Iniziamo con queste trame la
lettura e la scrittura sulla collana del Corriere della Sera, intitolata “Giallo
Svezia”. Una collana nata dalla buona resa che in libreria hanno i testi di
Mankell, della Marklund, la trilogia di Larsson e via leggendo. Purtroppo, per
i cattivi curatori della collana, i primi tre titoli che ho letto della serie …
non sono svedesi. Due danesi ed un francese (anche se da anni vive nei paesi
scandinavi). Certo non un bell’inizio per una collana intitolata alla Svezia.
Paradossalmente, poi, questi tre titoli sono più che sufficienti, mentre l’unico
svedese doc non mi è molto piaciuto.
Jussi Adler-Olsen “La donna in gabbia” Corriere della Sera GialloSvezia
4 euro 7,90
[A: 01/09/2015– I: 08/01/2017 – T: 10/01/2017] - &&&
+
[tit. or.: Kvinden I buret; ling. or.: danese; pagine: 460;
anno 2007]
Finalmente,
dopo tanto girarci intorno, cominciamo a leggere uno dei volumi editi dal
Corriere della Sera sotto l’egida della collana “GialloSvezia”. E cominciamo
male, non per il libro in sé, che, tutto sommato, con alti e bassi e qualche
lunghezza di troppo, è decente. Ma per la collocazione: perché inserire in una
collana che porta in bella vista una nazione (la Svezia) un libro scritto da un
danese in danese ed ambientato a Copenaghen? Anzi a København? Mistero.
Fortuna, comunque, che sia in ogni caso il primo libro della serie che Jussi
dedica all’ispettore Carl Mørck, così che abbiamo modo di introdurci nel suo
mondo e cercare di capirne i connotati. Il mondo di Carl, allora, è costituito
da una ex-moglie, Vigga, da cui è separato ma non divorziato perché il divorzio
sarebbe troppo oneroso, il figlio di Vigga, Jasper, che vive con Carl, in
quanto ancora studente, anche se non con brillanti risultati (l’unica cosa
brillante è il volume della musica che ascolta), un inquilino, Morten, un po’
gay, ma soprattutto l’unico che cucina e tiene in ordine la casa (basta non
toccargli i suoi pupazzetti playmobil, dove ho scoperto che c’è veramente gente
che ne fa collezione). Carl è un poliziotto discretamente capace e con un
carattere discretamente insopportabile. Ed è appena uscito da una brutta storia
(o forse non ne è ancora uscito): nel corso di un sopralluogo sulla scena di un
crimine, l’assassino era ancora in giro, e coglie di sorpresa la squadra di
Carl, uccidendo un collega e ferendo il secondo, Harry, che rimane paralizzato
dalle spalle in giù. Carl ha qualche graffio in testa, ma se la cava. Tornato
al lavoro dopo due mesi di malattia, per “toglierlo dalle palle”, il suo capo
adotta il metodo latino: “promoveatur ut amoveatur”. Per ottenere soldi dal
governo viene istituita una nuova sezione (la sezione Q) che dovrebbe dedicarsi
ai “casi freddi” (se Jussi fosse un patito delle serie TV americane, ci avrebbe
fatto due palle così su “Cold Case”). Dandogli come assistente, autista e
tuttofare il siriano Assad, che si rivela prezioso in molti frangenti, anche se
il suo passato è avvolto dal mistero più fitto. Scegliendo a caso tra i
possibili casi (a caso che non vorrebbe fare nulla, e guarda caso prendendo una
vicenda che potrebbe …) Carl si imbatte nella storia di Merete, donna in
carriera di uno dei partiti d’opposizione, scomparsa misteriosamente sul
traghetto per Kiel, quando voleva fare una gita a Berlino con il fratello Uffe.
Inciso, Kiel è la capitale dello Schleswig-Holstein, e sede di una società con
cui lavorai negli anni ’90, insieme ad una società danese, non sapendo (ma lo
scoprii durante le liti che ne seguirono) che i danesi dal 1918 rivendicano lo
Schleswig (cioè la parte nord del land) come un loro territorio. Ma ovvio che
questa è tutta un’altra storia. Nelle indagini, Carl (ma soprattutto Assad)
ricostruisce la storia di Merete. Coinvolta da bambina in un terribile
incidente stradale dove morirono i genitori, ed il fratello Uffe ebbe una complessa
emorragia cerebrale, che lo rese afasico e ne bloccò lo sviluppo mentale. Lo
scontro frontale coinvolse un’altra macchina, dove morirono il padre e la
sorella di Lars, la madre rimase paralizzata mentre partoriva sul luogo
dell’incidente due gemelli: uno morto, l’altro, soffocato dal cordone
ombelicale, anche lui ritardato. Il signor Jensen era, tra l’altro, il titolare
di una industria di punta danese, che si occupava della costruzione di camere
iperbariche a perfetta sicurezza. La squadra Q scopre inoltre che: Merete, poco
prima del viaggio, sembrava essersi innamorata di un biondino; biondino che si
faceva chiamare Dennis, ma non lo era. Anzi il vero Dennis muore, il giorno
dopo la scomparsa di Merete, in un incidente stradale provocato da tale Daniel.
