E già! Nel senso che abbiamo una quaterna di
libri tutti ad alto (mio) gradimento. Non capita spesso e non capitava da
tempo. Un Premio Pulitzer che non conoscevo e che ci porta in una saga corale
del mondo ispano-americano. Un libro che non dimostra i suoi 60 anni. Uno
scrittore che non sempre mi piace, ma che qui mi ha avvinto. In mezzo, uno
svizzero, letto nella sua stesura originale, che segnalo anche perché in uscita
ho letto sta per prendere posto sugli scaffali delle librerie una specie di
“sequel” dei personaggi di questo strano meta romanzo sulla scrittura e sulle
sue difficoltà. Delle letture veramente interessanti.
Junot Diaz “La breve favolosa vita di Oscar Wao” Mondadori euro 10
[A: 01/08/2014– I:
18/02/2016 – T: 23/02/2016] - &&&&
[tit. or.: The Brief Wonderous Life of Oscar Wao; ling. or.: inglese; pagine: 292; anno 2007]
In
genere, e sono d’accordo con l’opinione segnalati da critici più agguerriti di
me, i premi letterari non mi convincono, la loro assegnazione non sempre
corrisponde ad una reale bontà del libro, quanto, il più delle volte, a criteri
politico-letterari per bilanciare il generale andamento del mercato. Dicevo in
genere, perché, per la mia personale esperienza, il Premio Pulitzer per la
Narrativa esula da questa omogeneizzazione. Ho letto, fino ad ora, altri
quattro libri premiati negli ultimi quindici anni (e certo i nomi sono di
garanzia Chabon, Eugenides, McCarthy, Egan) e come potete vedere dalle trame,
tutti con discreto gradimento. Come altri, questo, l’avevo segnalato da una
recensione di Annarita Briganti dal numero 3 di Satisfiction. Non nascondo che
questo è anche un libro complesso, che, narrando la storia dei componenti della
famiglia Cabral, ed in particolare di Oscar, si allarga ad abbracciare altri
temi cari all’autore: i ruoli maschili e femminili nelle tradizioni domenicane,
l’America come terra promessa (e quasi mai mantenuta), la storia della
Repubblica Domenicana (terra natia dei personaggi e dello stesso autore). Il
tutto con gli occhi da narratore onnisciente impersonato da Yunior de las
Casas, un personaggio presente spesso nella narrativa di Diaz, che ne
rappresenta l’alter-ego necessario alla narrazione. Diaz è infatti domenicano,
è immigrato in America, ha studiato, scritto, e raggiunto un discreto successo
con questo libro, così come potrebbe aver fatto Junior. Ma non è di Junior che
vogliamo parlare, ma della famiglia Cabral, a partire dal capostipite Abelard,
a sua figlia Hypatia Belicia, ed ai suoi due nipoti, Lola e Oscar. La loro
storia è legata a filo doppio con la storia della Repubblica Domenicana, a
partire dagli anni ’40, che videro l’ascesa sociale del medico Abelard, e la
sua rovina per non aver voluto cedere l’onore della figlia al dittatore che
spadroneggiò nell’isola dal 1930 al 1961, l’infame Rafael Leónidas Trujillo
Molina. Diaz è pieno di citazioni delle infamità trujillesche, che noi forse da
qui poco conosciamo, ma che risuonano come campanelli nelle turpi vicende
dittatoriali (uccisioni in patria e all’estero degli oppositori, come il
giornalista Galindez e le sorelle Mirabal, incarcerazioni senza motivo,
torture, fino a tutti i passatempi sessuali possibili, che i domenicani sono
noti per il loro sangue caliente). Una volta fatto fuori Abelard, rimane in
vita solo la piccola Belicia, prorompente bellezza che la nonna Inca voleva far
studiare per far tornare la famiglia ai fasti paterni. Ma Belicia è focosa,
matura presto (con dei seni da ottava misura), e si dedica al passatempo
preferito degli isolani: il sesso. Ovvio che, dopo varie vicende, tutte
sfortunate, ne abbia una ancora più sfortunata, con un personaggio
soprannominato “il Gangster” (nome omen), che, purtroppo, ha sposato una figlia
del dittatore. Motivo per cui, quando Belicia si fa troppo avanti, verrà ridotta
