domenica 12 marzo 2017

Etica per K.H. - 12 marzo 2017

Questa settimana ci dedichiamo ai saggi, e per fare onore a quelli che più ho apprezzato, ne ho messo nel titolo. Perché ho cominciato a luglio con “Ética para Amador” di Savater (che consiglio in toto) e terminato a gennaio con “Cambiare idea” di Zadie Smith, dove c’è un bellissimo mini-saggio su Katharine Hepburn. Nel mezzo, due onesti saggi, che potevano essere più interessanti ed incisivi, su viaggi verso terre insolite e viaggi verso parole insolite, quelle della lingua araba. Insomma, una settimana per pensare e farsi venire il mal di testa. Per poi curarsi leggendo l’allegato.
Fernando Savater “Etica per un figlio” Laterza euro 8 (in realtà, scontato a 6 euro)
[A: 01/10/2015– I: 10/07/2016 – T: 20/07/2016] - &&&& e ½
[tit. or.: Ética para Amador; ling. or.: spagnolo; pagine: 125; anno 1991]
Non ci si meravigli per la lunga lettura di questo breve testo. Il testo è breve, ma intenso, quando si parla di etica. Inoltre, stavo gironzolando con il mio gruppo avventuroso per i parchi americani, avendo ben poco tempo (ed energie) da dedicare alla lettura. Comunque è una lettura intrigante, scritta con un piglio tranquillo, a volte sanamente umoristico. Anche se, ed è ovvio, risente dei venticinque anni trascorsi dalla sua stesura. Sicuramente ci sarebbe esempi più “moderni” da portare a spiegazione delle affermazioni che costellano il libro di Savater. Ma l’impianto di base, le domande e le esortazioni di fondo sono e rimangono utili ed attuali. Qualcuno, parlandone e recensendone, ha tirato in ballo l’Etica aristotelica, quella postuma redatta dal figlio Nicomaco, quasi a fare un parallelo con questa che il filosofo spagnolo dedica al figlio Amador. Ma, paralleli a parte, forse il punto forte di convergenza è la visione che l’attività dell’uomo a per fine il bene, che il sommo bene è la felicità, che la felicità non è né può essere isolazionista, ma è solo in quanto condivisa. Quindi fare bene, essere felici, vivere una vita etica, porta a considerare il consesso globale in cui ci muoviamo, quindi, banalmente e forse riduttivamente, la politica. Intesa come lo sforzo comune affinché tutti si viva meglio. Facendo quindi salti su e giù per il libro, Savater ci porta a ragionare come per l’appunto l’etica non sia altro che il tentativo razionale di indagare su come vivere meglio. Vivere meglio qui, vivere meglio ora. Vivere la vita. Perché (e scusate se a volte riporto il pensiero di Savater non virgolettato, ma cerco di cavarne un mio sunto personale) quello che ci deve interessare non è tanto se ci sia o meno la vita dopo la morte, ma che ci sia anche (e sottolineo anche) prima. Qui siamo già in mezzo al guado, ed allora torniamo sulla riva, la prima, quella del primo capitolo, dove Savater ci spiega e ci fa comprendere che non è facile capire di cosa si occupi l’etica. Infatti la vera difficoltà consiste proprio in quella comprensione, che non arriverà neanche nell’ultimo capitolo, sul qual torneremo più avanti. Intanto, capiamo che etica implica la libertà di decidere cosa fare. Ma anche porsi delle domande, fondanti e difficili (e non solo per i giovani). Perché sto facendo questo? È bene quello che faccio? Perché bisogna essere responsabili delle proprie azioni, saperne accettare i premi e le punizioni. Nessuno può essere libero al posto nostro. Aprendo un inciso, perché, come si è detto sopra, etica è politica, come la mettiamo con le decisioni dei “politici” (questi sì tra virgolette, in quanto categorie di persone e non in quanto servitori del bene comune, servitori della “polis”), che fanno tutto per il loro tornaconto. Senza alcuna visione delle conseguenze, anche personali, di quello che si fa. Mi viene in mente un solo esempio, di un’illuminante nitidezza. Dopo aver preso delle decisioni personali che si sono rivelate sbagliate, ed hanno messo in difficoltà il proprio popolo, la propria nazione, il primo ministro islandese Sigmundur Gunnlaugsson si è dimesso. Non faccio altri commenti. Via via che leggiamo, capiamo sempre meglio alcuni facce dell’etica. Abbiamo detto etica come libertà, ma anche etica come scelta. Come negli scacchi dobbiamo sempre cercare una mossa che ci consenta più sviluppi, così le nostre scelte devono portare all’apertura e non alla chiusura. Perché Savater ci esorta fino alla noia di non chiedere ad altri come vivere, di chiederlo a sé stessi. Lo abbiamo visto in politica. Lo dobbiamo vedere anche nella sfera personale, nel sesso ad esempio. Sono e sarò sempre convinto che non c'è niente di male in quello che fa piacere a due persone e non danneggia nessuno altro. Anche se non si tratta di accanirsi a volere tutto insieme e subito, ma di trovare il lato piacevole di quello che si ha. Se si è liberi, se si è politici, se si è etici, come fin qui ci guida Savater, abbiamo quindi il dovere di rispettare la diversità delle forme di vita delle scelte personali. Tolleranza, rigetto del razzismo, dei nazionalismi, delle ideologie fanatiche, religiose e laiche, ne sono come i logici corollari. Finisco con un’ultima considerazione, che riassume, per me, il concetto sopra espresso, di etica e felicità. La vita umana è buona, è felice, se è tra esseri umani, se è condivisa, altrimenti può essere vita, ma non sarà né buona né umana. Ricordo infine che, utili per i giovani, ogni capitolo termina con degli spunti, con delle citazioni, con dei rimandi, utili per opportuni approfondimenti. Certo, alla fine, si lascia forse troppo peso sulle spalle dei giovani, e forse li si lascia troppo soli, nelle decisioni, nelle scelte. Ma se noi, adulti, si è fatto un percorso simile, consono, etico, forse consegue naturalmente che una persona in dubbio, in difficoltà, possa iniziare un colloquio. Proprio perché, domandosi di sé, non potrà fare a meno di non isolarsi. È certamente un libro, per com’è scritto, per com’è impostato, utile ed alla portata dei giovani che stanno attraversando gli anni più belli, ma anche più complicati, della loro vita. Ma è utile (come lo è stato per me) anche degli adulti, per riflettere su argomenti cui, magari, fino ad ora hanno dato peso ma non attenzione. Ed allora, con Savater, ripeto: “Abbi fiducia in te stesso”. Tu giovane, tu amico mio, tu mio distratto lettore.