Il quale, a sua volta, in poco tempo, muore anche lui in circostanze
misteriose. Devo dire che poco c’era di suspense in tutto ciò, che fin dalle
prime battute si capisce che la scomparsa di Merete ha un collegamento forte
con l’incidente di cui sopra. Noi, lettori onniscienti, vediamo procedere la
trama, andando su e giù nel tempo, tra le indagini di Carl e le vicende che
cominciano cinque anni prima, e si sviluppano di anno in anno, dove vediamo
Merete rinchiusa in una gabbia ermetica dove ogni anno aumenta la pressione
atmosferica di un’atmosfera. Il giallo sta tutto lì: quando arriverà il punto
che la pressione sarà non più sopportabile per Merete? Riuscirà la squadra Q a
capire chi gestisce la gabbia e dove sta la suddetta? Inoltre, ammesso e non
concesso che Carl risolva i problemi al contorno, riusciranno a penetrare i
nostri eroi in una gabbia ermetica? E sarà ancora viva Merete? Tutti
interrogativi che potrete sciogliere leggendo lo scorrevole scritto di Jussi.
Seguendo anche tutti i risvolti della vita di Carl, che non sono solo questa
indagine, ma i rapporti con il figlio, con la moglie, con gli altri poliziotti,
e soprattutto con il tetraplegico amico Harry. Insomma, una trama che si stende
aldilà del giallo in sé, che ha poco del misterioso, parlando di situazioni e
di rapporti umani, nel solco di quella tradizione giallo-sociale cominciata
questa sì in Svezia con i bellissimi romanzi di Sjöwall & Wahlöö.
Anna Grue “Nessuno conosce il mio nome” Corriere della Sera
GialloSvezia 11 euro 7,90
[A: 10/10/2015– I: 11/01/2017 – T: 13/01/2017] - &&&
e ½
[tit. or.: Dybt at falde; ling. or.: danese; pagine: 331;
anno 2007]
Eccoci
allora al secondo libro della collana “Svezia” e, casualità vuole, anche questo
secondo libro NON è svedese. Anna Grue è danese, scrive in danese e la storia è
ambientata vicino alla capitale danese nei sobborghi della fittizia città di
Christianssund (che dalla descrizione che ne dà la scrittrice potrebbe essere
Frederikssund, ad una quarantina di minuti da Copenaghen affacciata sul bel
fiordo di Roskilde). Terminati quindi i lamenti per le imprecisioni della
collana, veniamo invece al libro che, pur non eccelso, ha un suo fascino per
almeno due ordini di motivi: introduce un personaggio (è il primo libro di una
serie) e lo fa senza che noi dobbiamo pensare di conoscerlo da sempre (per
gradi, quasi costruendosi insieme alla lettura) ed affronta temi sociali che
non guasta affrontare (ovviamente ci si tornerà sopra). In effetti, il libro è
duplice, mostrandoci, accanto ad una trama gialla, la nascita di un
personaggio: il detective calvo Dan Sommerdahl. Che all’inizio della storia è
tutt’altro che detective (è solo calvo). Anzi, è un marketing pubblicitario in
crisi depressiva. Ha una moglie medico, Marianne, due figli grandini usciti di
casa (per lavoro o per studio) ed un lavoro che lo appassiona. Ma, promosso in
posizione di responsabilità, non regge lo stress ed il tipo diverso
d’approccio. Ha anche un amico storico, il commissario Flemming Torp
(casualmente fidanzato con Marianne per una settimana prima che lui prendesse
il sopravvento). Sarà Torp ad iniziarlo ad uscire dall’apatia coinvolgendolo in
un’inchiesta intorno alla morte di una fantomatica Lilliana, donna di pulizie
proprio nell’azienda di Dan. Fantomatica perché di lei sembra non sapersi
nulla: non si sa il vero nome, la nazionalità, il contratto di lavoro. Certo,
pulisce, per una ditta abbastanza grande, ma lavora in nero, ed anche la
titolare della ditta non sa (o non rivela) quello che dovrebbe sapere. Mentre
Torp avanza nella sua indagine usando canali ufficiali, Dan si muove come
battitore libero, sfruttando il fatto di conoscere la ditta e le persone che ci
lavorano. Il capo della ditta, Sebastian Kurt, sua moglie Henrietta, la
segretaria del capo, Elisabeth, e tutti i principali attori che si muovono