in fin di vita. Riuscirà a salvarsi solo per le preghiere della nonna, e
fuggendo negli Stati Uniti. Dove, da altri amori poco felici, nasceranno Lola
ed Oscar. Lola sembra l’unico personaggio positivo, anche se passa tutti i
peggiori periodi delle adolescenti, con ribellioni, fughe ed altro. Avrà anche
una storia d’amore tormentata con Yunior, anch’essa destinata ad una fine
ingloriosa (che Yunior non sa tener fuori il suo “ropio” da qualsiasi persona
di sesso femminile giri intorno a lui, ed immagino che ne sappiate il
significato). Ma la storia ha sempre per protagonista trasversale Oscar. Un
dominicano nerd, grasso ed emarginato, che trova la sua ragion d’essere nei
fumetti e nella fantascienza (e tutto il libro è anche pervaso di citazioni che
ho gustato con diletto infantile, aiutato da un corposo ed insostituibile
glossario finale). Soprannominato Wao per storpiare in modo onomatopeico il
grande Wilde (di cui riprende il peso ma non le abitudini). Oscar, schizzato
dalle donne dietro cui sbava, si rinchiude nella scrittura per cullare i suoi
sogni di redimere il mondo e salvare la fanciulla dei suoi sogni. Avrà anche
lui la sua storia d’amore triste e sfortunata. Tutto quindi finirà male, come
dalle premesse del titolo. E come dalla pervasione dello spirito dominicano,
dove tutto andrà male per delle maledizioni ancestrali, che Diaz battezza
“fukù”, e solo alla fine ho capito essere un argot locale per il meglio noto
“fuck you”. La bellezza del grande affresco social-personale, è la capacità di
Diaz di dar voce a voci diverse nel corso della narrazione. Piccoli incisi con
altri punti di vista. Note e disgressioni. Una scrittura complessa e
accattivante per la descrizione di un mondo, e di un modo di vivere che tiene
legato alla pagina.
“Hypatia … avrebbe sviluppato un tipico
malessere … un inestinguibile desiderio di altrove.” (73)
Patrick Dennis “Zia Mame” Adelphi euro 12
[A: 01/08/2014– I: 23/02/2016 – T: 27/02/2016] - &&&&
[tit. or.: Auntie Mame: An Irriverent Escapade; ling. or.: inglese; pagine: 380;
anno 1955]
Ne
avevo sentito parlare, e non mi ero mai deciso ad affrontarlo. Spinte
eterogenee mi ci hanno finalmente portato, e, come al solito, devo dire che
dovrei più spesso cedere a questi impulsi. Non è un libro bellissimo. Si sente
il passare degli anni (in fondo, ha quasi la mia età…). Se poi dovessi solo
giudicare dal testo, prenderebbe qualcosa in meno. Risale grazie ad un contesto
degno, e ad una post-fazione magistralmente condotta sul filo dell’ironia
dall’ottimo Matteo Codignola. Scopro quindi che Dennis in realtà si chiama
Edward Everett Tanner III, che è un toro (18 maggio), che il padre lo chiamava
Patrick in omaggio al pugile Pat Sweeney, che ha scritto 16 romanzi, di cui 4
con il diverso pseudonimo di Virginia Rowans, che si sposa nel 1948 (a 27
anni), ha due figli, poi verso la seconda metà degli anni Cinquanta, scopre che
è più attratto dagli uomini, va a vivere in Messico con un suo preteso amante,
che in Messico viene derubato di tutti i suoi averi, che torna in America dove
spende gli ultimi anni della sua vita usando il suo nome reale, e facendo il
maggiordomo per Ray Kroc, l’allora capo indiscusso e amministratore delegato
della McDonald’s, che muore a 55 nel 1976 di cancro alla prostata. Benché il
grande successo dei Cinquanta, e benché il suo personaggio – icona di zia Mame
sia portato sulle scene teatrali (ed in modo magistrale) da Rosalind Russell,
libro (e commedia e film) caddero nel dimenticatoio, per essere ripresi solo
negli ultimi anni, grazie agli sforzi del figlio di Patrick in patria e di
Adelphi da noi in Italia. Da questo mini excursus si capisce appunto il
contesto frizzante da cui sorge il testo, inizialmente non molto ben visto
