Sì, una lotta titanica tra un
rappresentante dell’Europa dell’Ovest, che ha sempre scritto come se fosse ad
Est, l’ottimo e compianto Saramago verso due campioni del nord Europa,
l’inglese Barnes, sempre presente a livelli molto alti, e l’islandese Helgason,
letto per affezione alla sempre cara isola del Nord. Un quasi pareggio, con
delle ottime punte (e spunti) di lettura.
Julian Barnes “Il pappagallo di Flaubert” Einaudi euro 12 (in realtà,
scontato a 9,60 euro)
[A: 19/10/2015– I: 01/10/2016 – T: 04/10/2016] - &&&&
e ½
[tit. or.: Flaubert’s Parrot; ling. or.: inglese; pagine: 225; anno 1984]
Ne
avevo a lungo rimandato l’acquisto prima e la lettura poi, quasi temendo di
trovarmi di fronte ad un pastiche illeggibile sulla vita dello scrittore
normanno. O, peggio, ad uno scritto che partisse tangenzialmente verso lidi
altri. Poi è venuto “Il senso di una fine”, il mio affetto per il Barnes
scrittore, nonché, ultimo tassello ma importante come ogni altro, il fatto che
Barnes sia nato a Leicester. Qualcuno se ne domanderà la ragione, e qualche
d’un altro darà la risposta giusta. Colloco comunque questo scritto tra gli
autori moderni maschili, anche se è un pastiche non molto etichettabile in un
solo genere. C’è, ed è molta, ed è foriera di pensieri nuovi e riflessioni
profonde, la vita e l’opera di Gustave Flaubert. Ricca anche di aneddoti, di
momenti vissuti, di elementi (noti o ignoti) che contribuiscono a disegnare un
ritratto a tutto tondo dello scrittore di Rouen. Ma anche, e qui sta la mia
ammirazione per l’autore, impostata come racconto “altro”. La finzione si
impernia su di un dottore inglese da poco in pensione, da sempre ossessionato e
appassionato di Flaubert, con una moglie (adorata) morta da non molto e tanto
tempo libero. Per cui il nostro Geoffrey comincia ad approfondire questa
passione, e a scriverne. Mescolando ricordi, storie della propria vita, viaggi
verso la Francia e la Normandia, con spunti della vita di Flaubert, non
disdegnando anche di utilizzare elementi eterogenei per far risaltare meglio la
passione del supposto autore e la figura dello scrittore da analizzare.
L’elemento scatenante il romanzo è la presenza di due diversi pappagalli
impagliati, nei due luoghi deputati a Flaubert nei luoghi che di questi videro
trascorsi la maggior parte della vita in quel di Rouen e dintorni. Quale sarà
il “vero” pappagallo, quello che serviva da ispirazione e mentore allo
scrittore mentre questi componeva il racconto “Un cuore semplice”, lì dove un
pappagallo era il fulcro della vicenda che narrava la storia, semplice e
squallida, della povera Félicité? Da questa domanda, e dalla inusuale risposta
che ci verrà fornita solo alla fine del libro, si dipana il flusso discorsivo
di Geoffrey. Che parlando di sé, dei suoi viaggi tra l’Inghilterra e Rouen, del
suo amore per i formaggi francesi (ah, se lo capisco), del suo lavoro di medico
(analogo a quello dei due Achille di casa Flaubert, il padre ed il fratello
maggiore), del suo amore per la moglie Ellen, e delle libertà che questa si era
presa nella sua breve vita, pur rimanendo sempre di fondo a lui fedele, ci
porta in realtà nel mondo dell’idiota di famiglia, come direbbe una persona
colta che ha letto Sartre. E andando su e giù per il mondo flaubertiano, ci
presenta l’autore, la sua vita e le sue opere, da quella angolazione minore.
Dicendo, narrando, a volta affondando il bisturi nella carne viva dello
scrittore francese. Con alcuni momenti per me epici di scrittura: le tre
possibili vite di Flaubert, l’esame universitario su lui e sulle sue idee.
