Iniziamo questa settimana una
nuova collana, uscita per i tipi del Corriere della Sera e dedicata al rapporto
con la cucina. Presenta libri di diverso genere, vuoi romanzi legati al
mangiare vuoi dissertazioni sul cibo e sul cucinare. Queste prime rame sono divise
in due: le prime in minore, una dei fratelli Carofiglio poco coinvolgente, ed
una d’annata, di una esimia scrittrice di cucina, che però non mi ha coinvolto.
Meglio la seconda parte, con il pedante cuoco Barnes, già protagonista di ben
alte (non è un errore, alte non altre) letture, e con Pollan, che ci coinvolge
in una lunga dissertazione sul cibo e sul nutrizionismo.
Gianrico & Francesco Carofiglio “La casa nel bosco” Corriere della
Sera – Cucina 5 euro 7,90
[A: 20/02/2015– I: 14/10/2015 – T: 15/10/2015] - &&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 156;
anno 2014]
Dopo
aver acquistato con grandi speranze per l’interesse di entrambi i lati della
collana, tutta la serie dedicata alle “Storie di Cucina” edita del Corriere
della Sera, questo è il primo libro che ne leggo. E non nego di aver provato
una prima delusione. Non mi aspettavo un libro di ricette, altrimenti avrei
acquistato altro. E questo non lo è. Mi aspettavo però che non ci si
discostasse dal titolo della collana. Immaginavo qualche avventura o qualche
storia, che s’incrociasse con uno dei luoghi della casa dedicato al piacere.
Dedicato, in fondo, ad uno strumento che, nel corso degli anni, ho utilizzato
per conoscere meglio la gente che andavo incontrando. Pensavo infatti ad una
scrittura dedicata al cibo ed al suo utilizzo. In questa prima lettura, invece,
c’è una trama, inframezzata da cenni a piatti ed altre avventure culinarie. Di
cui alla fine vengono presentate e commentate alcune ricette. Tuttavia senza
unire i due elementi in qualcosa di organico. Questo per la collana. Anche dagli
autori mi aspettavo uno spunto più coinvolgente. Sono fratelli, hanno
esperienze artistiche simili, anche se fanno due percorsi diversi, l’una dalla
magistratura l’altro dall’architettura. Qui, messi insieme per doveri
familiari, in una macchina che va verso la vecchia casa familiare
dell’infanzia, non trovano di meglio che scrivere un capitolo a testa, ognuno
con i propri pensieri e con i propri ricordi di una crescita che dall’infanzia
(nella casa del bosco) li porta sino all’età adulta (qui, ora, in auto). E dal
racconto a due voci non può che emergere quello che ci aspettiamo. Due fratelli
che già da piccoli non si erano mutualmente simpatici o empatici, passando il
tempo non possono che approfondire le divergenze, sino a sfiorare (o
raggiungere) una reciproca insofferenza, quasi senza rimedio. La vendita della
casa li porta a ripercorrere momenti di vita, e soprattutto ad esaminare gli
oggetti lì rimasti, ognuno che rimanda a momenti di vita ed a memorie. Anche
divergenti. Un inventario di oggetti, che diventa una scusa per ripercorrere le
proprie esistenze e le proprie scelte. Un tuffo nel passato, a scandagliare i
profumi dell’infanzia, le avventure, grandi e piccole, gli amici comuni, e le
comuni inimicizie, i sapori (culinari) della giovinezza. Ma questo non basta a
farne un libro avvincente, non basta a farcelo entrare nel cuore. La traccia
che stava venendo fuori dalle prime battute poteva essere sfruttata meglio.
Invece rimane lì, con i suoi rimandi, con dei piccoli affondi, ma come in una
partita di calcio dove si pensa più a difendersi che a segnare. Si segna, poco,
forse solo con la storia della busta con le vecchie figurine, busta che
potrebbe contenere quella mitica del “Dottor Destino”, ma non vi dico se ci
sarà. Certo, alla fine, i due fratelli
sembrano ritrovare, oltre ai conflitti, che sono quelli che poi si ricordano di
più, i momenti di grande affetto e reciproco sostegno. E non posso non pensare
a quanto siano complicate le relazioni tra fratelli. E posso ben sostenerlo,
con i molti ricordi di tanti anni trascorsi a non parlarsi. Per poi ritrovare
elementi inaspettati di comunanza. Il viaggio mi porta alla memoria quello che,
alla fine, proprio in fondo, dovremmo fare, sperando sia il più tardi
possibile, io e mio fratello quando si tratterà di decidere il futuro della
sempre più inutile casa di campagna. Chissà cosa potremmo trovare tra quei
vestiti, quelle carte, ed anche quei giochi, se non nostri, dei nostri figli.