neanche dall’editoria americana. Erano una decina di racconti legati insieme dalla
figura di zia Mame, ricalcata sulla figura reale della zia di Edward, Marion
Tanner. Fu solo un non meglio noto curatore editoriale della casa Vanguard ad
avere la brillante idea, che ha portato prima alla pubblicazione, poi al
successo inaspettato (per due anni nella classifica dei best-seller del New
York Times): legare i vari racconti da una specie di filo rosso legato ad
oscure pagine pubblicate da “Selezione del Reader's Digest” relative ad una
improbabile signorina del New England. Questa finzione permette al nostro
Patrick di scatenarsi nel racconto di una sua finta autobiografia, punteggiata
dalla vita e dalle opere della mirabolante zia Mame Dennis. Racconto che inizia
nel 1928, con Patrick decenne e con il padre che inopinatamente muore, lasciandolo
ricco ereditiere (quando maggiorenne) ed affidato alle cure dell’unica parente
vivente, appunto la zia Mame. Fin dalle prime battute si instaura il plot
generale del racconto: zia Mame è rutilante, si impegna in attività senza capo
né coda e Patrick tenta di mitigarne la “dolce pazzia”. Ovvio che per rendere
il tutto appetibile per quasi quattrocento pagine, poi, ogni tanto la trama si
inverte, ed è zia Mame che “salva” l’incauto nipote. Vediamo Mame affascinata
dalle teorie didattiche d’avanguardia, coinvolgendo Patrick in una scuola
sperimentale. Di certo dal respiro corto, tanto che Patrick sarà preso
costretto alle più classiche scuole scelte dal suo tristo tutore (che ha
l’unico pregio di salvare i beni del giovane dalla catastrofe del ’29). Il ’29
invece vede intaccare ben presto gli averi della zia, che seguiamo agli inizi
degli anni Trenta doversi dedicare a qualche mestiere. Da antologia il suo
apprendistato da Macy’s, dove non riesce a vendere nulla non sapendo usare le
casse. Fortuna vuole che lì in contri Franck, un gentiluomo del Sud, che,
affascinato dalle sue grazie, provvede a sposarla ed a sistemarla
economicamente. Per poi coinvolgere, zia e nipote, in una discesa nelle sue
terre del profondo Sud, dove zia Mame si destreggia in una mitica caccia alla
volpe. Passati i guai, Franck gentilmente muore lasciandola di nuovo
possidente. Consigliata dai suoi amici fuori di testa, decide di scrivere la
storia della sua vita, riuscendo in un nuovo disastroso flop, dove Patrick la
salva da un irlandese che mira ai suoi soldi, e che riesce solo a mettere in
cinta la sua segretaria. Zia Mame, allora, diventa l’angelo delle sventure di
Patrick, salvandolo da una cameriera esilarante nel suo inglese sconnesso, poi
dalle mire di una razzista signorina che mira anche lei solo al patrimonio. Ci
sarà la guerra a far da cesura ai racconti, e Patrick (come l’autore) ne passa
quasi indenne, tornando a casa leggermente ferito, e dovendo aiutare la zia in
una bislacca opera filantropica. Ma ormai anche il nipote è cresciuto, e la zia
pensa suo dovere trovare una moglie al trentenne nipote. Ultima avventura, che
per fortuna porta Patrick a conoscere una simpatica ragazza che finalmente
sposerà. Chiusura alcuni anni dopo, dove la zia, visto che non ha più il potere
su Patrick, affascina ed ammali Mick il giovane nipote di sette anni. Ecco
appunto che ogni storia nasce con un punto affascinante e mirabolante, si
svolge andando verso catastrofi annunciate, e salvate per miracolo all’ultimo
istante. Schema leggermente ripetitivo, che rende prevedibile l’andamento.
Fortuna vuole che la verve innata di zia Mame, ben descritta dall’agile penna
del nostro, renda comicamente appetibili le più matte (dis)avventure.
Incongruamente, poi, zia Mame diventa nei pochi anni di auge della metà degli
anni Cinquanta, anche una icona dei gay americani. Alla fine, tuttavia, un
libro che mette allegria, anche se risente, in modo assai pesante, i suoi
sessanta anni.
