In questo Primo Maggio un po’
nuvolo ed un po’ renziano, torniamo agli amati gialli. E mettiamo nel Nord
anche la francese Vargas, che parte del libro è nella cara (in tutti i sensi)
Islanda. Complessivamente, poi, meglio questo ghiaccio, ai due libri islandesi,
solo discreti, di Indridason. Sicuramente meglio poi, dell’illeggibile
Marklund, da tempo avviata a scritture poco felici.
Fred Vargas “Temps
glaciaires” J’ai lu euro 9,10
[A: 13/10/2016– I: 29/11/2016 – T: 05/12/2016] - &&&--
[tit. or.: originale; ling. or.: francese; pagine: 476;
anno 2015]
Finalmente è uscito in economica
anche l’ultimo libro di Fred Vargas e del commissario Adamsberg. Per questo
l’ho subito comprato, inserito in una lista prioritaria di lettura, e
conseguentemente presto letto. Tuttavia, nonostante l’affetto per l’autrice e
per il protagonista, devo dire che mi è piaciuto meno, molto meno dei precedenti.
Per questo arriva ad una sufficienza d’affetto più che di contenuto. Ci sono
sprazzi della scrittura che mi ha affascinato, momenti epici del grande
Jean-Baptiste (soprattutto in Islanda, un posto che amo, che ama la mia amica
Marina, la mia nipotona Federica, e molti altri), ci sono intermezzi
interessanti. Il tutto però immerso in una storia un filo complicata, ed un
filo (anche due) campata per aria. Una storia che spazia dall’Islanda alla
rivoluzione francese del 1789 (o per meglio dire, a Robespierre) che la Vargas
riesce in qualche modo a gestire, ma a prezzo di lungaggini che ci lasciano un
po’ di amaro in bocca. Il romanzo prende l’avvio da una serie di suicidi che
non convincono i commissari parigini incaricati delle indagini, e che non
vedono di meglio che coinvolgere quanto prima la Sezione Omicidi dei nostri
eroi. Li ritroviamo tutti, anche se non tutti allo stesso livello di
coinvolgimento. Oltre al nostro Adamsberg, campione del pensiero trasversale,
c’è il suo secondo ed alter-ego Danglard, quello che sa tutto (lo so, la Vargas
ha preso spunto dalla mia biografia), Veyrenc, l’altro vice, anche lui
pirenaico, e Violette Retancourt, la gigantessa ispettrice di rara sensibilità.
C’è anche il resto della truppa, ma in ruoli marginali anche se caratterizzano
in vari punti il racconto. Come il caffè di Estalère, la narcolessia di
Mercadet o l’abilità informatica dell’unica altra donna, l’ispettrice Froissy.
I suicidi di cui sopra si scoprono poi legati da uno strano simbolo (una specie
di H sghemba che Veyrenc decritterà) e dalla certa o possibile conoscenza
reciproca. Indagando sul secondo, Adamsberg scopre le prime motivazioni. Alice,
la prima a morire, vecchia e malata, scrive una lettera a Amédée dicendo avere
delle rivelazioni sulla morte della madre di lui avvenuta in Islanda una decina
di anni prima. Amédée, dopo aver parlato con lei, litiga con il padre, anche
lui viaggiatore in Islanda, che subito dopo muore. Lasciando il figlio nelle
mani del suo segretario, anche lui partecipe alla vicenda islandese. La catena
mortale è interrotta dall’arrivo sulla cena di Frédéric Château, un bel tipo di
giardiniere, ma che è in realtà l’anima di un centro di studi su Robespierre,
finanziato dal padre di Amédée, dove gli studi suddetti sono condotti in maniera
inusuale. Vengono rappresentati in modo teatrale le riunioni assembleari dal
1789 (presa della Bastiglia) all’arresto ed alla decapitazione di Robespierre
(28 luglio 1794). Il problema è che intorno a questa congrega girano circa
settecento persone, improba missione per Adamsberg di trovare tra questi il
colpevole. Perché, ben presto, il cerchio si stringe, Veyrenc scopre che l’H
potrebbe essere una ghigliottina stilizzata. Ci sono altre morti del circolo di
studi. Solo il presidente, lo Château di cui sopra, ed i due segretari, che
usano i nomi fittizi di Lebrun e Leblond conoscono i veri nomi e volti degli
“studiosi”. Ma legati da non si sa bene quale vincolo non ne possono fare
menzione. Questa è la parte più debole. Che non mi convince. In caso di indagine,
una polizia moderna avrebbe tutti i mezzi per avere nomi, cognomi e indirizzi.
Ed avrebbe vita facile per risalire a chi tra questi era in Islanda dieci anni
prima. Che tutto poi è legato lì alla vicenda di una dozzina di francesi,
trovatisi casualmente nell’isola di Grimsey (quella attraversata dal Circolo
Polare Artico), e dove due di loro (tra cui la madre di Amédée) periscono di
morte violenta. Quel gruppo era soggiogato da una personalità forte, che fa
vivere i dieci sopravvissuti nel terrore. Scoprendo poi che Alice cede e parla,
comincia ad ucciderli ad uno ad uno. In maniera efferata, e mascherata da
suicidi. Sarà una gita in Islanda di Adamsberg, Veyrenc e Retancourt, che
permetterà al nostro, con il suo pensiero che vaga di qua e di là, di ricostruire
l’intera vicenda, che non vi narro. Di restringere il campo ai tre di cui
sopra, e di scoprire il vero e truculento artefice del tutto. Ma tutto il
romanzo è attraversato da molte citazioni alla storia di Francia del periodo
dominato dall’Incorruttibile. E se pur noi si sappia di Danton, di Marat, di
Saint-Just, di Desmoulins, il seguire la Storia (pur essendo un valido supporto
a rinfrescare memorie) non è agevole. Due note finali. La parte negativa è
l’emergere di una contrapposizione tra Adamsberg e Danglard, che non mi
aspettavo e che mi sorprende (sarà foriera di sviluppi?). La parte positiva è
legata invece all’Islanda, ai suoi colori, al suo cielo, a quel cambiare di
tempo ogni cinque minuti (citando un noto proverbio islandese: “se non ti piace
il tempo islandese adesso, aspetta cinque minuti: probabilmente peggiorerà”).
Tanto bella e cara, che alla fine anche Adamsberg ne viene conquistato e decide
di andarvi a passare la sua vacanza. Bravo! Meno brava la Vargas che maneggia
questo volumone, ma che appassiona poco nella storia poliziesca, non riesce a
far rilucer come altre volte le particolarità di Adamsberg e dei suoi. Insomma,
l’ho letto come un ulteriore tributo, a lei ed all’Islanda, ma non mi ha
coinvolto come in altri libri. Peccato.
