sabato 18 marzo 2017

Europa: N vs O - 18 marzo 2017

Sì, una lotta titanica tra un rappresentante dell’Europa dell’Ovest, che ha sempre scritto come se fosse ad Est, l’ottimo e compianto Saramago verso due campioni del nord Europa, l’inglese Barnes, sempre presente a livelli molto alti, e l’islandese Helgason, letto per affezione alla sempre cara isola del Nord. Un quasi pareggio, con delle ottime punte (e spunti) di lettura.
Julian Barnes “Il pappagallo di Flaubert” Einaudi euro 12 (in realtà, scontato a 9,60 euro)
[A: 19/10/2015– I: 01/10/2016 – T: 04/10/2016] - &&&& e ½  
[tit. or.: Flaubert’s Parrot; ling. or.: inglese; pagine: 225; anno 1984]
Ne avevo a lungo rimandato l’acquisto prima e la lettura poi, quasi temendo di trovarmi di fronte ad un pastiche illeggibile sulla vita dello scrittore normanno. O, peggio, ad uno scritto che partisse tangenzialmente verso lidi altri. Poi è venuto “Il senso di una fine”, il mio affetto per il Barnes scrittore, nonché, ultimo tassello ma importante come ogni altro, il fatto che Barnes sia nato a Leicester. Qualcuno se ne domanderà la ragione, e qualche d’un altro darà la risposta giusta. Colloco comunque questo scritto tra gli autori moderni maschili, anche se è un pastiche non molto etichettabile in un solo genere. C’è, ed è molta, ed è foriera di pensieri nuovi e riflessioni profonde, la vita e l’opera di Gustave Flaubert. Ricca anche di aneddoti, di momenti vissuti, di elementi (noti o ignoti) che contribuiscono a disegnare un ritratto a tutto tondo dello scrittore di Rouen. Ma anche, e qui sta la mia ammirazione per l’autore, impostata come racconto “altro”. La finzione si impernia su di un dottore inglese da poco in pensione, da sempre ossessionato e appassionato di Flaubert, con una moglie (adorata) morta da non molto e tanto tempo libero. Per cui il nostro Geoffrey comincia ad approfondire questa passione, e a scriverne. Mescolando ricordi, storie della propria vita, viaggi verso la Francia e la Normandia, con spunti della vita di Flaubert, non disdegnando anche di utilizzare elementi eterogenei per far risaltare meglio la passione del supposto autore e la figura dello scrittore da analizzare. L’elemento scatenante il romanzo è la presenza di due diversi pappagalli impagliati, nei due luoghi deputati a Flaubert nei luoghi che di questi videro trascorsi la maggior parte della vita in quel di Rouen e dintorni. Quale sarà il “vero” pappagallo, quello che serviva da ispirazione e mentore allo scrittore mentre questi componeva il racconto “Un cuore semplice”, lì dove un pappagallo era il fulcro della vicenda che narrava la storia, semplice e squallida, della povera Félicité? Da questa domanda, e dalla inusuale risposta che ci verrà fornita solo alla fine del libro, si dipana il flusso discorsivo di Geoffrey. Che parlando di sé, dei suoi viaggi tra l’Inghilterra e Rouen, del suo amore per i formaggi francesi (ah, se lo capisco), del suo lavoro di medico (analogo a quello dei due Achille di casa Flaubert, il padre ed il fratello maggiore), del suo amore per la moglie Ellen, e delle libertà che questa si era presa nella sua breve vita, pur rimanendo sempre di fondo a lui fedele, ci porta in realtà nel mondo dell’idiota di famiglia, come direbbe una persona colta che ha letto Sartre. E andando su e giù per il mondo flaubertiano, ci presenta l’autore, la sua vita e le sue opere, da quella angolazione minore. Dicendo, narrando, a volta affondando il bisturi nella carne viva dello scrittore francese. Con alcuni momenti per me epici di scrittura: le tre possibili vite di Flaubert, l’esame universitario su lui e sulle sue idee. Vediamo, intuiamo, Flaubert ed il suo rapporto con le donne. A cominciare dall’amata e mai lasciata madre, che condizionerà tutta la vita. Ma per passare presto ai suoi amori (M.me Schlesinger che forse lo svezzò, la governante inglese Juliet, le prostitute egiziane, da cui prese la sifilide), per concentrarsi sul lungo rapporto con una gran bella donna del tempo, Louise Colet. Bella e libera, sposata, ma subito in amore con il filosofo Victor Cousin, che lascia per una lunga e tormentosa storia con Flaubert. Durata 8 anni, ed interrotta per l’arrivo di