Abbiamo in effetti quattro libri
di donne, non solo buoni, ma direi ottimi, da leggere e meditare, con tutte le
differenze e le complicazioni del caso (o dei casi). Tutti scritti in inglese,
ma nessuna di nascita britannica. Doris nasce in Iran e vive gran parte della
vita in Zimbabwe, Marina è un’ucraina che nasce in un campo profughi in
Germania prima di emigrare in Inghilterra, Chimamanda è nigeriana. Solo Rona ha
un vero retroterra anglofono, essendo americana e nata a Brooklyn. Ma tutte e
quattro scrivono libri che non si possono tacere: sui vecchi, sugli immigrati,
sui rapporti privati, sul colonialismo. Volendo si potrebbe allungare e di
molto la lista delle buone qualità, ma tanto vale che ne leggiate, sia delle
mie trame, ma soprattutto dei loro libri.
Doris Lessing “Il diario di Jane Somers” Feltrinelli s.p. (regalo di
Sara & Giampaolo)
[A: 07/05/2014– I: 19/10/2015
– T: 23/10/2015] - &&&& e ½
[tit. or.: The Diary of a Good Neighbour; ling. or.: inglese; pagine: 254; anno 1983]
Lunga
ma forse spiegabile la storia di questo libro e della mia lettura. Intanto,
come vedete dal titolo, l’originale riporta “Diario di una Buona Vicina”, che
con questo titolo uscì, con la firma “Jane Somers”. L’autrice, infatti,
scrivendo un libro diverso dai suoi precedenti usò uno pseudonimo per sfidare,
in un certo senso, il mondo delle lettere. Come sarebbe stato accolto un libro
di una sconosciuta? Un libro che non rimandava subito ad una autrice nota ed
affermata? L’accoglienza, pur se non entusiastica, fu buona, anche se non
facile l’uscita, che i suoi editori storici lo rifiutarono, con un commento
lapidario (“troppa angoscia”). Solo due anni dopo Doris svelò il mistero, ed il
libro ebbe da allora una sua buona riuscita. Il secondo passo è la mia lettura,
che alla fine degli Ottanta ero “innamorato” della scrittura della Lessing, e
cominciai a leggerlo. L’ho abbandonato dopo 30 pagine, non riuscivo ad entrare.
Ora, sotto altre spinte motivazionali, l’ho ripreso. E l’ho letto. Angosciato,
ma l’ho letto. Ed è un buon libro. Con alti e bassi, ma con una scrittura
potente, che ti lega non agli avvenimenti (che poco succede) ma al susseguirsi
dei ragionamenti della Jane Somers che scrive un diario degli avvenimenti della
sua vita intorno al suo cinquantesimo compleanno (Doris l’ha scritto a 65
anni). L’io narrante è una donna di successo, redattrice di una rivista alla
moda. Da poco è morto il marito Freddie, di cancro, ma sarà per le paure della
morte sarà per un legame lasco, sembra che Jane non sia partecipe in modo
particolare. Come non lo è alla successiva morte della madre. Continua a fare
la vita mondana, incontri, sfilate, serate di sesso senza importanza, lunghe
ore di relax e meditazione nella vasca da bagno. Poi, improvvisamente,
l’incontro con la novantenne Maudie. Malata (soprattutto di vecchiaia),
antipatica, bisbetica, eppure tenacemente attaccata alla vita. È un incontro
fulminante, dove la cinquantenne Jane, nel momento di riflessione sulla sua
vita, si trova davanti una soluzione, difficile, inattesa. Diventare amica di
Maudie. Non, come dice il titolo inglese, una “Buona Vicina”, che è una figura
esistente nella gestione degli Affari Sociali a livello locale in Inghilterra.
Che è una figura come dire di supporto, come i pensionati che aiutano gli
alunni ad attraversare la strada vicino a casa mia. No, lei diventa proprio
amica, ed è tutto il percorso del rapporto tra una specie di intellettuale, e
la povertà di anziani soli, che pervade il libro. Lo rende pieno di
interrogativi. Cosa fanno gli anziani che non hanno nessuno, e che i servizi
sociali vorrebbero “rinchiudere” in strutture lontano dagli occhi? Il percorso
comune di Maudie e Jane è duro ma pieno di folgorazioni. Quando Maudie se la fa
sotto e Jane, vincendo repulsioni e paure, la lava, è uno dei momenti forti,
che tanti echi, anche personali, riporta alla mente. E poi Maudie (ma anche
altre vecchie intorno) “parlano di sé”, delle loro vite, giovinezze, amori,
paure e desideri. Da qui, ogni tanto, si diparte la coralità dei romanzi di
Doris Lessing, quelli poi pieni di critica sociale (e qui ce n’è, anche se
stemperata dal bisogno personale di comprendere la propria vecchiaia). C’è la
storia di Maudie, e poi di Anne, e poi di Elize, e poi di Bridget, e poi, e
poi. In mezzo, sempre anche la storia di Jane, che riflettendo sul progredire
lento ed inesorabile del tempo, si accorge di poter dare cose diverse alla
vita. Non solo essere la capo redattrice di una rivista. Così, dalle fantasie
di Maudie, le nascono bisogni e realizzazioni di romanzi. Ed un avvicinamento
alla famiglia (soprattutto alla nipote), un allentamento dei vincoli con il
lavoro, l’accorgersi che anche lei è “senza amici”, dove l’unico rapporto era
con Joyce, che ormai se n’è andata in America. Doris per mezzo di Jane ci fa
ragionare sulla nostra vita che scorre, sul “preteso” intellettualismo della
nostra vita, sulla frattura che si può creare tra l’idea di sé ed il sé di ogni
giorno, quello che fatica a fare le scale, che ha un “colpo della strega”, che
magari fuma troppo, che quando ha l’influenza sta in casa e non c’è nessuno che
gli faccia un brodo caldo. Ed il rapporto con gli altri, non quello di carità
ma quello di empatia. Insomma, ora ho apprezzato il libro. Forse, come dice il
mio amico Roberto, c’è un tempo giusto per leggere ogni cosa. Ora che le
persone che conosco invecchiano e muoiono (saluti Zap), ora Doris mi colpisce
nel vivo con un pugno allo stomaco. Perché, ed è ovvio, Maudie a 94 anni muore
anche lei. Lasciando Jane e noi a riflettere su cosa fare del resto del nostro
tempo.