Arnaldur Indriðason “Sfida cruciale” TEA euro 10 (in realtà, scontato a
8,50 euro)
[A: 12/02/2015– I: 30/12/2016 – T: 01/01/2017] - &&&
+
[tit. or.: Einvigið; ling. or.: islandese; pagine: 333;
anno 2011]
Andando avanti nella saga
islandese della polizia di Reikiavik, il simpatico Arnaldur, ormai presenza
stabile della mia libreria, aggiunge un nuovo tassello al grande puzzle che va
componendo. Non riuscendo a procedere di molto nella storia di Erlendur, dopo
aver anche avviato storie parallele con i due collaboratori del nostro
commissario, ecco che con un colpo di genio ci fa fare un salto all’indietro di
una trentina d’anni. In questo modo ci introduce alla storia ed alle inchieste
del futuro capo di Erlendur, il “mitico” (per chi ha letto le prime storie)
commissario Marion Briem (ma ne riparleremo più avanti). In questo modo, non
solo si cimenta in una nuova storia, ma riesce anche a collocarla temporalmente
in un momento assai particolare della storia islandese: il 1972. Per chi non lo
ricordasse, fu l’anno in cui proprio in Islanda si svolse il campionato del
mondo di scacchi tra il campione in carica, Boris Spasskij, e lo sfidante,
l’americano Bobby Fischer. Fu un evento storico ed epocale. Fischer è stato un
personaggio particolare anch’esso, paranoico, pieno di manie, ma (così mi
dicono i miei amici scacchisti, a me che conosco il gioco ma non sono un
intenditore) assolutamente geniale. Storico ed epocale perché laureò per la
prima volta un americano campione mondiale di scacchi. Perché diventò un
elemento di svolta nella guerra fredda tra le due superpotenze. Perché
l’Islanda si riempì per mesi (da luglio a settembre durò la sfida) di spie e
complotti di ogni genere. Non contenti della sfida anglo-russa, quegli anni
erano anche dominati da quella che si definì la “Seconda Guerra del Merluzzo”,
un dissidio tra Islanda e Regno Unito sull’ampiezza delle relative acque
territoriali per la caccia al merluzzo. Che portò l’Islanda a minacciare
l’uscita dalla NATO se gli Stati Uniti non fossero intervenuti a dissuadere i
pescatori inglesi (e notate che pescatore fa “fisherman”, con una splendida
assonanza con lo scacchista di cui sopra). Tutto ciò dà il clima in cui si
svolge il romanzo, e ne dà conto il titolo islandese che parla, appunto, di
“Sfida”. Perché in italiano sia diventata “cruciale” dovremmo chiederlo ai
traduttori (o a chi decide i titoli). Mentre la capitale quindi è pervasa e
percorsa dai fremiti dell’incontro, in un oscuro cinema di periferia viene
ucciso un ragazzo, un po’ autistico, che va al cinema con un registratore per
poi risentirsi a casa il sonoro dei film. Briem comincia ad indagare con il
fido Albert. Facendo molta fatica ad ingranare, anche se questo dà modo ad
Arnaldur di farci entrare nel personaggio, l’unico con un divano nella sua
stanza. Si capisce anche che è un lupo solitario, che viene da una giovinezza
difficile, quando, malato di tubercolosi, viene prima curato in patria, poi in
Danimarca. Dove incontro altri ragazzi come lui malati (in tempi dove gli
antibiotici erano lungi da essere sul mercato) ma che, al contrario di Marion,
muoiono. Meno Katrina, che si salva con un pericoloso intervento, e che rimarrà
in contatto con Marion, anche se quasi mai in Islanda. Andrà in paesi caldi, in
opere umanitarie. Ma questa è un’altra storia. Qui vediamo la polizia girare
molto a vuoto. Poi Marion trova traccia di sigarette russe. Trova anche vecchi
amici dei servizi segreti che lo istradano su di una pista che si rivela
giusta. Il cinema era stato scelto per un incontro segreto con un alto
funzionario tipo KGB che vuole passare agli americani. C’era uno dei primi
dirigenti del partito comunista islandese, lunghi anni di milizia a Mosca,
unico amico del possibile traditore. C’erano gli americani. E, purtroppo, c’era
il ragazzo che, nel suo registratore immette anche le parole del tradimento. Il
russo non ci pensa due volte e lo uccide. C’è quindi tutta la ricerca della
verità che costringe Marion a lavorare in solitudine, suscitando le ire di
Albert che poi lo lascerà come partner. Marion tampina il comunista, tampina la
sua compagna, capisce che i due non hanno visto bene l’uccisione che il russo
ha fatto un po’ di fretta. Tutto deve collassare durante una partita del
torneo. Qualcuno deve avvertire che la moglie del russo è in salvo in
Finlandia. Allora il russo può passare agli americani senza ritorsioni. La
grande manovra scatta, ma la macchina che porta via il traditore sembra più
russa che americana. Che cosa è realmente successo? È riuscita la fuga o
qualcuno ha tradito? Questo lo lasciamo agli attenti lettori. Sottolineando
solo che, in ogni caso, le esigenze dei servizi segreti renderanno impunibile
l’uccisione del ragazzo. Per collegare infine questo libro al resto della
serie, nel finale dei finali, vediamo che al posto di Albert verrà ad aiutare
Marion un giovane poliziotto. Ovviamente Erlendur! Faccio notare, per chi è
stato nell’isola, che ad un certo punto, per scaldarsi, alcuni personaggi si
mettono a bere “brennivín”, un’acquavite locale aromatizzata con carvi, una
pianta della famiglia del cumino ma con un sapore simile all’anice. I locali la
chiamano la “morte nera”, perché forte. Io l’ho provata, ed è veramente
disgustosa! Infine, riprendiamo il discorso su Marion. Il nome è ambiguo, che
può essere usato sia per un uomo che per una donna. Io, come i traduttori, ho
usato il generico maschile, anche se in un’intervista l’autore sostiene invece
di aver lasciato il sesso del protagonista ambiguo. Perché questo si può fare
in islandese. Non in italiano, tanto che qui è declinato al maschile, mentre in
uno dei primi libri della serie, quando è in pensione e poi muore, è declinato
al femminile. Allora, lasciamone l’ambiguità, che rende meno lineare tutta la
vicenda personale di Marion. Anche se, seguendo la genesi dei nomi di persona
in Islanda, Marion è un nome femminile e non maschile. Misteri delle lingue!
“Voglio che tu abbia un rapporto normale … Il nostro rapporto a
distanza è andato avanti anche troppo.” (274)
Arnaldur Indriðason “Le notti di Reykjavík” TEA euro 11 (in realtà,
scontato a 9,35 euro)
[A: 19/10/2015– I: 16/01/2017 – T: 18/01/2017] - &&
+
[tit. or.: Reykjavíkurnætur; ling. or.: islandese; pagine: 300;
anno 2012]
Nonostante
quel che si dice in rete (e qui concordo con il mio amico Renato, che ci
vorrebbe una sorta di calmiere/certificazione per evitare il propagandarsi di
notizie, non tanto false, ma che si discostano quel tanto dal vero per
inficiarne il significato) questo è un “nuovo” libro di Arnaldur e non la riproposizione
di un vecchio testo. Anche se i primi due libri di Erlendur sono disponibili
solo in islandese o in inglese. In effetti, Arnaldur (scusate, ma mi adeguo
anche io al costume locale di chiamare tutti per nome) dopo aver portato avanti
per anni la storia del commissario e dei suoi aiutanti, si trova quasi in
un’impasse, e non sapendo come andare avanti, decide di recuperare gli inizi
della carriera del nostro. Così nel precedente, ci ha mostrato la discesa in
campo di Marion Briem, futuro mentore del nostro Erlendur, che compare in una
piccola scena finale. Ora ci mostra i primi passi di Erlendur, inquadrato nella
polizia stradale, e che quindi seguiamo in molti piccoli “intermezzi” in cui si
occupa, con la sua pattuglia, di incidenti stradali, piuttosto che di donne
maltrattate o di piccoli furti. Ma è tutto un gioco che serve a riempire i
vuoti della storia del commissario, ed eventualmente all’autore di prendere il
fiato e di continuare le storie “attuali” (lì dove, una volta appurato
abbastanza bene cosa successe durante la tormenta di neve dell’infanzia, sembra
che non si riesca a proseguire). Riusciamo a collocare la vicenda prima del
1983 (anno della morte del poeta Tómas Guðmundsson, che nelle ultime pagine
declama una poesia a Þingvellir) e dopo il 1968 (Erlendur legge come romanzo
d’appendice brani de “Il poliziotto che ride”, libro degli svedesi Maj Sjöwall
e Per Wahlöö uscito quell’anno). Probabilmente, se diamo fede alla nascita
della “Nazione Islanda” risalente all’874, la vicenda dovrebbe collocarsi nel
1974. Collocazione che permette ad Arnaldur di fare un omaggio a suo padre, Indriði
Guðmundur Þorsteinsson, anche lui scrittore, che diresse il festival di cui
sopra del 1974. Inciso: ricordo che gli islandesi vanno per patronimici, quindi
Arnaldur figlio di Indriði, farà di cognome Indriðason. L’altro spunto
personale che percorre tutta la vicenda è il rapporto tra Erlendur e Halldóra.
Si frequentano, fanno sesso, ma sempre con quella indolenza del nostro che
sembra non impegnarsi mai in nulla (eccetto l’ossessiva ricerca del fratello
morto). Tanto va avanti senza sussulti d’amore, che quasi senza accorgersene,
dato che Halldóra è incinta, si sposeranno. Sappiamo noi, dall’aver letto i
primi scritti di Arnaldur, che si svolgono una trentina d’anni dopo questo, che
i due, dopo la nascita di due figli, si sono separati, ed ora non stanno in
buoni rapporti. Ma la storia di Erlendur e dei figli è materia d’altro. Qui,
dobbiamo seguire i primi passi di Erlendur. Non solo, ma se uno ha in mente la
toponomastica di Reykjavík, gli sembra quasi, leggendo, di seguire una serie di
passeggiate per il centro città. I luoghi topici delle morti sono poco sotto la
collinetta dove è situato il supermercato Bonus dove andavo a fare la spesa.