Joël Dicker « La vérité sur
l’affaire Harry Quebert » De Fallois euro 9,20
[A: 17/04/2014– I: 05/03/2016 – T: 13/03/2016] - &&&&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: francese; pagine: 858;
anno 2012]
Formidabile. Un libro veramente
formidabile ed inclassificabile. Cioè ha una struttura da giallo con morti,
assassini e misteri da scoprire. Ma è anche di più. Un libro sull’amore,
sull’amicizia e soprattutto sul mestiere di scrittore. Comincio intanto però
dall’autore, svizzero francofono ginevrino, che stava per essere lanciato da
quello scopritore di talenti che fu Vladimir Dimitrijević (di cui ho tramato l’interessante “La vita è un pallone rotondo”), lancio stroncato dalla tragica
morte di quest’ultimo. Rimane però nel mirino delle edizioni “L’age de
l’homme”, e con loro pubblica i suoi due primi romanzi. Ne avevo sentito parlare
da Feltrinelli, ed in occasione del bel viaggio francese di due anni fa (circa)
l’ho trovato in economica da FNAC a Parigi, e subito preso. Non letto, che
aspettavo di avere tempo e spazio da dedicare ad un libro certo di non poche
pagine. Anche perché non è un libro da viaggio, ma solo un libro letto in
originale (e sicuramente con un andamento interessante di musicalità fonetica).
Come i pochi autori svizzeri a me noti, Dicker è poi scarsamente incasellabile
in uno scomparto solo. Certo non raggiunge (scusate il paragone) l’alta
drammaturgia di Dürrenmatt (svizzero-tedesco) e tiene sicuramente qualche giro
di vantaggio in una corsa con Fazioli (svizzero-italiano). Ma se volete un
panorama multilingue del paesaggio svizzero leggeteli tutti e tre. Tornando a
noi, la storia linearmente si svolge intorno al seguente nodo: un giovane
scrittore trentaquatrenne, Harry, non riesce a scrivere, si trasferisce ad
Aurora (immaginaria cittadina del New Hampshire), dove si innamora, ricambiato,
della quindicenne Kellergan. I due vivono un’estate amorosa, programmano di
fuggire insieme, ma la giovane sparisce. Harry diventa scrittore, poi
professore di lettere, ha per allievo il promettente Marcus. Poi, trentatré
anni dopo si scopre il corpo della giovane nel giardino di Harry, che viene
accusato dell’omicidio di lei e della signora Dora che aveva denunciato il
fatto all’epoca. Marcus allora si arma della pazienza e dei metodi dello
scrittore (che Harry per anni gli ha insegnato), non riuscendo neanche lui,
trentenne, a scrivere il secondo romanzo, dopo il primo folgorante successo.
Sarà Marcus che scavando nella vita di Harry e di Aurora troverà il modo di
tornare a scrivere “Il caso H.Q.”, di avere un enorme successo, di salvare
Harry, ma in una serie infinta di sottofinali, trovare ogni volta una verità
diversa, una spiegazione diversa e plausibile. Fino alla soluzione finale, per
la quale scrive questo libro, che, appunto, si intitola “La verità sul caso
H.Q.”. certamente sarete stupiti anche voi come una trama così lineare,
apparentemente lineare direi, possa poi svilupparsi per più di 800 pagine.
Intanto, come ho detto sopra, questa è la trama “gialla”, mentre molta parte
del libro, altrettanto interessante e coinvolgente, verte sull’amicizia tra
Harry e Marcus, sulle loro vite in parallelo, sull’amore e sulla sua
inspiegabilità, sul mestiere di scrittore, sul mestiere di vivere (come direbbe
Pavese), sulle similitudini tra scrittura e sport (che sicuramente avevano
colpito Vladimir, se ben ho imparato a conoscerne leggendo), anche se qui si
parla di boxe. Tanto per divagare, poi, domandiamoci perché uno scrittore
svizzero ambienti una storia nel New Hampshire. Sicuramente colpisce come la
scelta della copertina originale, con quel desolato (al solito) dipinto di Hopper.
A me hanno colpito anche altre somiglianze: la giovane che sconvolge Aurora si
chiama Nola, Harry fa di cognome Quebert. Lui ha venti anni più di lei. Ecco
subito un collegamento con Lola e Humbert Humbert (avete certamente notato le
assonanze). Ma se poi si segue tutto il complesso della storia, si trovano
anche dei grandi spunti che a Dicker saranno venuti dalla lettura de “La
macchia umana” di Philip Roth. Sicuramente, come ha scritto altrove e ben
dottamente De Cataldo, tutto il libro può (e deve, forse) essere letto tenendo
in mente il grande Orson Welles quando, nel film “F come falso” citando Picasso
afferma “l’arte è una menzogna che ci fa capire la verità”. Ma chi sono i
personaggi di questo grande romanzo, oltre a Marcus Goldman, narratore e alter-ego
di Dicker? Vediamone i principali, allora. Harry Quebert è lo scrittore che
pubblica “Le Origini del male”, libro che narra di un amore impossibile, che
avrà successo strepitoso collocandolo nel Pantheon americano, e consentendogli,
anche, una carriera accademica, durante la quale scoprirà il talento di Marcus,
lo spronerà a scrivere divenendo, per il giovane, il suo migliore amico
(nonostante i quaranta anni di differenza). Harry comunque vive isolato nel New
Hampshire, aspettando il ritorno di Nola. La giovane nell’esuberanza dei suoi
quindici anni, si innamora perdutamente di Harry, e farà di tutto per
convincerlo a scrivere, per aiutarlo a scrivere quando è in difficoltà,
impostando tutto verso una loro fuga d’amore, che non avverrà per la sua scomparsa.