“Quanti errori sto commettendo nel tentativo
di fare la cosa giusta,” (31)
“Noi facciamo le nostre scelte molto tempo
prima di renderci conto di averle fatte!” (72)
“Io non sono mai stata capace di tirar via
sul lavoro. Dovevo fare tutto per bene.” (100)
“I vecchi sono i peggiori nemici di sé
stessi.” (135)
“Ormai lo so che è inutile dare consigli
alla gente.” (217)
Marina Lewycka “Breve storia dei trattori in lingua ucraina” Mondadori
euro 10 (in realtà, scontato a 7 euro)
[A: 10/05/2014– I:
28/10/2015 – T: 30/10/2015] - &&& e ½
[tit. or.: A Short History of Tractors in Ukranian; ling. or.: inglese; pagine: 320; anno 2005]
Tra
ricordi di guerra e presente di immigrati, una favola agra, comica e triste su
di uno spicchio di comunità ucraina che vive in Inghilterra. Primo e riuscito
romanzo di Marina Lewycka, di certo autobiografico. Ma come tutte le
autobiografie intelligenti, capace di uscire spesso dal puro privato per
affrontare temi universali. A parte i consigli di Ella e Susan, avevo pensato
al suo acquisto fin dalla strana combinazione del titolo. A proposito, un
aneddoto: quando Amazon lo mise in vendita, finì tra i manuali tecnici, e per i
primi mesi vendette quasi sotto zero; solo dopo aver corretto l’errore, ebbe
una buona risalita di pubblico (avendola già di critica e di premi vari).
Torniamo al titolo, che sembra ironico, ma che, alla lettura, nasconde
sfumature drammatiche inaspettate. Il romanzo descrive le reazioni delle sue due
figlie, quando il padre Nikolai, 84 anni, vedovo, annuncia di voler sposare la
trentaseienne Valentina, immigrata ucraina, molto procace. Preoccupate a causa
di Valentina, Nadia e Vera, le figlie, dopo un lungo periodo di allontanamento,
tornano in contatto, coalizzate per far fronte al nemico comune. Il vecchio sa
che non ha molto da offrire a Valentina, ma l’idea di avere qualcuno accanto
che si prenda cura di lui, vedovo, lo seduce. Gli basta una palpatina
giornaliera alle tette di Valentina per convincersi della bontà della sua
scelta. Le figlie sono di tutt’altro parere, vedono in Valentina la grande
ladra, colei che ha osato rubare il posto della madre e che, non contenta vuole
i, pochi, soldi del loro vecchio e tonto papà. Valentina che, noncurante delle
rappresaglie, si trasferisce con figlio e bagagli a casa dell’idealista
eccitato ottantenne e ne svuota il conto in banca per acquistare tutti i
simboli dell’agognato capitalismo (e mi rimanda a tristi narrazioni rumene). Il
matrimonio si fa e la battaglia legale diventa sempre più difficile, viste
anche le appassionate lettere d’amore che l’ingenuo ottuagenario semina per
casa. L’idillio del povero Nikolaj dura poco e la giunonica Valentina passa
agli insulti e al disprezzo per quel marito che, nemmeno tanto ricco, arriva a
definire una "reliquia di merda secca di una vecchia capra", per non
citare i più coloriti epiteti sessuali. Ad aggiungere spasso concorre una
divertente storpiatura dell’inglese-ucraino, per chi avesse voglia di leggere
la versione originale. La vicenda precipita, ma Nikolaj “moscio floscio” non si
lascia scoraggiare e pensa addirittura di essere il padre del nascituro figlio
della disinvolta Valentina. Facciamo un salto di lato, ricordando che Nikolai è
un ex ingegnere, anche lui emigrato in Gran Bretagna nel periodo successivo
alla seconda guerra mondiale. E sta scrivendo una storia dei trattori nella sua
lingua madre, l’Ucraino. Estratti del saggio compaiono qua e là nel testo,
illuminando le figlie, anche, su quanto succedeva ai loro genitori ed alla loro
terra, prima che ne avessero piena coscienza. Durante tutto il periodo in cui
le due cercano di sganciare Valentina da Nikolaj, ed alla fine riescono, Nadia
trova il modo di farci partecipe dei segreti della storia della sua famiglia e
noi impariamo a conoscere le loro dure esperienze durante la carestia ucraina e
le purghe staliniane. La storia, come detto, ha molto di autobiografico: il
padre della Lewycka non solo ha realmente scritto un saggio sui trattori, ma ha
anche sposato in seconde nozze e in età avanzata una giovane immigrata. La
leggera vena comica prevale indubbiamente, ma il lettore si troverà anche a
riflettere su immigrazione e fragilità della vecchiaia. Da notare il tono molto