Erlendur e Rebekka spesso si incontrano sulle rive del laghetto in centro
città. Erlendur abita in una casetta vicino alla Hallgrimskirkja. I barboni
spesso dormono nella piazza dove ho seguito le partite del campionato europeo
insieme ai locali. La storia, quella centrale, che entra ed esce dalle corde
del racconto, è al solito storia di morte e di scomparsa. Per farci vedere come
Erlendur ne sia da sempre appassionato (ossessionato). Ed è sempre una storia
al passato. Mai che i nostri facciano delle indagini “live”. Un anno prima
muore affogato un barbone Hannibal, e nello stesso fine settimana scompare una
donna, Oddný. Pur ossessionato dalla scomparsa, Erlendur rivolge la sua
attenzione su Hannibal, il barbone, che aveva avuto modo di conoscere varie
volte che, per freddo o ubriacature, lo aveva “ospitato” nelle celle del
commissariato. Una persona apparentemente mite, di sicuro incapace di fare male
agli altri. Ovvio che Erlendur scava, e scopre, parlando con la Rebekka di cui
sopra (sorella di Hannibal), che il barbone si era dato all’alcool dopo un
terribile incidente di macchina, dove aveva salvato la vita alla sorella senza
poter aiutare la moglie (i particolari li lascio in cronaca). Quindi alcool,
tanto alcool, ed ogni tanto un piccolo riposo, un cambiamento d’aria, accanto
ad un’altra barbona, Þurí. Che il nostro ritrova, e che gli mostra un gioiello
che lei aveva trovato nell’ultimo rifugio di Hannibal. La tenacia di Erlendur
lo porta a collocare l’orecchino tra i gioielli di Oddný. Oltre ad ipotizzare
diversi scenari: un barbone, geloso delle attenzioni di Hannibal a Þurí, lo
uccide, Oddný lo vede e lui fa fuori la testimone. Oppure al posto del barbone,
i due fratelli spacciatori che Hannibal aveva minacciato. Oppure il marito di
Oddný che invece uccide Hannibal come scomodo testimone. Il tutto che rimane
sempre nel vago finché, seguendo il suo fiuto, Erlendur non scopre dove è sepolta
la donna, e risale la “catena” del crimine. In modo tanto brillante che Marion
Briem, alla fine, lo chiama per un colloquio. Il seguito ai prossimi “prequel”
(mi scuso della parola orrenda ma così si chiamano le puntate seriali che
vengono temporalmente prima ma scritte dopo del corpo principale della
narrazione). Se si fosse trattato solo delle indagini di Erlendur e della sua
simpatia verso Hannibal, avrebbe forse preso qualche punto in più. Ma
l’annegare tutto nelle dolenti notti islandesi, nei micro-crimini, e nelle
paturnie che l’allora non ancora trentenne poliziotto dimostra mi lascia un po’
più freddo del normale. Risale solo quando mi fa viaggiare per la città. Forse
già vorrei tornare in Islanda…
“Completamente solo in un eterno vagabondare
attraverso la vita, senza una destinazione precisa.” (216)
Liza Marklund “Happy Nation” Marsilio euro 14 (in realtà, scontato a
10,50 euro)
[A: 01/11/2015– I: 18/01/2017 – T: 20/01/2017] - & e ½
[tit. or.: Lyckliga gatan; ling. or.: svedese; pagine: 412;
anno 2013]
Nonostante
continui ancora a comperare i gialli di Liza Marklund, più che altro perché mi
ero appassionato al personaggio centrale della serie, che fu il primo di cui
lessi di origini svedesi, devo dire che, libro dopo libro, il giudizio verso questa
saga sta scivolando sempre più in basso. Per tutti i fattori fondamentali di un
libro: trama confusionata, finale inesistente (o quasi), spostamento degli assi
di interesse, personaggi che inutilmente compaiono. Nonché, ed è stato il colpo
di grazia, un titolo italiano di cui non si capisce l’origine ed il perché.
Ora, l’originale porta un titolo che, tradotto, significa “Via Felice”, e che
ha un senso, anche se questo senso appare solo nelle ultimissime pagine. Ma se
si è mantenuto il felice, anche se con l’inglese “Happy”, qual è il senso di
“Nation”? Non l’ho capito, e non ne riesco ad intuire la genesi. Se non si
voleva usare l’originale, forse le scelte fatte da altri traduttori sono state
più felici (in Inghilterra si chiama “Without a Trace” cioè “Senza traccia”, o
in Germania “Jagd” cioè “Caccia”). Nel tentativo di portare avanti tutte le
storie, ma anche di collegarle, Marklund qui fa un discreto guazzabuglio. C’è
la storia di Anders Schyman, il grande capo del giornale dove lavora la nostra
eroina, Annika Bengtzon, che medita di andare in pensione, ma negli ultimi
supposti giorni del suo lavoro, viene attaccato, da un irrintracciabile blogger,
che lo accusa di aver inventato la storia che gli diede onori e gloria,
proiettandolo sul palcoscenico giornalistico svedese nelle posizioni d’onore.
Era un reportage sulla scomparsa della miliardaria Viola qualcosa. In base a
tutta una serie di indizi, Anders sembrò dimostrare che Viola era scomparsa
volontariamente probabilmente in Russia. Ora qualcuno vuole vedere le sue
carte. C’è la storia di Nina Hoffman, poliziotta che abbiamo già incontrato in
episodi precedenti, messasi in congedo dopo aver ucciso il cattivo fratello (ma
solo Annika lo sa), viene richiamata al servizio Anticrimine dal grande capo Q.,
quello che da sempre protegge Annika, e viene messa sulle piste di un efferato
tentativo di omicidio (su cui torneremo). Seguiamo però tutte le alterne
vicende emozionali di Nina, anche perché la sua strada si incrocia nuovamente
con Annika. C’è la storia (inutile) di Thomas, l’ex-marito di Annika, tornato
dallo sfortunato raid africano senza una mano e senza la moglie. Entra ed esce
in alcune pagine, dando solo disturbo senza portare nessun aiuto al peso della
trama. C’è la storia privata di Annika e Jimmy, il suo nuovo compagno.
Incentrata sul difficile ménage plurimo, dove si ritrovano a convivere Annika,
i suoi due figli Ellen e Kalle avuti con Thomas, e Jimmy, con i suoi due figli
Jacob e Serena, avuti dalla moglie africana da cui ha divorziato. Ed è un
rapporto a più voci di difficile gestione, soprattutto nei rapporti tra Annika
e Serena. Ma a parte darci il senso del quotidiano nello scorrere del tempo, mi
domando quale ne sia la sua funzionalità. L’unico motivo è il ritrovarci
l’interesse ed il lavoro di Marklund nei confronti degli adolescenti
problematici, sui diritti delle donne e dei bambini e sui casi di violenza
domestica. Tutte queste storie si intrecciano con LA storia, quella su cui
indaga Nina come poliziotta e Annika come giornalista. Il quasi omicidio di un
ex-politico svedese, Ingemar Lerberg, seviziato fin quasi alla morte, e la
contemporanea scomparsa di Nora, la di lui moglie. La ricerca di Nora ed il
tentativo di ritrovare la verità su Viola si intrecciano notevolmente, quando i
nostri investigatori (pubblici e privati) scoprono molteplici assonanze: falsa
perdita di un passaporto per averne un duplicato, assunzione di un secondo
nome, diverso da quello ufficiale, ma altrettanto valido (potenza delle leggi
svedesi), acquisto di una macchina di seconda mano, confezionamento di un
cappotto con molte tasche per nascondere contanti. Entrano ed escono dalle
pagine anche i due misteriosi quasi assassini dell’inizio (che Marklund ce lo
dice subito), che sappiamo anche che sono gemelli, che ad un certo punto fanno
finta di non essere più duplici ma monadi, rimanendo uno in Svezia e prendendo l’altro
la residenza a Marbella sotto falso nome. Così che, data l’uguaglianza
somatica, possono scambiarsi i ruoli e crearsi alibi a vicenda. Il parallelismo
tra Nora e Viola avviene anche sul piano economico: Viola miliardaria con conti
alle Cayman, Nora contabile truffaldina per amore, con conti in Svizzera. Nina
ed Annika, unendo i loro sforzi, scoprono anche le prove che Nora aveva più
soldi di quanto sembrava esternamente e che Viola deve essere realmente morta e
non fuggita. In un trafiletto orizzontale, capiamo anche che i gemelli hanno le
mani in pasta non solo nelle sevizie a Ingemar, ma anche nella scomparsa di
Viola. Ma tutto questo si cristallizza nelle ultime pagine, senza portare a
conclusione reale nessuna delle storie. Immaginiamo che Anders riesca a
scagionarsi dalle accuse. Immaginiamo che Nina abbia successo nelle indagini.