Ma è anche problematica, sembra quasi schizzata quando fugge da casa con
evidenti ematomi. E poiché Harry in realtà è povero, e non ha i soldi per
pagare tutto quello che si concede ad Aurora, ecco che Nola si “vende” a Stern
un miliardario proprietario della casa di Harry, che per concederle l’affitto,
la costringe a posare nuda per il suo tuttofare Caleb. Questi era un
promettente pittore, sfigurato nel corpo e nell’anima da una banda di
adolescenti, con dentro ancora elementi poetici che riversa su Nola, sul bel
quadro che le fa, e su altri elementi che non vi svelo. Caleb ha anche
difficoltà espressive, per cui nessun riesce a capire bene cosa dica e cosa
voglia. Tanto da impaurire Jenny Davis, la figlia della proprietaria della
locale caffetteria, dove tutti, anche Harry, vanno. E dove lavora anche Nola,
il sabato. Jenny che si innamora di Harry, senza capire mai che lui non se la
fila di pezza. Jenny che invece è l’amore dell’agente Travis, timido a tal
punto che non riesce mai a dichiararsi. Ma che prende di mira Caleb quando
questi sembra importunare Jenny. Sarà Travis il primo ad accorrere alla
chiamata di Dora che vede una ragazza correre nel bosco inseguita da un uomo.
Insieme al suo capo Pratt, cui la madre di Jenny aveva svelato i suoi sospetti
sulla possibile relazione incresciosa tra Harry e Nola, ma che Nola aveva
trovato un modo per neutralizzare. Non vi narro tutte le persone che moriranno
nel corso del romanzo (credo quattro alla fine), per lasciarvi gustare il
progressivo cambiamento di scena, menzogna dopo menzogna, fino ad arrivare al
non certo dolce finale. Nessun lieto fine, Dicker, anche se Marcus riesce a
riprendere la scrittura, rivelandosi, come Harry aveva predetto, un ottimo
scrittore, quello che con il primo capitolo mette KO il lettore, al pari di un
incontro di boxe. Pur essendo ponderoso, dalla metà in poi non sono quasi
riuscito a staccarmene, per i continui rivolgimenti, per l’amore che cominciavo
a riversare verso tutti i personaggi. Per la voglia, infine, di capire che cosa
fa di un dattilografo di parole un “vero” scrittore. Confesso che un paio di
passaggi, sui 2/3 del libro mi hanno lasciato perplesso. Ma li ho digeriti nel
grande calderone del romanzo, usando il termine in senso di contenitore gigante
e non nel suo senso spregiativo. Ora ho bisogno di qualcosa di più leggero per
distendermi. Ultima nota: avevo collocato il libro nello scaffale dei gialli.
Adesso l’ho spostato in quello dei romanzi.