critico nel confronto degli immigrati da parte delle due sorelle, che pur
essendo loro stesse immigrate, non esitano a denunciare Valentina nel tentativo
di liberarsene. I temi sono scomodi, il mezzo con cui vengono affrontati è la
commedia, il fondo è piuttosto amaro. C’è un assurdo di fondo in tutto il
libro: è difficile trovare un personaggio realmente simpatico, sia nella
squadra dei buoni sia in quella dei cosiddetti cattivi. C’è la brava Nadia,
corretta, renziano – buonista, quella che poveri gli immigrati. C’è Vera la
cattiva sorella maggiore, divorziata, avida, eppur piena di dolori che vengono
dal periodo bellico e mai sopiti. C’è Nikolaj, geniale e tuttavia completamente
scemo. C’è Valentina, intenzionata a sposarlo, avere la cittadinanza e sperare
che il vecchio muoia presto. Valentina andrebbe fatta fuori nelle prime dieci
pagine, poi si pensa che sotterrare il rimbambito sia meglio, ma in fondo anche
le due figlie del rincoglionito non sono mica tanto simpatiche. Alla fine, via,
salviamo tutti, con i loro tic e la loro cattiveria, perché ognuno di loro ha
buoni motivi per essere così. Un libro ironico, che ti fa anche pensare (a
volte non molto a fondo, però) che c’è gente poco simpatica (direi quasi
stronza), e che forse ha una ragione per esserlo.
Chimamanda Ngozi Adichie “L’ibisco viola” Einaudi euro 11 (in realtà,
scontato a 9,90 euro)
[A: 20/05/2014– I: 21/11/2015 – T: 29/11/2015] - &&&&
[tit. or.: Purple Hibiscus; ling. or.: inglese; pagine: 276; anno 2003]
Altro
mirabile libro proveniente dalla fucina dei consigli libropatici di Ella & Susan.
Libro che durante la lettura ed appena chiuso riporta subito dentro la più buia
Africa che ho frequentato e di cui ho letto negli anni. In quella Nigeria che
uscì dal buio con il grande Wole Soyinka (premio Nobel esattamente trenta anni
fa) e ne senti sempre la forza leggendo del purtroppo scomparso Chinua Achebe.
La bella Adichie, ancora under 40, scrive di sicuro nel solco del secondo,
operando un duplice viaggio: nell’infanzia di ragazzi africani e nella
giovinezza della democrazia di un popolo che esce (anche se non sempre) dai solchi
delle dittature militari. Sebbene narrato con la voce di Kambili, che
sicuramente con noi va scoprendo le realtà intorno a sé, la forza narrativa
viene da quel doppio solco anzidetto. E seguiamone subito il solco pubblico,
ambientato nei luoghi natii della stessa Chimama (la maggior parte delle azioni
si svolge nella città di Enugu, all’interno di un’enclave di etnia Igbo, e
puntate a Nsukka dove c’è l’Università) dove Eugene, il padre di Kambili e
Jaja, conduce una battaglia incessante per la legalità, i diritti civili, la
democrazia per l’affermazione delle libertà politiche e civili. Il ricco Eugene
è l'editore di un giornale, e spinge il suo direttore Ade Cocker alla
pubblicazione di inchieste e denunce. Subendo varie volte i contraccolpi della
giunta militare. Eugene è anche profondamente religioso, convertito dagli
animismi locali al cristianesimo, comunità di cui è un membro di spicco, e non
manca mai a una celebrazione con i suoi oboli generosi, la sua religiosità
severa (odia le tradizioni pagane della sua terra al punto che impedisce di
fatto ai figli di frequentare suo padre, il loro nonno, perché l'uomo non si è
convertito al cattolicesimo, ma si ostina a professare la fede dei suoi avi) e
il suo esempio specchiato. Questo il lato pubblico di Eugene e della sua
famiglia, che Kambili ci narra con ammirazione e partecipazione. Famiglia che
ha il suo contraltare con quella della zia Ifeona, allegra, spigliata, vedova
con tre figli, sempre a corto di soldi, benché insegni alla locale Università.
Dove subisce anche lei le ingiurie per non sottostare alla corruzione imperante
(ed anche per essere parente di Eugene). Tanto che alla fine, stremata,
rinuncerà alla lotta, decidendo di emigrare verso gli Stati Uniti, anche perché
Eugene … Lasciamo questa parte in sospeso, e veniamo invece al privato di tutti
questi modi di vivere. Perché Eugene è in realtà uno psicopatico, che affligge
la famiglia di punizioni corporali terribili, che tutti loro accettano proprio
per l’aurea di generosità e disponibilità che Eugene ha verso il mondo.
