lunedì 1 maggio 2017

Quasi Islanda 01 maggio 2017

In questo Primo Maggio un po’ nuvolo ed un po’ renziano, torniamo agli amati gialli. E mettiamo nel Nord anche la francese Vargas, che parte del libro è nella cara (in tutti i sensi) Islanda. Complessivamente, poi, meglio questo ghiaccio, ai due libri islandesi, solo discreti, di Indridason. Sicuramente meglio poi, dell’illeggibile Marklund, da tempo avviata a scritture poco felici.
Fred Vargas “Temps glaciaires” J’ai lu euro 9,10
[A: 13/10/2016– I: 29/11/2016 – T: 05/12/2016] - &&&-- 
[tit. or.: originale; ling. or.: francese; pagine: 476; anno 2015]
Finalmente è uscito in economica anche l’ultimo libro di Fred Vargas e del commissario Adamsberg. Per questo l’ho subito comprato, inserito in una lista prioritaria di lettura, e conseguentemente presto letto. Tuttavia, nonostante l’affetto per l’autrice e per il protagonista, devo dire che mi è piaciuto meno, molto meno dei precedenti. Per questo arriva ad una sufficienza d’affetto più che di contenuto. Ci sono sprazzi della scrittura che mi ha affascinato, momenti epici del grande Jean-Baptiste (soprattutto in Islanda, un posto che amo, che ama la mia amica Marina, la mia nipotona Federica, e molti altri), ci sono intermezzi interessanti. Il tutto però immerso in una storia un filo complicata, ed un filo (anche due) campata per aria. Una storia che spazia dall’Islanda alla rivoluzione francese del 1789 (o per meglio dire, a Robespierre) che la Vargas riesce in qualche modo a gestire, ma a prezzo di lungaggini che ci lasciano un po’ di amaro in bocca. Il romanzo prende l’avvio da una serie di suicidi che non convincono i commissari parigini incaricati delle indagini, e che non vedono di meglio che coinvolgere quanto prima la Sezione Omicidi dei nostri eroi. Li ritroviamo tutti, anche se non tutti allo stesso livello di coinvolgimento. Oltre al nostro Adamsberg, campione del pensiero trasversale, c’è il suo secondo ed alter-ego Danglard, quello che sa tutto (lo so, la Vargas ha preso spunto dalla mia biografia), Veyrenc, l’altro vice, anche lui pirenaico, e Violette Retancourt, la gigantessa ispettrice di rara sensibilità. C’è anche il resto della truppa, ma in ruoli marginali anche se caratterizzano in vari punti il racconto. Come il caffè di Estalère, la narcolessia di Mercadet o l’abilità informatica dell’unica altra donna, l’ispettrice Froissy. I suicidi di cui sopra si scoprono poi legati da uno strano simbolo (una specie di H sghemba che Veyrenc decritterà) e dalla certa o possibile conoscenza reciproca. Indagando sul secondo, Adamsberg scopre le prime motivazioni. Alice, la prima a morire, vecchia e malata, scrive una lettera a Amédée dicendo avere delle rivelazioni sulla morte della madre di lui avvenuta in Islanda una decina di anni prima. Amédée, dopo aver parlato con lei, litiga con il padre, anche lui viaggiatore in Islanda, che subito dopo muore. Lasciando il figlio nelle mani del suo segretario, anche lui partecipe alla vicenda islandese. La catena mortale è interrotta dall’arrivo sulla cena di Frédéric Château, un bel tipo di giardiniere, ma che è in realtà l’anima di un centro di studi su Robespierre, finanziato dal padre di Amédée, dove gli studi suddetti sono condotti in maniera inusuale. Vengono rappresentati in modo teatrale le riunioni assembleari dal 1789 (presa della Bastiglia) all’arresto ed alla decapitazione di Robespierre (28 luglio 1794). Il problema è che intorno a questa congrega girano circa settecento persone, improba missione per Adamsberg di trovare tra questi il colpevole. Perché, ben presto, il cerchio si stringe, Veyrenc scopre che l’H potrebbe essere una ghigliottina stilizzata. Ci sono altre morti del circolo di studi. Solo il presidente, lo Château di cui sopra, ed i due segretari, che usano i nomi fittizi di Lebrun e Leblond conoscono i veri nomi e volti degli “studiosi”. Ma legati da non si sa bene quale vincolo non ne possono fare menzione. Questa è la parte più debole. Che non mi convince. In caso di indagine, una polizia moderna avrebbe tutti i mezzi per avere nomi, cognomi e indirizzi. Ed avrebbe vita facile per risalire a chi tra questi era in Islanda dieci anni prima. Che tutto poi è legato lì alla vicenda di una dozzina di francesi, trovatisi casualmente nell’isola di Grimsey (quella attraversata dal Circolo Polare Artico), e dove due di loro (tra cui la madre di Amédée) periscono di morte violenta. Quel gruppo era soggiogato da una personalità forte, che fa vivere i dieci sopravvissuti nel terrore. Scoprendo poi che Alice cede e parla, comincia ad ucciderli ad uno ad uno. In maniera efferata, e mascherata da suicidi. Sarà una gita in Islanda di Adamsberg, Veyrenc e Retancourt, che permetterà al nostro, con il suo pensiero che vaga di qua e di là, di ricostruire l’intera vicenda, che non vi narro. Di restringere il campo ai tre di cui sopra, e di scoprire il vero e truculento artefice del tutto. Ma tutto il romanzo è attraversato da molte citazioni alla storia di Francia del periodo dominato dall’Incorruttibile. E se pur noi si sappia di Danton, di Marat, di Saint-Just, di Desmoulins, il seguire la Storia (pur essendo un valido supporto a rinfrescare memorie) non è agevole. Due note finali. La parte negativa è l’emergere di una contrapposizione tra Adamsberg e Danglard, che non mi aspettavo e che mi sorprende (sarà foriera di sviluppi?). La parte positiva è legata invece all’Islanda, ai suoi colori, al suo cielo, a quel cambiare di tempo ogni cinque minuti (citando un noto proverbio islandese: “se non ti piace il tempo islandese adesso, aspetta cinque minuti: probabilmente peggiorerà”). Tanto bella e cara, che alla fine anche Adamsberg ne viene conquistato e decide di andarvi a passare la sua vacanza. Bravo! Meno brava la Vargas che maneggia questo volumone, ma che appassiona poco nella storia poliziesca, non riesce a far rilucer come altre volte le particolarità di Adamsberg e dei suoi. Insomma, l’ho letto come un ulteriore tributo, a lei ed all’Islanda, ma non mi ha coinvolto come in altri libri. Peccato.
Arnaldur Indriðason “Sfida cruciale” TEA euro 10 (in realtà, scontato a 8,50 euro)
[A: 12/02/2015– I: 30/12/2016 – T: 01/01/2017] - &&& +
[tit. or.: Einvigið; ling. or.: islandese; pagine: 333; anno 2011]
Andando avanti nella saga islandese della polizia di Reikiavik, il simpatico Arnaldur, ormai presenza stabile della mia libreria, aggiunge un nuovo tassello al grande puzzle che va componendo. Non riuscendo a procedere di molto nella storia di Erlendur, dopo aver anche avviato storie parallele con i due collaboratori del nostro commissario, ecco che con un colpo di genio ci fa fare un salto all’indietro di una trentina d’anni. In questo modo ci introduce alla storia ed alle inchieste del futuro capo di Erlendur, il “mitico” (per chi ha letto le prime storie) commissario Marion Briem (ma ne riparleremo più avanti). In questo modo, non solo si cimenta in una nuova storia, ma riesce anche a collocarla temporalmente in un momento assai particolare della storia islandese: il 1972. Per chi non lo ricordasse, fu l’anno in cui proprio in Islanda si svolse il campionato del mondo di scacchi tra il campione in carica, Boris Spasskij, e lo sfidante, l’americano Bobby Fischer. Fu un evento storico ed epocale. Fischer è stato un personaggio particolare anch’esso, paranoico, pieno di manie, ma (così mi dicono i miei amici scacchisti, a me che conosco il gioco ma non sono un intenditore) assolutamente geniale. Storico ed epocale perché laureò per la prima volta un americano campione mondiale di scacchi. Perché diventò un elemento di svolta nella guerra fredda tra le due superpotenze. Perché l’Islanda si riempì per mesi (da luglio a settembre durò la sfida) di spie e complotti di ogni genere. Non contenti della sfida anglo-russa, quegli anni erano anche dominati da quella che si definì la “Seconda Guerra del Merluzzo”, un dissidio tra Islanda e Regno Unito sull’ampiezza delle relative acque territoriali per la caccia al merluzzo. Che portò l’Islanda a minacciare l’uscita dalla NATO se gli Stati Uniti non fossero intervenuti a dissuadere i pescatori