nello spazio dell’ufficio (pubblicitari, registi, disegnatori, e via
discorrendo). Il primo sospettato, tra l’altro, è il giovane Benjamin, partner
di Lilliana nelle pulizie. Che tuttavia, a parte reticenze varie, sembra non
essere della partita. Sarà proprio Dan, tra discorsi buttati lì e ricerche da
proto-detective, che comincerà a far uscire qualche barlume. Usando le
registrazioni degli ingressi scopre che Benjamin ha visto il corpo di Lilliana
ma è subito fuggito per non farsi coinvolgere. Perché Benjamin (e la madre di
lui) non possono uscire alla luce del sole. Vivono sotto copertura, anche se
non ufficiale, per sfuggire al padre di Ben ed ex-marito della madre, violenta
figura di ex-poliziotto. Che l’aveva riempita di botte, che aveva trovato la
famiglia dopo una prima copertura, ed altre nefandezze da femminicidio che qui
tralascio. Parlando con Ben, il nostro clavo Dan scopre anche che Lilliana ha
partorito mesi prima e che ha un’amica nigeriana, Sally, con la quale viveva.
Seguendo questa traccia, scopre il condominio dove vivevano le due, pieno di
immigrati più o meno clandestini. Scopre Jo, l’amica nigeriana di Sally. Scopre
che Lilliana aveva un amante nella ditta. Tutto questo mentre Torp e la polizia
brancolano un po’ nel buio, seguendo solo alcune tracce di mail strane partite
dal desktop di Elisabeth. Quando finalmente Torp e Dan si decidono a vincere
timori vari e confrontano i loro avanzamenti, molto viene alla luce. Nella
pacifica cittadina c’è una rete occulta di supporto a donne con problemi,
spesso alla fuga da bordelli vari. Qualcuno li segnala ad Elizabeth che usa la
sorella (capo della ditta di pulizie) per dar loro un lavoro ed Henrietta
(moglie del capo di Dan) per dargli un tetto, visto che la donna possiede
diversi stabili in città. Si scopre anche che un’altra dottoressa, che lavora
nello studio di Marianne, viene utilizzata per curare le profughe, visto che
queste non hanno copertura sanitaria. Peccato che venga trovata morta anche
Sally, uccisa di botte e gettata nel fiordo. Peccato che la rete faccia acqua
da tutte le parti: la ditta delle pulizie lucra alla grande sul lavoro nero. Ma
è soprattutto Henrietta che ci puzza: qualcuno le aveva detto che Sally era
l’amante del marito. Per cui lei pensa di chiedere aiuto a suo fratello, che,
guarda caso, gestisce i bordelli da cui le povere ragazze fuggivano. Fratello
che ha come uomo di punta nella brutalizzazione delle donne proprio il cattivone
padre di Ben. Che trova le tracce di Sally. E scopre chi ha ucciso Liliana,
iniziando un personale ricatto. E scopre anche che lì sono rifugiati Ben e la
madre, che da cinque anni cerca per continuare a vendicarsi. Ovviamente sarà
Dan, nella sua nuova veste di investigatore, che farà saltare tutti i meccanismi,
portando alla luce il losco traffico, ed arrivando al giusto castigo per tutti
i cattivi. Piccole altre storie sono presenti, ma quello che ci preme è la
descrizione della nascita di una vocazione (che alla fine Dan si dimette
dall’azienda, e penso in successivi romanzi si evolverà). L’ultimo accenno è a
quel secondo filone che accennavo all’inizio. I clandestini che arrivano,
vengono presi in carico da bande di malviventi, e, se donne, avviate alla
prostituzione. Quello che sottolinea Anna Grue è il meccanismo perverso cui
soggiace chi si ribella: fa magari arrestare qualche sfruttatore, ma, essendo
in clandestinità, viene ben presto rimandato all’origine. Dove cadrà nuovamente
nella rete di chi l’ha già sfruttata. L’autrice, oltre al grido di dolore, non
può fare altro. Io mi associo, sottolineando che spesso chi emigra lo fa sotto
minacce diverse. Ogni caso è un caso a sé, dove purtroppo, ora, in questo
momento storico, l’aumento esponenziale dei casi, non favorisce la possibilità
di trattarli singolarmente. Si mescola tutto, e non se ne esce più. Grazie Anna
per questo piccolo tassello di discussione.
