, un vino costoso che, molto, un vino dozzinale), ci si ritrova a combattere con la salute per i ricchi. Chi ha soldi può spendere di più in cibo, chi non li ha spende di più in medicine. Questo è il mio personale paradosso, che non ho ancora superato. Lo stesso motivo che mi ha fatto allontanare dagli elitari “slow food”, che trovo come Pollan un po’ snob, anche se Carlo Petrini fa e spero continui a fare una battaglia giusta e di lunga durata per arrivare a quell’assunto finale di Pollan, anche questo da condividere in toto: “Le scelte migliori per la nostra salute [in termini alimentari, nota mia] sono anche le migliori per il pianeta”. Su questo chiudo, lasciandovi solo un ultimo neologismo che potrebbe entrare sempre più in auge nel prossimo futuro: flexitariano. Cioè un vegetariano flessibile, che può cedere alla tentazione di qualche caloria animale, pur mantenendo di fondo la propria dieta vegetariana. L’elemento decisivo che mi fa piacere questo stile di vita “brand new”, è l’assunto, sfatato da Pollan, che non è la dieta vegetariana che fa bene tout court alla salute. Ma il fatto è che, in generale, i vegetariani non fumano e fanno più attività fisica dei non vegetariani. E mi piace perché è l’assunto meno dogmatico che ci possa essere in termini alimentari. Io che sono anti-dogmatico ormai per costruzione di anni ed anni di lavoro su me stesso.
“[Nutrizionismo o la scienza del parcheggio] un tale ha perso le chiavi in un parcheggio e va a cercarle sotto un lampione non perché è lì che le ha perse, ma perché è l’unico punto illuminato.” (72)
“Il contesto nel quale il cibo viene consumato può essere importante quanto il cibo stesso.” (177)
Un bel paradosso, infine, parlare di cibo ora che sto preparando il viaggio in Islanda che mi terrà occupato il mese di giugno. Una terra dove la maggior parte del cibo (a parte il pesce e poco altro) viene importato, e dove andare al ristorante equivale ad accendere un piccolo mutuo. Ma ci ripagherà una natura strepitosa.

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