Vediamo, intuiamo, Flaubert ed il suo rapporto con le donne. A cominciare
dall’amata e mai lasciata madre, che condizionerà tutta la vita. Ma per passare
presto ai suoi amori (M.me Schlesinger che forse lo svezzò, la governante inglese
Juliet, le prostitute egiziane, da cui prese la sifilide), per concentrarsi sul
lungo rapporto con una gran bella donna del tempo, Louise Colet. Bella e
libera, sposata, ma subito in amore con il filosofo Victor Cousin, che lascia
per una lunga e tormentosa storia con Flaubert. Durata 8 anni, ed interrotta
per l’arrivo di un nuovo amore, Alfred de Musset. Poi anche questo finirà, e la
nostra dama continuerà a mietere successivi d’alcova per alcuni anni in Italia
(pare abbia avuto anche una notte con Garibaldi). Ma qui ritorniamo al suo
rapporto tempestoso con Flaubert, che per lei prendeva addirittura il treno
onde incontrarla a mezzavia tra Rouen e Parigi (non avendola mai voluta fare
entrare nella casa materna di Rouen). E dalle parole stesse di Louise capiamo,
forse, molto dello spirito strano del nostro scrittore. Che viaggiò molto,
anche in Oriente, soprattutto con l’amico Du Camp (che sosteneva, a ragione,
che Flaubert amava l’idea del viaggio più che il viaggio stesso). Che ebbe
un’intensa vita sessuale, anche omo con Louis Bouilhet, tanto simile a lui
nella figura da apparire talvolta in fotografie come se fosse il “vero”
Gustave. Che era misantropo. Che era maniacale in tutte le sue espressioni. Ed
in controluce, citando pezzi, passi, momenti, escono fuori anche le opere di
Flaubert. “Madame Bovary” con le sue citazioni velate ma non nascoste (una su
tutte, Emma consuma l’adulterio in una carrozza, così come spesso avevano fatto
Gustave e Louise). I racconti e gli aforismi. I ricordi orientali di “Salammbô”.
Fin a quel libro incompiuto, quel “Bouvard et Pécuchet”, che si ricorda nei
miei personali passi, quando nei miei trenta decisi che andava letto, e che
lessi a dispetto di mogli, amici ed altri a me vicini che di questa lettura mi
presero (e mi prendono ancora) in giro. Un libro che mi ha aperto uno spiraglio
sul mondo di Flaubert che conoscevo solo di taglio, che mi ha incuriosito,
facendomi approfondire luoghi e personaggi che non conoscevo (soprattutto
Louise), pieno di parole, come spesso i libri di Barnes. Una lettura
intelligente e stimolante. Che altro volere di più, a meno di non essere il
pensatore americano Logan Pearsall Smith che cito qua sotto.
“L’unico sogno della democrazia – scriveva
Flaubert – è quello di elevare il proletariato al livello di stupidità
raggiunto dalla borghesia.” (93)
“Gustave, in un saggio su Rabelais, elenca i
misfatti della civiltà moderna: ferrovie, fabbriche, farmacisti e matematici
[sic!!].” (122)
“Questo distingue sul serio le persone: la
differenza non è tra chi ha segreti e chi non ne ha, ma tra chi vuol sapere e
chi no.” (144)
“Se il seno è piatto, si è più vicini al
cuore (Louis Bouilhet).” (176)
“La gente dice che ciò che conta è vivere;
io preferisco leggere (Logan Pearsall Smith).” (198)
Hallgrìmur Helgason
“101 Reykjavík” Faber & Faber euro 20
[A: 24/06/2016– I: 01/07/2016
– T: 01/11/2016] - && e ¾
[tit. or.: 101 Reykjavík; ling. or.: islandese; pagine: 370; anno 1996]
Fin dalla prima volta che sono stato
in Islanda, cercando tra i libri che vengono citati come tipici della
letteratura isolana, mi sono imbattuto nella citazione di questo libro. L’ho
quindi cercato a lungo nelle librerie italiane, dove risultava tradotto anni fa
ma ben presto uscito di produzione e senza scorte trovabili in vari magazzini.
Benché poi ne sia stato anche tratto un film, diretto dal cineasta islandese Baltasar
Kormákur, e di discreto successo (vincitore tra l’altro del premio giovani al
Festival di Locarno). Questa volta, nella fornitissima libreria di Akureyri, ne
ho trovato la versione inglese. Visto che, in ogni caso, ne avrei letto una
traduzione, e nonostante il costo sia fuori dai miei canoni abituali (ma
l’Islanda è costosa in tutte le sue manifestazioni), ho deciso di comperarlo.
Non vi stupite, però, che abbia impiegato quattro mesi a leggerlo. Non tanto
per la lingua in sé (certo leggere in inglese non sottintende la stessa
velocità di una lettura in lingua madre), quanto perché è pieno di citazioni in
slang, che ne hanno rallentato alquanto la lettura. Certo, ho anche imparato
cose nuove (e non so se utili), come i nomi di molte parti del corpo femminile
e maschile, nonché il modo colloquiale per indicare droghe e preservativi. Ma
il risultato finale, non nego interessante, mi ha lasciato un filo perplesso.