inglesi (e notate che pescatore fa “fisherman”, con una splendida assonanza con lo scacchista di cui sopra). Tutto ciò dà il clima in cui si svolge il romanzo, e ne dà conto il titolo islandese che parla, appunto, di “Sfida”. Perché in italiano sia diventata “cruciale” dovremmo chiederlo ai traduttori (o a chi decide i titoli). Mentre la capitale quindi è pervasa e percorsa dai fremiti dell’incontro, in un oscuro cinema di periferia viene ucciso un ragazzo, un po’ autistico, che va al cinema con un registratore per poi risentirsi a casa il sonoro dei film. Briem comincia ad indagare con il fido Albert. Facendo molta fatica ad ingranare, anche se questo dà modo ad Arnaldur di farci entrare nel personaggio, l’unico con un divano nella sua stanza. Si capisce anche che è un lupo solitario, che viene da una giovinezza difficile, quando, malato di tubercolosi, viene prima curato in patria, poi in Danimarca. Dove incontro altri ragazzi come lui malati (in tempi dove gli antibiotici erano lungi da essere sul mercato) ma che, al contrario di Marion, muoiono. Meno Katrina, che si salva con un pericoloso intervento, e che rimarrà in contatto con Marion, anche se quasi mai in Islanda. Andrà in paesi caldi, in opere umanitarie. Ma questa è un’altra storia. Qui vediamo la polizia girare molto a vuoto. Poi Marion trova traccia di sigarette russe. Trova anche vecchi amici dei servizi segreti che lo istradano su di una pista che si rivela giusta. Il cinema era stato scelto per un incontro segreto con un alto funzionario tipo KGB che vuole passare agli americani. C’era uno dei primi dirigenti del partito comunista islandese, lunghi anni di milizia a Mosca, unico amico del possibile traditore. C’erano gli americani. E, purtroppo, c’era il ragazzo che, nel suo registratore immette anche le parole del tradimento. Il russo non ci pensa due volte e lo uccide. C’è quindi tutta la ricerca della verità che costringe Marion a lavorare in solitudine, suscitando le ire di Albert che poi lo lascerà come partner. Marion tampina il comunista, tampina la sua compagna, capisce che i due non hanno visto bene l’uccisione che il russo ha fatto un po’ di fretta. Tutto deve collassare durante una partita del torneo. Qualcuno deve avvertire che la moglie del russo è in salvo in Finlandia. Allora il russo può passare agli americani senza ritorsioni. La grande manovra scatta, ma la macchina che porta via il traditore sembra più russa che americana. Che cosa è realmente successo? È riuscita la fuga o qualcuno ha tradito? Questo lo lasciamo agli attenti lettori. Sottolineando solo che, in ogni caso, le esigenze dei servizi segreti renderanno impunibile l’uccisione del ragazzo. Per collegare infine questo libro al resto della serie, nel finale dei finali, vediamo che al posto di Albert verrà ad aiutare Marion un giovane poliziotto. Ovviamente Erlendur! Faccio notare, per chi è stato nell’isola, che ad un certo punto, per scaldarsi, alcuni personaggi si mettono a bere “brennivín”, un’acquavite locale aromatizzata con carvi, una pianta della famiglia del cumino ma con un sapore simile all’anice. I locali la chiamano la “morte nera”, perché forte. Io l’ho provata, ed è veramente disgustosa! Infine, riprendiamo il discorso su Marion. Il nome è ambiguo, che può essere usato sia per un uomo che per una donna. Io, come i traduttori, ho usato il generico maschile, anche se in un’intervista l’autore sostiene invece di aver lasciato il sesso del protagonista ambiguo. Perché questo si può fare in islandese. Non in italiano, tanto che qui è declinato al maschile, mentre in uno dei primi libri della serie, quando è in pensione e poi muore, è declinato al femminile. Allora, lasciamone l’ambiguità, che rende meno lineare tutta la vicenda personale di Marion. Anche se, seguendo la genesi dei nomi di persona in Islanda, Marion è un nome femminile e non maschile. Misteri delle lingue!
“Voglio che tu abbia un rapporto normale … Il nostro rapporto a distanza è andato avanti anche troppo.” (274)
Arnaldur Indriðason “Le notti di Reykjavík” TEA euro 11 (in realtà, scontato a 9,35 euro)
[A: 19/10/2015– I: 16/01/2017 – T: 18/01/2017] - && +
[tit. or.: Reykjavíkurnætur; ling. or.: islandese; pagine: 300; anno 2012]
Nonostante quel che si dice in rete (e qui concordo con il mio amico Renato, che ci vorrebbe una sorta di calmiere/certificazione per evitare il propagandarsi di notizie, non tanto false, ma che si discostano quel tanto dal vero per inficiarne il significato) questo è un “nuovo” libro di Arnaldur e non la riproposizione di un vecchio testo. Anche se i primi due libri di Erlendur sono disponibili solo in islandese o in inglese. In effetti, Arnaldur (scusate, ma mi adeguo anche io al costume locale di chiamare tutti per nome) dopo aver portato avanti per anni la storia del commissario e dei suoi aiutanti, si trova quasi in un’impasse, e non sapendo come andare avanti, decide di recuperare gli inizi della carriera del nostro. Così nel precedente, ci ha mostrato la discesa in campo di Marion Briem, futuro mentore del nostro Erlendur, che compare in una piccola scena finale. Ora ci mostra i primi passi di Erlendur, inquadrato nella polizia stradale, e che quindi seguiamo in molti piccoli “intermezzi” in cui si occupa, con la sua pattuglia, di incidenti stradali, piuttosto che di donne maltrattate o di piccoli furti. Ma è tutto un gioco che serve a riempire i vuoti della storia del commissario, ed eventualmente all’autore di prendere il fiato e di continuare le storie “attuali” (lì dove, una volta appurato abbastanza bene cosa successe durante la tormenta di neve dell’infanzia, sembra che non si riesca a proseguire). Riusciamo a collocare la vicenda prima del 1983 (anno della morte del poeta Tómas Guðmundsson, che nelle ultime pagine declama una poesia a Þingvellir) e dopo il 1968 (Erlendur legge come romanzo d’appendice brani de “Il poliziotto che ride”, libro degli svedesi Maj Sjöwall e Per Wahlöö uscito quell’anno). Probabilmente, se diamo fede alla nascita della “Nazione Islanda” risalente all’874, la vicenda dovrebbe collocarsi nel 1974. Collocazione che permette ad Arnaldur di fare un omaggio a suo padre, Indriði Guðmundur Þorsteinsson, anche lui scrittore, che diresse il festival di cui sopra del 1974. Inciso: ricordo che gli islandesi vanno per patronimici, quindi Arnaldur figlio di Indriði, farà di cognome Indriðason. L’altro spunto personale che percorre tutta la vicenda è il rapporto tra Erlendur e Halldóra. Si frequentano, fanno sesso, ma sempre con quella indolenza del nostro che sembra non impegnarsi mai in nulla (eccetto l’ossessiva ricerca del fratello morto). Tanto va avanti senza sussulti d’amore, che quasi senza accorgersene, dato che Halldóra è incinta, si sposeranno. Sappiamo noi, dall’aver letto i primi scritti di Arnaldur, che si svolgono una trentina d’anni dopo questo, che i due, dopo la nascita di due figli, si sono separati, ed ora non stanno in buoni rapporti. Ma la storia di Erlendur e dei figli è materia d’altro. Qui, dobbiamo seguire i primi passi di Erlendur. Non solo, ma se uno ha in mente la toponomastica di Reykjavík, gli sembra quasi, leggendo, di seguire una serie di passeggiate per il centro città. I luoghi topici delle morti sono poco sotto la collinetta dove è situato il supermercato Bonus dove andavo a fare la spesa. Erlendur e Rebekka spesso si incontrano sulle rive del laghetto in centro città. Erlendur abita in una casetta vicino alla Hallgrimskirkja. I barboni spesso dormono nella piazza dove ho seguito le partite del campionato europeo insieme ai locali. La storia, quella centrale, che entra ed esce dalle corde del racconto, è al solito storia di morte e di scomparsa. Per farci vedere come Erlendur ne sia da sempre appassionato (ossessionato). Ed è sempre una storia al passato. Mai che i nostri facciano delle indagini “live”. Un anno prima muore affogato un barbone Hannibal, e nello stesso fine settimana scompare una donna, Oddný. Pur ossessionato dalla scomparsa, Erlendur rivolge la sua attenzione su Hannibal, il barbone, che aveva avuto modo di conoscere varie volte che, per freddo o ubriacature, lo aveva “ospitato” nelle celle del commissariato. Una persona apparentemente mite, di sicuro incapace di fare male agli altri. Ovvio che Erlendur scava, e scopre, parlando con la Rebekka di cui sopra (sorella di Hannibal), che il barbone si era dato all’alcool dopo un terribile incidente di macchina, dove aveva salvato la vita alla sorella senza poter aiutare la moglie (i particolari li lascio in cronaca). Quindi alcool, tanto alcool, ed ogni tanto un piccolo riposo, un cambiamento d’aria, accanto ad un’altra barbona, Þurí. Che il nostro ritrova, e che gli mostra un gioiello che lei aveva trovato nell’ultimo rifugio di Hannibal. La tenacia di Erlendur lo porta a collocare l’orecchino tra i gioielli di Oddný. Oltre ad ipotizzare diversi scenari: un barbone, geloso delle attenzioni di Hannibal a Þurí, lo uccide, Oddný lo vede e lui fa fuori la testimone. Oppure al posto del barbone, i due fratelli spacciatori che Hannibal aveva minacciato. Oppure il marito di Oddný che invece uccide Hannibal come scomodo testimone. Il tutto che rimane sempre nel vago finché, seguendo il suo fiuto, Erlendur non scopre dove è sepolta la donna, e risale la “catena” del crimine. In modo tanto brillante che Marion Briem, alla fine, lo chiama per un colloquio. Il seguito ai prossimi “prequel” (mi scuso della parola orrenda ma così si chiamano le puntate seriali che vengono temporalmente prima ma scritte dopo del corpo principale della narrazione). Se si fosse trattato solo delle indagini di Erlendur e della sua simpatia verso Hannibal, avrebbe forse preso qualche punto in più. Ma l’annegare tutto nelle dolenti notti islandesi, nei micro-crimini, e nelle paturnie che l’allora non ancora trentenne poliziotto dimostra mi lascia un po’ più freddo del normale. Risale solo quando mi fa viaggiare per la città. Forse già vorrei tornare in Islanda…
“Completamente solo in un eterno vagabondare attraverso la vita, senza una destinazione precisa.” (216)
Liza Marklund “Happy Nation” Marsilio euro 14 (in realtà, scontato a 10,50 euro)
[A: 01/11/2015– I: 18/01/2017 – T: 20/01/2017] - & e ½
[tit. or.: Lyckliga gatan; ling. or.: svedese; pagine: 412; anno 2013]
Nonostante continui ancora a comperare i gialli di Liza Marklund, più che altro perché mi ero appassionato al personaggio centrale della serie, che fu il primo di cui lessi di origini svedesi, devo dire che, libro dopo libro, il giudizio verso questa saga sta scivolando sempre più in basso. Per tutti i fattori fondamentali di un libro: trama confusionata, finale inesistente (o quasi), spostamento degli assi di interesse, personaggi che inutilmente compaiono. Nonché, ed è stato il colpo di grazia, un titolo italiano di cui non si capisce l’origine ed il perché. Ora, l’originale porta un titolo che, tradotto, significa “Via Felice”, e che ha un senso, anche se questo senso appare solo nelle ultimissime pagine. Ma se si è mantenuto il felice, anche se con l’inglese “Happy”, qual è il senso di “Nation”? Non l’ho capito, e non ne riesco ad intuire la genesi. Se non si voleva usare l’originale, forse le scelte fatte da altri traduttori sono state più felici (in Inghilterra si chiama “Without a Trace” cioè “Senza traccia”, o in Germania “Jagd” cioè “Caccia”). Nel tentativo di portare avanti tutte le storie, ma anche di collegarle, Marklund qui fa un discreto guazzabuglio. C’è la storia di Anders Schyman, il grande capo del giornale dove lavora la nostra eroina, Annika Bengtzon, che medita di andare in pensione, ma negli ultimi supposti giorni del suo lavoro, viene attaccato, da un irrintracciabile blogger, che lo accusa di aver inventato la storia che gli diede onori e gloria, proiettandolo sul palcoscenico giornalistico svedese nelle posizioni d’onore. Era un reportage sulla scomparsa della miliardaria Viola qualcosa. In base a tutta una serie di indizi, Anders sembrò dimostrare che Viola era scomparsa volontariamente probabilmente in Russia. Ora qualcuno vuole vedere le sue carte. C’è la storia di Nina Hoffman, poliziotta che abbiamo già incontrato in episodi precedenti, messasi in congedo dopo aver ucciso il cattivo fratello (ma solo Annika lo sa), viene richiamata al servizio Anticrimine dal grande capo Q., quello che da sempre protegge Annika, e viene messa sulle piste di un efferato tentativo di omicidio (su cui torneremo). Seguiamo però tutte le alterne vicende emozionali di Nina, anche perché la sua strada si incrocia nuovamente con Annika. C’è la storia (inutile) di Thomas, l’ex-marito di Annika, tornato dallo sfortunato raid africano senza una mano e senza la moglie. Entra ed esce in alcune pagine, dando solo disturbo senza portare nessun aiuto al peso della trama. C’è la storia privata di Annika e Jimmy, il suo nuovo compagno. Incentrata sul difficile ménage plurimo, dove si ritrovano a convivere Annika, i suoi due figli Ellen e Kalle avuti con Thomas, e Jimmy, con i suoi due figli Jacob e Serena, avuti dalla moglie africana da cui ha divorziato. Ed è un rapporto a più voci di difficile gestione, soprattutto nei rapporti tra Annika e Serena. Ma a parte darci il senso del quotidiano nello scorrere del tempo, mi domando quale ne sia la sua funzionalità. L’unico motivo è il ritrovarci l’interesse ed il lavoro di Marklund nei confronti degli adolescenti problematici, sui diritti delle donne e dei bambini e sui casi di violenza domestica. Tutte queste storie si intrecciano con LA storia, quella su cui indaga Nina come poliziotta e Annika come giornalista. Il quasi omicidio di un ex-politico svedese, Ingemar Lerberg, seviziato fin quasi alla morte, e la contemporanea scomparsa di Nora, la di lui moglie. La ricerca di Nora ed il tentativo di ritrovare la verità su Viola si intrecciano notevolmente, quando i nostri investigatori (pubblici e privati) scoprono molteplici assonanze: falsa perdita di un passaporto per averne un duplicato, assunzione di un secondo nome, diverso da quello ufficiale, ma altrettanto valido (potenza delle leggi svedesi), acquisto di una macchina di seconda mano, confezionamento di un cappotto con molte tasche per nascondere contanti. Entrano ed escono dalle pagine anche i due misteriosi quasi assassini dell’inizio (che Marklund ce lo dice subito), che sappiamo anche che sono gemelli, che ad un certo punto fanno finta di non essere più duplici ma monadi, rimanendo uno in Svezia e prendendo l’altro la residenza a Marbella sotto falso nome. Così che, data l’uguaglianza somatica, possono scambiarsi i ruoli e crearsi alibi a vicenda. Il parallelismo tra Nora e Viola avviene anche sul piano economico: Viola miliardaria con conti alle Cayman, Nora contabile truffaldina per amore, con conti in Svizzera. Nina ed Annika, unendo i loro sforzi, scoprono anche le prove che Nora aveva più soldi di quanto sembrava esternamente e che Viola deve essere realmente morta e non fuggita. In un trafiletto orizzontale, capiamo anche che i gemelli hanno le mani in pasta non solo nelle sevizie a Ingemar, ma anche nella scomparsa di Viola. Ma tutto questo si cristallizza nelle ultime pagine, senza portare a conclusione reale nessuna delle storie. Immaginiamo che Anders riesca a scagionarsi dalle accuse. Immaginiamo che Nina abbia successo nelle indagini. Immaginiamo che la routine familiare di Annika migliori. Speriamo che Thomas scompaia definitivamente. Immaginiamo che gli assassini vengano trovati ed arrestati. Sappiamo solo che Nora … Questo lo sappiamo e non ve lo dico. Tutto il resto è lasciato sospeso, come se Marklund volesse rimandarci ad una nuova puntata della serie (so infatti che nel 2015 è uscito l’undicesimo volume della saga). Non si fa così, però, che anche quando si scrivono storie seriali, ogni libro dovrebbe avere delle conclusioni coerenti e descritte. Potresti fare meglio, Liza.
Come sapete, questi interventi “infrasettimanali” servono al recupero di cure dai libri delle mie libroterapeute che vengono letti posteriormente al malanno indagato. Per cui, vi meritate il corposo allegato di “cure passate”.
Sperando che il sovraccarico di notizie non vi lasci sopraffatti anzi vi induca ad altre amene letture, voglio chiudere qui, senza ulteriori spargimenti di parole. 