Immaginiamo che la routine familiare di Annika migliori. Speriamo che Thomas
scompaia definitivamente. Immaginiamo che gli assassini vengano trovati ed
arrestati. Sappiamo solo che Nora … Questo lo sappiamo e non ve lo dico. Tutto
il resto è lasciato sospeso, come se Marklund volesse rimandarci ad una nuova
puntata della serie (so infatti che nel 2015 è uscito l’undicesimo volume della
saga). Non si fa così, però, che anche quando si scrivono storie seriali, ogni
libro dovrebbe avere delle conclusioni coerenti e descritte. Potresti fare
meglio, Liza.
Come
sapete, questi interventi “infrasettimanali” servono al recupero di cure dai
libri delle mie libroterapeute che vengono letti posteriormente al malanno
indagato. Per cui, vi meritate il corposo allegato di “cure passate”.
Sperando che
il sovraccarico di notizie non vi lasci sopraffatti anzi vi induca ad altre
amene letture, voglio chiudere qui, senza ulteriori spargimenti di parole.
CURARSI CON I LIBRI di
Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
PRIMO MAGGIO
Come già detto, a volte prendo
qualche festa non domenicale per recuperare libri. Che come in questo caso sono
sia di cure già descritte, che di cure “saltate”.
RECUPERO DI LIBRI LETTI PER CURE GIÀ DESCRITTE
Astinenza, Crisi di
Per combattere il dolore fisico e
spirituale che vi accompagnerà se vorrete liberarvi da soli di una dipendenza
avrete bisogno di libri che vi catturino, e vi costringano a interrogare a
fondo la vostra anima segnata dalle intemperie. Si consiglia una full
immersion, e allo stesso modo si invita a considerare la possibilità di una
somministrazione sonora. Questi libri non avranno paura nemmeno di tenervi la
testa mentre vomitate.
I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER FAR SUPERARE UNA CRISI DI ASTINENZA
Louis-Ferdinand
Cèline “Viaggio al termine della
notte”
Howard
Cruse “Figlio di un
preservativo bucato”
E. L. Doctorow “Ragtime”
John
Fante “Chiedi alla
polvere”
Cormac
McCarthy “Meridiano di
sangue”
Ivan
Goncarov “Oblomov”
José
Saramago “Memoriale del
convento”
Jean-Paul
Sartre “La nausea”
Roberto
Saviano “Gomorra”
Leonardo
Sciascia “Il Consiglio
d’Egitto”
RECUPERO DI LIBRI LETTI PER CURE PASSATE
Amore, disamorarsi dell’
Haruki Murakami 1Q84
L’amore vero.
Il chiaro di luna. Le rose. La devozione eterna. Quello giusto.
Scendi dalle
nuvole, vi sentiamo dire.
Alcuni di noi
sentono di aver fatto l’ultimo chilometro, con l’amore. La capacità di amare
sembra esaurita, quella di suscitare amore svanita. Il tempo per un po’ di romanticismo
nella nostra vita è scaduto.
Non abbiamo
più un solo minuto da perdere con certi atteggiamenti. Qui e ora, ci impegniamo
a strapparvi allo scetticismo e a convincervi che l’amore può tornare, ancora e
ancora, all’infinito. Il romanzo che utilizzeremo è l’epico “1Q84” di Murakami.
Dire che “1Q84”
è un romanzo complesso è usare un eufemismo. È straordinariamente lungo e si
svolge in due mondi diversi. E tuttavia è profondamente, fondamentalmente
romantico. Il nocciolo della storia si trova nel passato dei due personaggi
principali. Quando avevano entrambi undici anni si erano tenuti per mano a
lungo, in classe. Quel momento - silenzioso, carico di significato, del tutto
inatteso per Tengo, desiderato eppure inspiegabile per Aomame - da allora ha
continuato a perseguitarli entrambi. Aomame sapeva che se ne stava andando, e
Tengo era sempre stato gentile con lei, e dunque aveva impresso la propria
essenza sul palmo della sua mano, alterando per sempre la sua anima.
Adesso, più di
vent’anni dopo, seguiamo Tengo e Aomame mentre conducono le loro vite separate
e solitarie. Nessuno dei due è riuscito a costruire un rapporto adulto. Tengo
insegna matematica e sta scrivendo un romanzo, Aomame vive una vita regolata,
insegnando autodifesa e lavorando, parallelamente, come sicaria. Entrambi, a un
certo punto, rimangono invischiati con una setta religiosa, la Sagikake, e ben
presto devono fuggire, separatamente. Sono tuttavia sempre più consapevoli dell’importanza
che ciascuno ha per la vita dell’altro.
Uno dei temi
del romanzo è l’idea di perdersi irrimediabilmente - in senso morale, tra due
mondi paralleli, o più semplicemente non essere più toccati dall’amore. Mentre
Tengo fa visita al padre morente gli legge una storia su un luogo dove le
persone possono perdere del tutto la capacità di amare. Tengo riflette molto su
questa definitiva assenza d’amore e quando, al contrario, cominciano a
succedere cose che oltrepassano i confini del reale - una gravidanza innegabile
quanto inspiegabile, due persone che si ritrovano contro ogni previsione,
l’amore che riprende ad abitare chi vi ha rinunciato molto tempo prima - sembra
che il potere di questo sentimento possa trionfare su tutto. Fate questo
viaggio epico insieme a Tengo. Tornate, insieme a lui, a innamorarvi
dell’amore (senza esagerare per non finire ad essere dei romanticoni).
Cicatrici fisiche
Cari
Hiaasen “Biscayne Bay”
Se siete
abbastanza sfortunati da avere una brutta cicatrice, potete passare chissà
quanto tempo a preoccuparvi di come nasconderla. Forse avete pensato alla crema
alla vitamina E, al fondotinta e/o al correttore, a tatuaggi temporanei o
permanenti - perfino alla chirurgia plastica. Smettetela di preoccuparvi.
Tenere un romanzo nel modo giusto - piegato con nonchalance, per esempio, in
modo da coprire quel brutto segno sul mento - sposterà tutta l’attenzione dalla
vostra cicatrice, soprattutto se il titolo è abbastanza intrigante. Chi vi
guarda sarà molto più interessato a capire cosa state leggendo che a quello che
sta sotto. Inciso: questi titoli sono particolarmente efficaci per distrarre i
vostri interlocutori dalle vostre cicatrici (purtroppo, questo stratagemma non
funziona con gli e-book): “Noi siamo
infinito” (Stephen Chboskv), “Il centenario che saltò dalla finestra e
scomparve” (Jonas Jonasson), “Concerto per archi e canguro” (Jonathan Lethem), “Aspetta primavera Bandini” (John
Fante), “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” (Philip K. Dick).
Ad ogni modo,
stiamo divagando. Il romanzo che vi raccomandiamo per la vostra cicatrice è “Biscayne
Bay” di Cari Hiaasen. Come tutti i suoi libri è ambientato in Florida, tra
turisti e criminali delle Everglades. Il suo antieroe è Chemo, un uomo la cui
pelle è diventata simile al riso soffiato dopo uno sfortunato incidente con
l’elettrolisi. Chemo fa un accordo con un chirurgo plastico: una ricostruzione
facciale in cambio dell’eliminazione discreta di un testimone scomodo della
morte accidentale di uno degli altri sfortunati pazienti del chirurgo.