“Je ne sais pas si ce sont
les écrivains qui sont seuls ou si c’est la solitude qui pousse à écrire…” [Non
so se sono gli scrittori ad esser solitari o è la solitudine che spinge a
scrivere…] (179)
« Marcus
… écrivez parce que c’est le seul moyen pour … faire de cette minuscule chose
insignifiante qu’on appelle vie une expérience valable et gratifiante. » [Scrivi
Marcus … perché è il solo modo … per fare di questa minuscola cosa
insignificante che chiamiamo vita un’esperienza valida e gratificante.] (351)
John Irving “Hotel New
Hampshire” Bompiani euro 10
[A: 05/08/2014 – I:
05/02/2016 – T: 22/03/2016] - &&&&
[tit. or.: The Hotel New Hampshire; ling. or.: inglese; pagine: 447; anno 1993]
Secondo
le dottoresse dei libri, questo romanzo potrebbe aiutare ad avvicinare il
vostro partner (femmina) alla lettura. Ora, fatto salvo che è un buon libro,
pieno di invenzioni, lo ritengo tuttavia un libro difficile, per entrare a
pieno nello spirito di una lettrice neofita. Irving è sempre stato, nelle prove
che ho letto (e soprattutto ne “Il mondo secondo Garp”), uno scrittore pieno di
immagini, ma di immagini non sempre facilmente decifrabili. In Garp, ricordo le
parossistiche scene proto-femministe, la sessualità come lussuria, la morte del
secondo figlio di Garp. Ma qui parliamo dell’Hotel e non di Garp, un libro
scritto tre anni dopo il precedente. Anche qui, forse in maniera più palese,
c’è il percorso di crescita. Nella fattispecie la crescita, corale e personale,
della famiglia Berry, dall’incontro tra Win e la futura moglie, sino ai
quarant’anni dei figli maggiori. Cioè dal ’39 al ’80, circa (così come Garp si
estendeva dal ’42 al ’75). L’impronta a tutta la famiglia viene data dal padre,
Win, un estremo sognatore, che si butta a capofitto nelle imprese più folli e
disperate, uscendone spesso malconcio, ma sempre pronto a ripartire. Per
pagarsi l’Università si mette a fare il cameriere in un albergo a Dairy nel New
Hampshire, dove incontra la futura moglie, anche lei lavorante nell’albergo e
Freud, un saltimbanco austriaco che gira l’America con un sidecar ed un’orsa.
Decide allora di comprare l’orsa, di sposare la donna, e di iniziare a girare
anche lui l’America per fare soldi. Non ne farà molti, ma ogni volta che torna
a casa mette incinta la moglie, che partorisce in tre anni Frank, Franny e John
(lo scrittore che narra la storia). A questo punto, approfittando della vendita
di una ex-scuola femminile, decide di indebitarsi, la compra e la trasforma in
albergo, l’hotel New Hampshire. Mentre fervono i preparativi per l’albergo,
muore l’orsa, sostituita dal cane Sorrow. Poi a distanza di qualche anno
nascono due nuovi figli: Lilly, che sarà affetta da nanismo, ed Egg, mago dei
travestimenti ed un po’ duro d’orecchio. L’adolescenza dei tre fratelli Berry
prosegue tra alterne vicende: Frank si scopre omosessuale, e ne vivrà
coscientemente la strada, anche se non sempre felicemente, Franny è la più
matura di tutti, ed anche la più avvenente, John, per distogliersi dal suo
morboso amore verso Franny si dedicherà con successo al sollevamento pesi. La
prima svolta avviene verso la metà degli anni ’50, quando il capitano della
squadra di football e due suoi amici violentano Franny, che impiegherà molti anni
a riprendersi (quello della violenza sulle donne è un altro dei temi cardine di
Irving). Muore Sorrow di vecchiaia, e Frank, per consolare la sorella, lo
impaglia. Ma lo nasconde nell’armadio del nonno, che, aprendolo
inavvertitamente, e vedendo il cane che suppone morto, viene preso da un
infarto e muore lui stesso. Pochi anni dopo, Win riceve una lettera da Freud,
tornato a Vienna, che lo invita nella sua città per mettere in piedi un altro
albergo. Ovviamente il sognatore non si tira indietro, vende tutto e tutti, e
comincia la nuova avventura. Come spesso nei libri di Irving, qui il destino ci
mette una zampa: Win ed i quattro fratelli maggiori partono ed arrivano a
Vienna, la Mamma ed Egg partono che un secondo aereo che si inabissa
nell’Oceano. Questo è appunto un altro tema forte dello scrittore: la perdita,
la sua elaborazione e la successiva ricostruzione. Il periodo viennese viene
vissuto dalla famiglia Berry come altro momento di crescita, anche se inserito
in un contesto demenziale. L’albergo ospita al secondo piano quattro simpatiche