“Non siamo liberi di scegliere quello che ci succede … ma siamo liberi di rispondere a quello che ci succede.” (10)
“Nessuno può essere libero al posto tuo.” (52)
“Il rispetto e l’amicizia che ci legano agli altri esseri umani sono per me … la cosa più preziosa al mondo.” (74)
“Bisogna essere capaci di lasciarsi andare al gusto del presente … questo non vuol dire … cercare oggi tutti i piaceri, ma … cercare tutti i piaceri dell’oggi.” (89)
Don George (a cura di) “Dove sono finito? (Storie inaspettate da luoghi inaspettati)” EDT s.p. (proveniente da via Tolemaide)
[A: 06/06/2015– I: 01/10/2016 – T: 21/10/2016] - && e ½ 
[tit. or.: Tales from Nowhere; ling. or.: inglese; pagine: 236; anno 2006]
Uno dei tanti libri recuperati dal trasloco “librario” dello scorso anno. Ma uno dei pochi che era rimasto non letto per anni. E che, devo dire, non ricordo neanche come e perché sia entrato tra gli scaffali. Posso solo ipotizzarne una provenienza viaggiante, visto che, benché in Italia sia edito da EDT, la fonte del libro è “Lonely Planet” e le sue pubblicazioni. E proprio da qui cominciamo, che l’editore italiano ha pensato bene di inserire un titolo “capzioso” (nel senso che cerca di catturare il lettore), che, probabilmente, sarebbe stato attratto anche da “Racconti da nessun luogo”. Che l’idea di LP, e del curatore Don George, era di chiedere a scrittori di viaggio di parlare del senso di spaesamento che si può provare quando ci si trova in un luogo “da nessun posto” (confesso che comunque, “nowhere” non è facile da tradurre). Tant’è vero che il sottotitolo è rimasto inalterato, almeno per farci capire di cosa stiamo parlando. Come sono rimasti inalterati i titoli dei brevi racconti, così che capiamo che, una volta comperato il libro, c’è poco interesse a fare i “capziosi”, meglio mantenersi sul sicuro. Purtroppo la lettura dei brevi “resoconti di viaggio” (che peraltro questo sono), non comunica quel senso di spaesamento che la prefazione pretenderebbe attraversare tutti gli scritti. Ci sono sì dei momenti in cui l’autore sembra non capire dove sia finito (da qui forse il titolo italiano), ma per lo più si parla di luoghi strani altri, in cui si è capitato, per caso o per scelta. Ma dove stanno i nostri trenta scrittori? Che per altro risultano a me abbastanza ignoti, a parte uno di cui ho amato un bellissimo libro di viaggi letto tanti anni fa. Parlo di Rolf Potts e del suo “Vagabonding” (e di certo capite come un titolo del genere non possa che starmi di molto caro). Dicevo stanno a Guandong (l’odierno nome di Canton), Timbuctu nel Mali, Perth in Australia, stradine dello Sri Lanka, strade montuose del nord Vietnam, un bar di fronte al lago Malawi, una passeggiata a Gerico, una chiesa nel Chiapas, lezioni di inglese a Beijing, una traversata atlantica su di un cargo, gli animali meravigliosi di un’isola subantartica, altre strade disastrate ma questa volta in Thailandia, giornate ventose nell’Isola di Pasqua, giornate abborracciate nella Slovenia appena liberalizzata, una visita nel “peggior paese del mondo”: la Guinea Equatoriale, la ricerca dei medici che diagnosticarono la SARS in Cina, l’uragano Katrina nella baia del Mississippi, un’intervista con una donna scampata ai lager nazisti in quel di Lidice nella Repubblica Ceca, una foto di gruppo da un villaggio azero, la visita agli orrori di Pol Pot in Cambogia, un ristorante un tempo famoso poco distante da Mosca, in quel di Valdaj (e qui ci ritorniamo), alcuni giorni nella polinesiana isola di Pig, un abborracciato museo in Kansas, un viaggio metropolitano nel cuore di Londra, per trovare Kensington abitata da immigrati arabi e asiatici, una cena a Hat Yai in Thailandia, dal ritorno dalla Malaysia, un safari nel Botswana, una gita in Toscana, un perdersi (come solo sanno fare gli americani) nella Death Valley, una jeep rotta alle pendici del monte Kenya, un ultimo giro di barca nel Borneo. Spero di avervi fatto fare anche a voi un bel “giro del mondo”, con queste toccate qua e là sul mappamondo. Riprendo solo al volo il ristornate e la gita a Valdaj, per ricordare che se ne parla in un libro non famoso (il “Viaggio da San Pietroburgo a Mosca” di Aleksandr Radiščev del 1790) che ha il pregio di aver messo i primi mattoncini di tutto quello stravolgimento planetario che cominciò allora pian pianino, e che solo 200 anni dopo si è fermato. Bello spaesamento, nevvero?  Che è poi quello che ho fatto io, anche se non mi sono perso, e delle trenta mete “spaesanti”, ne ho toccate già 20! Forse l’unico commento serio potrebbe essere indagare su quel senso di comunità che io sento, insieme a gente di tutti i colori, a gente che proviene da ogni dove. Possono essere cristiani o indù o musulmani o ebrei o pagani o atei. Possono essere giovani o vecchi, uomini o donne, soldati o pacifisti, ricchi o poveri. Con tutta questa gente condivido valori comuni di umorismo e di comprensione reciproca. Insieme a loro non mi preoccupo di razza, di fede, di sesso o di nazionalità. E neanche e soprattutto di nessun atteggiamento “politicamente corretto”. Siamo sempre una minoranza vagante, ma in fondo una nazione potente, se avessimo il senso di essere una nazione. Siamo quelli sempre felici se montano su di un aereo, se entrano in un vagone ferroviario. Siamo la nazione del “nessun luogo”. Peccato che il libro non riesca ad esprimerlo.