Alto due metri
e dieci, Chemo non è il più discreto dei sicari e non è nemmeno dotato di
chissà quale intelligenza. A peggiorare le cose, Rudy Graveline, il chirurgo
plastico poco ortodosso e senza nemmeno una laurea, ha una lunga lista di
pazienti misteriosamente abbandonati a metà lavoro, morti o comunque
insoddisfatti. C’è una donna, tuttavia, la cui anatomia nemmeno un chirurgo
senza scrupoli come Rudy Graveline si azzarderebbe a toccare, un’attrice di
nome Heather Chapell il cui corpo non potrebbe essere più perfetto. Heather non
è d’accordo, però, e vorrebbe rifarsi il seno, ridurre il ventre e dare una
sistemata a naso e mento. II suo desiderio disperato di rimediare a difetti
inesistenti dovrebbe servire a ricordarci che spesso vediamo difetti dove altri
non vedono niente.
Questo
romanzo, un’esilarante “black comedy” con i suoi modi raccapriccianti e
improbabili per liberarsi dei cadaveri e i suoi malviventi vagamente
sociopatici che ottengono quello che si meritano, vi terrà a distanza di
sicurezza dal bisturi del chirurgo. Imparate ad amare le vostre cicatrici.
Fanno parte della vostra storia, del racconto che vive sulla vostra pelle.
Bugiardino
Astinenza, Crisi di
Delle
Crisi di astinenza ho scritto nell’agosto 2014, citando quelli che avevo
tramato allora (McCarthy, Saviano, Sartre e Fante). Ora mettiamo invece mano al
libro di Doctorow, letto successivamente.
E. L. Doctorow
“Ragtime” Mondadori euro 13 (in realtà, scontato a 9,75 euro)
[libro letto il 20 aprile 2017 e non ancora
pubblicato]
Un
altro libro “storico” in molti sensi, che andava letto prima o poi, visto che
al tempo non mi incuriosì, così come mi aveva lasciato discretamente freddo la
figura di scrittore di Edgar Lawrence Doctorow, noto al pubblico solo con le
iniziali (E.L.). Spinta che, oltre per evidenti ragioni culturali, è stata
amplificata dalle letture dei miei libri “da comodino”, sulla cura e sulla
felicità che danno i testi stampati. L’anomalo Doctorow, tra l’altro, è
l’esponente di punta di quella “historical fiction” che tanto successo ha (ha
avuto) in America da un certo punto in poi. Anomalo perché ha scritto pochi
libri e tutti su questo filone. Una fiction che cominciò con “Il libro di
Daniel”, dove romanza la vicenda della condanna a morte dei coniugi Rosenberg.
E che ebbe il suo altro punto di grande successo in questa saga dell’America
dei primi decenni del secolo. Una saga che, dal punto di vista storico,
seguiamo dalla vicenda legata all’omicidio di Stanford White con al centro la
figura di Evelyn Nesbit sino all’entrata in guerra degli Stati Uniti nel 1917.
La scrittura è molto scorrevole, anche senza punte di vero coinvolgimento,
almeno per il mio gusto. Prendendo come filo conduttore una fantomatica
famiglia media americana (Papà, Mamma, Figlio e Fratello Minore della Mamma) la
segue mentre si intrecciano, a volte molto tangenzialmente, le vicende
personali della famiglia con avvenimenti storici. Il contraltare della famiglia
media è costituito da due personaggi di verso opposto: l’immigrato est europeo
Tateh ed il negro Coalhouse Walker. Ma l’intrecciarsi delle vicende è proprio
l’elemento centrale e di punta del romanzo. Alcune sono vicende storiche
significative, che danno sia il senso del tempo della narrazione sia
dell’evoluzione dell’America nei primi venti anni del secolo scorso. Abbiamo
quella di partenza, il famoso, all’epoca, omicidio dell’architetto Stanford
White da parte del geloso marito di Evelyn Nesbit. Evelyn era stata amante di
White, che però prediligeva ninfette adolescenti, e che la lasciò quando la
signorina si avviava ai venti anni. Harry Thaw, marito geloso e violento,
uccide l’ex-amante con un colpo di pistola al teatro del Madison Square Garden.
Una vicenda che si protrasse per molti anni, con Thaw che si finge pazzo, che
sfugge alla condanna a morte, e che poi riesce anche ad uscire di prigione vivo
proprio nel 1917 quando finisce il romanzo. Doctorow inzeppa la storia
immaginando una breve storia d’amore tra il Fratello Minore della Mamma ed
Evelyn. Altro punto forte è la controversa spedizione alla conquista del Polo
Nord geografico guidata da Robert E. Peary, che, barando, sembrò averlo
raggiunto. Anche qui, le storie si mescolano con la partecipazione di Papà alla
spedizione. Poi ci sono i molti spettacoli di escapismo di Harry Houdini, che
fanno da contraltare alla crescita del Figlio. E poi le due vicende
industriali: la crescita ed il consolidamento dell’impero di John P. Morgan,
considerato uno degli uomini più ricchi di ogni tempo, e la nascita dell’impero
automobilistico di henry Ford, con la messa in produzione della famosissima
Ford T. Gustosa e da leggere la parte relativa all’incontro tra i due grandi
uomini. Inciso: Morgan muore nel 1913 nel sonno al Grand Hotel di Roma. Poi ci
sono vicende toccate di lato, magari accennate, magari da approfondire. Come la
vita e le opere della femminista anarchica Emma Goldman. O. più ironicamente,
la visita in America del trio di grandi psicanalisti dell’epoca: Freud, Jung e
Ferenczi. Filo conduttore, dicevamo poi, oltre le vicende della famiglia,
quella dell’immigrato dell’est, Tateh. Che vive di stenti, che è abile nel
ritagliare figurine nel cartone (si immaginano belle silhouette della Nesbit),
che non riesce ad integrarsi con le comunità locali, che scaccia la moglie,
prostituitasi per trovare i pochi soldi per andare avanti, che fugge ad
Atlantic City con la figlia, e che trova il suo spazio con le sue figurine
animate quando capisce che si può inserire nella nascente industria
cinematografica. Più densa, ma anche più diluita, e forse anche troppo “montata”,
la vicenda di Coalhouse Walker. Che Doctorow riprende, aggiornandola, dal
racconto “Michael Kohlhaas” di Henrich von Kleist. Walker è un nero che
incidentalmente mette incinta la giovane Sarah, che, con il figlio, viene
“adottata” dalla madre. Walker è un suonatore di piano, dopo un lungo
corteggiamento riesce a convincere Sarah al matrimonio, ma, prima della
fatidica data, entra in contrasto con i bianchi. Ovvio il nascere degli attriti
razziali. Il locale capo dei pompieri sporca di lordume la bella macchina di
Walker, che chiede un risarcimento. Ovvio che la prende in quel posto. Ovvia la
sua irritazione, che seguiamo, purtroppo, per pagine e pagine, risultando
incisiva dal punto di vista sociologico, ma poco dal punto di vista narrativa.
Walker, nonostante la sua ribellione ed alcune vittorie tattiche, non potrà
vincere, ed alla fine sarà trucidato davanti alla Biblioteca istituita da J.P.
Morgan. I suoi accoliti fuggiranno, tra cui il Fratello Minore della Mamma, che
riparerà in Messico per unirsi alla rivoluzione zapatista. Papà avrà invece un
tracollo finale, lasciando finalmente libera Mamma, che alla fine troverà il
modo di unirsi in un matrimonio felice con l’immigrato ora ricco Tateh. Non ci
voleva certo questo libro per dirci che agli inizi del Novecento gli americani
erano zoticoni ed immigrati. Neppure ci illumina in modo maggiore sul modo
banditesco e ricattatorio con cui le grandi famiglie americane costruirono i
loro imperi. Certo, ci fa vedere che, cinquanta anni dopo la Guerra Civile, il
razzismo è ancora imperante (e purtroppo lo è ancora). Ci fa capire infine,
anche se scritto quaranta anni fa, come sia possibile che una persona poco
qualificabile come Trump possa diventare Presidente degli Stati Uniti. Insomma,
tenta di essere pungente, ma non lo è fino in fondo (se volete veramente
arrabbiarvi leggete le epopee dei nativi americani allora). È correttamente
leggibile, ma poco altro di più. Inoltre questa mancanza di nomi nella famiglia
che seguiamo per venti anni lascia la storia a qualche passo da noi, senza
coinvolgerci. Per finire, è vero che il rag era la musica del tempo, ma a parte
alcuni accenni a Scott Joplin da parte di Walker, poco ci viene rimandato.