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

PRIMO MAGGIO
Come già detto, a volte prendo qualche festa non domenicale per recuperare libri. Che come in questo caso sono sia di cure già descritte, che di cure “saltate”.

RECUPERO DI LIBRI LETTI PER CURE GIÀ DESCRITTE

Astinenza, Crisi di

Per combattere il dolore fisico e spirituale che vi accompagnerà se vorrete liberarvi da soli di una dipendenza avrete bisogno di libri che vi catturino, e vi costringano a interrogare a fondo la vostra anima segnata dalle intemperie. Si consiglia una full immersion, e allo stesso modo si invita a considerare la possibilità di una somministrazione sonora. Questi libri non avranno paura nemmeno di tenervi la testa mentre vomitate.

I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER FAR SUPERARE UNA CRISI DI ASTINENZA

Louis-Ferdinand Cèline        “Viaggio al termine della notte”
Howard Cruse                    “Figlio di un preservativo bucato”
E. L. Doctorow                     “Ragtime”
John Fante                        “Chiedi alla polvere”
Cormac McCarthy               “Meridiano di sangue”
Ivan Goncarov                   “Oblomov”
José Saramago                  “Memoriale del convento”
Jean-Paul Sartre                “La nausea”
Roberto Saviano                 “Gomorra”
Leonardo Sciascia               “Il Consiglio d’Egitto”

RECUPERO DI LIBRI LETTI PER CURE PASSATE

Amore, disamorarsi dell’

Haruki Murakami         1Q84
L’amore vero. Il chiaro di luna. Le rose. La devozione eterna. Quello giusto.
Scendi dalle nuvole, vi sentiamo dire.
Alcuni di noi sentono di aver fatto l’ultimo chilometro, con l’amore. La capacità di amare sembra esaurita, quella di suscitare amore svanita. Il tempo per un po’ di ro­manticismo nella nostra vita è scaduto.
Non abbiamo più un solo minuto da perdere con certi atteggiamenti. Qui e ora, ci impegniamo a strapparvi allo scetticismo e a convincervi che l’amore può tornare, ancora e ancora, all’infinito. Il romanzo che utilizzeremo è l’epico “1Q84” di Murakami.
Dire che “1Q84” è un romanzo complesso è usare un eufemismo. È straordinariamente lungo e si svolge in due mondi diversi. E tuttavia è profondamente, fon­damentalmente romantico. Il nocciolo della storia si trova nel passato dei due personaggi principali. Quando avevano entrambi undici anni si erano tenuti per mano a lungo, in classe. Quel momento - silenzioso, carico di significato, del tutto inatteso per Tengo, desiderato eppure inspiegabile per Aomame - da allora ha conti­nuato a perseguitarli entrambi. Aomame sapeva che se ne stava andando, e Tengo era sempre stato gentile con lei, e dunque aveva impresso la propria essenza sul palmo della sua mano, alterando per sempre la sua anima.
Adesso, più di vent’anni dopo, seguiamo Tengo e Ao­mame mentre conducono le loro vite separate e solitarie. Nessuno dei due è riuscito a costruire un rapporto adulto. Tengo insegna matematica e sta scrivendo un romanzo, Aomame vive una vita regolata, insegnando autodifesa e lavorando, parallelamente, come sicaria. Entrambi, a un certo punto, rimangono invischiati con una setta re­ligiosa, la Sagikake, e ben presto devono fuggire, sepa­ratamente. Sono tuttavia sempre più consapevoli del­l’importanza che ciascuno ha per la vita dell’altro.
Uno dei temi del romanzo è l’idea di perdersi irrime­diabilmente - in senso morale, tra due mondi paralleli, o più semplicemente non essere più toccati dall’amore. Mentre Tengo fa visita al padre morente gli legge una storia su un luogo dove le persone possono perdere del tutto la capacità di amare. Tengo riflette molto su questa definitiva assenza d’amore e quando, al contrario, co­minciano a succedere cose che oltrepassano i confini del reale - una gravidanza innegabile quanto inspiegabile, due persone che si ritrovano contro ogni previsione, l’amore che riprende ad abitare chi vi ha rinunciato molto tempo prima - sembra che il potere di questo sentimento possa trionfare su tutto. Fate questo viaggio epico insieme a Tengo. Tornate, insieme a lui, a inna­morarvi dell’amore (senza esagerare per non finire ad essere dei romanticoni).

Cicatrici fisiche

Cari Hiaasen                “Biscayne Bay”
Se siete abbastanza sfortunati da avere una brutta cicatrice, potete passare chissà quanto tempo a preoccuparvi di come nasconderla. Forse avete pensato alla crema alla vitamina E, al fondotinta e/o al correttore, a tatuaggi temporanei o permanenti - perfino alla chirurgia plastica. Smettetela di preoccuparvi. Tenere un romanzo nel modo giusto - piegato con nonchalance, per esempio, in modo da coprire quel brutto segno sul mento - sposterà tutta l’attenzione dalla vostra cicatrice, soprattutto se il titolo è abbastanza intrigante. Chi vi guarda sarà molto più interessato a capire cosa state leggendo che a quello che sta sotto. Inciso: questi titoli sono particolarmente efficaci per distrarre i vostri interlocutori dalle vostre cicatrici (purtroppo, questo stratagemma non funziona con gli e-book): “Noi siamo infinito” (Stephen Chboskv), “Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve” (Jonas Jonasson), “Concerto per archi e canguro” (Jonathan Lethem), “Aspetta primavera Bandini” (John Fante), “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” (Philip K. Dick).
Ad ogni modo, stiamo divagando. Il romanzo che vi raccomandiamo per la vostra cicatrice è “Biscayne Bay” di Cari Hiaasen. Come tutti i suoi libri è ambientato in Florida, tra turisti e criminali delle Everglades. Il suo antieroe è Chemo, un uomo la cui pelle è diventata simile al riso soffiato dopo uno sfortunato incidente con l’elettrolisi. Chemo fa un accordo con un chirurgo plastico: una ricostruzione facciale in cambio dell’eliminazione discreta di un testimone scomodo della morte accidentale di uno degli altri sfortunati pazienti del chirurgo.
Alto due metri e dieci, Chemo non è il più discreto dei sicari e non è nemmeno dotato di chissà quale intelligenza. A peggiorare le cose, Rudy Graveline, il chirurgo plastico poco ortodosso e senza nemmeno una laurea, ha una lunga lista di pazienti misteriosamente abbandonati a metà lavoro, morti o comunque insoddisfatti. C’è una donna, tuttavia, la cui anatomia nemmeno un chirurgo senza scrupoli come Rudy Graveline si azzarderebbe a toccare, un’attrice di nome Heather Chapell il cui corpo non potrebbe essere più perfetto. Heather non è d’accordo, però, e vorrebbe rifarsi il seno, ridurre il ventre e dare una sistemata a naso e mento. II suo desiderio disperato di rimediare a difetti inesistenti dovrebbe servire a ricordarci che spesso vediamo difetti dove altri non vedono niente.
Questo romanzo, un’esilarante “black comedy” con i suoi modi raccapriccianti e improbabili per liberarsi dei cadaveri e i suoi malviventi vagamente sociopatici che ottengono quello che si meritano, vi terrà a distanza di sicurezza dal bisturi del chirurgo. Imparate ad amare le vostre cicatrici. Fanno parte della vostra storia, del racconto che vive sulla vostra pelle.