“Avevano acceso un falò attorno al quale si stava riscaldando un gruppo di uomini, tra cui molti membri del gruppo musicale tuareg dei Tinariwen.” [allora, Emilio?] (11)
“Si impara guardando e ascoltando, non parlando. Per questo abbiamo due occhi, due orecchi ed una sola bocca (proverbio vietnamita).” (32)
“Cercavo un posto sereno, senza arrivi né partenze.” (219)
Alessandro Vanoli “Storie di parole arabe” Ponte alle Grazie s.p. (regalo di Silvia)
[A: 25/12/2016 – I: 27/12/2016 – T: 30/12/2016] - && +
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 145; anno 2016]
Come ormai sapete, i regali ed altri omaggi “fuori contesto” vengono messi in una lista prioritaria di lettura, poiché ho piacere che il mio giudizio ritorni all’omaggiante prima che questi si sia scordato di avermi fatto un regalo. Così, solo per ordine di pagine, inizio le letture post-natalizie da questo dono di Silvia, al solito dedita alla ricerca di libri particolari. Come questo, in effetti, da cui, tuttavia, dal titolo e dal contesto mi aspettavo qualcosa di più e qualcosa di diverso. Il saggio è agile, l’autore (non ancora cinquantenne, beato lui) scrive in modo facile e sufficientemente accattivante. Tuttavia prima di leggerlo mi aspettavo vuoi una disamina di parole e di come esse possano influenzare il modo di vedere e di sentire del mondo arabo, vuoi un’analisi delle contaminazioni che le parole di origine araba anno indotto nel nostro modo di parlare. Certo questa sarebbe più propria di un libro magari intitolato “Arabismi”, con il quale, secondo una traccia che l’Enciclopedia Treccani ci fornisce in modo sintetico ed esauriente, si poteva individuare il nostro parlare attraverso l’arabo. Mi vengono in mente, citando alla rinfusa e pescando nel mondo siciliano (uno dei più vicini e più a lungo a contatto con la cultura araba) toponimi vari come Racalmuto (da “rahl” casale), Calatafimi (da “qal’a” castello), Gibellina (da “Jabal” monte) fino a Pantelleria (da “bin’t al-rayi” figlia del vento). Ma sarebbe un elenco bello e compendioso che può spaziare dall’algebra (“al-giabr”) ai facchini (“faqih”), dagli alimenti (albicocche “al-barquq”, carciofi “kharshuf”, arance “narangia”, limoni “limum”, asparagi “aspanakh”, zibibbo “zabib”, zucchero “sukkar”, zafferano “za’faran”) che trasportavano le carovane (“carwan”) sino al signorotto che seduto sul divano (“diwan”) giocava a scacchi (“schiah”) sorseggiando caffè (“kahvé”). Ma non è questo il libro di Vanoli, che, subito dalle prime righe, ci porta in altro contesto, come dice il sottotitolo (“Il racconto di un mondo mediterraneo”). Perché non si parla solo e soltanto di parole arabe, ma di parole che associamo al mondo arabo, e che tuttavia vengono, nascono, maturano, anche in altri contesti. Il percorso di Vanoli è sì circolare, che parte dagli arabi e finisce nel mare, ma è un percorso (direi ad ostacoli) che ci narra di elementi del contesto. A volte, purtroppo, sembra quasi una riproposizione dotta e meglio elaborata di schemi provenienti da Wikipedia. Certo si parte da una grande affermazione, condivisibile e spesso dimenticata. Quella che confonde, soprattutto ora nel nostro presente storico, arabi e musulmani. Arabi ce ne sono tanti, spaziando dal Marocco