un nuovo amore, Alfred de Musset. Poi anche questo finirà, e la nostra dama continuerà a mietere successivi d’alcova per alcuni anni in Italia (pare abbia avuto anche una notte con Garibaldi). Ma qui ritorniamo al suo rapporto tempestoso con Flaubert, che per lei prendeva addirittura il treno onde incontrarla a mezzavia tra Rouen e Parigi (non avendola mai voluta fare entrare nella casa materna di Rouen). E dalle parole stesse di Louise capiamo, forse, molto dello spirito strano del nostro scrittore. Che viaggiò molto, anche in Oriente, soprattutto con l’amico Du Camp (che sosteneva, a ragione, che Flaubert amava l’idea del viaggio più che il viaggio stesso). Che ebbe un’intensa vita sessuale, anche omo con Louis Bouilhet, tanto simile a lui nella figura da apparire talvolta in fotografie come se fosse il “vero” Gustave. Che era misantropo. Che era maniacale in tutte le sue espressioni. Ed in controluce, citando pezzi, passi, momenti, escono fuori anche le opere di Flaubert. “Madame Bovary” con le sue citazioni velate ma non nascoste (una su tutte, Emma consuma l’adulterio in una carrozza, così come spesso avevano fatto Gustave e Louise). I racconti e gli aforismi. I ricordi orientali di “Salammbô”. Fin a quel libro incompiuto, quel “Bouvard et Pécuchet”, che si ricorda nei miei personali passi, quando nei miei trenta decisi che andava letto, e che lessi a dispetto di mogli, amici ed altri a me vicini che di questa lettura mi presero (e mi prendono ancora) in giro. Un libro che mi ha aperto uno spiraglio sul mondo di Flaubert che conoscevo solo di taglio, che mi ha incuriosito, facendomi approfondire luoghi e personaggi che non conoscevo (soprattutto Louise), pieno di parole, come spesso i libri di Barnes. Una lettura intelligente e stimolante. Che altro volere di più, a meno di non essere il pensatore americano Logan Pearsall Smith che cito qua sotto.
“L’unico sogno della democrazia – scriveva Flaubert – è quello di elevare il proletariato al livello di stupidità raggiunto dalla borghesia.” (93)
“Gustave, in un saggio su Rabelais, elenca i misfatti della civiltà moderna: ferrovie, fabbriche, farmacisti e matematici [sic!!].” (122)
“Questo distingue sul serio le persone: la differenza non è tra chi ha segreti e chi non ne ha, ma tra chi vuol sapere e chi no.” (144)
“Se il seno è piatto, si è più vicini al cuore (Louis Bouilhet).” (176)
“La gente dice che ciò che conta è vivere; io preferisco leggere (Logan Pearsall Smith).” (198)
Hallgrìmur Helgason “101 Reykjavík” Faber & Faber euro 20
[A: 24/06/2016– I: 01/07/2016 – T: 01/11/2016] - && e ¾   
[tit. or.: 101 Reykjavík; ling. or.: islandese; pagine: 370; anno 1996]
Fin dalla prima volta che sono stato in Islanda, cercando tra i libri che vengono citati come tipici della letteratura isolana, mi sono imbattuto nella citazione di questo libro. L’ho quindi cercato a lungo nelle librerie italiane, dove risultava tradotto anni fa ma ben presto uscito di produzione e senza scorte trovabili in vari magazzini. Benché poi ne sia stato anche tratto un film, diretto dal cineasta islandese Baltasar Kormákur, e di discreto successo (vincitore tra l’altro del premio giovani al Festival di Locarno). Questa volta, nella fornitissima libreria di Akureyri, ne ho trovato la versione inglese. Visto che, in ogni caso, ne avrei letto una traduzione, e nonostante il costo sia fuori dai miei canoni abituali (ma l’Islanda è costosa in tutte le sue manifestazioni), ho deciso di comperarlo. Non vi stupite, però, che abbia impiegato quattro mesi a leggerlo. Non tanto per la lingua in sé (certo leggere in inglese non sottintende la stessa velocità di una lettura in lingua madre), quanto perché è pieno di citazioni in slang, che ne hanno rallentato alquanto la lettura. Certo, ho anche imparato cose nuove (e non so se utili), come i nomi di molte parti del corpo femminile e maschile, nonché il modo colloquiale per indicare droghe e preservativi. Ma il risultato finale, non nego interessante, mi ha lasciato un filo perplesso. Facciamo comunque un passo indietro. E parliamo di Hallgrìmur. Senza patronimico, che in Islanda si chiamano tutti per nome. Inciso: in Islanda sono ammessi 1785 nomi