Punizioni nate soprattutto in nome della rigida moralità e della religione
fanatica che segue Eugene. Tra silenzi, ipocrisie, interessi economici e
dolore, la famiglia della giovane Kambili fa finta che il problema non esista,
finché - quando il fratello Jaja raggiunge la pubertà e inizia a ribellarsi
alla figura paterna - la situazione precipita, fino all'imprevedibile (o forse
prevedibilissimo) finale... Con gli occhi spauriti di Kambili seguiamo tutto
l’evolversi della vicenda, in parte crescendo con lei. Seguiamo il fanatismo
dei neoconvertiti, il conflitto tra il mondo postcoloniale e la cultura
tradizionale, e soprattutto e fino in fondo uno dei temi sempre presenti negli
scritti della Adichie: la condizione della donna, in difficoltà in entrambi i
mondi (non è un caso che intitola uno dei suoi più duri saggi “Dovremmo essere
tutti femministi”). La scrittura prende nella descrizione dei vari personaggi,
ovviamente con le figure femminili che vengono sicuramente meglio, come la zia
Ifeona, o la figlia di lei Amaka. Ma bella e dolente è anche la drammatica
grandezza del nonno, con le sue storie incantatrici e ricche di umanità
(nonostante il suo paganesimo, come direbbe Eugene). Una bellissima lettura,
che ci ricorda, se ce ne fosse bisogno, i come ci si dovrebbe rivolgere ancora
ora verso i paesi africani, spingendone le voci libere e pure ad uscire fuori,
ad incoraggiarne la pubblicità, a difenderle dagli attacchi di tutti fanatismi
che, purtroppo, stanno risorgendo. Fanatismi militari, ma, purtroppo e
soprattutto, anche religiosi. Cerchiamo tutti di fare uno sforzo, pubblico e
privato, per aiutare tutte le Kambili del continente martoriato (e penso a
tutta l’Africa dalla Libia alla Nigeria al Sudafrica, e chi mi conosce sa
quanto ne soffra).
Rona Jaffe “Il meglio della vita” Beat euro 9
[A: 01/08/2014– I: 28/02/2016
– T: 04/03/2016] - &&&&
[tit. or.: The Best of Everything; ling. or.: inglese; pagine: 543; anno 1958]
Considerato
dai critici uno dei migliori romanzi per chi compie trenta anni, ho letto con
piacere filologico questo quasi sessantenne romanzo della scrittrice americana
Rona Jaffe. Probabilmente risente dell’età in qualche parte, pur rimanendo, con
molti decenni di anticipo, un prodromo di “Sex and the city”. Scritto e pensato
con lucidità dalla non ancora trentenne Jaffe, che butta giù il romanzo quando
anche lei, come la Caroline del libro, uscita dalla Radcliffe (una delle
Università americane) trova lavoro presso una casa editrice, la “Fawcett
Pubblications”. Edizioni non eccelse ma di importanza storica fondamentale:
sono loro che hanno inventato i “tascabili”, e solo per questo dovrebbe avere
un posto luminoso nel pantheon della scrittura. Senza contare che negli ultimi
trenta anni hanno avuto nelle loro pubblicazioni autori polizieschi degni come
Anne Perry o P.D. James. Ma torniamo alla scrittrice. Negli ultimi tempi presso
la Fawcett, Rona diventa amica di tal Jerry Wald, manager di un’altra casa
editrice, che la spinge a scrivere, leggere, rileggere e poi ripulire il
romanzo. Wald ne fa anche una campagna pubblicitaria serrata, prima ancora che
il libro esca (potenza del marketing nella creazione dei best-seller). Fatto
sta che nel ’58 il libro vede la luce, diventa per un paio d’anni un faro della
classifica dei libri più venduti e diventa anche un film, non eccelso, ma
diretto da uno dei maghi della sofisticated comedy, Jean Negulesco (autore,
anche, di quel divertente film “Come sposare un milionario”, con Lauren Bacall
e Marylin Monroe). Rona Jaffe continuerà a scrivere tutta la vita, anche se non
raggiungerà la diffusione di questo primo libro (un giorno o l’altro, bisognerà
parlare degli autori “di un solo libro”). Intanto, in questi più di cinquecento
pagine si snodano tre anni e molta vita di cinque ragazze americane, tutte poco
oltre i venti anni. L’idea della scrittrice è di descriverci e farci vivere con
loro alcuni grandi sogni americani, ma anche alcuni dei problemi, a volte
insormontabili, che le donne devono affrontare. Seguiamo allora le loro
vicende, dove le nostre cinque ragazze passano del tempo nella casa editrice
Fabian. Mary Agnes Russo è bruttina, capace di origliare ogni più piccolo
pettegolezzo, dattilografa efficiente, ha l’unico scopo di mettere da parte i
soldi per sposare il suo Bill, licenziarsi e vivere una serena (e squallida)
vita familiare. Non ha grandi sogni, incarna la voglia di famiglia, ed il suo
ottenimento usando il profilo più basso che c’è. Barbara Lamont, diciottenne,
aveva raggiunto il “traguardo” di Mary, con l’aggiunta di una bella bambina.