Olivier Truc “L’ultimo lappone” Corriere della Sera GialloSvezia 7 euro
7,90
[A: 14/09/2015 – I: 17/03/2017 – T: 20/03/2017] - &&&
+
[tit. or.: Le dernier Lapon; ling. or.: francese; pagine: 446;
anno 2010]
Nuova
lettura della collana dei Giallo Svezia, e, come per le prime lettura,
nuovamente sono indignato della superficialità dei curatori. Peccato che quando
torneremo a parlare del libro in sé vedremo che non è male, e pone qualche
problema interessante. Ma tanto per iniziare, si può inserire nella collana un
libro “Giallo Svezia” un nuovo libro scritto non in svedese da un autore, come
vedete sopra, francese? Truc è di certo un francese che conosce bene le terre
scandinave, da anni è corrispondente da Stoccolma per “Le Monde”. Inoltre, la
sua scrittura (quasi) di piglio giornalistico è discretamente attraente
(qualche lungaggine, ma ci può stare). Comunque è francese. E comunque parla di
Lapponia (Sami in lingua locale) che non è una regione “solo” svedese, ma si
estende tra Norvegia, Svezia, Finlandia ed una parte in Russia. Inoltre, la
maggior parte della storia si svolge a Kautokeino. Dove vivono sì 2500 sami (la
più alta concentrazione di tutta la regione), ma giuridicamente è norvegese e
non svedese. Fatte queste premesse, incluso il fatto che gli “eroi” della saga
(perché è uscito un secondo libro che prosegue le vicende di questo) sono due
esponenti della “polizia delle renne”, Klemet Nango (sami) e Nina Nansen
(svedese), veniamo a parlare della storia e non di queste considerazioni forse
marginali ma per me importanti per connotare, ancora una volta, il mercato
librario come un mercato che tende a raggirare il pubblico e non ad aiutare il
lettore. Venendo al contesto, elementi di sicuro interesse sono gli spunti che
l’autore ci dà con la sua conoscenza della cultura e della vita attuale del
popolo sami (preferisco questa dizione al più generico lappone). Uno degli
altri popoli che il progresso ha “benevolmente” sterminato. Prima imponendo
confini, a volte invalicabili (come quello verso la Russia), che hanno reso
difficile se non impossibile il mezzo di sostentamento dei sami: l’allevamento
delle renne. I sami nascono nomadi ed allevatori. Anzi, l’allevatore è il punto
più alto della loro piramide sociale. Costringere le renne ad obbedire ai
confini degli uomini rende praticamente inattuabile l’allevamento di animali
nati per essere liberi. Secondo, requisendo le terre sami per sfruttare i
grandi giacimenti presenti sul terreno. Petrolio, oro e soprattutto uranio.
Ovvio che portando alla luce materiale radioattivo, ad esempio, si inquinino
falde acquifere, e si introducano malattie una volta sconosciute. Così svedesi,
norvegesi e finlandesi si appropriano di queste terre, negando a volte anche il
riconoscimento dello status autoctono dei sami. Potere che emargina, anche
perché la lingua sami solo nell’Ottocento ha una sua svolta verso la scrittura.
E sappiamo come chi detiene la scrittura detiene la giustizia, ha modo di
indirizzare la vita altrui verso il proprio tornaconto. Studioso e quindi
conoscitori del mondo sami, Truc ci presenta anche i due elementi
caratteristici dei locali: i tamburi rituali ed il canto denominato “joick”.
Avendo una tradizione orale, è attraverso il canto, ed i poeti cantori, che si
tramandano le storie e le informazioni culturali. Provate a fare un giro anche
su “YouTube” e potete sentire dove sono, ad esempio, le radici di Bjork e dei
Sigur Ros. I tamburi poi, oltre che di accompagnamento per le cerimonie
tribali, erano utilizzati come modo di tramandare informazioni. Sul territorio,
sugli avvenimenti, insomma delle graphic novel condensate. Ovvio che i
colonizzatori li prendessero di mira, tanto che i missionari si posero un punto
d’onore di distruggerne il maggior numero. Si dice che siano rimasti meno di
cento tamburi originali, rispetto alle migliaia tramandati dalla tradizione.