maschili. Se vuoi dare un nome non compreso nell’elenco, devi chiedere l’autorizzazione al “Icelandic Naming Commitee”. Comunque il nostro nasce come pittore, anche di una certa rilevanza, poi conduttore radiofonico, e solo dopo i trenta anni comincia anche a scrivere. Tra l’altro ha il nome del grande cantore di inni cui è stata dedicata la bellissima chiesa di Reykjavík (la Hallgrímskirkja). Lavorando alla radio, tira fuori questo personaggio, Hlynur Björn, come epigono dei ragazzi islandesi, alla ricerca di un’identità, dopo tutte le rivoluzioni avvenute nel 1989 (la serie alla radio comincia proprio nel 1990). Sei anni dopo decide di dare una sistemata al personaggio, inserirlo in una storia, e proporci una visione scanzonata ma fedele (almeno nelle sue intenzioni) della vita islandese. Che poi, al di là della storia, invero molto lineare, l’intento dell’autore è quello di farci vivere momenti islandici dei giovani trentenni (e di come vedono il loro mondo). Dicevamo la storia. Hlynur vive con la madre Berglind dopo che questa ha allontanato il padre alcolizzato (che tuttavia è un brav’uomo, a parte la troppa birra). Berglind scopre di essere innamorata di Lolla, una consulente degli Alcolisti Anonimi, tra l’altro bisessuale. Prima che Lolla venga a vivere con i due, lei e Hlynur finiscono a letto. Ma è solo un episodio. Perché a questo punto la nostra attenzione si incentra su Hlynur. Che vive con il sussidio di disoccupazione (cosa assai frequente nei paesi nordici), che ogni tanto si accompagna con qualche donna (conservando come trofeo i preservativi usati, terribile!), e che, per la maggior parte del tempo guarda film prono di scarsa qualità, fa uno zapping ossessivo alla televisione e si masturba. Anzi è un teorico dell’onanismo, quando Hlynur passa ore e ore nudo in bagno; anche di masturbazione cerebrale, esemplificata dalla sua abitudine di associare ogni donna che vede a un ipotetico compenso in corone islandesi che sarebbe disposto a pagare per farsela. Lo vediamo avere un breve rapporto con Hofy (così chiamata perché sarebbe un po’ complicato chiamarla sempre Hólmfrídur Pállsdottir), subito interrotto quando lei rimane incinta, lo accusa di aver usato un preservativo scaduto, poi purtroppo avrà un aborto spontaneo uscendo ben presto di scena. Lo vediamo chattare ossessivamente con l’ungherese Katarina, lo vediamo andare a Parigi per incontrarla, dove però scopre che è fidanzata, e tutti i suoi sogni vanno in fumo. Lo vediamo avere altri brevi incontri. Per poi piombare nella saga finale, quando Lolla rimane incinta (e lui pensa di essere il padre, ma non è così) ed i tre, Lolla, Berglind e Hlynur cercano di capire se potrà sussistere una coabitazione tra loro. Tra loro quattro, che alla fine nasce anche il piccolo Halldor. Ma la saga è tutta sul titolo. Quel 101, il codice postale della capitale, è che si riferisce ad una piccola zona della stessa. Con le sue due o tre vie principali, la piazza dove insieme agli islandesi ho vissuto il campionato europeo di calcio, il porto, e poco altro. Cioè poco altro e molti bar, dove i giovani, Hlynur e i suoi amici, scorrazzano sbevacchiando fino al mattino. Allora, la storia sembra dover molto al film uscito poco prima che Hallgrìmur cominciasse a scrivere. Mi riferisco a “Peccato che sia femmina” di Josiane Balanko. Ma la capacità dello scrittore è di mettersi nella testa di Hlynur e di sciorinarci fiotti di parole, di associazioni mentali, di salti logici. Riuscendoci a farne un ritratto da sobrio ma soprattutto sotto l’effetto della birra o dell’ecstasy. Il libro ha vent’anni, è probabilmente (almeno nella mia percezione) è un po’ datato. Tuttavia ogni volta che leggo delle sue camminate per Laugavergur o Hverfisgata, eccomi tornato nella magica isola. Il punto debole è che non riusciamo ad affezionarci a nessun personaggio (ed ho volutamente tralasciato sia la sorella di Hlynur con la sua famiglia normale, sia un approfondimento dei suoi amici). E ci trasciniamo verso una fine che non è né una fine né un nuovo inizio. Ripeto, però che ha il pregio di portarti lì in Islanda, e di farti sentire come se fossi anche tu uno sfigato trentenne. Vero Jón Frankson?