Facciamo comunque un passo indietro. E parliamo di Hallgrìmur. Senza
patronimico, che in Islanda si chiamano tutti per nome. Inciso: in Islanda sono
ammessi 1785 nomi maschili. Se vuoi dare un nome non compreso nell’elenco, devi
chiedere l’autorizzazione al “Icelandic Naming Commitee”. Comunque il nostro
nasce come pittore, anche di una certa rilevanza, poi conduttore radiofonico, e
solo dopo i trenta anni comincia anche a scrivere. Tra l’altro ha il nome del
grande cantore di inni cui è stata dedicata la bellissima chiesa di Reykjavík
(la Hallgrímskirkja). Lavorando alla radio, tira fuori questo personaggio,
Hlynur Björn, come epigono dei ragazzi islandesi, alla ricerca di un’identità,
dopo tutte le rivoluzioni avvenute nel 1989 (la serie alla radio comincia
proprio nel 1990). Sei anni dopo decide di dare una sistemata al personaggio,
inserirlo in una storia, e proporci una visione scanzonata ma fedele (almeno
nelle sue intenzioni) della vita islandese. Che poi, al di là della storia,
invero molto lineare, l’intento dell’autore è quello di farci vivere momenti
islandici dei giovani trentenni (e di come vedono il loro mondo). Dicevamo la
storia. Hlynur vive con la madre Berglind dopo che questa ha allontanato il
padre alcolizzato (che tuttavia è un brav’uomo, a parte la troppa birra).
Berglind scopre di essere innamorata di Lolla, una consulente degli Alcolisti
Anonimi, tra l’altro bisessuale. Prima che Lolla venga a vivere con i due, lei
e Hlynur finiscono a letto. Ma è solo un episodio. Perché a questo punto la
nostra attenzione si incentra su Hlynur. Che vive con il sussidio di
disoccupazione (cosa assai frequente nei paesi nordici), che ogni tanto si
accompagna con qualche donna (conservando come trofeo i preservativi usati,
terribile!), e che, per la maggior parte del tempo guarda film prono di scarsa
qualità, fa uno zapping ossessivo alla televisione e si masturba. Anzi è un
teorico dell’onanismo, quando Hlynur passa ore e ore nudo in bagno; anche di
masturbazione cerebrale, esemplificata dalla sua abitudine di associare ogni
donna che vede a un ipotetico compenso in corone islandesi che sarebbe disposto
a pagare per farsela. Lo vediamo avere un breve rapporto con Hofy (così
chiamata perché sarebbe un po’ complicato chiamarla sempre Hólmfrídur Pállsdottir),
subito interrotto quando lei rimane incinta, lo accusa di aver usato un
preservativo scaduto, poi purtroppo avrà un aborto spontaneo uscendo ben presto
di scena. Lo vediamo chattare ossessivamente con l’ungherese Katarina, lo
vediamo andare a Parigi per incontrarla, dove però scopre che è fidanzata, e
tutti i suoi sogni vanno in fumo. Lo vediamo avere altri brevi incontri. Per
poi piombare nella saga finale, quando Lolla rimane incinta (e lui pensa di
essere il padre, ma non è così) ed i tre, Lolla, Berglind e Hlynur cercano di
capire se potrà sussistere una coabitazione tra loro. Tra loro quattro, che
alla fine nasce anche il piccolo Halldor. Ma la saga è tutta sul titolo. Quel
101, il codice postale della capitale, è che si riferisce ad una piccola zona
della stessa. Con le sue due o tre vie principali, la piazza dove insieme agli
islandesi ho vissuto il campionato europeo di calcio, il porto, e poco altro.
Cioè poco altro e molti bar, dove i giovani, Hlynur e i suoi amici, scorrazzano
sbevacchiando fino al mattino. Allora, la storia sembra dover molto al film
uscito poco prima che Hallgrìmur cominciasse a scrivere. Mi riferisco a
“Peccato che sia femmina” di Josiane Balanko. Ma la capacità dello scrittore è
di mettersi nella testa di Hlynur e di sciorinarci fiotti di parole, di
associazioni mentali, di salti logici. Riuscendoci a farne un ritratto da
sobrio ma soprattutto sotto l’effetto della birra o dell’ecstasy. Il libro ha
vent’anni, è probabilmente (almeno nella mia percezione) è un po’ datato.
Tuttavia ogni volta che leggo delle sue camminate per Laugavergur o
Hverfisgata, eccomi tornato nella magica isola. Il punto debole è che non
riusciamo ad affezionarci a nessun personaggio (ed ho volutamente tralasciato
sia la sorella di Hlynur con la sua famiglia normale, sia un approfondimento
dei suoi amici). E ci trasciniamo verso una fine che non è né una fine né un
nuovo inizio. Ripeto, però che ha il pregio di portarti lì in Islanda, e di
farti sentire come se fossi anche tu uno sfigato trentenne. Vero Jón Frankson?
José Saramago “La zattera di pietra” Feltrinelli euro 9,50 (in realtà,
scontato a 8,08 euro)
[A: 12/06/2015 – I: 02/11/2016 – T: 10/11/2016] - &&&
e ½
[tit. or.: A Jangada de Pedra; ling. or.: portoghese; pagine: 285;
anno 1986]
Non
amo particolarmente la scrittura di Saramago, che trovo spesso difficile,
almeno per il mio leggere, tant’è che, insieme a Nabokov, è uno dei pochi
scrittori di cui a volte ho abbandonato la lettura. Eppur tuttavia continuo a
leggerne, sotto spinte diverse. Curiosità, temi trattati o altro. E sempre ne
ho ritorni buoni. Come fu in “Cecità”. Com’è stato in questo più che datato
viaggio di sospensione della realtà. In cui qualcuno ha voluto leggere (le mie
biblioterapeute, ad esempio) uno stimolo per cinquantenni vogliosi di letture.