Bugiardino

Astinenza, Crisi di

Delle Crisi di astinenza ho scritto nell’agosto 2014, citando quelli che avevo tramato allora (McCarthy, Saviano, Sartre e Fante). Ora mettiamo invece mano al libro di Doctorow, letto successivamente.
E. L. Doctorow “Ragtime” Mondadori euro 13 (in realtà, scontato a 9,75 euro)
[libro letto il 20 aprile 2017 e non ancora pubblicato]
Un altro libro “storico” in molti sensi, che andava letto prima o poi, visto che al tempo non mi incuriosì, così come mi aveva lasciato discretamente freddo la figura di scrittore di Edgar Lawrence Doctorow, noto al pubblico solo con le iniziali (E.L.). Spinta che, oltre per evidenti ragioni culturali, è stata amplificata dalle letture dei miei libri “da comodino”, sulla cura e sulla felicità che danno i testi stampati. L’anomalo Doctorow, tra l’altro, è l’esponente di punta di quella “historical fiction” che tanto successo ha (ha avuto) in America da un certo punto in poi. Anomalo perché ha scritto pochi libri e tutti su questo filone. Una fiction che cominciò con “Il libro di Daniel”, dove romanza la vicenda della condanna a morte dei coniugi Rosenberg. E che ebbe il suo altro punto di grande successo in questa saga dell’America dei primi decenni del secolo. Una saga che, dal punto di vista storico, seguiamo dalla vicenda legata all’omicidio di Stanford White con al centro la figura di Evelyn Nesbit sino all’entrata in guerra degli Stati Uniti nel 1917. La scrittura è molto scorrevole, anche senza punte di vero coinvolgimento, almeno per il mio gusto. Prendendo come filo conduttore una fantomatica famiglia media americana (Papà, Mamma, Figlio e Fratello Minore della Mamma) la segue mentre si intrecciano, a volte molto tangenzialmente, le vicende personali della famiglia con avvenimenti storici. Il contraltare della famiglia media è costituito da due personaggi di verso opposto: l’immigrato est europeo Tateh ed il negro Coalhouse Walker. Ma l’intrecciarsi delle vicende è proprio l’elemento centrale e di punta del romanzo. Alcune sono vicende storiche significative, che danno sia il senso del tempo della narrazione sia dell’evoluzione dell’America nei primi venti anni del secolo scorso. Abbiamo quella di partenza, il famoso, all’epoca, omicidio dell’architetto Stanford White da parte del geloso marito di Evelyn Nesbit. Evelyn era stata amante di White, che però prediligeva ninfette adolescenti, e che la lasciò quando la signorina si avviava ai venti anni. Harry Thaw, marito geloso e violento, uccide l’ex-amante con un colpo di pistola al teatro del Madison Square Garden. Una vicenda che si protrasse per molti anni, con Thaw che si finge pazzo, che sfugge alla condanna a morte, e che poi riesce anche ad uscire di prigione vivo proprio nel 1917 quando finisce il romanzo. Doctorow inzeppa la storia immaginando una breve storia d’amore tra il Fratello Minore della Mamma ed Evelyn. Altro punto forte è la controversa spedizione alla conquista del Polo Nord geografico guidata da Robert E. Peary, che, barando, sembrò averlo raggiunto. Anche qui, le storie si mescolano con la partecipazione di Papà alla spedizione. Poi ci sono i molti spettacoli di escapismo di Harry Houdini, che fanno da contraltare alla crescita del Figlio. E poi le due vicende industriali: la crescita ed il consolidamento dell’impero di John P. Morgan, considerato uno degli uomini più ricchi di ogni tempo, e la nascita dell’impero automobilistico di henry Ford, con la messa in produzione della famosissima Ford T. Gustosa e da leggere la parte relativa all’incontro tra i due grandi uomini. Inciso: Morgan muore nel 1913 nel sonno al Grand Hotel di Roma. Poi ci sono vicende toccate di lato, magari accennate, magari da approfondire. Come la vita e le opere della femminista anarchica Emma Goldman. O. più ironicamente, la visita in America del trio di grandi psicanalisti dell’epoca: Freud, Jung e Ferenczi. Filo conduttore, dicevamo poi, oltre le vicende della famiglia, quella dell’immigrato dell’est, Tateh. Che vive di stenti, che è abile nel ritagliare figurine nel cartone (si immaginano belle silhouette della Nesbit), che non riesce ad integrarsi con le comunità locali, che scaccia la moglie, prostituitasi per trovare i pochi soldi per andare avanti, che fugge ad Atlantic City con la figlia, e che trova il suo spazio con le sue figurine animate quando capisce che si può inserire nella nascente industria cinematografica. Più densa, ma anche più diluita, e forse anche troppo “montata”, la vicenda di Coalhouse Walker. Che Doctorow riprende, aggiornandola, dal racconto “Michael Kohlhaas” di Henrich von Kleist. Walker è un nero che incidentalmente mette incinta la giovane Sarah, che, con il figlio, viene “adottata” dalla madre. Walker è un suonatore di piano, dopo un lungo corteggiamento riesce a convincere Sarah al matrimonio, ma, prima della fatidica data, entra in contrasto con i bianchi. Ovvio il nascere degli attriti razziali. Il locale capo dei pompieri sporca di lordume la bella macchina di Walker, che chiede un risarcimento. Ovvio che la prende in quel posto. Ovvia la sua irritazione, che seguiamo, purtroppo, per pagine e pagine, risultando incisiva dal punto di vista sociologico, ma poco dal punto di vista narrativa. Walker, nonostante la sua ribellione ed alcune vittorie tattiche, non potrà vincere, ed alla fine sarà trucidato davanti alla Biblioteca istituita da J.P. Morgan. I suoi accoliti fuggiranno, tra cui il Fratello Minore della Mamma, che riparerà in Messico per unirsi alla rivoluzione zapatista. Papà avrà invece un tracollo finale, lasciando finalmente libera Mamma, che alla fine troverà il modo di unirsi in un matrimonio felice con l’immigrato ora ricco Tateh. Non ci voleva certo questo libro per dirci che agli inizi del Novecento gli americani erano zoticoni ed immigrati. Neppure ci illumina in modo maggiore sul modo banditesco e ricattatorio con cui le grandi famiglie americane costruirono i loro imperi. Certo, ci fa vedere che, cinquanta anni dopo la Guerra Civile, il razzismo è ancora imperante (e purtroppo lo è ancora). Ci fa capire infine, anche se scritto quaranta anni fa, come sia possibile che una persona poco qualificabile come Trump possa diventare Presidente degli Stati Uniti. Insomma, tenta di essere pungente, ma non lo è fino in fondo (se volete veramente arrabbiarvi leggete le epopee dei nativi americani allora). È correttamente leggibile, ma poco altro di più. Inoltre questa mancanza di nomi nella famiglia che seguiamo per venti anni lascia la storia a qualche passo da noi, senza coinvolgerci. Per finire, è vero che il rag era la musica del tempo, ma a parte alcuni accenni a Scott Joplin da parte di Walker, poco ci viene rimandato.
“[citando Freud] L’America è uno sbaglio, un gigantesco sbaglio.” (38)