José Saramago “La zattera di pietra” Feltrinelli euro 9,50 (in realtà, scontato a 8,08 euro)
[A: 12/06/2015 – I: 02/11/2016 – T: 10/11/2016] - &&& e ½  
[tit. or.: A Jangada de Pedra; ling. or.: portoghese; pagine: 285; anno 1986]
Non amo particolarmente la scrittura di Saramago, che trovo spesso difficile, almeno per il mio leggere, tant’è che, insieme a Nabokov, è uno dei pochi scrittori di cui a volte ho abbandonato la lettura. Eppur tuttavia continuo a leggerne, sotto spinte diverse. Curiosità, temi trattati o altro. E sempre ne ho ritorni buoni. Come fu in “Cecità”. Com’è stato in questo più che datato viaggio di sospensione della realtà. In cui qualcuno ha voluto leggere (le mie biblioterapeute, ad esempio) uno stimolo per cinquantenni vogliosi di letture. Altri, come me, si sono lasciati trasportare dal duplice binario dell’autore. Concedendogli credito, e seguendolo, con interesse e curiosità, sino alla fine. Ho parlato di doppio binario, che nelle pagine del Nobel portoghese si notano le due storie intrecciantesi, ma con scopi e finalità ben diverse. C’è la storia delle persone, le due donne, i tre uomini ed il cane, che sono toccate e coinvolte negli eventi, ma che, bene o male, seguono anche un loro percorso, una loro costruzione, un loro scopo. E su queste torneremo. C’è poi l’evento scatenante, quello per il quale Saramago ci chiede la sospensione delle domande, ci chiede di entrare nella favola e lasciarsi trasportare. Perché, senza motivi spiegabili, si crea una frattura lungo i Pirenei, e la Penisola Iberica si stacca dall’Europa. Frattura che si ripercuote a sud, staccando Gibilterra dalla penisola. E questa zattera di pietra, scivolando tettonicamente nell’Atlantico, evita miracolosamente le Azzorre, poi si dirige verso sud, sistemandosi in mezzo, tra America ed Africa. Questa finzione serve allo scrittore per tutta una serie di strali politici ed etici. L’idea che Hispania (così si potrebbe chiamare l’isola ispano-portoghese) si stacchi dall’Europa, letta in questi momenti di crisi identitaria, è meravigliosa. Una Brexit ante-litteram però fisica. Vediamo il comportamento dei governi, le invettive, la politica. I tentativi nordamericani di crearne un ponte a loro favorevole, il comportamento stesso delle popolazioni. I turisti, i giornalisti, i commentatori. Tutti che non faranno altro che prendere cantonate, meritandosi le invettive corrosive del Saramago polemista. Che però sfrutta anche l’idea folle per cercare di rinsaldare i legami tra i due popoli. Ed il fatto che poi tutto si fermi lì, sulla via delle conquiste che gli stessi popoli fecero in Sudamerica, magari sfruttando da negrieri gli africani, è molto bella, stimolante ed immaginifica. Ma altrettanto bella, e più interessante per me da seguire, è l’epopea delle persone. Di Joana che tracciando una riga per terra con un bastone ha dato il via alla nascita della zattera. Di Joaquim che lancia un masso pesantissimo nell’acqua del mare, quasi a segnare una via alla navigazione. Di Maria che tesse un calzino che non ha mai fine e la cui lana servirà ad unire i nostri viandanti. Di José che viene seguito da uno stormo di uccelli sino a che non trova il suo spazio tra i viandanti. Di Pedro che sente, unico al mondo, la terra tremare, e la sentirà fino alla fine del viaggio, della zattera e suo. E del Cane che raccoglie gli sparsi viandanti, dà loro modo di riunirsi, e li condurrà, silente ma attento, per le strade ex-peninsulari. Fino ad allontanarsi quando il suo compito sarà finito. Il viaggio di questi umani uniti dal caso è quello che personalmente mi ha più avvinto, anche al di là della difficoltà di seguire la contorta prosa di Saramago. La ricerca della loro identità, la realizzazione dei propri obiettivi attraverso l’amore e l’amicizia. Il ruolo della donna che in Saramago non è mai subalterna, non è mai marginale, ma paritaria, con tutta la forza delle proprie convinzioni politiche. È bello vedere l’avvicinarsi prima di Joana a José, poi di Joaquim a Maria. La forza con cui entrambe le donne poi rivendicano il loro ruolo, le loro scelte. Insomma, un bel libro, difficile, giocato sui due piani. Seguiamo sempre tutte le loro peripezie, sia degli uomini compatti nelle loro avventure politico-etiche-geografiche, sia dei nostri eroi, della loro macchina (la mitica Due Cavalli), delle loro scelte, e di tutto quello che combinano. Di cui non vi parlo, lasciando a voi la voglia di scoprirlo. Ripeto, un libro difficile come lo sono spesso quelli di Saramago, ma che lascia dentro un mondo pieno di cose, vecchie e nuove, come le frasi che mi hanno colpito, e voi capirete come e perché.