“[citando Freud]
L’America è uno sbaglio, un gigantesco sbaglio.” (38)
Amore, disamorarsi dell’
Anche
se con alti e bassi, a volte anche con poca convinzione, Murakami torna spesso
nelle mie letture. Non poteva quindi mancare questo poderoso libro, di cui vi
meritate una poderosa trama.
Haruki Murakami “1Q84” Einaudi euro 26 (in realtà scontato 22,10 euro)
[trama del 4 dicembre 2016]
Diciamo
subito che è un libro complesso, soprattutto per la mole di pagine che mette in
gioco. Tanto che l’autore decise, con l’editore, di farlo uscire in tre volumi.
Anzi, per la precisione, Murakami pare avesse deciso di fermarsi ai primi due
(e poteva essere quella una fine possibile) e solo in un secondo momento
completò l’opera con il terzo. La scelta multi-volume è ora riproposta anche da
Einaudi, dopo una prima uscita in due volumi separati. Si diceva subito, libro
complesso e dai molteplici spunti (che spero qualcuno esca fuori da queste
righe). Comunque, su tutti, è ovvia la discendenza dalla distopia di Orwell
contenuta in “1984”. Tra le molteplici discendenze da Orwell, devo subito fare
un plauso a Haruki per l’idea del titolo. In Giapponese (come tutti sanno) 9 si
pronuncia “kyuu”, con una dizione molto simile alla Q. Lettera che poi è
l’iniziale di “question mark”, punto interrogativo. L’autore quindi, da un lato
vuole fare un omaggio – rivisitazione del libro di Orwell, dall’altro si
interroga di dove si sia noi realmente (e vedremo che questo non è un aggettivo
casuale), mettendo appunto il “?”. Ci sono altri due grandi punti di contatto
che citerei subito. L’inizio delle storie, entrambi i libri infatti cominciano
nell’aprile del 1984. E la dipendenza, la discendenza della storia da un libro
che transita tra le mani del protagonista. Qui c’è “La crisalide d’aria” di cui
parlo più estesamente nel proseguo. In Orwell, c’è il libro che Winston legge
per iniziare la sua opposizione al regime del “Grande Fratello”: “Teoria e
prassi del collettivismo oligarchico”. Non entro maggiormente nella struttura
del libro di Orwell che tanti hanno meglio di me letto ed analizzato. Poiché
qui ci dedichiamo a questa nostra distopia giapponese. Facendo comunque
un’osservazione preliminare: qui, come in molte delle opere di Haruki, il
Giappone è in un certo senso “modificato”, influenzato dalle esperienze
occidentali che lo stesso autore ha avuto nel corso degli anni. Non è il
Giappone di Banana, che mi rimanda quello che ho visitato alcuni anni fa (e
dove spero di tornare). È anch’esso una fantasia, un luogo – nonluogo
(un’utopia, per chi sa di greco). Ed è per questo che risulta alla fine un
posto in cui anche noi, non giapponesi, possiamo stare, possiamo vivere. Un
posto dove le nostre fantasie, i nostri momenti reali ed irreali hanno comunque
un loro senso. Ma sul senso e sul realismo spero di tornare alla fine di questa
storia. Proviamo per ora ad entrare nei diversi libri, cercando di uscirne
prima delle più di mille pagine che ci propone l’autore, ricordando solo che
nei primi due libri ci sono 48 capitoli, 24 visti dall’ottica di Aomame e 24 in
quella di Tengo, mentre nel terzo ci sono 31 capitoli: 10 nell’ottica di
Aomame, 10 in quella di Tengo, 10 in quella di Ushikawa ed 1 di coppia. Inoltre
ogni capitolo ha un titolo, che sarà poi una frase contenuta nel capitolo
stesso. E mi fermo qui nell’analisi meta testuale.
Libro Primo (Aprile – Giugno)
[pag. 5 – 393]
Mi
soffermo un attimo ancora sull’attacco del libro che ci dà alcune chiavi
importanti per la sua comprensione. Siamo nell’aprile 1984 (data importante
come rilevato sopra), ed incontriamo uno dei due protagonisti, la trentenne
Aomame Masami. Sta andando ad un importante appuntamento, ma è imbottigliata
nel traffico. Sta in un taxi, dalla cui radio esce una musica che lei riconosce
subito essere la sinfonietta di Janacek, oscura musica scritta nel 1926. Qui
abbiamo il primo colpo dello scrittore alle sicurezze ed al reale. La musica
non è particolarmente nota (l’ho ascoltata e non mi ha fatto una impressione
stravolgente), ma Aomame la riconosce. Haruki già nelle prime righe ci invita
ad una sospensione del reale. Non sappiamo come (né mai lo sapremo) ma Aomame
riconosce la musica. Quindi guarda ad un tabellone pubblicitario della Esso,
con la famosa “tigre nel motore”. Altro elemento importante: la presenza della
pubblicità, che ridà il realismo ad un mondo che potremmo pensare immaginaria.
Invece qui, ed in molte parti del romanzo, i marchi, il marketing è presente.
Vorrà dire qualcosa? Per non tardare all’appuntamento Aomame scende dall’auto
ed imbocca una scala di sicurezza che dalla soprelevata la porterà alla
metropolitana. Qui c’è lo spostamento definitivo del reale: come attraversando
una porta magica, Aomame entra in una diversa realtà, un mondo parallelo dove
tutto è quasi uguale al mondo che lei conosce. Ma solo quasi. Ad esempio i
poliziotti hanno armi diverse da quelle standard. Da qui si diparte la storia
di Aomame, che in realtà è un killer professionista che per conto dell’anziana
e ricca vedova Ogata uccide uomini che hanno commesso atti contro le donne e
che sono rimasti impuniti. Parlando con Tamaru, la guardia del corpo di Ogata,
scopre inoltre l’esistenza di avvenimenti che non ricorda, confermando nella
sua mente l’irreale passaggio in una realtà diversa. E scopre anche l’esistenza
in questa realtà di due lune. Noi scopriamo inoltre che lei non ha legami
fissi, essendo ancora innamorata di un ragazzo che le strinse la mano quando
aveva 10 anni: Kawana Tengo. Piccola parentesi: soggettivamente rilevo
l’importanza del linguaggio dei corpi nei rapporti umani (se ce n’era bisogno).
Aomame si fa amica della poliziotta Ayumi, e conosce la bimba Tsubasa, fuggita
dalla setta Sakigake dopo essere stata abusata dal Leader della setta stessa.
In parallelo alternato seguiamo anche la storia proprio di Kawana Tengo,
insegnante di matematica (un punto a suo favore) ed aspirante scrittore (altro
punto). Per una serie di vicissitudini viene coinvolto nella riscrittura di un
romanzo molto curioso scritto dalla giovane Fukaeri “La crisalide d’aria”. La
giovane, essendo dislessica, l’ha dettato alla figlia di un professore ex-amico
del padre. Mentre vanno a trovarlo, Tengo ricorda la sua giovinezza, legata ai
giri che faceva con il padre esattore delle tasse, e l’incontro con una ragazza
che girava con i genitori Testimoni di Geova. Ovvio che la ragazza è Aomame, e
che Tengo ne sia ancora innamorato. Il professore racconta che Fukaeri è figlia
del suo ex-collega Tamotsu, fondatore di Sakigake, una comune di agricoltura
biologica, che pochi anni prima si è trasformata in una setta religiosa chiusa
all’esterno. Da dove la ragazza è fuggita. Tengo riscrive, con successo, il
libro che narra dell’incontro tra una ragazza e degli esseri misteriosi
chiamati “Piccolo popolo”. Mentre Tengo comincia a scrivere un nuovo romanzo
nello stesso ambiente del primo, Fukaeri scompare perché si sente minacciata.
Sapremo presto che lei è dotata di strani poteri che le fanno intuire cose
prima o mentre accadono, in modo che lei possa proteggersi.
“In ogni caso, non posso fare altro che
continuare a vivere questa vita. Non posso restituirla e farmene dare in cambio
una nuova. Per quanto atipica o complicata possa essere, è l’espressione di
quel veicolo di geni che sono io.” (315)
Libro Secondo (Luglio – Settembre)
[pag. 397 – 745]
Come
detto sopra, anche il secondo libro è tutto basato sul dualismo Tengo/Aomame.