Amore, disamorarsi dell’

Anche se con alti e bassi, a volte anche con poca convinzione, Murakami torna spesso nelle mie letture. Non poteva quindi mancare questo poderoso libro, di cui vi meritate una poderosa trama.
Haruki Murakami “1Q84” Einaudi euro 26 (in realtà scontato 22,10 euro)
[trama del 4 dicembre 2016]
Diciamo subito che è un libro complesso, soprattutto per la mole di pagine che mette in gioco. Tanto che l’autore decise, con l’editore, di farlo uscire in tre volumi. Anzi, per la precisione, Murakami pare avesse deciso di fermarsi ai primi due (e poteva essere quella una fine possibile) e solo in un secondo momento completò l’opera con il terzo. La scelta multi-volume è ora riproposta anche da Einaudi, dopo una prima uscita in due volumi separati. Si diceva subito, libro complesso e dai molteplici spunti (che spero qualcuno esca fuori da queste righe). Comunque, su tutti, è ovvia la discendenza dalla distopia di Orwell contenuta in “1984”. Tra le molteplici discendenze da Orwell, devo subito fare un plauso a Haruki per l’idea del titolo. In Giapponese (come tutti sanno) 9 si pronuncia “kyuu”, con una dizione molto simile alla Q. Lettera che poi è l’iniziale di “question mark”, punto interrogativo. L’autore quindi, da un lato vuole fare un omaggio – rivisitazione del libro di Orwell, dall’altro si interroga di dove si sia noi realmente (e vedremo che questo non è un aggettivo casuale), mettendo appunto il “?”. Ci sono altri due grandi punti di contatto che citerei subito. L’inizio delle storie, entrambi i libri infatti cominciano nell’aprile del 1984. E la dipendenza, la discendenza della storia da un libro che transita tra le mani del protagonista. Qui c’è “La crisalide d’aria” di cui parlo più estesamente nel proseguo. In Orwell, c’è il libro che Winston legge per iniziare la sua opposizione al regime del “Grande Fratello”: “Teoria e prassi del collettivismo oligarchico”. Non entro maggiormente nella struttura del libro di Orwell che tanti hanno meglio di me letto ed analizzato. Poiché qui ci dedichiamo a questa nostra distopia giapponese. Facendo comunque un’osservazione preliminare: qui, come in molte delle opere di Haruki, il Giappone è in un certo senso “modificato”, influenzato dalle esperienze occidentali che lo stesso autore ha avuto nel corso degli anni. Non è il Giappone di Banana, che mi rimanda quello che ho visitato alcuni anni fa (e dove spero di tornare). È anch’esso una fantasia, un luogo – nonluogo (un’utopia, per chi sa di greco). Ed è per questo che risulta alla fine un posto in cui anche noi, non giapponesi, possiamo stare, possiamo vivere. Un posto dove le nostre fantasie, i nostri momenti reali ed irreali hanno comunque un loro senso. Ma sul senso e sul realismo spero di tornare alla fine di questa storia. Proviamo per ora ad entrare nei diversi libri, cercando di uscirne prima delle più di mille pagine che ci propone l’autore, ricordando solo che nei primi due libri ci sono 48 capitoli, 24 visti dall’ottica di Aomame e 24 in quella di Tengo, mentre nel terzo ci sono 31 capitoli: 10 nell’ottica di Aomame, 10 in quella di Tengo, 10 in quella di Ushikawa ed 1 di coppia. Inoltre ogni capitolo ha un titolo, che sarà poi una frase contenuta nel capitolo stesso. E mi fermo qui nell’analisi meta testuale.
Libro Primo (Aprile – Giugno)
[pag. 5 – 393]
Mi soffermo un attimo ancora sull’attacco del libro che ci dà alcune chiavi importanti per la sua comprensione. Siamo nell’aprile 1984 (data importante come rilevato sopra), ed incontriamo uno dei due protagonisti, la trentenne Aomame Masami. Sta andando ad un importante appuntamento, ma è imbottigliata nel traffico. Sta in un taxi, dalla cui radio esce una musica che lei riconosce subito essere la sinfonietta di Janacek, oscura musica scritta nel 1926. Qui abbiamo il primo colpo dello scrittore alle sicurezze ed al reale. La musica non è particolarmente nota (l’ho ascoltata e non mi ha fatto una impressione stravolgente), ma Aomame la riconosce. Haruki già nelle prime righe ci invita ad una sospensione del reale. Non sappiamo come (né mai lo sapremo) ma Aomame riconosce la musica. Quindi guarda ad un tabellone pubblicitario della Esso, con la famosa “tigre nel motore”. Altro elemento importante: la presenza della pubblicità, che ridà il realismo ad un mondo che potremmo pensare immaginaria. Invece qui, ed in molte parti del romanzo, i marchi, il marketing è presente. Vorrà dire qualcosa? Per non tardare all’appuntamento Aomame scende dall’auto ed imbocca una scala di sicurezza che dalla soprelevata la porterà alla metropolitana. Qui c’è lo spostamento definitivo del reale: come attraversando una porta magica, Aomame entra in una diversa realtà, un mondo parallelo dove tutto è quasi uguale al mondo che lei conosce. Ma solo quasi. Ad esempio i poliziotti hanno armi diverse da quelle standard. Da qui si diparte la storia di Aomame, che in realtà è un killer professionista che per conto dell’anziana e ricca vedova Ogata uccide uomini che hanno commesso atti contro le donne e che sono rimasti impuniti. Parlando con Tamaru, la guardia del corpo di Ogata, scopre inoltre l’esistenza di avvenimenti che non ricorda, confermando nella sua mente l’irreale passaggio in una realtà diversa. E scopre anche l’esistenza in questa realtà di due lune. Noi scopriamo inoltre che lei non ha legami fissi, essendo ancora innamorata di un ragazzo che le strinse la mano quando aveva 10 anni: Kawana Tengo. Piccola parentesi: soggettivamente rilevo l’importanza del linguaggio dei corpi nei rapporti umani (se ce n’era bisogno). Aomame si fa amica della poliziotta Ayumi, e conosce la bimba Tsubasa, fuggita dalla setta Sakigake dopo essere stata abusata dal Leader della setta stessa. In parallelo alternato seguiamo anche la storia proprio di Kawana Tengo, insegnante di matematica (un punto a suo favore) ed aspirante scrittore (altro punto). Per una serie di vicissitudini viene coinvolto nella riscrittura di un romanzo molto curioso scritto dalla giovane Fukaeri “La crisalide d’aria”. La giovane, essendo dislessica, l’ha dettato alla figlia di un professore ex-amico del padre. Mentre vanno a trovarlo, Tengo ricorda la sua giovinezza, legata ai giri che faceva con il padre esattore delle tasse, e l’incontro con una ragazza che girava con i genitori Testimoni di Geova. Ovvio che la ragazza è Aomame, e che Tengo ne sia ancora innamorato. Il professore racconta che Fukaeri è figlia del suo ex-collega Tamotsu, fondatore di Sakigake, una comune di agricoltura biologica, che pochi anni prima si è trasformata in una setta religiosa chiusa all’esterno. Da dove la ragazza è fuggita. Tengo riscrive, con successo, il libro che narra dell’incontro tra una ragazza e degli esseri misteriosi chiamati “Piccolo popolo”. Mentre Tengo comincia a scrivere un nuovo romanzo nello stesso ambiente del primo, Fukaeri scompare perché si sente minacciata. Sapremo presto che lei è dotata di strani poteri che le fanno intuire cose prima o mentre accadono, in modo che lei possa proteggersi.
“In ogni caso, non posso fare altro che continuare a vivere questa vita. Non posso restituirla e farmene dare in cambio una nuova. Per quanto atipica o complicata possa essere, è l’espressione di quel veicolo di geni che sono io.” (315)
Libro Secondo (Luglio – Settembre)
[pag. 397 – 745]
Come detto sopra, anche il secondo libro è tutto basato sul dualismo Tengo/Aomame. Tengo è ossessionato dal ricordo della madre, che gli sfugge, e dalla sensazione interna che il proprio padre non sia quello biologico. Per cercare di capire lo va a trovare, senza successo, nella clinica dove è ricoverato. Tornato, in una sera con un terribile temporale, trova Fukaeri ad aspettarlo e decide di tenerla nascosta presso di sé. Lei è convinta che il Piccolo Popolo stia tramando qualcosa. Durante quella notte, Tengo, incapace di muoversi, ha un lungo rapporto sessuale con Fukaeri. Dal giorno successivo Tengo decide di mettersi alla ricerca di Aomame. Ma il padre entra in coma, lui è costretto di nuovo ad andarlo a trovare, e scopre sul letto del padre una crisalide con il corpo di Aomame bambina. Intanto la sua vita si intreccia con Ushikawa, uno strano personaggio, che non ce la conta giusta. In parallelo, Aomame viene a sapere che la sua amica Ayumi è stata uccisa. E che la signora Ogata le sta organizzando un incontro con Tamotsu, il leader di Sakigake, per ucciderlo. Mentre infuria il temporale di cui sopra, Aomame ha un lungo incontro con il Leader, che le fa capire di sapere tutto di lei. Chi è, cosa faccia, ed anche il suo amore per Tengo. Ed il rapporto tra Tengo e sua figlia Fukaeri. Presa dai dubbi non sa cosa fare, ma Tamotsu le pone davanti un ultimatum: o lo uccide salvando Tengo, o se ne va, ma Tengo morirà. Nel primo caso dovrà attendersi una feroce vendetta su di lei. Aomame allora porta a termine la sua missione, ma non entra in clandestinità. Anzi, una notte riconosce la figura di Tengo in un parco. Cerca allora di fuggire dal 1Q84, tornando sulla tangenziale, ma la scala è scomparsa. Sulla sua decisione di togliersi la vita, per mettere fine a tutta la vicenda, si chiude il secondo libro.
Libro Terzo (Ottobre – Dicembre)
[pag. 749 – 1157]
Questo terzo libro sembra non fosse previsto nel piano originale, ma credo che Haruki si sia trovato con tanti dubbi personali che è stato naturale andare avanti, anche se non tutto (anzi molto poco) sarà sciolto. Aomame non si uccide, ed Ushikawa si scopre essere un investigatore al soldo di Sakigake per rintracciare Aomame. Pur essendo antipatico, è bravo e scopre una serie di legami, tanto che capisce di dover tenere sott’occhio Tengo per arrivare ad Aomame. Così facendo scopre anche che Fukaeri è nascosta proprio lì da Tengo. La ragazza, con i suoi poteri “extra” capisce e fugge. Aomame scopre di essere incinta ed è sicura che il padre sia Tengo (il nascituro è stato concepito la famosa notte del temporale). Mentre Aomame continua a vagare alla ricerca di Tengo, si imbatte in Ushikawa che pedina Tengo. Segue l’investigatore scoprendo la casa di Tengo, ma scoprendo anche che Ushikawa si sta avvicinando troppo a lei. Sarà Tamaru a fungere da catalizzatore: uccide Ushikawa e fa in modo che Tengo e Aomame si riuniscano. Insieme capiscono molte cose (che non vi dico) e trovano il modo (ora che sta finendo l’anno 1Q84) di uscirne. Prendo la metropolitana e percorrono la scala (che qui c’è) al contrario sbucando sulla Tangenziale. Guardano il cielo: la luna è una sola, tuttavia la tigre della Esso è girata verso sinistra e non verso destra, come nel primo capitolo.