Come detto, anche le ricette finali sono in tono minore, non vengono dispensate
con la giusta tensione, ma quasi con sufficienza. Solo una, gli spaghetti
all’assassina, mi ha colpito e mi ha dato voglia di provarla prima o poi.
Soprattutto per quel tocco forte ed a me congeniale di “molto peperoncino”.
Tirando le somme, tuttavia, un po’ poco per farne un libro da ricordare.
Mary Frances Kennedy Fisher “Biografia sentimentale dell’ostrica”
Corriere della Sera – Cucina 15 euro 7,90
[A: 18/05/2015– I:
16/11/2015 – T: 19/11/2015] - &&--
[tit. or.: Consider the Oyster; ling. or.: inglese; pagine: 117; anno 1941]
Seconda lettura della collana
“cucinera” del Corriere della Sera, ed ancora non ci siamo. Non sono convinto,
non mi prende come pensavo. Forse sto leggendone le parti peggiori? Non credo,
anche perché questo libro, pur nel diverso gradimento che ne ho avuto, è un
caposaldo della “food writing” e la sua autrice, una donna ed una scrittrice
interessante. Sicuramente risente dei 75 anni trascorsi dalla scrittura (gusti,
sentimenti, ristoranti, quanto sono cambiati in tutti questi anni?). E di quel
titolo italiano “appiccicato”, perché non rimaniamo all’originale di pensare
alle ostriche? Certo, Mary prende spunto dall’ostrica per parlare di sé, della
sua vita, dei suoi sentimenti. Mary che ha avuto una vita interessante e complicata.
Nasce in America nel 1908 in una famiglia che, se fosse collocata negli anni
Settanta, sarebbe stata etichettata come “famiglia hippie”. Studia poco, legge
molto, a ventun anni si sposa con Al, che per completare i suoi studi si
trasferisce in Francia. Qui, Mary scopre “LA” cucina, senza dimenticare le sue
radici americane. Anno dopo anno si intristisce il rapporto con Al, fino ad
innamorarsi dell’amico Tim, sposarlo nel ’36 e trasferirsi con lui in Svizzera.
Lì, purtroppo, Tim ha un embolo, gli amputano una gamba. Lei per distrarlo
comincia a scrivere dell’ostrica. Ma Tim non supera lo choc, si spara. Mary
termina il libro, ha un gran successo editoriale, si trasferisce ad Hollywood,
dove tenta inutilmente la carriera di scenografa. Lì avrà come soli amici i
fratelli Marx, metterà alla luce la sua amata figlia, senza mai dire chi ne sia
il padre. Altre avventure avrà la sua vita, ma dagli anni Cinquanta alla morte
(1992) mi rimane impresso il suo fare su e giù tra le sue due amate sponde:
Francia e California. Il libro, come detto, mi prende e mi lascia. A volte
coinvolge, ma non so, non ho ancora compreso quale sia il modo migliore di
abbinare cucina e scrittura. Ricordo solo che il miglior libro di questa
tipologia lo lessi in gioventù, mentre cercavo di confezionare pranzi
“letterari”, senza troppo riuscirvi. Dopo aver spulciato il libro di Courtine
sulla cucina della signora Maigret, m’innamorai del “Libro di cucina di Alice
B. Toklas”, che rimane il mio faro assoluto. Ma torniamo alle ostriche. Come
dicevo, la parte che più mi ha coinvolto ed interessato sono stati i primi
capitoli, che raccontano la storia della bivalve. Con un attacco fulminante: “l’ostrica
conduce un’esistenza terribile e al tempo stesso eccitante”. Citando l’ostrica
detta “giapponese”, ermafrodita ciclica, un anno maschio ed un anno femmina. E
come mi suggerirebbe il mio amico Ciccio, mia fonte principale per animali e
simili, avendo nature diversissime: l’ostrica forata è ovipara, l’ostrica
piatta è vivipara. In questa parte apprendiamo come e perché l’ostrica sia
stata sempre considerata, sin dall’antichità, un cibo speciale. Si sente lo
stacco, quando Tim muore, e si passa a momenti più personali, quasi a lenire il
dolore. Ai ricordi: uno stufato di ostriche alla Rockefeller cucinate dal
miglior chef della Louisiana, di ostriche gustate in piedi alla stazione di
Norimberga, di un pane alle ostriche mangiato in collegio, di notte. Alla fine,
contornata da ricette varie, si delineano due elementi che mi rimangono: i
nemici delle ostriche ed i mangiatori. Tra i primi, senza che ve li elenco
tutti, il primo in assoluto (ed è stata una sorpresa per me) è la stella marina
(che ho scoperto essere un animale assassino). Sul secondo punto, Mary ci
avverte che esistono tre categorie di mangiatori d’ostriche: i tipi dalla
mentalità aperta che le mangerebbero in tutti i modi, calde, fredde, vive,
morte, in brodo o in zuppa, basta che siano ostriche; quelli che le mangiano
solo e soltanto crude e quelli che, con lo stesso rigore, le gustano cotte e in
nessun altro modo. Io personalmente sono ben collocato nel secondo gruppo,
anche se non mi tirerei indietro nell’assaggiare ostriche cotte (e mi domando
se le stesse ricette non possano andare per le cozze, che mangio volentieri
anche cotte). E ricorderò sempre la scorpacciata di ostriche al saloon bar di
New Orleans, or sono trenta anni, nel French Quarter, in una città viva,
palpitante, ancora molto lontana dal tifone Katrina. Quindi, bello il ricordo
di Mary Frances Kennedy Fisher, belle alcune spigolature, ma niente di
particolarmente salvabile a livello di ricette o a livello di “food writing”.