Peccato che il marito si impaurisca e fugga. Barbara si rimbocca le maniche,
lavora, con profitto alla Fabian, pensando di non poter trovare più l’amore.
S’illude che il quarantenne Sidney possa darle il futuro ormai perduto. Ma
Sidney, oltre che più grande (cosa marginale) è anche sposato. Dilemma:
divorzierà per far felice Barbara o rimarranno due binari che s’incrociano per
poi lasciarsi? Gregg Adams vuole fare l’attrice, passa pochi giorni alla
Fabian, tanto per sbarcare qualche mese d’affitto, e per convincere Caroline a
dividere una casa troppo costosa. Lei s’innamora del regista David, che come
(molta) gente di spettacolo è piena di sé stessa e di problemi. David non vuole
legami, non vuole controlli, ha forse avuto un amore maschile in gioventù, ma
sa essere dolce con Gregg, quando i due convergono verso mete comuni. Tanto che
Gregg non vede altro nella vita, avendo il torto, da innamorata obnubilata, di
non mollare mai la presa, di dimenticare sé stessa per dedicarsi all’altare
“David”. Così che quando lui, stufo, la molla, perde la testa. Anche lei non
vede altro che il matrimonio con David, iniziando una vita da stalker che non
potrà che finire male. April Morrison è la “campagnola del Texas” che per il
diploma chiede al padre 500 dollari ed il permesso di andare a New York fino a
quando basteranno. Si prende tanto nella vita della City, che, prima della fine
dei soldi, entra alla Fabian. April è una bellezza alla Marilyn, da togliere il
fiato. Tanto che il porco Shalimar, dirigente della Fabian, tenta subito di
metterle le mani addosso. Lei resiste, venendo ovviamente emarginata. Si rifà
incontrando il ricco Dexter, che con lo specchietto dell’anello nuziale le fa
fare quello che vuole. Sesso, innanzi tutto. Poi un aborto, quando lei rimane
incinta. Ma Dexter ed April sono di classi sociali differenti, e Dexter non la
porterà mai nella sua cerchia. Anzi, la umilierà pesantemente. April,
distrutta, rischia di cadere nella monomania alla Gregg, ma si salva prima
dandosi al sesso con tutti, poi trovano in Ronnie una spalla su cui appoggiarsi
ed un bastone per uscire fuori dalle sabbie mobili. Caroline Bender è
sicuramente il personaggio più forte, ma anche più “colpito” dalle traversie.
Dopo due anni di fidanzamento, Eddie la lascia per sposare una ricca signorina.
Lei, per distrarsi, entra alla Fabian. È una lettrice accanita e competente, ed
in una tale casa editrice, sgomitando un po’, ma senza ferire nessuno, pian
pianino si fa strada. Ha rapporti con i colleghi, scontri con i superiori, però
va avanti. Sino a quando, tre anni dopo, incontra nuovamente il mai dimenticato
Eddie. Sempre sposato e non divorziante. Ci si avvia verso il suo dilemma
finale: fare l’amante felice o continuare come donna in carriera? Un
bell’affresco, una coralità dosata con giusta alchimia. Tornando, al fine, alle
domande iniziali, sulla donna – sposa, sul valore della verginità (siamo pur
sempre negli anni Cinquanta), sul crinale tra carriere e famiglia. Un ultimo
appunto agli editor italiani: perché “Il meglio della vita”, quando il titolo
varrebbe “Il meglio di ogni cosa”. Deriva infatti dagli annunci di lavoro del
NYT che invogliavano le signorine al lavoro, perché “You deserve the best of
everything”,
“Le donne sono uguali agli uomini, solo che
non vogliono ammetterlo … Noi uomini quando vediamo una bella ragazza che
cammina per la strada … pensiamo: ‘Mi piacerebbe andare a letto con quella
ragazza’. È una semplice constatazione, senza nessuno scopo preciso.” (121)
“Sposa soltanto qualcuno … del quale non
puoi fare a meno. Ma soprattutto, sposa soltanto un uomo che rispetti.” (123)
“Ci vogliono sei anni per farsi un amico e
sei minuti per perderlo.” (258)
“Tenersi per mano [è] un Braille inventato
da quelli che ci vedono per capire cose che non si vedono.” (317)
“Ognuno ha diritto di comportarsi da idiota,
se è veramente innamorato.” (403)
“Non siamo responsabili di aver incontrato
le persone sbagliate; possiamo solo dirci fortunati quando incontriamo quelle
giuste.” (463)
Siamo
solo al 15, ma è già il terzo fine settimana di maggio. Abbiamo prima pubblicato
le letture, poi le cure, ed ecco ora i “libri felici”, dedicati tra l’altro ad
uno dei numi tutelari dei
mei cinquanta anni, Nick Hornby.
Continuiamo
quindi ed ancora ad accumulare crediti per i prossimi viaggi, per le prossime
ristrutturazioni, per le amicizie, per gli incontri, per le richieste. Chissà se
ci sarà un momento in cui i crediti saranno riscossi.