“Si trattava per lo più di persone dalla volontà debole, di quelle che continuavano a rimandare le decisioni, non fanno che dire domani, domani, ma questo non significa che i sogni e i desideri non ce li abbiano, il male è che muoiono prima di poterne e di saperne vivere almeno una piccola parte.” (37)
“Non è dopo il sogno, che il sogno lo si può vivere.” (74)
“Chiunque è in grado di capire la differenza fra un addio e un arrivederci.” (107)
“Se per amare una persona si dovesse aspettare di conoscerla, la vita intera non basterebbe.” (128)
“È così che io sono, osservami bene … se volessi potrei attirarti nel mio letto … ma bella non sarò mai, a meno che non sia tu a trasformarmi nella donna più attraente che sia esistita.” (153)
José Saramago “Caino” Feltrinelli euro 8 (in realtà, scontato a 6,80 euro)
[A: 09/02/2016 – I: 13/02/2017 – T: 18/02/2017] - &&& e ½  
[tit. or.: Caim; ling. or.: portoghese; pagine: 142; anno 2009]
Fatto salvo che ne riparleremo prima o poi per le cure librarie (ovviamente nell’ambito della rivalità tra fratelli, ma non ne sono rimasto troppo sorpreso), andando avanti con l’età, la scrittura del grande portoghese mi rimane meno ostica del solito. Quando dicevo età, ovvio, che mi riferivo a José (non alla mia), ed al fatto che, per l’appunto, rispetto ai primi romanzi, quasi senza punteggiatura ed altre interpunzioni, quasi come fosse un unico lungo pensiero, da seguire con lui, le ultime prove (e questo che poi è proprio l’ultimo romanzo da lui scritto prima di morire) mi sono arse più leggibili. Ricordo ancora che non sono mai riuscito a terminare “L'anno della morte di Ricardo Reis”. Qui invece si legge, ed anche con discreta velocità, pur soppesando le parole come macigni. Certo, sono parole di un ateo che utilizza il Vecchio Testamento per i suoi scopi personali di lotta verso tutte le istituzioni, passate, presenti e future. Saramago discende da Omero e non dalla Bibbia, cristiana o ebrea che sia. Quindi sfida l’universalità che il primo omicida incarna nella sua (a meno come tramandataci) fosca figura, sfida la difficoltà che in molti si è avuta nell’affrontare caino e la sua storia, e le utilizza per il suo scopo preciso. Non tanto e solo per mostrarci un Dio irascibile e geloso, quanto (almeno questo è quello che mi arriva dalla pagina) per dire agli uomini: attenti a voi stessi, a quello che fate, siate coscienti dei vostri passi. La fine, altrimenti, sarà irreversibile. Anzi, visto che tutti sono malvagi, visto che non c’è speranza, come diceva il biblico giudice: “Muoia Sansone con tutti i filistei”. Peccato però che Caino non possa morire, quindi la sua vendetta sarà la più atroce. Tutti moriranno per le loro colpe, rimarranno solo Dio e Caino a ragionare su questo per l’eternità. Questo il terribile messaggio di Saramago, che tuttavia ci permette, in queste men che 150 pagine di afre una cavalcata nei massimi “topoi” biblici. A partire proprio dalla storia di Caino e Abele, almeno di quella cristiana. Dove si vede Abele il pastore rendere grazie a Dio con i migliori capi del suo gregge e Caino l’agricoltore utilizzare solo alimenti di seconda fascia. Dio gradisce solo Abele, e Caino ci rimane male. Da qui, interviene la potente penna del Premio Nobel. Dove Abele prende in giro Caino perché solo le offerte di Abele sono ben accette. Caino cui sale la mosca al naso, e uccide Abele. Dio che ne chiede conto. Caino che rifiuta di essere messo alla prova. Da qui la punizione: andar vagando per tutta la vita, senza che nessuno possa ucciderlo. Perché avrà il marchio sulla fronte. Questa bella idea, permette quindi a Saramago di far spostare nel tempo e nello spazio l’errante Caino, così che possa assistere a tutte le prove cui viene sottoposta l’umanità. Vediamo allora, con gli occhi di Caino la distruzione di Sodoma, la costruzione della Torre di Babele, i massacri dell‘esercito di Giosuè, le pene inflitte a Giobbe, il sacrificio di Isacco, fino alla costruzione dell’Arca ed al Diluvio Universale. Dove appunto si svolgerà il dialogo finale tra le due anime del libro: il Dio vendicativo del Vecchio Testamento ed il caino irriverente. Perché è proprio Caino che chiede conto di tutte le prove cui sono sottoposti gli uomini. Che chiede conto degli innocenti uccisi, ad esempio, nella distruzione di Sodoma e Gomorra. O in quelli che moriranno in seguito al Diluvio. Insoddisfatto delle spiegazioni divine (sempre sulla falsariga della messa in prova della fiducia umana verso il divino), Caino darà vita ad un finale senza appello: imbarcato sull’Arca, visto che ormai è segnato, uccide Noè e tutta la sua famiglia. Così che non rimarrà più nessuno. Quindi è proprio