Alla fine, immerso in tutto questo affascinante mondo (che spero si visiterà di
nuovo) c’è anche la storia. Che proprio da questi elementi tradizionali prende
l’avvio. Dal furto di uno degli ultimi tamburi rituali, che dovrebbe avere
indicazioni per la scoperta di un favoloso giacimento. Dall’uccisione di
Mattis, un allevatore sami, molto legato alla tradizione dei tamburi. Oltre
alla polizia tradizionale, anche i nostri “poliziotti delle renne” vengono
convolti, che di mezzo ci sono di sicuro allevatori locali. Seguiamo allora
Klemet e Nina nelle loro indagini, pagina dopo pagina, sfogliare il problema
come fosse un carciofo cui andiamo togliendo le foglie esterne per scoprire il
cuore. Vediamo l’ultimo lappone, Aslak, unico che ancora usa metodi
tradizionali nell’allevamento, che si sa muovere nella vidda, il nome sami
degli altopiani locali. Vediamo Olsen, il malvagio svedese, che cerca con tutti
i mezzi di trovare il giacimento. Anche coinvolgendo il cattivo Racagnal (con
pervicace malizia, l’autore francese incarna il peggior soggetto del libro
proprio in un suo compatriota). Racagnal che era già stato anni prima nella
zona, che conosce bene in quanto geologo, che inoltre ha un debole per le
minorenni. Un cattivo soggetto, che con la forza costringe Aslak ad aiutarlo
nella ricerca del giacimento. Basandosi sulla mappa fornita da Olsen, cui
l’aveva data il padre, che l’aveva rubata cinquanta anni prima ad un geologo
tedesco, uccidendolo. Vi risparmio tutti i passaggi di conoscenza che ci fa
seguire l’autore nel suo denso libro. Però Klemet e Nina capiranno il mistero
del tamburo, capiranno chi lo ha rubato, capiranno chi e perché ha ucciso
Mattis, capiranno com’è formata la squadra dei cattivi. Noi capiremo anche
perché è impazzita la moglie di Aslak, e perché Aslak si deve vendicare. E
vedremo come riuscirà nell’intento. Pur tuttavia, la storia, anche se intrigante
ed incasinata, serve solo a presentarci il mondo sami. A farcene capire le
bellezze. E le stranezze. E le durezze (come si fa a vivere bene in un paese
dove d’inverno si viaggia tra i 20 ed i 40 sotto zero e dove a gennaio le ore
di luce sono circa due?). uUna buona scrittura, indubbiamente, ma una storia
forse troppo ampia ed ambiziosa per un libro solo. Comunque, in conclusione,
sono però contento che qualcuno mi abbia aperto questo spiraglio. Vedremo cosa
ne uscirà fuori, in futuro.
Magnus Montelius “L’inganno del passato” Corriere della Sera Svezia 12
euro 7,90
[A: 19/10/2015– I: 25/04/2017 – T: 30/04/2017] - &&--
[tit. or.: Mannen från
Albanien; ling. or.: svedese; pagine: 366; anno 2011]
Allora,
finalmente un libro della collana svedese scritto da uno svedese. Tra l’altro,
di vasta e risonante discendenza (in patria, almeno), che la famiglia Montelius
annovera tra i suoi membri diverse personalità di spicco, come il nonno, lo zio
ed il cugino di Magnus (scrittore, registi, attori), nonché la sorellastra
Martina (figlia dello stesso padre Mons). Esperto consulente ambientale,
vissuto tra i Balcani e l’America Latina, quasi cinquantenne esce con questo
libro. Che ha alcuni punti di interesse (conoscenza della materia, ambiente
spionistico tentacolare), ma che, purtroppo, decade molto non riuscendo a
tenere salda tutta la complessa materia di cui tratta. Risultato: si fa fatica
nella lettura, non scorre come dovrebbe. I personaggi principali a volte hanno
dei passaggi a vuoto, mentre in altri punti accelerano le loro agnizioni quasi
senza che noi poveri lettori riusciamo a tenerne il passo. Intanto, Tobias, il
personaggio che sembra essere il fulcro, il motore della storia, non esce con
nitidezza dalle pagine. Più o meno trentenne, dedito a tanti lavori in cui
mette una buona capacità, senza riuscire in nessuno in maniera decisa, ha una
formazione da storico ed una vocazione giornalistica. Noi iniziamo seguendolo
in uno scoop che gli dovrebbe consentire uno scatto nell’ambiente della carta
stampata, che gli si ritorce contro, poiché si scontra con politici molto più
attenti e maneggioni di quanto, ingenuamente, suppone. Ma questo ci dà solo la
sua connotazione di perdente, come perdente è il suo rapporto con Hanna, che
lascia dopo i primi capitoli. Tuttavia si imbatte in una possibile storia
inciampando in un morto. Che sembra una disgrazia, ma alla fine sarà omicidio.