prostitute ed all’ultimo un gruppo di fatiscenti “radicali”, che oggi
chiameremo terroristi e che impiegheranno i sette anni viennesi dei Berry per
costruire una bomba ed effettuare un attentato all’Opera di Vienna. In questi
anni austriaci, si radicalizzano i sentimenti dei nostri: l’omosessualità
discreta di Frank, la difficoltà di tornare alla normalità di Franny (che
troverà solo tra le braccia dell’accogliente Suzie, che si aggira per l’albergo
vestita da … orso), le impossibilità sessuali di John, che, seppur aveva
passato la soglia della verginità in America, non riesce a darne sfogo,
continuando ad essere ossessionato dalla sorella, la crescita (morale non
fisica) di Lilly, che, elaborando i suoi lutti, scrive un libro, che nel
futuro, campione di incassi e trasformato anche in film (come succede a tutti i
migliori romanzi di Irving) darà la tranquillità economica alla famiglia. Dopo
i sette anni di crescita, tra alti e bassi, i radicali costringono i Berry ad una
scelta. Diventeranno eroi salvando l’Opera, ma Freud morirà nello scoppio e Win
diverrà cieco. Però avranno i soldi per tornare in America dove si operano le
ultime vicissitudini dei nostri paladini. Lilly, pur cercando di scrivere, non
riesce a crescere, e si butta dalla finestra dell’albergo. Prima però i
fratelli Berry riescono a vendicarsi dello stupratore di Franny, e la stessa
decide di salvare sé stessa ed il fratello attraverso una cura di sesso che
dura un tempo lunghissimo, lasciandoli ad un futuro che finalmente libera
entrambi dalla perversa attrazione. Il mesto, ma tutto sommato allegro, finale,
vede i Berry comperare un nuovo albergo, anche se faranno solo finta, tanto Win
è cieco. Ma se lo possono permettere con i soldi di Lilly. Suzie trasferitasi
in America anche lei si dichiara ed è accettata da John, che vivrà con lei il
resto della sua vita. Franny sposa un ex-atleta di colore di cui era da sempre
innamorata (dai tempi del liceo direi). E via narrando. Ci vorrebbero
altrettante pagine per narrare tutti i risvolti immaginati da Irving per la
trama, i trabocchetti, i rimandi, i giochi di parole. Ed altrettanto ci sarebbe
da dire sui temi quasi autobiografici del testo: John diventa un campione di
sollevamento pesi e Irving (anche lui John) era una campione di lotta libera
all’Università; sia Irving che i Berry (ma anche i Garp) per un certo periodo
della loro vita si trasferiscono a Vienna. Ma tutte queste ed altre astuzie
letterarie e di storie le lascio a voi amati lettori, perché, nonostante
appunto l’intricata gestione delle storie, è un bel libro da scorrere, anche
lentamente se vogliamo. Io vi riporto solo un piccolo brano che John dedica al
fratello quando questi compie quaranta anni. Una poesia del poeta americano
Donald Justice, a me poco noto, ma mi si dice autore di belle righe da
meditare. Come queste: Men at
forty / Learn to close softly / The doors to rooms they will not be / Coming
back to. [Gli uomini a
quarant’anni / imparano a chiudere piano / le porte di stanze nelle quali / non
torneranno più]. Credo che al fine non sia il migliore tra i libri di Irving
(che tutti indicano in “Le regole della Casa del Sidro”, che non ho letto), ma
un libro che va in ogni caso letto, e ben ponderato.
“Leggere ad alta voce per qualcuno è uno dei
piaceri di questo mondo.” (415)
È
domenica, è la prima trama del mese, ecco le letture di luglio. Che sono poche
data la parentesi dei Parchi americani. Che non si discostano molto da una
onesta media, a parte l’interessante e da meditare libro di Savater,
#
|
Autore
|
Titolo
|
Editore
|
Euro
|
J
|
1
|
Richard Castle
|
Heat Wave
|
Repubblica Noir
|
7,90
|
2
|
2
|
Rosa Mogliasso
|
L’amore si nutre d’amore
|
TEA
|
9
|
2
|
3
|
Rosa Mogliasso
|
La felicità è un muscolo involontario
|
TEA
|
9
|
3
|
4
|
Danila Comastri Montanari
|
Ars Moriendi
|
Mondadori
|
9,90
|
3
|
5
|
Fernando Savater
|
Etica per un figlio
|
Laterza
|
8
|
4
|
Eccoci
ancora qui, in questo ottobre che già si preannunciava complicato di impegni e
di attività (fortunatamente italiche, che questo mese i viaggi riposeranno). E
che si va a poco a poco complicando più del complicato. Ma noi sapremo tenere a
bada le procellose spinte, e continueremo diritti per le nostre vie.
Nessun commento:
Posta un commento