Saramago che, per la sua scelta personale, ripassa tutta la Bibbia, scegliendo le scene fondamentali dell’Antico Testamento tra quelle in cui Dio si manifesta direttamente agli uomini. Scene da cui sembra discendere un Dio collerico, ingiusto e, soprattutto, illogico del quale. Ma qui c’è la grande vendetta della parola: che per ribaltarne la figura (almeno nella sua immaginazione) deve comunque presupporne la presenza, l’esistenza, e soprattutto il Verbo, quello che venne detto in principio dei secoli e rimarrà iscritto per sempre. Non entro certo nel merito della discussione tra Caino e Dio, né tra quella dei lettori del grande scrittore portoghese, tra i fautori del Santo ed i sostenitori del Diavolo. A me, molto modestamente, interessa mostrare la grande capacità inventiva che ha uno scrittore puro anche quando raggiunge la soglia dei novanta anni. La grande capacità di coinvolgerci, di farci ragionare, anche di trovare le ragioni contrarie alle sue. Spero un giorno tornare su altri suoi scritti, vincendo la difficoltà (o forse la pigrizia) che mi hanno sino ad ora impedito di apprezzarli. Finisco anche con il dubbio se Saramago avesse avuto anche il tempo di affrontare, oltre il Caino cristiano anche quello ebraico e islamico. Laddove la storia è leggermente diversa. Che i primi due “nati da donna”, erano in realtà dei parti gemellari. Il primo diede vita a Caino ed Aclima. Il secondo ad Abele e Jumelia. Onde per generare figli e popolare la razza umana, Adamo decide che Abele sposi Aclima e Caino Jumelia. Ma Aclima è più bella, e Caino, incesti a parte (che ancora non erano previsti, visto che la razza umana era composta solo da 6 persone) la vuole per sé. Poiché invece, attraverso il rifiuto del sacrificio, Dio decide in accordanza con Adamo, Caino l’invidioso piglia ed uccide il fratello. Dove si capisce allora che è tutta una questione di donne. Come sempre. Sarebbe interessante, ma non è di queste righe. Allora ve la lascio solo come provocazione.
Terza trama mensile, ed allora, invece di curarci, ecco che cerchiamo di essere felici, magari evitando di andar per barche, o addentrandoci piacevolmente nella lettura di qualche antidoto, Renato permettendo.
Non vi meravigliate dell’anticipo di questa settimana, ma la domenica è di quelle intense. Non perché sia San Giuseppe o la festa del papà (festa che come tutte quelle “inventate” trovo riprovevole). Ma perché viene a valle dell’ottantesimo genetliaco del mio amico Franco cui vanno sempre i miei ringraziamenti per tutto quello che mi ha dato, ed a monte della festa rimandata ma non scordata (seppur privata) dei miei amici sessantenni.

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni

FEBBRAIO 2017
Invece di occuparmi del Natale, che ovviamente rimando a Pasqua, ecco che pensiamo al mare, ed a come salvarci da crociere e gite varie.

MALANNI DI STAGIONE (I)
PILLOLE PER IL MAL DI MARE

Tre uomini in barca (per non parlar del cane), Jerome K. Jerome
Questo piccolo romanzo è un gioiellino di divertimento e spensieratezza, una girandola di gag umoristiche surreali, una lettura di pura evasione grondante pungente humor inglese. Perfetto come lettura estiva, equivale a una boccata d’aria fresca in una giornata afosa, a un bicchierone di tè freddo. Nato come guida turistica sulla storia del Tamigi, si è poi trasformato in uno dei romanzi umoristici di maggior successo della letteratura inglese. È il racconto della spassosissima gita sul fiume di tre amici maldestri e un cane la cui unica ambizione di vita è quella di stare tra i piedi.
Tre uomini in barca è un rimedio efficace per i seguenti malesseri (che in estate tendono ad acutizzarsi):
ü  Ipocondria: se come Jerome, Harris e George soffrite di qualsiasi malattia tranne il ginocchio della lavandaia, una vacanza in loro compagnia può essere d’aiuto quantomeno per distrarvi dai vostri fantomatici acciacchi. Sembra che una gita in barca sul Tamigi possa fare miracoli.
ü  Tristezza da vacanze mancate: se siete appassionati di barca e mare, ma quest’anno avete dovuto rinunciare (magari a causa del ginocchio della lavandaia) o anche se non siete lupi di mare ma la vacanza è saltata lo stesso, tiratevi su il morale con le divertentissime disavventure dei tre amici alle prese con le gioie e i dolori della vita da marinai. La lettura è molto utile anche se vi hanno convinto a trascorrere le vacanze a bordo di un caicco ma vi sentite in appropriati. Il libro sarà un’iniezione di fiducia: se sono sopravvissuti i tre amici e pure il cane, potete farlo anche voi. Ma fate attenzione e leggetelo tutto, perché il finale potrebbe aiutarvi a capire se la vacanza in barca sia davvero opportuna.