Qui finisce il libro, o i libri. Qui rimangono ancora in sospeso domande su domande. Al solito, Haruki non svela tutta, i suoi non sono romanzi “realisti”. C’è sempre spazio per l’immaginazione, il lato onirico di ognuno di noi. E noi rimaniamo con tante domande. Chi sono i “Little People”? Quanti sono i mondi paralleli (anche se a questa domanda un attento lettore di fantascienza darebbe una risposta sicura)? Quant’è forte l’amore? Dove sta il Giappone? Che setta è Sakigake? Chi è Fukaeri? Vogliamo continuare, potendolo con una domanda quasi per ogni riga dello scritto. Ma ne riporto un’altra sola: perché lo scrittore ha chiesto di scrivere per una trentina di pagine il numero delle pagine dispari al contrario, poi per una nuova trentina quello delle pagine pari, e così via per tutte le quasi 1200 pagine del romanzo? C’è un algoritmo dietro a tutto ciò? Mi rendo conto, rileggendo gli spunti tramatori che, così riportato, sembrerebbe quasi un thriller americano. In realtà, è un lungo viaggio. Dentro di noi, dentro le nostre paure, sorretti dalle nostre convinzioni. Haruki è assolutamente convinto della potenza dell’amore per sconfiggere i mali del mondo. Vedremo (e vedremo cosa ne dicono le spesso consultate libropeute). Io ne faccio una fede, ma anche una domanda. Come altri e con ben altro spazio e capacità hanno detto, c’è molto altro dentro questo mondo 1Q84 (e dentro tutti i mondi possibili). C’è Dostoevskij e Bulgakov, ci sono i Sette Nani e la Strega Cattiva, c’è Frazer (quello del “Ramo d’oro”) e Farrell (quello della “Vita di Studs Lonigan”). Ci sono le riflessioni sulle sette e sul terrorismo. C’è il sesso ed il femminicidio. C’è, come detto fin dall’inizio, Orwell. Forse, per me, c’è troppo. Che non riesco ad uscirne indenne. Che non riesco ad andare sopra un’onesta sufficienza come gradimento. Anche se so che Haruki è più di quanto io possa sostenere (e non è un caso che venga nelle mie prime posizioni per un Nobel, sempre però dopo Amos Oz). Riesco solo a pensare che sono contento alla fine che Aomame e Tengo vengano in contatto. E mi domando, sarà finita qui?