Altri, come me, si sono lasciati trasportare dal duplice binario dell’autore.
Concedendogli credito, e seguendolo, con interesse e curiosità, sino alla fine.
Ho parlato di doppio binario, che nelle pagine del Nobel portoghese si notano
le due storie intrecciantesi, ma con scopi e finalità ben diverse. C’è la
storia delle persone, le due donne, i tre uomini ed il cane, che sono toccate e
coinvolte negli eventi, ma che, bene o male, seguono anche un loro percorso,
una loro costruzione, un loro scopo. E su queste torneremo. C’è poi l’evento
scatenante, quello per il quale Saramago ci chiede la sospensione delle
domande, ci chiede di entrare nella favola e lasciarsi trasportare. Perché,
senza motivi spiegabili, si crea una frattura lungo i Pirenei, e la Penisola
Iberica si stacca dall’Europa. Frattura che si ripercuote a sud, staccando
Gibilterra dalla penisola. E questa zattera di pietra, scivolando
tettonicamente nell’Atlantico, evita miracolosamente le Azzorre, poi si dirige
verso sud, sistemandosi in mezzo, tra America ed Africa. Questa finzione serve
allo scrittore per tutta una serie di strali politici ed etici. L’idea che
Hispania (così si potrebbe chiamare l’isola ispano-portoghese) si stacchi
dall’Europa, letta in questi momenti di crisi identitaria, è meravigliosa. Una
Brexit ante-litteram però fisica. Vediamo il comportamento dei governi, le
invettive, la politica. I tentativi nordamericani di crearne un ponte a loro
favorevole, il comportamento stesso delle popolazioni. I turisti, i
giornalisti, i commentatori. Tutti che non faranno altro che prendere
cantonate, meritandosi le invettive corrosive del Saramago polemista. Che però
sfrutta anche l’idea folle per cercare di rinsaldare i legami tra i due popoli.
Ed il fatto che poi tutto si fermi lì, sulla via delle conquiste che gli stessi
popoli fecero in Sudamerica, magari sfruttando da negrieri gli africani, è
molto bella, stimolante ed immaginifica. Ma altrettanto bella, e più
interessante per me da seguire, è l’epopea delle persone. Di Joana che
tracciando una riga per terra con un bastone ha dato il via alla nascita della
zattera. Di Joaquim che lancia un masso pesantissimo nell’acqua del mare, quasi
a segnare una via alla navigazione. Di Maria che tesse un calzino che non ha mai
fine e la cui lana servirà ad unire i nostri viandanti. Di José che viene
seguito da uno stormo di uccelli sino a che non trova il suo spazio tra i
viandanti. Di Pedro che sente, unico al mondo, la terra tremare, e la sentirà
fino alla fine del viaggio, della zattera e suo. E del Cane che raccoglie gli
sparsi viandanti, dà loro modo di riunirsi, e li condurrà, silente ma attento,
per le strade ex-peninsulari. Fino ad allontanarsi quando il suo compito sarà
finito. Il viaggio di questi umani uniti dal caso è quello che personalmente mi
ha più avvinto, anche al di là della difficoltà di seguire la contorta prosa di
Saramago. La ricerca della loro identità, la realizzazione dei propri obiettivi
attraverso l’amore e l’amicizia. Il ruolo della donna che in Saramago non è mai
subalterna, non è mai marginale, ma paritaria, con tutta la forza delle proprie
convinzioni politiche. È bello vedere l’avvicinarsi prima di Joana a José, poi
di Joaquim a Maria. La forza con cui entrambe le donne poi rivendicano il loro
ruolo, le loro scelte. Insomma, un bel libro, difficile, giocato sui due piani.
Seguiamo sempre tutte le loro peripezie, sia degli uomini compatti nelle loro
avventure politico-etiche-geografiche, sia dei nostri eroi, della loro macchina
(la mitica Due Cavalli), delle loro scelte, e di tutto quello che combinano. Di
cui non vi parlo, lasciando a voi la voglia di scoprirlo. Ripeto, un libro
difficile come lo sono spesso quelli di Saramago, ma che lascia dentro un mondo
pieno di cose, vecchie e nuove, come le frasi che mi hanno colpito, e voi
capirete come e perché.