I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia
Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
MAGGIO 2016
Come avevo accennato nell’introdurre questo libro, tutta la
prima parte è dedicata agli acciacchi d’amore, e quindi anche in questa seconda
puntata parliamo delle relative terapie.
TERAPIE D’AMORE (II)
ALTA FEDELTÀ di NICK HORNBY (1995)
Pillole
di trama
Rob ha trentacinque anni e al momento gli va tutto storto: è
appena stato lasciato dalla ragazza, il suo negozio, dove romanticamente e anacronisticamente
vende solo vinili, non naviga in buone acque e lui, per dirla alla Woody Allen,
«si sente poco bene». Precipitando in una comica spirale di paranoia,
insicurezza e autocommiserazione, nel disperato tentativo di rimettersi con la
sua Laura, Rob passa in rassegna tutta la sua vita, gironzolando per Londra,
stilando classifiche sugli argomenti più vari, ponendosi domande, rimuginando
sulle sue scelte, analizzando la recente rottura e tutte le precedenti,
chiedendosi dove abbia sbagliato ogni volta con il dubbio di essere lui quello difettoso.
Supposta-saggezza
Rob è il prototipo del trentenne di oggi. In realtà è nato
come prototipo del trentenne degli anni Novanta, ma da allora poco è cambiato:
stessa precarietà di vita e sentimenti, stessi dubbi, interrogativi e
fragilità. Tormentato da problemi esistenziali, sentimentali e lavorativi, è
confuso e cerca di mettere ordine nella sua vita stilando classifiche. È lui
stesso a definirsi un tipo normale che piace non per le virtù che ha, ma per i
vizi che non ha. Ed è proprio la sua normalità a creare, fin dalle prime righe,
una forte empatia con il lettore. Con ironia disinvolta e pungente, Nick Hornby
racconta i pensieri, le illusioni, i sogni, gli amori e le relative delusioni
di Rob, facendo confluire in lui tutta una generazione confusa, stanca e
piuttosto provata ma non perduta né arresa. Ciò che rende simpatico il
protagonista è sicuramente il suo carattere amletico. Non fraintendete, Rob non
ha niente ma proprio niente della tragicità dell’eroe shakespeariano, se non il
fatto che dubita ed è insicuro di tutto. La sua titubanza esistenziale non è la
diretta conseguenza della recente rottura con la fidanzata (anche se l'essere
scaricati comporta sempre un’impennata d’insicurezza) ma è un tratto del suo
carattere che nasconde goffamente quell’incertezza paralizzante che è diventata
un elemento generazionale. Con uno sgangherato e disordinato flusso
d’incoscienza, Rob si confessa senza imbarazzo, condividendo con il lettore
pezzi di vita, inconsapevoli perle di saggezza e bizzarre ma condivisibili
riflessioni del tipo: ascoltiamo musica triste perché soffriamo o soffriamo
perché ascoltiamo musica triste? Al romanzo va anche il merito, non indifferente,
di sfatare il falso mito che soffrire per amore sia una prerogativa
esclusivamente femminile. Nick Hornby ha la straordinaria capacità di scavare
nella psicologia maschile e Rob è la dimostrazione che al termine di una
relazione anche gli uomini piangono, si disperano e, udite udite, si mettono
perfino in discussione. Certo lo fanno da uomini, che non vuol dire necessariamente
in modo coraggioso e stoico ma con il sesso sempre in testa, per esempio. Per
una donna, quindi, Alta fedeltà è una
passeggiata istruttiva e divertente nella mente di un ragazzo, per sghignazzare
un po’ alle sue spalle ma anche imparando qualcosa di più su sé stessa. Si
scopre, per esempio, che quel velo di cellulite che ci terrorizza viene a mala
pena notato quando, sotto le lenzuola, la maggioranza degli uomini è
paralizzata dall’ansia da prestazione, quello sì, un vero problema. Uomo o
donna, quindi, la fine di una relazione è traumatica per tutti e tutti ne soffriamo.
Non ci si abitua mai e la sensazione di fallimento, le delusioni e le
arrabbiature si sommano diventando un bagaglio così pesante che spesso richiede
il sovrapprezzo per permetterci di salire di nuovo a bordo dell’aereo delle
relazioni sentimentali (beati quelli che viaggiano solo con il bagaglio a
mano!). Ed è inutile illudersi che, crescendo, i rapporti maturino e noi con
loro perché non è così e si soffre quasi sempre come la prima volta. Però, dopo
fallimenti, delusioni e arrabbiature, l’unico vantaggio è imparare a gestire
meglio le cose. Come Rob che, indolente, cialtrone, pigro, disincantato,
confuso e un po’ arrabbiato, dopo pagine e pagine d’inconsapevole autoanalisi
riesce a guadagnarsi il suo insperato happy ending.