Cicatrici fisiche

Non ho (ancora) letto il libro di Hiaasen, ma ho letto e vi riporto sia Chbovsky che un altro Fante. Vi risparmio il centenario di cui ho già troppo scritto.
Stephen Chbosky “Noi siamo infinito” Sperling & Kuipfer euro 13 (in realtà, scontato a 9,75 euro)
[trama dell’8 maggio 2016]
Non sapevo nulla di questo libro, dell’autore e del film che ne fu tratto (nel 2012), ma spinto dai suggerimenti “delle cure”, l’avevo messo nella lista degli acquisti. Lo avevo acquistato con altri e messo nella lista delle letture. Ora l’ho letto. Interessante, abbastanza duro ma non di ferro, forse anche pieno di possibilità inespresse, e che avrebbero potuto meglio uscire dalla pagina. Alla fine, un libro che si legge veloce, che non mi fa rimpiangere di non aver visto il film (anche se interpretato da Emma Watson, la mia Hermione preferita). Intanto, il segno meno è dovuto alla pervicacia delle edizioni italiane (e dei distributori del film): l’originale recita “Il vantaggio di essere una tappezzeria”, che capisco sia difficile da rendere sinteticamente in italiano, anche se tutti ci ricordiamo come alle feste “facesse tappezzeria” il ragazzo/a che stava da una parte senza partecipare a nulla. Ed è così che sta passando questo primo anno alle scuole superiori il nostro Charlie. Ragazzo molto intelligente, e contemporaneamente pieno di problemi. Come direbbe Troisi, non è che ha un complesso in testa, ma un’orchestra intera. Charlie è terrorizzato dalla novità di cambiare scuola, di crescere, di perdere gli amici e di non sapersene fare di nuovi. Per questo attraversa questo periodo appunto come tappezziere, senza partecipare (così come tutti ad un certo punto gli dicono). Ed allo stesso tempo, si interroga (ed interroga) su tutto. Tanto che spesso, soprattutto il padre, gli chiede addirittura di non fare domande, e di seguire le cose così come vengono. Charlie ha un fratello grande, che sta all’Università e si mantiene con borse di studio dovute alla sua attività sportiva. Ha una sorella, di poco più grande, che sbaglia sempre nella scelta dei ragazzi con cui andare. Tanto che rimane pure incinta, ed è partecipativa la scena di Charlie che la porta in clinica ad abortire. Nonostante il terrore di “stare solo”, Charlie fa comunque dei passi in avanti. Inciso: un terrore che gli deriva dal grande amore che aveva avuto per la sorella della madre, zia Helen, morta quando lui aveva sette anni. E dal suicidio del suo amico delle medie Michael. Per fare un esempio delle intempestività di Charlie, dopo quasi un anno dal suicidio, incontrando Susan, la ragazza di Michael, che si sta divertendo con degli amici, le chiede a bruciapelo: “Non senti mai la sua mancanza?” Fa dei passi avanti, dicevo, incontrando Patrick e sua sorella Samantha detta Sam. Sono più grandi, stanno all’ultimo anno, sosterranno l’esame finale, ma con loro si trova bene. Charlie comincia così a descrivere questo suo anno vissuto ai margini. Si prende una sbandata per Sam, che però gli fa capire la differenza d’età. È empatico con Patrick, gay con una cotta per Brad, ma la cui storia finisce male (molto per colpa di Brad che non accetta la sua omosessualità). Si mette con Mary Elizabeth, una ragazza che ha il solo difetto di parlare molto. E che lui ascolta. Ma non ama, lo fa perché “così fan tutti”. Fuma spinelli. A volte si ubriaca come un cavallo. Prova anche qualche cosa di più pesante, ma va fuori di testa. Lo aiuta, tra gli altri, il professore di inglese, che gli dà montagne di libri da leggere e recensire (tra cui Il buio oltre la siepe di Harper Lee, Peter e Wendy di J. M. Barrie, Il grande Gatsby di F. Scott Fitzgerald, Il giovane Holden di J. D. Salinger, Sulla strada di Jack Kerouac, e altri). Fino allo scioglimento finale, la festa di fine anno, e, finalmente, sappiamo perché Charlie è un po’ strano. Si vede che lo scrittore è anche sceneggiatore, che il libro è già quasi un copione. Ed è un bell’esempio del “mondo” americano. Certo, i genitori sono come si vorrebbe fossero. Gli amici, con tutti i loro difetti, anche. Ma si ha il coraggio, anche, di dire che c’è gente che beve, si droga, che ci sono rapporti difficili con gli altri, che ognuno è sé stesso a modo suo. Insomma, non mi è dispiaciuto leggerne, con tutti i distinguo che ho appena fatto. A volte scivola nel “kinsellaggio”, ma è sopportabile. Ed ogni tanto è bene ricordarsi che anche noi abbiamo avuto sedici anni.
“Il fatto è che non so di cose parlasse, anche se lo faceva molto bene.” (156)
“Immagino che siano tanti i fattori che ci fanno essere come siamo. Molti, forse, non li conosceremo mai. Ma, anche se non possiamo essere noi a decidere da dove veniamo, possiamo scegliere la nostra meta.” (269)
John Fante “Aspetta primavera, Bandini” Einaudi euro 12,50
[trama del 10 maggio 2015]
Non posso non cominciare una nuova trama dedicata John Fante senza prima rivolgere il solito ringraziamento a Luana, che me lo fece conoscere, mi spinse a leggerne ed a cui ripenso ogni volto ho un suo nuovo libro in mano. Questo è il primo libro pubblicato da Fante (anche se il secondo ad essere stato scritto), scritto sulla soglia dei suoi trent’anni, con tutta la rabbia che poteva avere questo figlio di immigrati verso un mondo in cui non aveva trovato ancora la sua strada. Nasce qui la saga degli immigrati di seconda generazione, quelli cioè nati in America, ma ancora immersi fino al collo nella cultura dei paesi di origine. Ed è anche l’inizio ufficiale della saga di Arturo Bandini, l’alter-ego di Fante del quale continuerà a scrivere in tutte le sue opere, e con tutte le sue problematiche. Prima fra tutte il rapporto con il padre, figura ingombrante e con la quale farà pace solo molti anni dopo. Ma c’è anche il rapporto amore-dispetto verso la madre e la sua accettazione cattolica della vita, il rifiuto della rivolta, la sottomissione. In sottordine, ma solo perché presenti, anche se poi si svilupperanno su due filoni diversi (uno in ascesa l’altro in discesa) il rapporto con le donne e quello con la religione. Qui c’è Arturo quattordicenne, che ad ogni malefatta (reale o ipotetica) corre a confessarsi per redimersi. E se anche rimarrà traccia del cattolicesimo, questa andrà scemando. E c’è Arturo che è innamorato di un’altra immigrata, Rosa, alla quale però non riesce a dichiarare il suo amore. Vedremo che poi, crescendo, altro atteggiamento riuscirà ad avere, ed il rapporto con l’altro sesso crescerà sempre più d’importanza. Comunque, qui comincia l’avventura della famiglia Bandini. Siamo nel freddo Colorado, nell’inverno del 1928. C’è il padre Svevo che vive con forte disagio la sua situazione di muratore sommerso dai debiti e costretto all'inattività a causa del rigido clima invernale. C’è la moglie Maria che sopporta pazientemente i tradimenti e le continue assenze da casa del marito, aggrappandosi tenacemente alla sua fede. Ed i tre figli: Arturo, August e Federico. Svevo si rifugia nell'alcol e nel gioco per dimenticare - anche solo per brevi istanti - la sua vita grama. Il padre è agli occhi del quattordicenne Arturo al tempo stesso una figura da ammirare - per il fatto che non si vuole rassegnare alla condizione di "povero immigrato italiano" - e da temere e odiare, perché fa soffrire la madre. Arturo trova anch'egli un modo per evadere dalla realtà casalinga nel suo amore (non corrisposto) per la compagna di classe Rosa e nella passione per il baseball. Il fulcro della storia si scatena quando Svevo, non trovando modo di sbarcare il lunario, si allontana da casa. E comincerà una storia di sesso e soldi con una vedova del luogo, tornando a casa solo per Natale, dove però i suoi regali vengono rifiutati da Arturo, memore della sofferenza della madre. Belle sono le descrizioni dei luoghi e delle persone. Soprattutto i primi, che riecheggiano quelli vissuti dalla famiglia Fante in prima persona, e che, agli occhi di Svevo ricordano le montagne dell’Abruzzo natio. La storia qui è narrata in terza persona, rispetto alla prima che userà altrove. Ma serve a Fante per poter saltare dalle soggettive di Svevo a quelle di Arturo. Che, nonostante le impennate della sua giovinezza, è anche lui un buono. E cercherà il modo (trovandolo) di riportare a casa il padre, prima che la madre prenda una china di malattia che non sarebbe recuperabile. E quel Bandini del titolo si attaglia e si riferisce ad entrambi. Sia il padre sia il figlio, infatti, attendono con speranza la primavera, uno per tornare a lavorare l'altro per tornare a giocare a baseball, entrambi per lasciarsi alle spalle le difficoltà del quotidiano. Certo, la storia lascia sempre, come in tutte quelle di Fante, un po’ di amaro in bocca per le cose non risolte, per le occasioni mancate (qui, per me, soprattutto, la mancata comprensione tra Arturo e Rosa). Ma è l’amaro di cui è poi fatta la vita. E Fante ne descrive un tratto di strada con la sua capacità ed il suo coinvolgimento, che, a libro chiuso, ci fa subito pensare di leggerne uno nuovo. Peccato che poi, li abbia letti quasi tutti.

Conclusioni


Che dire? Sulle crisi di astinenza sono perplesso, che Doctorow mi sembra poco appropriato. Almeno quanto, al contrario, lo era “Gomorra” di Saviano. Come sono poco d’accordo sul mettere “1Q84” nello scaffale degli innamorati, pur essendo un libro che parla molto dell’amore. Infine, anche la primavera di Bandini mi sembra poco consono a coprire cicatrici. Come invece può essere sicuramente Chbovsky, come lo era Jonasson, e come è e sarà sempre Dick (con tutta la sua produzione, non solo questo, che, se non lo ricordate, fu la base per uno dei film capolavoro degli ultimi decenni “Blade Runner”). Insomma, una serie di cure non proprio azzeccatissime.

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