“Si trattava per lo più di persone dalla
volontà debole, di quelle che continuavano a rimandare le decisioni, non fanno
che dire domani, domani, ma questo non significa che i sogni e i desideri non ce
li abbiano, il male è che muoiono prima di poterne e di saperne vivere almeno
una piccola parte.” (37)
“Non è dopo il sogno, che il sogno lo si può
vivere.” (74)
“Chiunque è in grado di capire la differenza
fra un addio e un arrivederci.” (107)
“Se per amare una persona si dovesse
aspettare di conoscerla, la vita intera non basterebbe.” (128)
“È così che io sono, osservami bene … se
volessi potrei attirarti nel mio letto … ma bella non sarò mai, a meno che non
sia tu a trasformarmi nella donna più attraente che sia esistita.” (153)
José Saramago “Caino” Feltrinelli euro 8 (in realtà, scontato a 6,80
euro)
[A: 09/02/2016 – I: 13/02/2017 – T: 18/02/2017] - &&&
e ½
[tit. or.: Caim; ling. or.: portoghese; pagine: 142;
anno 2009]
Fatto
salvo che ne riparleremo prima o poi per le cure librarie (ovviamente
nell’ambito della rivalità tra fratelli, ma non ne sono rimasto troppo
sorpreso), andando avanti con l’età, la scrittura del grande portoghese mi
rimane meno ostica del solito. Quando dicevo età, ovvio, che mi riferivo a José
(non alla mia), ed al fatto che, per l’appunto, rispetto ai primi romanzi,
quasi senza punteggiatura ed altre interpunzioni, quasi come fosse un unico
lungo pensiero, da seguire con lui, le ultime prove (e questo che poi è proprio
l’ultimo romanzo da lui scritto prima di morire) mi sono arse più leggibili.
Ricordo ancora che non sono mai riuscito a terminare “L'anno della morte di
Ricardo Reis”. Qui invece si legge, ed anche con discreta velocità, pur
soppesando le parole come macigni. Certo, sono parole di un ateo che utilizza
il Vecchio Testamento per i suoi scopi personali di lotta verso tutte le
istituzioni, passate, presenti e future. Saramago discende da Omero e non dalla
Bibbia, cristiana o ebrea che sia. Quindi sfida l’universalità che il primo
omicida incarna nella sua (a meno come tramandataci) fosca figura, sfida la
difficoltà che in molti si è avuta nell’affrontare caino e la sua storia, e le
utilizza per il suo scopo preciso. Non tanto e solo per mostrarci un Dio
irascibile e geloso, quanto (almeno questo è quello che mi arriva dalla pagina)
per dire agli uomini: attenti a voi stessi, a quello che fate, siate coscienti
dei vostri passi. La fine, altrimenti, sarà irreversibile. Anzi, visto che
tutti sono malvagi, visto che non c’è speranza, come diceva il biblico giudice:
“Muoia Sansone con tutti i filistei”. Peccato però che Caino non possa morire,
quindi la sua vendetta sarà la più atroce. Tutti moriranno per le loro colpe,
rimarranno solo Dio e Caino a ragionare su questo per l’eternità. Questo il
terribile messaggio di Saramago, che tuttavia ci permette, in queste men che
150 pagine di afre una cavalcata nei massimi “topoi” biblici. A partire proprio
dalla storia di Caino e Abele, almeno di quella cristiana. Dove si vede Abele il
pastore rendere grazie a Dio con i migliori capi del suo gregge e Caino
l’agricoltore utilizzare solo alimenti di seconda fascia. Dio gradisce solo
Abele, e Caino ci rimane male. Da qui, interviene la potente penna del Premio
Nobel. Dove Abele prende in giro Caino perché solo le offerte di Abele sono ben
accette. Caino cui sale la mosca al naso, e uccide Abele. Dio che ne chiede
conto. Caino che rifiuta di essere messo alla prova. Da qui la punizione: andar
vagando per tutta la vita, senza che nessuno possa ucciderlo. Perché avrà il
marchio sulla fronte. Questa bella idea, permette quindi a Saramago di far
spostare nel tempo e nello spazio l’errante Caino, così che possa assistere a
tutte le prove cui viene sottoposta l’umanità. Vediamo allora, con gli occhi di
Caino la distruzione di Sodoma, la costruzione della Torre di Babele, i
massacri dell‘esercito di Giosuè, le pene inflitte a Giobbe, il sacrificio di
Isacco, fino alla costruzione dell’Arca ed al Diluvio Universale. Dove appunto
si svolgerà il dialogo finale tra le due anime del libro: il Dio vendicativo
del Vecchio Testamento ed il caino irriverente. Perché è proprio Caino che
chiede conto di tutte le prove cui sono sottoposti gli uomini. Che chiede conto
degli innocenti uccisi, ad esempio, nella distruzione di Sodoma e Gomorra. O in
quelli che moriranno in seguito al Diluvio. Insoddisfatto delle spiegazioni
divine (sempre sulla falsariga della messa in prova della fiducia umana verso
il divino), Caino darà vita ad un finale senza appello: imbarcato sull’Arca,
visto che ormai è segnato, uccide Noè e tutta la sua famiglia. Così che non
rimarrà più nessuno. Quindi è proprio Saramago che, per la sua scelta