Un morto senza nome, o meglio, con un passaporto albanese. Falso, come falsa
tutta la sua storia. Lui indaga, prende delle dritte da un barbone (che verrà
ucciso ben presto anche lui), si incaponisce a voler farne una storia.
Fortunatamente, una sua collega giornalista, Natalie, sembra capirne le
potenzialità (della storia). Anche perché lei stessa ha avuto dei problemi con
i politici ed è stata licenziata dalla televisione. Insomma, quadri foschi di
gente onesta che viene stritolata dal potere. Montelius, ogni tanto, prende
questi spezzoni, si immerge in rivoli laterali, perde il filo cercando di darci
immagini complete delle persone che abbiamo davanti. Ma si perde. Come si perde
seguendo il commissario Tilas, che non sappiamo perché anche lui emarginato, ma
che segue il filone indagativo capendo, per primo, che stiamo di fronte ad
omicidi (ce ne saranno un certo numero). La svolta, anche narrativa, l’abbiamo
quando Tobias scopre che il “morto albanese” è in realtà Erik Lindman. Qui
comincia tutta la grande saga della storia della sinistra svedese negli anni
sessanta e settanta, nonché il ruolo della Svezia come punto nodale di
spionaggio da e per i paesi d’oltre cortina. Dimenticavo, la storia si svolge
nel 1990, poco dopo la caduta del Muro di Berlino, quando molti cadaveri, veri
o presunti, escono dagli armadi. Erik era un giovane di sinistra, uomo di punta
di gruppetti comunisti o vicini a, fidanzato con la bella Sonia, amico del
giovane Carl, mentore del più giovane Åke. Erik, ad un certo punto, scompare,
Sonia chiede aiuto alla polizia, e si scopre che, forse, Erik era una spia
russa che stava per essere scoperta, e per questo ripara oltrecortina.
Montelius ci fa viaggiare con dovizia di particolari (in fondo è ben
documentato, per quanto si può vedere dal nostro punto di osservazione).
Comunque Erik non compare, Sonia poco dopo sposa un politico traffichino di
nome Peter. Ma dopo cinque anni, inspiegabilmente, divorziano e lei abbandona
la politica per fare il giudice. Carl, dopo gli anni di opposizione, rientra
nell’alveo parentale della grande famiglia industriale e politica da cui proviene.
Peter continua a fare il politico, anche se, rispetto alle capacità dimostrate
i primi anni, un po’ defilato. Ma Erik aveva detto a Åke che si allontanava di
nascosto. Il clamore che invece viene suscitato fa precipitare tutto. Erik era
andato in Albania, che negli anni ’60 sembrava un’isola promettente di
comunismo realizzato, benché isolato. Tuttavia, uscendo sui giornali che lui
poteva essere una spia russa, gli albanesi lo prendono di mira, rinchiudendolo
per anni in prigione. Solo ora, nel ’90, con tutti i cambiamenti in atto,
riesce a tornare. Volendo ricostruire la verità. Che non era lui la spia, ma, e
questo Tobias riesce a capirlo, poteva o doveva essere uno del suo giro. O una.
Poteva essere Sonia o Carl o Peter. Sarà Natalie a trovare il bandolo per far
uscire l’asso dal mazzo. Non vi sto a tediare con i lunghi tentativi della
polizia segreta di insabbiare tutto strada facendo. Cercando di impaurire
Tobias. Cercando di emarginare Tilas. Mettendo in mezzo i giornalisti cattivi.
Alla fine Tobias verrà comunque licenziato (per lui finisce sempre male) e
Natalie verrà riassunta con incarico a Londra. Purtroppo non sappiamo che sarà
di Tilas. Ed altri pezzi del grande puzzle non andranno mai al loro posto.
