domenica 14 maggio 2017

Svezia, forse

Iniziamo con queste trame la lettura e la scrittura sulla collana del Corriere della Sera, intitolata “Giallo Svezia”. Una collana nata dalla buona resa che in libreria hanno i testi di Mankell, della Marklund, la trilogia di Larsson e via leggendo. Purtroppo, per i cattivi curatori della collana, i primi tre titoli che ho letto della serie … non sono svedesi. Due danesi ed un francese (anche se da anni vive nei paesi scandinavi). Certo non un bell’inizio per una collana intitolata alla Svezia. Paradossalmente, poi, questi tre titoli sono più che sufficienti, mentre l’unico svedese doc non mi è molto piaciuto.
Jussi Adler-Olsen “La donna in gabbia” Corriere della Sera GialloSvezia 4 euro 7,90
[A: 01/09/2015– I: 08/01/2017 – T: 10/01/2017] - &&& +
[tit. or.: Kvinden I buret; ling. or.: danese; pagine: 460; anno 2007]
Finalmente, dopo tanto girarci intorno, cominciamo a leggere uno dei volumi editi dal Corriere della Sera sotto l’egida della collana “GialloSvezia”. E cominciamo male, non per il libro in sé, che, tutto sommato, con alti e bassi e qualche lunghezza di troppo, è decente. Ma per la collocazione: perché inserire in una collana che porta in bella vista una nazione (la Svezia) un libro scritto da un danese in danese ed ambientato a Copenaghen? Anzi a København? Mistero. Fortuna, comunque, che sia in ogni caso il primo libro della serie che Jussi dedica all’ispettore Carl Mørck, così che abbiamo modo di introdurci nel suo mondo e cercare di capirne i connotati. Il mondo di Carl, allora, è costituito da una ex-moglie, Vigga, da cui è separato ma non divorziato perché il divorzio sarebbe troppo oneroso, il figlio di Vigga, Jasper, che vive con Carl, in quanto ancora studente, anche se non con brillanti risultati (l’unica cosa brillante è il volume della musica che ascolta), un inquilino, Morten, un po’ gay, ma soprattutto l’unico che cucina e tiene in ordine la casa (basta non toccargli i suoi pupazzetti playmobil, dove ho scoperto che c’è veramente gente che ne fa collezione). Carl è un poliziotto discretamente capace e con un carattere discretamente insopportabile. Ed è appena uscito da una brutta storia (o forse non ne è ancora uscito): nel corso di un sopralluogo sulla scena di un crimine, l’assassino era ancora in giro, e coglie di sorpresa la squadra di Carl, uccidendo un collega e ferendo il secondo, Harry, che rimane paralizzato dalle spalle in giù. Carl ha qualche graffio in testa, ma se la cava. Tornato al lavoro dopo due mesi di malattia, per “toglierlo dalle palle”, il suo capo adotta il metodo latino: “promoveatur ut amoveatur”. Per ottenere soldi dal governo viene istituita una nuova sezione (la sezione Q) che dovrebbe dedicarsi ai “casi freddi” (se Jussi fosse un patito delle serie TV americane, ci avrebbe fatto due palle così su “Cold Case”). Dandogli come assistente, autista e tuttofare il siriano Assad, che si rivela prezioso in molti frangenti, anche se il suo passato è avvolto dal mistero più fitto. Scegliendo a caso tra i possibili casi (a caso che non vorrebbe fare nulla, e guarda caso prendendo una vicenda che potrebbe …) Carl si imbatte nella storia di Merete, donna in carriera di uno dei partiti d’opposizione, scomparsa misteriosamente sul traghetto per Kiel, quando voleva fare una gita a Berlino con il fratello Uffe. Inciso, Kiel è la capitale dello Schleswig-Holstein, e sede di una società con cui lavorai negli anni ’90, insieme ad una società danese, non sapendo (ma lo scoprii durante le liti che ne seguirono) che i danesi dal 1918 rivendicano lo Schleswig (cioè la parte nord del land) come un loro territorio. Ma ovvio che questa è tutta un’altra storia. Nelle indagini, Carl (ma soprattutto Assad) ricostruisce la storia di Merete. Coinvolta da bambina in un terribile incidente stradale dove morirono i genitori, ed il fratello Uffe ebbe una complessa emorragia cerebrale, che lo rese afasico e ne bloccò lo sviluppo mentale. Lo scontro frontale coinvolse un’altra macchina, dove morirono il padre e la sorella di Lars, la madre rimase paralizzata mentre partoriva sul luogo dell’incidente due gemelli: uno morto, l’altro, soffocato dal cordone ombelicale, anche lui ritardato. Il signor Jensen era, tra l’altro, il titolare di una industria di punta danese, che si occupava della costruzione di camere iperbariche a perfetta sicurezza. La squadra Q scopre inoltre che: Merete, poco prima del viaggio, sembrava essersi innamorata di un biondino; biondino che si faceva