Tengo è ossessionato dal ricordo della madre, che gli sfugge, e dalla
sensazione interna che il proprio padre non sia quello biologico. Per cercare
di capire lo va a trovare, senza successo, nella clinica dove è ricoverato.
Tornato, in una sera con un terribile temporale, trova Fukaeri ad aspettarlo e
decide di tenerla nascosta presso di sé. Lei è convinta che il Piccolo Popolo
stia tramando qualcosa. Durante quella notte, Tengo, incapace di muoversi, ha
un lungo rapporto sessuale con Fukaeri. Dal giorno successivo Tengo decide di mettersi
alla ricerca di Aomame. Ma il padre entra in coma, lui è costretto di nuovo ad
andarlo a trovare, e scopre sul letto del padre una crisalide con il corpo di
Aomame bambina. Intanto la sua vita si intreccia con Ushikawa, uno strano
personaggio, che non ce la conta giusta. In parallelo, Aomame viene a sapere
che la sua amica Ayumi è stata uccisa. E che la signora Ogata le sta
organizzando un incontro con Tamotsu, il leader di Sakigake, per ucciderlo.
Mentre infuria il temporale di cui sopra, Aomame ha un lungo incontro con il
Leader, che le fa capire di sapere tutto di lei. Chi è, cosa faccia, ed anche
il suo amore per Tengo. Ed il rapporto tra Tengo e sua figlia Fukaeri. Presa
dai dubbi non sa cosa fare, ma Tamotsu le pone davanti un ultimatum: o lo uccide
salvando Tengo, o se ne va, ma Tengo morirà. Nel primo caso dovrà attendersi
una feroce vendetta su di lei. Aomame allora porta a termine la sua missione,
ma non entra in clandestinità. Anzi, una notte riconosce la figura di Tengo in
un parco. Cerca allora di fuggire dal 1Q84, tornando sulla tangenziale, ma la
scala è scomparsa. Sulla sua decisione di togliersi la vita, per mettere fine a
tutta la vicenda, si chiude il secondo libro.
Libro Terzo (Ottobre – Dicembre)
[pag. 749 – 1157]
Questo
terzo libro sembra non fosse previsto nel piano originale, ma credo che Haruki
si sia trovato con tanti dubbi personali che è stato naturale andare avanti,
anche se non tutto (anzi molto poco) sarà sciolto. Aomame non si uccide, ed
Ushikawa si scopre essere un investigatore al soldo di Sakigake per
rintracciare Aomame. Pur essendo antipatico, è bravo e scopre una serie di
legami, tanto che capisce di dover tenere sott’occhio Tengo per arrivare ad
Aomame. Così facendo scopre anche che Fukaeri è nascosta proprio lì da Tengo.
La ragazza, con i suoi poteri “extra” capisce e fugge. Aomame scopre di essere
incinta ed è sicura che il padre sia Tengo (il nascituro è stato concepito la
famosa notte del temporale). Mentre Aomame continua a vagare alla ricerca di
Tengo, si imbatte in Ushikawa che pedina Tengo. Segue l’investigatore scoprendo
la casa di Tengo, ma scoprendo anche che Ushikawa si sta avvicinando troppo a
lei. Sarà Tamaru a fungere da catalizzatore: uccide Ushikawa e fa in modo che
Tengo e Aomame si riuniscano. Insieme capiscono molte cose (che non vi dico) e
trovano il modo (ora che sta finendo l’anno 1Q84) di uscirne. Prendo la
metropolitana e percorrono la scala (che qui c’è) al contrario sbucando sulla
Tangenziale. Guardano il cielo: la luna è una sola, tuttavia la tigre della
Esso è girata verso sinistra e non verso destra, come nel primo capitolo.
Qui
finisce il libro, o i libri. Qui rimangono ancora in sospeso domande su
domande. Al solito, Haruki non svela tutta, i suoi non sono romanzi “realisti”.
C’è sempre spazio per l’immaginazione, il lato onirico di ognuno di noi. E noi
rimaniamo con tante domande. Chi sono i “Little People”? Quanti sono i mondi
paralleli (anche se a questa domanda un attento lettore di fantascienza darebbe
una risposta sicura)? Quant’è forte l’amore? Dove sta il Giappone? Che setta è
Sakigake? Chi è Fukaeri? Vogliamo continuare, potendolo con una domanda quasi
per ogni riga dello scritto. Ma ne riporto un’altra sola: perché lo scrittore
ha chiesto di scrivere per una trentina di pagine il numero delle pagine
dispari al contrario, poi per una nuova trentina quello delle pagine pari, e
così via per tutte le quasi 1200 pagine del romanzo? C’è un algoritmo dietro a
tutto ciò? Mi rendo conto, rileggendo gli spunti tramatori che, così riportato,
sembrerebbe quasi un thriller americano. In realtà, è un lungo viaggio. Dentro
di noi, dentro le nostre paure, sorretti dalle nostre convinzioni. Haruki è
assolutamente convinto della potenza dell’amore per sconfiggere i mali del
mondo. Vedremo (e vedremo cosa ne dicono le spesso consultate libropeute). Io
ne faccio una fede, ma anche una domanda. Come altri e con ben altro spazio e
capacità hanno detto, c’è molto altro dentro questo mondo 1Q84 (e dentro tutti
i mondi possibili). C’è Dostoevskij e Bulgakov, ci sono i Sette Nani e la
Strega Cattiva, c’è Frazer (quello del “Ramo d’oro”) e Farrell (quello della
“Vita di Studs Lonigan”). Ci sono le riflessioni sulle sette e sul terrorismo.
C’è il sesso ed il femminicidio. C’è, come detto fin dall’inizio, Orwell.
Forse, per me, c’è troppo. Che non riesco ad uscirne indenne. Che non riesco ad
andare sopra un’onesta sufficienza come gradimento. Anche se so che Haruki è
più di quanto io possa sostenere (e non è un caso che venga nelle mie prime
posizioni per un Nobel, sempre però dopo Amos Oz). Riesco solo a pensare che
sono contento alla fine che Aomame e Tengo vengano in contatto. E mi domando,
sarà finita qui?
Cicatrici fisiche
Non
ho (ancora) letto il libro di Hiaasen, ma ho letto e vi riporto sia Chbovsky
che un altro Fante. Vi risparmio il centenario di cui ho già troppo scritto.
Stephen Chbosky “Noi siamo infinito” Sperling & Kuipfer euro 13 (in
realtà, scontato a 9,75 euro)
[trama dell’8 maggio 2016]
Non
sapevo nulla di questo libro, dell’autore e del film che ne fu tratto (nel
2012), ma spinto dai suggerimenti “delle cure”, l’avevo messo nella lista degli
acquisti. Lo avevo acquistato con altri e messo nella lista delle letture. Ora
l’ho letto. Interessante, abbastanza duro ma non di ferro, forse anche pieno di
possibilità inespresse, e che avrebbero potuto meglio uscire dalla pagina. Alla
fine, un libro che si legge veloce, che non mi fa rimpiangere di non aver visto
il film (anche se interpretato da Emma Watson, la mia Hermione preferita).
Intanto, il segno meno è dovuto alla pervicacia delle edizioni italiane (e dei
distributori del film): l’originale recita “Il vantaggio di essere una
tappezzeria”, che capisco sia difficile da rendere sinteticamente in italiano,
anche se tutti ci ricordiamo come alle feste “facesse tappezzeria” il ragazzo/a
che stava da una parte senza partecipare a nulla. Ed è così che sta passando
questo primo anno alle scuole superiori il nostro Charlie. Ragazzo molto
intelligente, e contemporaneamente pieno di problemi. Come direbbe Troisi, non
è che ha un complesso in testa, ma un’orchestra intera. Charlie è terrorizzato
dalla novità di cambiare scuola, di crescere, di perdere gli amici e di non
sapersene fare di nuovi. Per questo attraversa questo periodo appunto come
tappezziere, senza partecipare (così come tutti ad un certo punto gli dicono).