Posologia
Alta fedeltà è un
antinfiammatorio per uso topico da usare per il trattamento locale degli stati
dolorosi di natura traumatica causati dalle fratture post rottura. Si consiglia
di applicare più volte al giorno, frizionando leggermente. Il quantitativo
dipende dal dolore e dalla dimensione della lacerazione. Grazie alla sua
consistenza leggera e gradevole, penetra in profondità rilasciando una piacevole
sensazione di benessere. La presenza dell’autoironia come principio attivo
garantisce un’elevata capacità di ripristinare l’equilibrio del PH emotivo,
trasformando il dolore in buonumore. Se, stanchi di crogiolarvi nella
tristezza, cercate una rapida guarigione da traumi amorosi, Alta fedeltà è il rimedio giusto:
provocando il rilassamento a livello muscolare, contribuisce a riprendere le
normali attività (anche sociali), distraendo dal dolore.
La fine di una relazione provoca generalmente stati d’ansia e
di stress che possono alterare l’equilibrio fisiologico della flora intestinale,
causando fastidiosi mal di pancia (si passa dalle farfalle nello stomaco alla
presenza molesta di un verme solitario e depresso). Ironico, sarcastico,
profondo, a tratti amaro, mai cinico e sempre sincero, Alta Fedeltà riporta la quiete nell’animo e nell’intestino in
subbuglio depurandolo dalle scorie se anche voi condividete con Rob quella
patologia gastrointestinale per la quale «è da quando ho quattordici anni che
ragiono con le viscere. E per dirla tutta, ma che resti fra voi e me, adesso ho
capito che nelle viscere c’è materia fecale, non cerebrale».
Effetti
collaterali
È stato osservato che la somministrazione del farmaco può
contribuire a scatenare attacchi di risate.
Tra gli effetti collaterali più comuni, c’è il rischio di
essere contagiati dal protagonista e dalla sua mania di stilare classifiche.
Rob ha la bizzarra, immatura, spassosissima e molto umana fissazione di
ordinare la sua vita in classifiche assurde, come se questo lo aiutasse a darle
senso compiuto. Se tenuta sotto controllo, questa controindicazione potrebbe
tornare utile per affrontare la fine di una relazione stilando la top five dei film, delle canzoni e dei
cibi che trovate più confortanti per farne indigestione fino a che non vi
sentirete un po’ meglio. Ovviamente non può mancare la classifica dei libri che
aiutano a vivere felici.
Consigli
Se, indipendentemente dagli affanni di cuore e dai dolori di
pancia post rottura, avete bisogno di risollevarvi il morale, consiglio di
immergervi tra le pagine dello scrittore inglese per beneficiare della sua
effervescenza. Tra i romanzi più riusciti segnalo Febbre a 90°, Un ragazzo
e Non buttiamoci giù.
Terapia
cinematografica sostitutiva
L’ironia leggera e sottile di Alta fedeltà si ritrova
intatta nella sua trasposizione cinematografica. Non ci si poteva aspettare di
meno da un regista esperto come Stephen Frears che con Nick Hornby condivide le
doti di narratore e la capacità di cogliere lo spirito dei tempi. Il film è una
commedia brillante, portatrice sana di buon umore, divertimento intelligente e
tanta buona musica.
Commenti
Ho detto altrove, e lo ripeto qui, Nick è stato un nume
tutelare, immancabile nelle mie letture intorno ai cinquant’anni, ed un poco oltre.
Poi la sua stella ha cominciato per me ad offuscarsi, e, seppur continuando a
leggerne, non ha raggiunto le vette delle prime uscite. Soprattutto del
bellissimo primo libro che lessi, e che riporto nella sua essenziale brevità di
commento. Un libro che va assolutamente letto, così capirete la domanda che vi
faccio. Per una volta, non ve la spiegherò altrimenti. Meno interessante, più
di maniera “Non buttiamoci giù”. E mi aspettavo senz’altro di meglio nel libro
sulla passione calcistica. L’ultimo e non citato libro (“Un ragazzo”) l’ho
letto tanti, tanti anni fa, e non trovo più traccia dei miei commenti.
Nick Hornby Alta
fedeltà Guanda 7,50
[pubblicato il 24 dicembre 2006]
Il primo Hornby. Mitico per le sue liste. E per la speranza:
chi ci farà un regalo che vale il cambiamento della propria vita?
Nick Hornby “Non buttiamoci giù” Guanda euro 8,50
[pubblicato il 13 maggio 2007]
Libro in prestito. Idea carina (racconto a quattro voci,
sempre in soggettiva). Altalenante. Bene la prima parte (se suicidarsi risolve),
debole la parte centrale (angeli ed altre invenzioni inutili), risale nel
finale (forse un po’ troppo “consolatorio”, da lieto fine film americani anni
’30). “tutto in fin dei conti (anche fracassare la macchina nuova) è più facile
che dire la verità” “al grande Capo chiederei di diventare una persona disposta
ad accontentarsi di quello che è, invece che di quello che vuole essere” “devi
essere sicura di te stessa per entrare nei posti piccoli con i clienti
abituali” “come fa quella gente che deve prendere l’aereo, non so, una o due
volte l’anno…”.