personale, ripassa tutta la Bibbia, scegliendo le scene fondamentali
dell’Antico Testamento tra quelle in cui Dio si manifesta direttamente agli
uomini. Scene da cui sembra discendere un Dio collerico, ingiusto e,
soprattutto, illogico del quale. Ma qui c’è la grande vendetta della parola:
che per ribaltarne la figura (almeno nella sua immaginazione) deve comunque
presupporne la presenza, l’esistenza, e soprattutto il Verbo, quello che venne
detto in principio dei secoli e rimarrà iscritto per sempre. Non entro certo
nel merito della discussione tra Caino e Dio, né tra quella dei lettori del
grande scrittore portoghese, tra i fautori del Santo ed i sostenitori del
Diavolo. A me, molto modestamente, interessa mostrare la grande capacità
inventiva che ha uno scrittore puro anche quando raggiunge la soglia dei
novanta anni. La grande capacità di coinvolgerci, di farci ragionare, anche di
trovare le ragioni contrarie alle sue. Spero un giorno tornare su altri suoi
scritti, vincendo la difficoltà (o forse la pigrizia) che mi hanno sino ad ora
impedito di apprezzarli. Finisco anche con il dubbio se Saramago avesse avuto
anche il tempo di affrontare, oltre il Caino cristiano anche quello ebraico e
islamico. Laddove la storia è leggermente diversa. Che i primi due “nati da
donna”, erano in realtà dei parti gemellari. Il primo diede vita a Caino ed
Aclima. Il secondo ad Abele e Jumelia. Onde per generare figli e popolare la
razza umana, Adamo decide che Abele sposi Aclima e Caino Jumelia. Ma Aclima è
più bella, e Caino, incesti a parte (che ancora non erano previsti, visto che
la razza umana era composta solo da 6 persone) la vuole per sé. Poiché invece,
attraverso il rifiuto del sacrificio, Dio decide in accordanza con Adamo, Caino
l’invidioso piglia ed uccide il fratello. Dove si capisce allora che è tutta
una questione di donne. Come sempre. Sarebbe interessante, ma non è di queste
righe. Allora ve la lascio solo come provocazione.
Terza
trama mensile, ed allora, invece di curarci, ecco che cerchiamo di essere
felici, magari evitando di andar per barche, o addentrandoci piacevolmente
nella lettura di qualche antidoto, Renato permettendo.
Non vi
meravigliate dell’anticipo di questa settimana, ma la domenica è di quelle
intense. Non perché sia San Giuseppe o la festa del papà (festa che come tutte
quelle “inventate” trovo riprovevole). Ma perché viene a valle dell’ottantesimo
genetliaco del mio amico Franco cui vanno sempre i miei ringraziamenti per
tutto quello che mi ha dato, ed a monte della festa rimandata ma non scordata
(seppur privata) dei miei amici sessantenni.
I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia
Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
FEBBRAIO 2017
Invece di occuparmi del Natale, che ovviamente rimando a
Pasqua, ecco che pensiamo al mare, ed a come salvarci da crociere e gite varie.
MALANNI DI STAGIONE (I)
PILLOLE PER IL
MAL DI MARE
Tre
uomini in barca (per non parlar del cane), Jerome K. Jerome
Questo piccolo romanzo è un
gioiellino di divertimento e spensieratezza, una girandola di gag umoristiche
surreali, una lettura di pura evasione grondante pungente humor inglese.
Perfetto come lettura estiva, equivale a una boccata d’aria fresca in una
giornata afosa, a un bicchierone di tè freddo. Nato come guida turistica sulla
storia del Tamigi, si è poi trasformato in uno dei romanzi umoristici di maggior
successo della letteratura inglese. È il racconto della spassosissima gita sul
fiume di tre amici maldestri e un cane la cui unica ambizione di vita è quella
di stare tra i piedi.
Tre uomini in barca è un rimedio
efficace per i seguenti malesseri (che in estate tendono ad acutizzarsi):
ü
Ipocondria: se come Jerome, Harris e George
soffrite di qualsiasi malattia tranne il ginocchio della lavandaia, una vacanza
in loro compagnia può essere d’aiuto quantomeno per distrarvi dai vostri
fantomatici acciacchi. Sembra che una gita in barca sul Tamigi possa fare
miracoli.
ü
Tristezza da vacanze mancate: se siete
appassionati di barca e mare, ma quest’anno avete dovuto rinunciare (magari a
causa del ginocchio della lavandaia) o anche se non siete lupi di mare ma la
vacanza è saltata lo stesso, tiratevi su il morale con le divertentissime
disavventure dei tre amici alle prese con le gioie e i dolori della vita da
marinai. La lettura è molto utile anche se vi hanno convinto a trascorrere le
vacanze a bordo di un caicco ma vi sentite in appropriati. Il libro sarà
un’iniezione di fiducia: se sono sopravvissuti i tre amici e pure il cane,
potete farlo anche voi. Ma fate attenzione e leggetelo tutto, perché il finale
potrebbe aiutarvi a capire se la vacanza in barca sia davvero opportuna.