Ed allo stesso tempo, si interroga (ed interroga) su tutto. Tanto che spesso,
soprattutto il padre, gli chiede addirittura di non fare domande, e di seguire
le cose così come vengono. Charlie ha un fratello grande, che sta
all’Università e si mantiene con borse di studio dovute alla sua attività
sportiva. Ha una sorella, di poco più grande, che sbaglia sempre nella scelta
dei ragazzi con cui andare. Tanto che rimane pure incinta, ed è partecipativa
la scena di Charlie che la porta in clinica ad abortire. Nonostante il terrore
di “stare solo”, Charlie fa comunque dei passi in avanti. Inciso: un terrore
che gli deriva dal grande amore che aveva avuto per la sorella della madre, zia
Helen, morta quando lui aveva sette anni. E dal suicidio del suo amico delle
medie Michael. Per fare un esempio delle intempestività di Charlie, dopo quasi
un anno dal suicidio, incontrando Susan, la ragazza di Michael, che si sta
divertendo con degli amici, le chiede a bruciapelo: “Non senti mai la sua
mancanza?” Fa dei passi avanti, dicevo, incontrando Patrick e sua sorella
Samantha detta Sam. Sono più grandi, stanno all’ultimo anno, sosterranno
l’esame finale, ma con loro si trova bene. Charlie comincia così a descrivere questo
suo anno vissuto ai margini. Si prende una sbandata per Sam, che però gli fa
capire la differenza d’età. È empatico con Patrick, gay con una cotta per Brad,
ma la cui storia finisce male (molto per colpa di Brad che non accetta la sua
omosessualità). Si mette con Mary Elizabeth, una ragazza che ha il solo difetto
di parlare molto. E che lui ascolta. Ma non ama, lo fa perché “così fan tutti”.
Fuma spinelli. A volte si ubriaca come un cavallo. Prova anche qualche cosa di
più pesante, ma va fuori di testa. Lo aiuta, tra gli altri, il professore di
inglese, che gli dà montagne di libri da leggere e recensire (tra cui Il buio
oltre la siepe di Harper Lee, Peter e Wendy di J. M. Barrie, Il grande Gatsby
di F. Scott Fitzgerald, Il giovane Holden di J. D. Salinger, Sulla strada di
Jack Kerouac, e altri). Fino allo scioglimento finale, la festa di fine anno,
e, finalmente, sappiamo perché Charlie è un po’ strano. Si vede che lo
scrittore è anche sceneggiatore, che il libro è già quasi un copione. Ed è un
bell’esempio del “mondo” americano. Certo, i genitori sono come si vorrebbe
fossero. Gli amici, con tutti i loro difetti, anche. Ma si ha il coraggio,
anche, di dire che c’è gente che beve, si droga, che ci sono rapporti difficili
con gli altri, che ognuno è sé stesso a modo suo. Insomma, non mi è dispiaciuto
leggerne, con tutti i distinguo che ho appena fatto. A volte scivola nel
“kinsellaggio”, ma è sopportabile. Ed ogni tanto è bene ricordarsi che anche
noi abbiamo avuto sedici anni.
“Il fatto è che non so di cose parlasse,
anche se lo faceva molto bene.” (156)
“Immagino che siano tanti i fattori che ci
fanno essere come siamo. Molti, forse, non li conosceremo mai. Ma, anche se non
possiamo essere noi a decidere da dove veniamo, possiamo scegliere la nostra
meta.” (269)
John Fante “Aspetta primavera, Bandini” Einaudi euro 12,50
[trama del 10 maggio 2015]
Non
posso non cominciare una nuova trama dedicata John Fante senza prima rivolgere
il solito ringraziamento a Luana, che me lo fece conoscere, mi spinse a leggerne
ed a cui ripenso ogni volto ho un suo nuovo libro in mano. Questo è il primo
libro pubblicato da Fante (anche se il secondo ad essere stato scritto),
scritto sulla soglia dei suoi trent’anni, con tutta la rabbia che poteva avere
questo figlio di immigrati verso un mondo in cui non aveva trovato ancora la
sua strada. Nasce qui la saga degli immigrati di seconda generazione, quelli
cioè nati in America, ma ancora immersi fino al collo nella cultura dei paesi
di origine. Ed è anche l’inizio ufficiale della saga di Arturo Bandini,
l’alter-ego di Fante del quale continuerà a scrivere in tutte le sue opere, e
con tutte le sue problematiche. Prima fra tutte il rapporto con il padre,
figura ingombrante e con la quale farà pace solo molti anni dopo. Ma c’è anche il
rapporto amore-dispetto verso la madre e la sua accettazione cattolica della
vita, il rifiuto della rivolta, la sottomissione. In sottordine, ma solo perché
presenti, anche se poi si svilupperanno su due filoni diversi (uno in ascesa
l’altro in discesa) il rapporto con le donne e quello con la religione. Qui c’è
Arturo quattordicenne, che ad ogni malefatta (reale o ipotetica) corre a
confessarsi per redimersi. E se anche rimarrà traccia del cattolicesimo, questa
andrà scemando. E c’è Arturo che è innamorato di un’altra immigrata, Rosa, alla
quale però non riesce a dichiarare il suo amore. Vedremo che poi, crescendo,
altro atteggiamento riuscirà ad avere, ed il rapporto con l’altro sesso
crescerà sempre più d’importanza. Comunque, qui comincia l’avventura della
famiglia Bandini. Siamo nel freddo Colorado, nell’inverno del 1928. C’è il
padre Svevo che vive con forte disagio la sua situazione di muratore sommerso
dai debiti e costretto all'inattività a causa del rigido clima invernale. C’è
la moglie Maria che sopporta pazientemente i tradimenti e le continue assenze
da casa del marito, aggrappandosi tenacemente alla sua fede. Ed i tre figli:
Arturo, August e Federico. Svevo si rifugia nell'alcol e nel gioco per
dimenticare - anche solo per brevi istanti - la sua vita grama. Il padre è agli
occhi del quattordicenne Arturo al tempo stesso una figura da ammirare - per il
fatto che non si vuole rassegnare alla condizione di "povero immigrato
italiano" - e da temere e odiare, perché fa soffrire la madre. Arturo trova
anch'egli un modo per evadere dalla realtà casalinga nel suo amore (non
corrisposto) per la compagna di classe Rosa e nella passione per il baseball.
Il fulcro della storia si scatena quando Svevo, non trovando modo di sbarcare
il lunario, si allontana da casa. E comincerà una storia di sesso e soldi con
una vedova del luogo, tornando a casa solo per Natale, dove però i suoi regali
vengono rifiutati da Arturo, memore della sofferenza della madre. Belle sono le
descrizioni dei luoghi e delle persone. Soprattutto i primi, che riecheggiano
quelli vissuti dalla famiglia Fante in prima persona, e che, agli occhi di
Svevo ricordano le montagne dell’Abruzzo natio. La storia qui è narrata in
terza persona, rispetto alla prima che userà altrove. Ma serve a Fante per
poter saltare dalle soggettive di Svevo a quelle di Arturo. Che, nonostante le
impennate della sua giovinezza, è anche lui un buono. E cercherà il modo
(trovandolo) di riportare a casa il padre, prima che la madre prenda una china
di malattia che non sarebbe recuperabile. E quel Bandini del titolo si attaglia
e si riferisce ad entrambi. Sia il padre sia il figlio, infatti, attendono con
speranza la primavera, uno per tornare a lavorare l'altro per tornare a giocare
a baseball, entrambi per lasciarsi alle spalle le difficoltà del quotidiano.
Certo, la storia lascia sempre, come in tutte quelle di Fante, un po’ di amaro
in bocca per le cose non risolte, per le occasioni mancate (qui, per me,
soprattutto, la mancata comprensione tra Arturo e Rosa). Ma è l’amaro di cui è
poi fatta la vita. E Fante ne descrive un tratto di strada con la sua capacità
ed il suo coinvolgimento, che, a libro chiuso, ci fa subito pensare di leggerne
uno nuovo. Peccato che poi, li abbia letti quasi tutti.
Conclusioni
Che dire? Sulle crisi di
astinenza sono perplesso, che Doctorow mi sembra poco appropriato. Almeno
quanto, al contrario, lo era “Gomorra” di Saviano. Come sono poco d’accordo sul
mettere “1Q84” nello scaffale degli innamorati, pur essendo un libro che parla
molto dell’amore. Infine, anche la primavera di Bandini mi sembra poco consono
a coprire cicatrici. Come invece può essere sicuramente Chbovsky, come lo era
Jonasson, e come è e sarà sempre Dick (con tutta la sua produzione, non solo
questo, che, se non lo ricordate, fu la base per uno dei film capolavoro degli
ultimi decenni “Blade Runner”). Insomma, una serie di cure non proprio
azzeccatissime.
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