Troppa carne al fuoco. Troppo veloce la fine che non spiega tutto, all’insegna
che i politici cattivi fanno sapere molto poco della verità e quella che noi
verremmo a conoscere sarà solo frutto di logiche deduzioni. Per questo, pur
pieno di buone intenzioni, non lo trovo un libro ben riuscito. Due annotazioni:
non so se presente nell’originale o solo nelle edizioni estere, ma le paginette
introduttive sulla storia dell’Albania sono poco utili. Meglio se le stesse
notizie fossero venute nel corso del libro. In fondo non è un libro di storia,
ma un giallo. Secondo poi, perché mettere quel titolo italiano senza capo né
coda? Certo nel passato, da dove viene Erik, ci sono stati inganni e menzogne.
Me il titolo originale è “L’uomo venuto dall’Albania” che voleva probabilmente
riecheggiare un grande classico delle spy story, quel bel libro di Le Carrè,
che in svedese era riportato come “Spionen från kylan”, e se lo confrontate con
il titolo originale che ho riportato sopra, penso mi abbiate capito.
Seconda
domenica del mese, quindi un bell’allegato dedicato alla memoria, ora che, in
molti, ci lascia (o forse siamo noi che la lasciamo?).
Un
Maggio, pieno, fiorito, più difficile del previsto, ma, forse, con più ampie
prospettive. Per ora, nel pieno della giornata festiva, non posso mancare di
mandare un saluto a tutte le mamme.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i
“bugiardini” di Giovanni
MAGGIO 2017
Maggio, mese delle mamme, dei
compleanni, e quindi, in modo diretto ed indiretto, a ricordare ed a fissare
tutto nella memoria. Cosa di meglio che parlare allora della sua perdita.
MEMORIA, PERDITA DELLA
Samuel
Beckett “L’innominabile”
Gabriel
García Márquez “Cent'anni di
solitudine”
Mordecai
Richler “La versione di
Barney”
L’errore che
commettete, ovviamente, è quello di pensare alla memoria come se esistesse
davvero, in un luogo speciale, mentre non è altro che una proiezione del
momento. Vi lasceremo, tuttavia, perseverare nell’errore fino al confine
estremo della vostra follia, e allora potrete affrontare di nuovo la questione,
facendo attenzione a non compromettervi con l’uso di termini, se non di
concetti, accessibili per l’intelletto umane. Un supplemento di riflessione
potrebbe dimostrarvi che in realtà venite spinti a dimenticare, e che l’ora del
ricordo, lungi dall’essere scoccata, potrebbe non scoccare mai. Perché dunque
non pensare ad altro, a qualcosa la cui esistenza sembri in qualche modo già
misurabile, a qualcosa che possa essere nominata? E insomma, lo preferiamo,
bisogna dire che lo preferiamo, perché il vostro atteggiamento verso di noi è cambiato,
siamo ingannati, e potreste essere voi la porta verso la memoria. Se solo
l’ascoltaste, la voce vi direbbe tutto.
Vi chiedete,
non sentite una bocca su di voi, non sentite gli spintoni delle parole sulle
labbra, e quando pensate a un libro che vi piace, ammesso che vi piacciano i
romanzi, sull’autobus, o a letto, le parole sono lì, le parole che cadono, non
si sa dove, non si sa da dove, gocce di silenzio, si sente un orecchio, si
sente un naso, anche se francamente adesso non vi sembra, ed è necessario che
vi facciate una testa.
Pensate di
cambiare voi non cambiate mai continuerete a dire la stessa cosa finché non
morirete. Dove, ora? Chi, ora? Quando, ora? Lo dimenticate sempre, e dobbiamo
riprendere, dovete riprendere, non smettere mai di raccontare storie a voi
stessi, e domandarvi dove le avete prese, se nella terra dei vivi, dove
immagazzinate i ricordi, nella testa, e non ve la sentite la testa, voi siete
fatti di silenzio, noi siamo fatti di storie, noi saremmo voi, noi saremmo il
silenzio, voi sareste le storie, vi siete lasciati indietro, vi state
aspettando. Dovete andare avanti, non potete andare avanti, vi abbiamo condotto
sulla soglia della vostra storia, prima che la porta si apra sulla vostra
storia, resterete sorpresi, la porta si aprirà, voi sarete voi.