all’Indonesia, ma è una questione di lingua e non di religione. Quanti ne abbiamo incontrati nella nostra vita viaggiante di cristiani arabofoni? La religione è invece l’islam (come dice bene e con correttezza il Corano), una parola dalla radice “slm”, la stessa di pace (“salam”), che in questa forma significa “sottomissione”. Ciò che si sottomette, che segue, la vera religione. Da qui si parla della scrittura utilizzando il calamo (parola d’origine greca, e di cui ricordiamo la favola dell’amore gay tra Calamo figlio di Meandro e Carpo) e citando la bellissima “Sura del Calamo”, si parla degli idoli (anche qui dal greco “eidolon” simulacro) e del loro sostituirsi al vero dio (con tutta la propaggine di iconoclastia che ne è derivata nel tempo). Viaggiamo per le oasi del deserto, anche se in antico Egitto oasi era un nome proprio del sito di Dakhla, con la parola derivante dal copto “ouahe”. Oasi dove riposavano i beduini, questo sì un forte derivato arabo, da “bedawiyyin”, cioè abitanti del deserto). Avrebbe avuto necessità di migliore e più approfondita analisi l’hammam, che nasce storicamente fin dai tempi dei greci (o almeno i greci sono i primi ad istituzionalizzare una pratica presente nell’antichità fin dai tempi faraonici) per poi passare a modalità irreggimentate con i calidarium romani (nonché i suoi frigidarium e tepidarium), tanto che il termine “spa” si fa derivare dal “salus per aquam”. Ma sarà il mondo arabo, e poi quello turco in particolare a far diventare questi bagni un elemento cardine della vita sociale. Si passa poi a termini architettonici, quale minareto (da “manar” faro), o le coperture alle finestre (siano esse persiane o veneziane) che separano interno ed esterno. Ad alcuni termini gastronomici (pepe e zafferano). Per terminare con i tulipani (e sarebbe bello anche qui potersi introdurre nella famosa bolla speculativa dei tulipani nell’Olanda del 1600) e con il divano. Che non è altro che un elenco, che poi diviene un luogo dove si ascoltano elenchi di cose (lagnanze o merci) seduti comodamente. Tanto che il luogo prende il posto della funzione. Inciso, da “diwan” deriva anche un elemento della nostra frontiera, la dogana (diwan à doan). Terminando come dicevo all’inizio (circolarmente e vi spiego perché) con il mare. Cioè con quel Mediterraneo, che tanti nomi ebbe nella sua storia, da Mare Nostro (perché era l’unico conosciuto) a mare Bianco (che era il colore del sud), fino a consolidare questo “Medium terrae” cioè che sta tra le terre. Che proprio gli arabi solcarono abilmente nel momento del massimo fulgore (ecco la fine del cerchio). Mare che sta tra le terre note, tripartite e tridivise, tra le terre dei discendenti di Noè: i giafetici in Europa, i semitici in Asia ed i camitici in Africa. Purtroppo l’analisi di Vanoli è troppo rapida, soprattutto in quest’ultimo passo che ben altra andatura ha avuto (anche nella mia mente lettrice) nei bellissimi libri di Predrag Matvejević (“Breviario Mediterraneo”) e Fernand Braudel (“Il Mediterraneo. Lo spazio e la storia, gli uomini e la tradizione”). Spero che queste righe vi abbiano incuriosito abbastanza per andare ad approfondire i vari elementi, e magari per convincermi a riprendere gli “Arabismi” sopra citati.