ü
Cattivo umore: depressioni, disagi e malesseri
tendono generalmente ad acuirsi d'estate, quando siamo tutti più suscettibili a
causa del caldo, della stanchezza, delle notti in bianco molestate da afa e
zanzare, delle città che si svuotano e dello scombussolamento degli abituali
ritmi biologici. Non c’è niente di meglio che un cambio di location. Ma se non
potete partire, basta anche un cambio di prospettiva. Le avventure dei tre
uomini in barca e del fedele cane Montmorency favoriscono la naturale
produzione di sana spensieratezza, facendo rivalutare il piacere dell’ozio
(sacrosanto in vacanza), recuperando quell’innocenza che predispone l'animo a
godere delle cose più semplici, come anche delle disavventure. Soprattutto, il
libro garantisce al cervello una vacanza dai pensieri che lo affollano tutto
l’anno.
Una
cosa divertente che non farò mai più, David Foster Wallace
Come Tre uomini in barca in origine doveva essere una guida turistica,
il saggio di David Foster Wallace avrebbe dovuto essere un reportage che lo
scrittore americano, impareggiabile osservatore delle nevrosi della società
contemporanea, avrebbe dovuto scrivere per la rivista «Harper’s». Ma la
settimana passata a bordo di una lussuosissima nave da crociera diretta ai
Caraibi è stata così sconvolgente che l’autore ne ha tratto un vero e proprio
saggio di antropologia vacanziera. Una cosa divertente che non farò mai più è
un capolavoro di virtuosismo in cui grazie a una scintillate e spudorata
comicità, unita a un pizzico di perfidia, l'autore racconta un’umanità
volontariamente imprigionata in una gabbia dorata di divertimento forzato a
cinque stelle, tra intrattenimenti a tutte le ore e sorrisi indotti, specchio
di una società consumistica che annega la propria inconsistenza nell’opulenza e
nel benessere a tutti i costi.
Il saggio (mai parola fu più
appropriata vista la saggezza idi rappresentare lo spettacolo-carrozzone della
vacanza) è un medicinale molto efficace in caso di:
ü
Stress di vario genere: vista la sua alta dose
di spudorato e dissacrante umorismo, favorisce la naturale produzione di
sorrisi incontrollati che aiutano ad allentare le tensioni. Ma attenzione, si
ride a denti stretti e la medicina lascia un retrogusto amaro. Nel recensirlo,
«The Guardian» lo ha definito un libro così divertente che non si riesce a
smettere di leggerlo neanche quando ci si lavano i denti. Probabilmente lavarsi
i denti aiuterebbe a contrastare il sapore amarognolo che lascia in bocca la
lettura.
ü
Rodimenti da vacanze mancate: se, causa lavoro,
situa-zione economica disastrosa o qualsiasi altro motivo, avete dovuto
rinunciare alle vacanze, salite con David Foster Wallace a bordo della lussuosa
nave da crociera per prendervi gioco con intelligenza dei vacanzieri senza
iniziativa e del personale perennemente euforico. Già dalle prime pagine, il
rodimento comincerà ad attenuarsi e vi sentirete subito meglio.
Avvertenza: se avete già prenotato
una crociera, è sincera-mente sconsigliata la lettura perché potreste decidere
di annullarla. Ma la medicina non ha lo stesso effetto su tutti i lettori e non
sempre si verifica un calo del desiderio di partire. D’altra parte lo dice
Wallace stesso, la crociera è un’esperienza divertente (che probabilmente non
vorrete fare mai più). Al contrario, è molto probabile che vorrete leggere
altri libri di questo arguto e dissacrante autore.
Robinson
Crusoe, Daniel Defoe
Dal Titanic fino ai più recenti
avvenimenti, le grandi navi sembrano perfino meno sicure della barca dei tre
amici pasticcioni del romanzo di Jerome K. Jerome. Per i lettori
particolarmente suggestionabili e vagamente ansiosi, la lettura di un classico
come Robinson Crusoe potrebbe essere considerata poco opportuna. Invece, se
assunta nella giusta modalità, può risultare molto efficace. Come quasi tutti
sanno, anche solo per sentito dire, il celebre romanzo di Daniel Defoe racconta
le avventure di un uomo che, dopo un naufragio, sopravvive da solo su un’isola
deserta. Naufragare non è una prospettiva allettante, tanto meno passare
ventotto anni su un’isola in quasi totale solitudine (sparire su un atollo in
mezzo al mare è il sogno di molti in periodi di particolare stress, ma nella
realtà si trasformerebbe in un incubo, anche perché l’esperienza non sarebbe di
certo quella paradisiaca di Laguna blu). Probabilmente vi state ancora
chiedendo quale sia lo scopo terapeutico di Robinson Crusoe e perché dovreste
leggerlo proprio d’estate. Non è una cattiveria simile a quella dei palinsesti
televisivi che, in prossimità delle partenze, si divertono a programma-re film
su disastri aerei, treni che deragliano e navi che affondano. La
somministrazione preventiva di Robinson Crusoe è consigliata in tutte le
condizioni caratterizzate dalla necessità di aumentare il fabbisogno di
ottimismo e intraprendenza, con l’obiettivo di ripristinarne i depositi in modo
da esserne sufficientemente provvisti nel malaugurio caso in cui la vacanza
naufragasse (in senso lato) e non andasse secondo i piani. Dopo la lettura,
invece di abbandonarsi alla disperazione, il lettore dovrebbe essere
naturalmente portato a rimboccarsi le maniche come Robinson, cercando di
trovare sempre il modo di aggiustare le cose. Se lui riesce a cavarsela su
un’isola deserta per ventotto an-ni, noi possiamo sopravvivere a una vacanza
mal riuscita. Se la cura ha effetto, si può anche sperare di arrivare al
raggiungimento degli stessi livelli di ottimismo del protagonista, i cui valori
sono così alti da convincerlo che, sebbene sia difficile pensare a una
condizione più miserevole della sua, c’è sempre qualcosa di positivo per cui
essere grati. Se la medicina viene correttamente assimilata dall’organismo il
lettore è vaccinato contro il pessimismo anche nella vita, che è un viaggio ben
più impegnativo di qualsiasi vacanza.