Vedremo cosa ci riservano gli altri libri.
Julian Barnes “Il pedante in cucina” Corriere della Sera Cucina 17 euro
7,90
[A: 25/05/2015– I:
23/12/2015 – T: 25/12/2015] - &&&+
[tit. or.: The Pedant in the Kitchen; ling. or.: inglese; pagine: 125; anno 2003]
Julian Barnes è uno scrittore che
ho amato subito e senza riserve per quel libro che rimane uno dei miei
preferiti (“Il senso di una fine”). Penso che leggerò altro di lui, intanto mi
sono dedicato a questa divagazione di cucina, dove il mio amato scrittore si
mette ai fornelli. E mentre cucina, comincia a riflettere sulla cucina e sulle
sue implicazioni. In questo libretto, riproposto nell’esimia collana del
Corriere facendone risalire le sorti iniziate un po’ al ribasso, sono riportati
alcuni articoli che nel corso del tempo Barnes ha pubblicato sulla “Guardian
Review”, l’inserto colto del Guardian. Qui esce fuori il lato ironico di
Barnes, che affronta la cucina con il suo rapporto ironico con la vita, gli
ingredienti, la spesa, tanto, appunto, che da pedante qual è nello svolgersi
dei giorni, intitola i suoi elzeviri, per l’appunto, “Il pedante in
cucina”. Ho amato l’idea di questo
libro, anche se il libro in sé, non sempre è stato all’altezza delle mie
aspettative. Spesso troppo infarcito di citazioni di libri e situazioni
anglosassoni che non sono riuscite a penetrare la barriera dei miei interessi.
Barriera invece subito bucata dalle domande fondamentali che si fa il pedante,
e che mi sono spesso fatto anch’io leggendo i libri di cucina. Quant’è grande
“una cipolla media”? Quant’è “uno schizzo di limone”? E “una presa di sale”?
Quanta uvetta occorre per fare “qualcheduna uvetta di Corinto”? Questo perché
Barnes (ed io con lui) non avendo un terreno fertile di cucina alle spalle non
può fare a meno dei libri di cucina. E spulciandone le ricette, alla fine,
riesce a convivere con lo scritto, soprattutto “interpretandolo”. Perché
all’inizio, invece (come io continuo a fare tuttora), Barnes rileva come un
manuale di cucina dovrebbe essere preciso e pratico. Come sostiene fortemente:
“Perché un libro di cucina dovrebbe essere meno preciso di un manuale di
chirurgia?”. Non è tramabile un tale libro, se non dandone un senso, una
direzione. Per questo vi suggerisco alcuni punti salienti su come scegliere un
libro di cucina, elenco che ci dà il polso della scrittura di Barnes. Ecco
allora che ci consiglia di non comprare mai un libro per le sue immagini. Né tanto
meno uno con le impaginazioni furbette (che ci dovrebbero consentire di fare
infiniti pranzi di tre portate). Bisogna evitare libri troppo ampi (“I grandi
piatti del mondo”) o troppo ristretti (“Il pesce del Mar dei Sargassi”). Non ci
si deve azzardare a comprare un libro sui succhi di frutta se non si possiede
una centrifuga. Bisogna infine resistere al fascino delle antologie di ricette
regionali (come anche per i viaggi all’estero): i piatti migliori della Bolivia
sono cucinati in Bolivia. E conclude, ed io con lui, che il miglior libro di
ricette è il proprio quadernetto di ricette personali, dove si sono appuntate
le nozioni verso i piatti che abbiamo appreso. E dove, anche se lo conosciamo a
memoria, grati ritorniamo per aver il conforto delle nostre scelte. Infatti,
non bisogna comunque vergognarsi di seguire lo scritto, per poi interpretarlo.