Zadie Smith “Cambiare idea” Minimum Fax s.p. (regalo di Alessandra)
[A: 25/12/2016– I: 13/01/2017 – T: 25/01/2017] - &&& e ½ 
[tit. or.: Changing Minds: Occasional Essays; ling. or.: inglese; pagine: 387; anno 2010]
Altro libro entrato come regalo durante il festoso Natale, e per questo presto letto. Anche se con lentezza, non tanto per la mole di pagine, ma per la loro densità. Questi saggi occasionali (come sottolinea il titolo inglese) della scrittrice britannica spaziano dalla letteratura al cinema e dal quotidiano di nuovo alla letteratura, offrendo non pochi spunti di riflessione. Allora perché non qualche libricino di gradimento in più? Perché ci sono parti che sembrano un po’ riempitive e che danno al tutto un carattere leggermente disomogeneo rispetto a quanto servirebbe per un saggio ben organizzato. Penso ad esempio al reportage sulla Liberia, interessante per alcuni spunti sulla vita quotidiana in quella sperduta parte africana (una delle tante dell’Africa Centrale che ancora non ho visitato), ma con poco ritorno in pensieri e meditazioni. Intanto ritorno dopo quasi dieci anni alla scrittura dell’anglo-giamaicana Zadie, anche con piacere, visto che il primo libro che di lei lessi mi piacque anche se non mi entusiasmò. Con il piacere dato proprio dalla molteplicità degli spunti che queste pagine sparse fanno nascere. Fin dall’idea iniziale, quella che voleva come titolo “Fallire meglio”, in omaggio alla frase di Beckett “Try again. Fail again. Fail better” (Prova ancora. Sbaglia ancora. Sbaglia meglio). Titolo che, in corso e finale d’opera è poi diventato “Cambiare idea” perché gli scrittori, e noi con loro, non devono aver paura di cambiare idea. Cambiare idea su come scrivere, cambiare idea su cosa scrivere, cambiare idea su cosa vedere. Anche cambiare idea sul libro che, dalla copertina, pensavo parlasse di Spencer Tracy, mentre poi scopre (e con piacere) che invece parla di Katharine Hepburn. Ma anche di Anna Magnani e di Greta Garbo, di momenti intimi della sua vita famigliare e dei fastosi soggiorni a Los Angeles durante la settimana degli Oscar; e parla molto di letteratura, e di scrittura, finendo in crescendo con degli acuti mini e micro saggi su Franz Kafka, su Vladimir Nabokov e su quello che lei preferisce (ma su cui torneremo più avanti) David Foster Wallace. Il libro si apre con il saggio “Sentirsi del mestiere”, nato da una conferenza alla Columbia University, dove Zadie Smith racconta agli studenti del corso di scrittura i vari momenti della gestazione di un libro, del diverso modo che hanno gli scrittori di affrontare la pagina, del momento in cui si passa dal panico di non scrivere a quello di scrivere troppo. Qui, ma anche in altri punti, Zadie da un consiglio fondamentale: che siate scrittori o meno, leggete, che le parole altrui sono molto importanti. Anche se, ma questo è il mio vissuto, spaventano: ti danno la sensazione che sia stato scritto tutto. Ed allora perché farlo ancora? Poi si cambia registro, ed io mi immergo in una delle sezioni più belle e sentite. Il cinema, Katharine, Greta. Ma su tutto e su tutti, il ritratto di Anna Magnani e della genesi di “Bellissima”, un film capolavoro, che dovreste vedere (o rivedere). Non è spiacevole, anzi è molto coinvolgente, anche il passaggio personale, i ricordi familiari, la rivisitazione della figura del padre dalle molte vite. Nonché quell’ombra di fratello che passa sulle pagine e resta sul