Nick Hornby “Febbre a
90’” Guanda euro 7,50
[pubblicato il 06 maggio 2012]
Mi è discretamente piaciuto, anche se sono contento di
averlo letto ora e non allora, quando Nick lo scrisse una ventina di anni fa, e
che vidi alla metà degli anni Novanta. Perché in realtà non è un romanzo (ed io
avevo appena letto “Alta fedeltà” che ho trovato e trovo stupendo). Non è una
cronaca sportiva. Non è un’autobiografia. È un ibrido, in effetti. Contiene un
po’ di tutto, anche se il filo conduttore è comunque il pallone. Il calcio. La
nascita di una passione. I guasti che ne derivano a chi ne rimane “addicted”.
L’autore, ormai trentacinquenne, sta cercando di praticare la sua autentica
passione, quella di scrivere. Ma, come tutti gli aspiranti scrittori, dovrà
passare sotto mille forche caudine di illusione e delusioni prima di riuscire a
trovare una sua via per vivere con quelle che ama fare. Ha già fatto tanti
mestieri (insegnante, impiegato, giornalista) e nell’attesa di sfondare, decide
di buttare su carta quello che conosce meglio. Quello che lo accompagna ormai
da venti anni: il calcio e la passione per la squadra della Londra del Nord,
l’Arsenal. Ne esce fuori questo ibrido, che, seppur maggiormente dedicato al calcio,
nel filo dei ricordi, partita dopo partita, ricostruisce da un lato la
biografia di Nick (il rapporto con il padre, soprattutto quando questi divorzia
e va a vivere con un’altra donna, dalla quale avrà altri figli, il rapporto con
il fratellastro, le tante storie di lavori iniziati e lasciati, le tante storie
di donne, prese e da cui veniva lasciato) e dall’altro la biografia mentale di
una persona cui entra il calcio nel sangue e cerca di convivere con questo
demone. Difficile, a volte, per chi non mastica di calcio, districarsi tra le
partite di campionato inglese, di coppa, partite internazionali e partite della
nazionale. Ma se si finge di capire queste parti, e ci si lascia cullare dagli
interventi “sociali” di Nick, si riesce ad entrare in alcune possibili
discussioni che prescindono dallo specifico arsenaliano, in particolare sulla
violenza negli stadi (e qui l’autore fa delle interessanti digressioni sia
sull’Heysel che su Hillsbrough) e sulla psicologia del tifoso (non
dell’hooligan, ma del tifoso appassionato di calcio, anche sciovinista se
vogliamo, ma non violento). Mentre sulla prima lascio la parola all’autore
(“non ci sono rimedi e costrizioni, ma solo possibilità di cambiamento della
mentalità”), la seconda mi ha intrigato. Perché, se estrapoliamo dal contesto
calcistico, è anche un po’ la metafora di chi lega sé stesso ad avvenimenti
esterni, di chi (anche se non segue dal vivo) vede una vittoria della propria
squadra come un segnale positivo per la propria vita o una sconfitta (di una squadra,
di una macchina, di un tennista, di uno sciatore, a seconda delle proprie
passioni) come un monito che anche qualcosa d’altro andrà male. Ed è
interessante seguire il percorso che ci fa fare Hornby, cominciando dalle prime
partite cui lo porta il padre divorziando. Partite che diventano l’elemento che
lo accomuna a qualcosa che sta perdendo. Per poi diventare un feticcio (se non
vado, la mia squadra perde; se vado, anche se perde, posso sfogarmi con i miei
amici a me sodali). Ed alfine una malattia, un elemento cui ruotano pomeriggi o
sere importanti della propria vita. Ne riconosco i sintomi, quelli che vidi
negli anni sessanta, quando fui costretto dalla cerchia familiare a trovare
qualcosa da tifare (tutti seguivano il calcio, ed io dovevo omologarmi). Per
poi, con il senno della maturità, allontanarsene in modo critico (mentre padri,
madri e cugini continuavano ad accapigliarsi). Con l’orecchio sentire gente
parlare ore ed ore di quello che avrebbe fatto l’allenatore, il portiere, o
altro legato alle partite. E non capire come si possa buttare tanta parte della
propria vita in simili “palliativi”. Per poi alla fine riconoscere che, se la
tua squadra (di calcio, di bridge) vince, sei comunque più contento ed affronti
meglio il futuro. Mi accorgo di aver parlato poco del libro in sé, ma forse non
c’è molto da dire. Meglio averne discusso sugli stimoli che propone. Un solo
accenno: mi ha fatto piacere ricordare nelle sue pagine la figura di un bravo
calciatore come fu Liam Brady. Alla fine, non è il miglior Hornby che conosco,
ma un bel prodotto, degno di aprire una bella discussione su tifosi e sportivi.
“Gli ossessionati [del
calcio] … devono mentire. Se dicessimo sempre la verità, non riusciremmo a
mantenere rapporti con chi vive nel mondo reale.” (8)
“Una volta credevo …
che crescere e diventare adulti fossero due cose analoghe. … Adesso penso che
diventare adulti sia una cosa dominata dalla volontà, che si possa scegliere di
diventare adulti.” (97)
Finalino
Diciamo che non eccelle in tirate grosse, ed in frecciate
che colpiscono forte il bersaglio, ma il tono è garbato, e “Alta fedeltà” un
libro che non rimpiango di aver letto. Anzi direi che metterei senz’altro nella
top five dei libri che mi hanno spinto a leggere, insieme a… (e mica ve lo
dico!).
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