Barnes se la prende a morte con coloro che sostengono di non seguire mai le
ricette. ribattendo fulminante: “come se cucinare seguendo un libro fosse come fare
l’amore con un manuale di sesso aperto sul comodino”. Riprendendo un commento
che mi è molto piaciuto proprio sul ricettario personale, Barnes consiglia di
incollare le ricette trovate in giro solo dopo averle provate un paio di volte,
certi della buona riuscita del piatto. In tal modo il quaderno di ritagli terrà
traccia, anno dopo anno, dello strano percorso della vostra cucina. E infine,
proprio come un album di fotografie, vi farà rivivere alcuni momenti passati:
davvero preparavo questo piatto? E questa torta di verdure? Sarete sorpresi da
quanta storia emotiva e psicologica potrete immagazzinare incollando
innocentemente un ritaglio di giornale con qualche macchia d’unto. Con quel
pizzico di autobiografia che non manca, e con quel tanto di gratitudine verso
la sua compagna (che battezza “Colei per la Quale”) è uno scritto non
imperdibile, ma gradevole, e castigante per un cuoco mancato come me (cioè che
avrei voluto sempre saper cucinare, senza trovare quel guizzo interiore per
farlo). Per fortuna che c’è al mondo chi lo fa. E bene (vero Ale?). Un solo
appunto: a pagina 92 si parla (negandola) della doppia frittura delle patatine.
Ebbene io l’ho visto fare (e le ho mangiate) in Belgio.
“Gli scrittori di libri da cucina non sono diversi da tutti gli altri
scrittori: molti di loro hanno dentro di sé un solo libro (e alcuni, tanto per
cominciare, non avrebbero nemmeno dovuto farlo uscire).” (32)
“Ogni libro è, nelle sue intenzioni più intime, una lettera aperta agli
amici di colui che scrive.” (68)
Michael Pollan “In difesa del cibo” Corriere della Sera Cucina 8 euro
7,90
[A: 19/03/2015– I:
09/02/2016 – T: 12/02/2016] - &&& e ½
[tit. or.: In Defense of Food: An Eater’s Manifesto; ling. or.: inglese; pagine: 226; anno 2008]
Michael
Pollan è un giornalista, impegnato, da sempre attivista nel campo della difesa
del cibo, scrivendo articoli di giornali e libri su quest’argomento. Per
inciso, è il fratello maggiore di Tracy Pollan, ex-attrice e moglie del sempre
a me caro Michael J. Fox (chi può dimenticare “Ritorno al Futuro”?). E
finalmente, dopo alcune alterne prove, una buona riuscita della serie sulle
“Storie di Cucina” del Corriere. Da fare il paio con la precedente letta di
Barnes. Qui, in particolare, si parla essenzialmente di cibo, e non di ricette.
Anche se lo fa partendo dalla sua ottica, ovviamente americano-centrica, gli
strali che Pollan lancia colpiscono il segno, ed una serie di suggerimenti in
positivo sono da prendere e meditare. Tutto nasce, tra l’altro come ci confessa
nei saluti finali, da un suo “fortunato” articolo sul cibo, pubblicato il 28
gennaio 2007 sul New York Times, dal titolo “Unhappy Meals” (“Pasti Infelici”,
sia per ribattere alla pubblicità ossessiva dei McDonald sia per entrare nello
specifico problema di cosa mangiamo; se volete andare alla fonte ecco il link http://michaelpollan.com/articles-archive/unhappy-meals/).