ü  Cattivo umore: depressioni, disagi e malesseri tendono generalmente ad acuirsi d'estate, quando siamo tutti più suscettibili a causa del caldo, della stanchezza, delle notti in bianco molestate da afa e zanzare, delle città che si svuotano e dello scombussolamento degli abituali ritmi biologici. Non c’è niente di meglio che un cambio di location. Ma se non potete partire, basta anche un cambio di prospettiva. Le avventure dei tre uomini in barca e del fedele cane Montmorency favoriscono la naturale produzione di sana spensieratezza, facendo rivalutare il piacere dell’ozio (sacrosanto in vacanza), recuperando quell’innocenza che predispone l'animo a godere delle cose più semplici, come anche delle disavventure. Soprattutto, il libro garantisce al cervello una vacanza dai pensieri che lo affollano tutto l’anno.
Una cosa divertente che non farò mai più, David Foster Wallace
Come Tre uomini in barca in origine doveva essere una guida turistica, il saggio di David Foster Wallace avrebbe dovuto essere un reportage che lo scrittore americano, impareggiabile osservatore delle nevrosi della società contemporanea, avrebbe dovuto scrivere per la rivista «Harper’s». Ma la settimana passata a bordo di una lussuosissima nave da crociera diretta ai Caraibi è stata così sconvolgente che l’autore ne ha tratto un vero e proprio saggio di antropologia vacanziera. Una cosa divertente che non farò mai più è un capolavoro di virtuosismo in cui grazie a una scintillate e spudorata comicità, unita a un pizzico di perfidia, l'autore racconta un’umanità volontariamente imprigionata in una gabbia dorata di divertimento forzato a cinque stelle, tra intrattenimenti a tutte le ore e sorrisi indotti, specchio di una società consumistica che annega la propria inconsistenza nell’opulenza e nel benessere a tutti i costi.      
Il saggio (mai parola fu più appropriata vista la saggezza idi rappresentare lo spettacolo-carrozzone della vacanza) è un medicinale molto efficace in caso di:
ü  Stress di vario genere: vista la sua alta dose di spudorato e dissacrante umorismo, favorisce la naturale produzione di sorrisi incontrollati che aiutano ad allentare le tensioni. Ma attenzione, si ride a denti stretti e la medicina lascia un retrogusto amaro. Nel recensirlo, «The Guardian» lo ha definito un libro così divertente che non si riesce a smettere di leggerlo neanche quando ci si lavano i denti. Probabilmente lavarsi i denti aiuterebbe a contrastare il sapore amarognolo che lascia in bocca la lettura.
ü  Rodimenti da vacanze mancate: se, causa lavoro, situa-zione economica disastrosa o qualsiasi altro motivo, avete dovuto rinunciare alle vacanze, salite con David Foster Wallace a bordo della lussuosa nave da crociera per prendervi gioco con intelligenza dei vacanzieri senza iniziativa e del personale perennemente euforico. Già dalle prime pagine, il rodimento comincerà ad attenuarsi e vi sentirete subito meglio.
Avvertenza: se avete già prenotato una crociera, è sincera-mente sconsigliata la lettura perché potreste decidere di annullarla. Ma la medicina non ha lo stesso effetto su tutti i lettori e non sempre si verifica un calo del desiderio di partire. D’altra parte lo dice Wallace stesso, la crociera è un’esperienza divertente (che probabilmente non vorrete fare mai più). Al contrario, è molto probabile che vorrete leggere altri libri di questo arguto e dissacrante autore.
Robinson Crusoe, Daniel Defoe
Dal Titanic fino ai più recenti avvenimenti, le grandi navi sembrano perfino meno sicure della barca dei tre amici pasticcioni del romanzo di Jerome K. Jerome. Per i lettori particolarmente suggestionabili e vagamente ansiosi, la lettura di un classico come Robinson Crusoe potrebbe essere considerata poco opportuna. Invece, se assunta nella giusta modalità, può risultare molto efficace. Come quasi tutti sanno, anche solo per sentito dire, il celebre romanzo di Daniel Defoe racconta le avventure di un uomo che, dopo un naufragio, sopravvive da solo su un’isola deserta. Naufragare non è una prospettiva allettante, tanto meno passare ventotto anni su un’isola in quasi totale solitudine (sparire su un atollo in mezzo al mare è il sogno di molti in periodi di particolare stress, ma nella realtà si trasformerebbe in un incubo, anche perché l’esperienza non sarebbe di certo quella paradisiaca di Laguna blu). Probabilmente vi state ancora chiedendo quale sia lo scopo terapeutico di Robinson Crusoe e perché dovreste leggerlo proprio d’estate. Non è una cattiveria simile a quella dei palinsesti televisivi che, in prossimità delle partenze, si divertono a programma-re film su disastri aerei, treni che deragliano e navi che affondano. La somministrazione preventiva di Robinson Crusoe è consigliata in tutte le condizioni caratterizzate dalla necessità di aumentare il fabbisogno di ottimismo e intraprendenza, con l’obiettivo di ripristinarne i depositi in modo da esserne sufficientemente provvisti nel malaugurio caso in cui la vacanza naufragasse (in senso lato) e non andasse secondo i piani. Dopo la lettura, invece di abbandonarsi alla disperazione, il lettore dovrebbe essere naturalmente portato a rimboccarsi le maniche come Robinson, cercando di trovare sempre il modo di aggiustare le cose. Se lui riesce a cavarsela su un’isola deserta per ventotto an-ni, noi possiamo sopravvivere a una vacanza mal riuscita. Se la cura ha effetto, si può anche sperare di arrivare al raggiungimento degli stessi livelli di ottimismo del protagonista, i cui valori sono così alti da convincerlo che, sebbene sia difficile pensare a una condizione più miserevole della sua, c’è sempre qualcosa di positivo per cui essere grati. Se la medicina viene correttamente assimilata dall’organismo il lettore è vaccinato contro il pessimismo anche nella vita, che è un viaggio ben più impegnativo di qualsiasi vacanza.