palcoscenico. Poi si finisce con le sezioni dedicate direttamente ai libri. A Zora Neale Hurston ed a “I loro occhi guardavano Dio” (che se avrete pazienza tra qualche mese verrà a condire le mie trame). A E.M. Foster, a George Eliot, a Nabokov, a Kafka. Come detto poi, si finisce con una lettura, lunga, bella, appassionata, di David Foster Wallace e del suo “Brevi interviste a uomini schifosi”. Un saggio che mi è piaciuto, che secondo molti già vale l’acquisto del libro. Peccato però che io non riesca, da sempre, a leggere nulla del compianto David. Sarà la morte che mi spaventa, soprattutto quella vicina. Sarà il fatto di averla scelta e non subita. Non so, ma non sono ancora riuscito ad aprirne una pagina. Speriamo che Zadie mi convinca. Come, alla fine, mi ha convinto a cambiare idea. Non sulla letteratura, ma su Spencer Tracy, un attore che da sempre ho ammirato per la bravura, ma che, devo riconoscere con la nostra scrittrice, è stato non poco “stronzo” nella vita reale. Fortuna che Katharine era bella ed intelligente per tutti e due. Ed io mi metterei a leggere e rileggere quanto ne scrive Zadie a proposito di quel film che, personalmente, mi fece innamorare di lei. “Susanna” con lei e Cary Grant. Se non lo conoscete, è un film culto, da ricordare per quella camminata sincronizzata che ha fatto la storia del cinema. Grazie Zadie, bastava questo per farmi innamorare della tua scrittura. Poi si è aggiunto il fatto che il libro me l’ha regalato Alessandra. Beh, ho finito le parole!
“La possibilità del piacere fra due persone non può far passare in secondo piano la certezza del dolore altrui.” (139)
“Non sono mai stata capace di sopportare la vista di qualcuno che sale su un palco e ci lascia le penne, figuriamoci poi se è un mio parente di sangue.” (202)
“La vita è infinita, finché non si muore – Edith Piaf.” (210)
“Con i mariti la terza volta è quella buona.” [e con le mogli?] (221)
“Il bene che ci sforziamo di raggiungere non dovrebbe essere altro che ciò che sappiamo con certezza che ci sarà utile.” (257)
“Oggi capisco che il vero motivo per cui leggo è che voglio sentirmi meno sola.” (283)
Seconda trama del mese, quindi vi meritate il solito allegato dei libri curativi. Che essendo cripticamente dedicato al mal di testa, ho unilateralmente elevato ad omaggio ad uno dei primi autori usciti dalle mie trame, il francese Maxence Fermine (sperando che vi sia noto, altrimenti leggete quello che ne scrivo).

Anche qui, i misteriosi modi che assegnano viaggi fanno sì che mi ritrovi una “gita” in Israele tra fine maggio ed inizio giugno. Ancora è presto per dire se si concretizza, ma io sono sempre interessato a tornare in quei luoghi, vederne bellezze, e rattristarmi per l’involuzione dei rapporti umani. Ma tutto questo è di là da venire.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

MARZO 2017
Devo dire che questo mese le mie libropeute sono particolarmente criptiche, tanto da farcelo venire a noi.

MAL DI TESTA

Maxence Fermine         “Neve”
Neve, capelli, fuoco.
Ghiaccio, letto cieco.
Mente pura.

Bugiardino

Ripeto, mi sembra uno dei commenti più oscuri che abbia mai incontrato. Tanto che, per farmi perdonare, invece del solo “Neve”, vi butto lì tutta la “mia” trilogia di Fermine. Un autore che mi fu consigliato (e praticamente imposto) da una mia cara amica, che ancora ringrazio per tutti i consigli che mi ha dato, sperando che io sia riuscito a restituirne qualcuno.