In entrambi c’è il grido inziale di sfida e la summa finale di consigli/suggerimenti
su come affrontare il cibo. La sfida si condensa in tre slogan sintetici (e
quindi efficaci come marketing): “Eat food. Not too much. Mostly plants”. Che
traduciamo con “Mangiare cibo”, “Non troppo”, “Per lo più piante (verdi, quindi
vegetali)”. Partendo da questi punti, per poi tornarci alla fine, Pollan fa un
lungo, per me convincente, excursus sul “nutrizionismo”. Forse, tra l’altro,
questa prima parte, più generale e meno specifica, risulta meno
“americanizzata” del resto. Tutti, io per primo, abbiamo avuto a che fare con
nutrizionisti, che scindevano al capello le proprietà degli alimenti, per poi
riaggregarne (parte) in consigli nutritivi che, secondo loro, avrebbero anche
migliorato la salute. La più semplice critica di Pollan è: facile suddividere
un cibo nei suoi componenti “nutritivi”, impossibili, allo stato attuale delle
conoscenze, aggregare componenti elementari per riottenere il cibo. Perché
l’alimento è maggiore della somma dei suoi componenti. Ci sono interazioni tra
i vari elementi (e qui si fermano le mie scarse cognizioni chimiche) che
neanche si riesce ad elencare. Molto spesso, inoltre, il discorso è a doppia
facciata (ed entrambe deleterie). Una è la moda, che passa e va: meglio i
grassi insaturi, meglio gli omega3, e via “megliando”. L’altra è l’industria
alimentare che deve guadagnare, e lo fa producendo “cibo artificiale”. Non mi
soffermo sugli OGM, che altri ne possono parlare meglio di me. Mi soffermo su
tutti quei cibi che troviamo negli scaffali del supermercato e che (soprattutto
in America, ma ora spesso anche da noi) contengono di tutto, meno cibo che
proviene dalla natura. Un esempio su tutti: il cioccolato bianco che NON
contiene traccia di cioccolato. Tutto ciò provoca guasti irreparabili alla
salute (aumento di tumori, di cardiopatie, di diabete). Essenzialmente di tutto
ciò che si voleva “guarire” con gli additivi “nutrienti” nel cibo. Se tutta la
lotta al nutrizionismo mi trova concorde, ho difficoltà a seguirlo nella
polemica con le multinazionali (per mia ignoranza e per la differenza di fondo
tra Italia e America su questi temi di difesa del consumatore). Non entro nel
dettaglio e nelle spiegazioni, ma vorrei terminare con la sua lista di consigli
alimentari: 1. Mangiate cibo (ovvio, non additivi); 2. Evitate i prodotti che
si pubblicizzano come benefici per la salute; 3. Evitate prodotti che contengono
ingredienti: a) sconosciuti, b) impronunciabili, c) ed in numero maggiore di
cinque; 4. Abbandonate i supermarket; 5. Paga di più, mangia di meno (e su
questo ritorno); 6. Mangia vegetali in foglia ed evita i semi; 7. Cucina; 8. Mangia
come un onnivoro. Il punto 5 è quello che mi ha lasciato perplesso. Sebbene
abbia un fondamento (meglio, ad esempio, bere, poco, un vino costoso che,
molto, un vino dozzinale), ci si ritrova a combattere con la salute per i
ricchi. Chi ha soldi può spendere di più in cibo, chi non li ha spende di più
in medicine. Questo è il mio personale paradosso, che non ho ancora superato.
Lo stesso motivo che mi ha fatto allontanare dagli elitari “slow food”, che
trovo come Pollan un po’ snob, anche se Carlo Petrini fa e spero continui a
fare una battaglia giusta e di lunga durata per arrivare a quell’assunto finale
di Pollan, anche questo da condividere in toto: “Le scelte migliori per la
nostra salute [in termini alimentari, nota mia] sono anche le migliori per il
pianeta”. Su questo chiudo, lasciandovi solo un ultimo neologismo che potrebbe
entrare sempre più in auge nel prossimo futuro: flexitariano. Cioè un
vegetariano flessibile, che può cedere alla tentazione di qualche caloria
animale, pur mantenendo di fondo la propria dieta vegetariana. L’elemento
decisivo che mi fa piacere questo stile di vita “brand new”, è l’assunto,
sfatato da Pollan, che non è la dieta vegetariana che fa bene tout court alla
salute. Ma il fatto è che, in generale, i vegetariani non fumano e fanno più
attività fisica dei non vegetariani. E mi piace perché è l’assunto meno
dogmatico che ci possa essere in termini alimentari. Io che sono anti-dogmatico
ormai per costruzione di anni ed anni di lavoro su me stesso.
“[Nutrizionismo o la scienza del parcheggio]
un tale ha perso le chiavi in un parcheggio e va a cercarle sotto un lampione
non perché è lì che le ha perse, ma perché è l’unico punto illuminato.” (72)
“Il contesto nel quale il cibo viene
consumato può essere importante quanto il cibo stesso.” (177)
Un
bel paradosso, infine, parlare di cibo ora che sto preparando il viaggio in
Islanda che mi terrà occupato il mese di giugno. Una terra dove la maggior
parte del cibo (a parte il pesce e poco altro) viene importato, e dove andare
al ristorante equivale ad accendere un piccolo mutuo. Ma ci ripagherà una
natura strepitosa.
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