In ogni caso,
sappiate che ci sono due eccellenti metodi per far fronte a questo progressivo
buco nero che si propaga nel vostro cervello. Il primo fu adottato nel
villaggio di Macondo quando venne colpito dalla peste dell’insonnia e della
smemoratezza. Le due calamità sono collegate: “la cosa più temibile
dell’insonnia non era l’impossibilità di dormire, dato che il corpo non provava
alcuna fatica, bensì la sua inesorabile evoluzione verso una manifestazione più
critica: la perdita della memoria. Significava che quando il malato si abituava
al suo stato di veglia, cominciavano a cancellarsi dalla sua memoria i ricordi
dell’infanzia, poi il nome e la nozione delle cose, e infine l’identità delle
persone e perfino la coscienza del proprio essere, fino a sommergersi in una
specie di idiozia senza passato”. Quando questa malattia divampò in pochi
giorni, José Arcadio Buendia riunì tutti i capifamiglia per adottare delle
misure che impedissero al flagello di propagarsi alle altre popolazioni della
palude. Macondo si mise così in quarantena, perché “tutte le cose da bere e da
mangiare erano contaminate di insonnia” ed Aureliano escogitò un sistema di
difesa. Scrisse su un foglio il nome delle cose che stava per dimenticare, a
cominciare dagli strumenti del suo laboratorio di oreficeria, e glielo
appiccicò sopra. “A poco a poco, studiando le infinite possibilità del
dimenticare, si accorse che poteva arrivare un giorno in cui si sarebbero
individuate le cose dalle loro iscrizioni, ma non se ne sarebbe ricordata
l’utilità. Allora fu più esplicito. Il cartello che appese alla nuca della
vacca era un modello esemplare del modo in cui gli abitanti di Macondo erano
disposti a lottare contro la perdita della memoria: Questa è la vacca, bisogna
mungerla tutte le mattine in modo che produca latte e il latte bisogna farlo
bollire per aggiungerlo al caffè e fare il caffellatte. Così continuarono a
vivere in una realtà sdrucciolosa, momentaneamente catturata dalle parole, ma
che sarebbe fuggita senza rimedio quando avessero dimenticato i valori delle
lettere scritte”.
Più semplice è
invece l’esercizio a cui ogni giorno si sottopone Barney Panofsky per tentare
affannosamente di sottrarsi alla sua storia di perdita, della memoria come
degli affetti. Non stancarsi di porsi sempre le stesse decisive domande:
Qual è il nome
dei sette nani?
E dei fratelli
Marx?
Quanti decimi
di vista aveva Omero?
Chi è il più
grande cabarettista della storia?
Per sapere se
è ancora in forma, vi basterà passargli una matita e un foglio e vedere se a
quest’ultima domanda risponderà ancora Dio, scrivendolo alla rovescia.
Bugiardino
Di
Beckett ho letto altro, e questo attacco alla memoria da parte delle mie scrittrici
terapeutiche mi ha lasciato un po’ destabilizzato, anche se è in puro stile
beckettiano. Un flusso di parole che si attorcigliano al mio ed al vostro
cervello. Ovviamente invece ho letto, divorato, digerito e riletto, il
capolavoro di Gabo, ma molto, molto prima delle mie trame. Rimane il canadese
che non mi ha mai convinto del tutto, che ho letto dieci anni fa, e di cui
riporto le scarne righe che allora scrissi.
Mordecai Richler “La versione di Barney” Adelphi euro 10
[trama pubblicata il 07 giugno 2007]
Mi
è sembrato una specie di Lamento di Portnoy degli anni ’90. Non posso dire che
non mi sia piaciuta, l’autobiografia romanza di Mordecai (anche se lui negava).
In effetti il libro era stato fatto diventare l’icona del politicamente
scorretto, di tutto quello che si pensa e non si dice. Ma se si riesce a
tornare alla pagina, dopo aver personalmente mitigato la delusione di pensare
di trovarmi davanti ad un “vecchio Holden”, esce fuori la descrizione di una
persona che non riesce ad essere sincero con la vita, e tanto meno con sé
stesso. E che vorrebbe, vorrebbe, ma alla fine ricade sempre sui propri errori,
senza sembrare di comprenderne i meccanismi. In fondo, tuttavia, sono contento
di averlo letto adesso e non dieci anni fa.
“Non credo di averglielo mai detto, ma avrei
potuto passare la vita a guardarla”
Conclusioni
Penso che l’unico libro
appropriato sia proprio il sudamericano, soprattutto per quella trovata
stupenda dei nomi appiccicati alle cose, per sapere come si chiamano. E poi per
la spiegazione di come usarle. Non mi convince Richler, come non mi convinse
allora. Ma, sinceramente, avrei messo come efficace contraltare il Funés di
Borges. Domanda finale, quindi, è meglio ricordare tutto o scordare tutto?
Nessun commento:
Posta un commento