Trittico di Fermine
[pubblicato l’11 giugno 2007]
Indeciso tra il dire e il fare, l’andare e il venire, per rompere il cerchio ed anche esorcizzare le paure, mi dedico a un trittico.
Tre libri che da ben lungi ho letto, ma che non mi sentivo pronto per condividerli.
Tre aspetti diversi ma collegati dell’amore e della visione di vita.
Unificati, comunque dal fatto di essere stati scritti dallo stesso autore, Maxence Fermine.
Forse hanno un senso anche nell’ordine della scrittura. Per me hanno significato nell’ordine della lettura.
Primo venne
“L’apicoltore” Bompiani euro 9
Ambientato nella Francia del Sud, alla fine dell'800. Il giovane Aurèlien si dedica alla raccolta del miele insieme ai due amici Lèopold e Pauline, una ragazza segretamente innamorata di lui. Sconvolto dal fugace incontro con una donna di colore, Aurèlien decide di partire per l'Africa, alla ricerca dell'oro. Sarà un viaggio pieno di avventure e rischi, al termine del quale, ritornato in Francia, il giovane scoprirà il vero oro. Lieve come un sorriso. Scorrevole come una favola. Dove riusciremo a trovare concreti i nostri sogni?
Alla fine, più che un disegno unico mi sono sembrati tanti piccoli quadri che scivolano verso la costruzione della propria vita.
“Ebbe l’intuizione che si ha in punto di morte: la vita è appesa a un filo. Un filo d’oro tessuto dai giorni, in cui si capisce che il bisogno di placare la propria sete sarà sempre più forte del piacere di bere.”
Con il secondo passiamo in quel di Giappone con
“Neve” Bompiani euro 9
Fine Ottocento. Yuko, diciassettenne ribelle, lascia la famiglia per diventare poeta. Ma la sua poesia, dedicata interamente alla neve, è troppo bianca, e per imparare a darle colore Yuko deve seguire gli insegnamenti del vecchio poeta Saseki, ormai divenuto cieco. Saseki, attraverso il racconto della sua passione per Neve, una ragazza bellissima venuta dall'Europa e scomparsa mentre cercava di attraversare un precipizio sospesa su una fune, insegna a Yuko la forza e la potenza dell'amore. E con questo insegnamento Yuko diverrà non solo un grande poeta ma - cosa più importante - un essere umano capace di amare.
La poesia come pittura delle parole. Come insegnano gli haiku, eliminare tutto per arrivare all’essenza. Con un finale di speranza, mista ad un velo di tristezza.
Il mio trittico si è chiuso con
“Il violino nero” Bompiani euro 9
Ecco la musica irrompere a Venezia. Johannes, genio musicale precoce, rimane ferito nel corso della campagna napoleonica in Italia. Accolto e curato dal liutaio Erasmus, il giovane apprende nuove notizie su Carla Farenzi, una misteriosa dama fugacemente incontrata tempo prima. Il liutaio gli rivela poi il segreto di un violino nero, da lui stesso costruito, che canta con la voce suadente e incantatrice della donna. Dopo averlo sentito suonare la vita di Johannes, come uomo e come artista, resterà incatenata a quella di Carla Farenzi. Questa volta c’è solo disperazione, anche se con tanto amore: coltivare il proprio, sempre e comunque, a dispetto delle avversità. E se si rimane solo con il proprio amore, se è amore, è comunque più di molto altro.
“Era un grande musicista: sapeva ascoltare e sapeva sentire”
Forse un trittico che finisce in tristezza (ed è per questo che ho impiegato quasi un anno a digerirlo). Ma di quella tristezza di cui sono fatti i sogni al mattino, poco prima dell’alba. Tristezza più per il doversi svegliare che per il sogno in sé.

Conclusioni

Sono sicuro che il mal di testa ha altri e più allopatici rimedi. A voi, lascio scervellarvi per saper dell’autore e delle sue lievi scritture. Con la certezza che i prossimi mesi si passerà a curare malanni più seri.

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