Un
consiglio in più, per non affondare
A proposito di vacanze che non
vanno secondo i piani, litigi, convivenze coatte con familiari, isole, mare ed
estate, consiglio la lettura di Gita al faro di Virginia Woolf. La numerosa
famiglia Ramsay è in villeggiatura nelle isole Ebridi in compagnia di amici.
Una sera organizzano, non sen-za contrasti, una gita al faro che poi sono
costretti a rimandare a causa del maltempo. Solo dieci anni dopo, alcuni dei
Ramsay riusciranno a realizzare il vecchio desiderio della gita al faro in una
giornata in cui riaffioreranno ricordi e vecchie ferite. Come la gita è solo un
pretesto usa-to dall’autrice per compiere un intenso viaggio nel cuore di una
famiglia, così l’estate è solo un pretesto per consigliarvi la lettura di
questo romanzo di Virginia Woolf e suggerirvi di trovare l’audacia di
avventurarvi nella mente caleidoscopica, diligente, ironica, tormentata,
introspettiva, lucida e dolente di questa impareggiabile autrice. Virginia
Woolf si è suicidata annegando in un fiume, ma la sua opera è un flusso di coscienza
in grado di salvare un lettore che si sente affondare trascinato dalla
corrente.
Commenti
Alcuni di questi libri li ho letti
ed a volte riletti già da molti anni. Lessi di Robinson ancora giovinetto, e lo
rilessi l’ultima volta nel 2001. Lessi l’impareggiabile Virginia prima della
caduta del muro di Berlino, nel 1988, e poi nel nuovo Millennio, nel 2003. In
vece non sono mai riuscito a leggere (ancora) David Foster Wallace. Ho letto
qua e là che alcune sue cose sono stupende, ma devo ancora vincere l’ostacolo
della sua morte. Speriamo di esserne capaci. Intanto, dedichiamo alcune righe
ad una trama intrecciata dedicata all’umorismo inglese.
[trama pubblicata il 28 novembre 2007]
In questo novembre da camino,
castagne e camomilla (non mi veniva in mente nessuna tisana con la C), affronto
quindi un quartetto composito. Sul versante classici ho riletto
Jerome K. Jerome "Tre uomini in barca” Rizzoli euro 6,80
perché, appunto, ogni tanto bisogna
immergersi nei classici ed io Jerome l'avevo letto da dodicenne e mi ricordavo
dei sorrisi. Ora, seppur molto datato, ne trovo l'infinita vena comica (e molta
della comicità successiva viene da lì, per cui a volte sembra obsoleto, ma è
solo precursore). Seguendo la corrente del fiume, infatti, i tre amici Jerome,
Harris e George, assieme al fido cane Montmorency, viaggiano per giorni sulla
loro fragile imbarcazione, scorrendo lungo le campagne inglesi, e vivono sempre
nuove e inattese avventure. Una serie di gag comiche sulle gioie e sui dolori
della vita in barca, unite a divertenti divagazioni che costituiscono storie a
sé stanti, nel miglior stile dello humour inglese, e dove divagando si passano
pagine e pagine, e poi si ritorna al fiume. Il tutto condito da descrizioni
realistiche delle regioni attraversate dalla simpatica brigata e brevi
notazioni di filosofia per non addetti ai lavori. Se volete fare uno sforzo
però, vi consiglio di leggerlo nella versione originale inglese scaricabile
gratuitamente da Wikipedia.
Finalino
Continuo a ritenere (ed a maggior ragione dopo queste
letture) che la barca non sia un mezzo a me consono. Né tanto meno che io
riesca a fare una crociera seria prima di raggiungere il crepuscolo dei miei
anni. E quindi va bene così, io leggo e voi andate pure per mare. Ci si manderà
una cartolina…
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