Un consiglio in più, per non affondare
A proposito di vacanze che non vanno secondo i piani, litigi, convivenze coatte con familiari, isole, mare ed estate, consiglio la lettura di Gita al faro di Virginia Woolf. La numerosa famiglia Ramsay è in villeggiatura nelle isole Ebridi in compagnia di amici. Una sera organizzano, non sen-za contrasti, una gita al faro che poi sono costretti a rimandare a causa del maltempo. Solo dieci anni dopo, alcuni dei Ramsay riusciranno a realizzare il vecchio desiderio della gita al faro in una giornata in cui riaffioreranno ricordi e vecchie ferite. Come la gita è solo un pretesto usa-to dall’autrice per compiere un intenso viaggio nel cuore di una famiglia, così l’estate è solo un pretesto per consigliarvi la lettura di questo romanzo di Virginia Woolf e suggerirvi di trovare l’audacia di avventurarvi nella mente caleidoscopica, diligente, ironica, tormentata, introspettiva, lucida e dolente di questa impareggiabile autrice. Virginia Woolf si è suicidata annegando in un fiume, ma la sua opera è un flusso di coscienza in grado di salvare un lettore che si sente affondare trascinato dalla corrente.

Commenti

Alcuni di questi libri li ho letti ed a volte riletti già da molti anni. Lessi di Robinson ancora giovinetto, e lo rilessi l’ultima volta nel 2001. Lessi l’impareggiabile Virginia prima della caduta del muro di Berlino, nel 1988, e poi nel nuovo Millennio, nel 2003. In vece non sono mai riuscito a leggere (ancora) David Foster Wallace. Ho letto qua e là che alcune sue cose sono stupende, ma devo ancora vincere l’ostacolo della sua morte. Speriamo di esserne capaci. Intanto, dedichiamo alcune righe ad una trama intrecciata dedicata all’umorismo inglese.
[trama pubblicata il 28 novembre 2007]
In questo novembre da camino, castagne e camomilla (non mi veniva in mente nessuna tisana con la C), affronto quindi un quartetto composito. Sul versante classici ho riletto
Jerome K. Jerome "Tre uomini in barca” Rizzoli euro 6,80
perché, appunto, ogni tanto bisogna immergersi nei classici ed io Jerome l'avevo letto da dodicenne e mi ricordavo dei sorrisi. Ora, seppur molto datato, ne trovo l'infinita vena comica (e molta della comicità successiva viene da lì, per cui a volte sembra obsoleto, ma è solo precursore). Seguendo la corrente del fiume, infatti, i tre amici Jerome, Harris e George, assieme al fido cane Montmorency, viaggiano per giorni sulla loro fragile imbarcazione, scorrendo lungo le campagne inglesi, e vivono sempre nuove e inattese avventure. Una serie di gag comiche sulle gioie e sui dolori della vita in barca, unite a divertenti divagazioni che costituiscono storie a sé stanti, nel miglior stile dello humour inglese, e dove divagando si passano pagine e pagine, e poi si ritorna al fiume. Il tutto condito da descrizioni realistiche delle regioni attraversate dalla simpatica brigata e brevi notazioni di filosofia per non addetti ai lavori. Se volete fare uno sforzo però, vi consiglio di leggerlo nella versione originale inglese scaricabile gratuitamente da Wikipedia.

Finalino


Continuo a ritenere (ed a maggior ragione dopo queste letture) che la barca non sia un mezzo a me consono. Né tanto meno che io riesca a fare una crociera seria prima di raggiungere il crepuscolo dei miei anni. E quindi va bene così, io leggo e voi andate pure per mare. Ci si manderà una cartolina…

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