chiamare Dennis, ma non lo era. Anzi il vero Dennis muore, il giorno dopo la scomparsa di Merete, in un incidente stradale provocato da tale Daniel. Il quale, a sua volta, in poco tempo, muore anche lui in circostanze misteriose. Devo dire che poco c’era di suspense in tutto ciò, che fin dalle prime battute si capisce che la scomparsa di Merete ha un collegamento forte con l’incidente di cui sopra. Noi, lettori onniscienti, vediamo procedere la trama, andando su e giù nel tempo, tra le indagini di Carl e le vicende che cominciano cinque anni prima, e si sviluppano di anno in anno, dove vediamo Merete rinchiusa in una gabbia ermetica dove ogni anno aumenta la pressione atmosferica di un’atmosfera. Il giallo sta tutto lì: quando arriverà il punto che la pressione sarà non più sopportabile per Merete? Riuscirà la squadra Q a capire chi gestisce la gabbia e dove sta la suddetta? Inoltre, ammesso e non concesso che Carl risolva i problemi al contorno, riusciranno a penetrare i nostri eroi in una gabbia ermetica? E sarà ancora viva Merete? Tutti interrogativi che potrete sciogliere leggendo lo scorrevole scritto di Jussi. Seguendo anche tutti i risvolti della vita di Carl, che non sono solo questa indagine, ma i rapporti con il figlio, con la moglie, con gli altri poliziotti, e soprattutto con il tetraplegico amico Harry. Insomma, una trama che si stende aldilà del giallo in sé, che ha poco del misterioso, parlando di situazioni e di rapporti umani, nel solco di quella tradizione giallo-sociale cominciata questa sì in Svezia con i bellissimi romanzi di Sjöwall & Wahlöö.
Anna Grue “Nessuno conosce il mio nome” Corriere della Sera GialloSvezia 11 euro 7,90
[A: 10/10/2015– I: 11/01/2017 – T: 13/01/2017] - &&& e ½
[tit. or.: Dybt at falde; ling. or.: danese; pagine: 331; anno 2007]
Eccoci allora al secondo libro della collana “Svezia” e, casualità vuole, anche questo secondo libro NON è svedese. Anna Grue è danese, scrive in danese e la storia è ambientata vicino alla capitale danese nei sobborghi della fittizia città di Christianssund (che dalla descrizione che ne dà la scrittrice potrebbe essere Frederikssund, ad una quarantina di minuti da Copenaghen affacciata sul bel fiordo di Roskilde). Terminati quindi i lamenti per le imprecisioni della collana, veniamo invece al libro che, pur non eccelso, ha un suo fascino per almeno due ordini di motivi: introduce un personaggio (è il primo libro di una serie) e lo fa senza che noi dobbiamo pensare di conoscerlo da sempre (per gradi, quasi costruendosi insieme alla lettura) ed affronta temi sociali che non guasta affrontare (ovviamente ci si tornerà sopra). In effetti, il libro è duplice, mostrandoci, accanto ad una trama gialla, la nascita di un personaggio: il detective calvo Dan Sommerdahl. Che all’inizio della storia è tutt’altro che detective (è solo calvo). Anzi, è un marketing pubblicitario in crisi depressiva. Ha una moglie medico, Marianne, due figli grandini usciti di casa (per lavoro o per studio) ed un lavoro che lo appassiona. Ma, promosso in posizione di responsabilità, non regge lo stress ed il tipo diverso d’approccio. Ha anche un amico storico, il commissario Flemming Torp (casualmente fidanzato con Marianne per una settimana prima che lui prendesse il sopravvento). Sarà Torp ad iniziarlo ad uscire dall’apatia coinvolgendolo in un’inchiesta intorno alla morte di una fantomatica Lilliana, donna di pulizie proprio nell’azienda di Dan. Fantomatica perché di lei sembra non sapersi nulla: non si sa il vero nome, la nazionalità, il contratto di lavoro. Certo, pulisce, per una ditta abbastanza grande, ma lavora in nero, ed anche la titolare della ditta non sa (o non rivela) quello che dovrebbe sapere. Mentre Torp avanza nella sua indagine usando canali ufficiali, Dan si muove come battitore libero, sfruttando il fatto di conoscere la ditta e le persone che ci lavorano. Il capo della ditta, Sebastian Kurt, sua moglie Henrietta, la segretaria del capo, Elisabeth, e tutti i principali attori che si muovono nello spazio dell’ufficio (pubblicitari, registi, disegnatori, e via discorrendo). Il primo sospettato, tra l’altro, è il giovane Benjamin, partner di Lilliana nelle pulizie. Che tuttavia, a parte reticenze varie, sembra non essere della partita. Sarà proprio Dan, tra discorsi buttati lì e ricerche da proto-detective, che comincerà a far uscire qualche barlume. Usando le registrazioni degli ingressi scopre che Benjamin ha visto il corpo di Lilliana ma è subito fuggito per non farsi coinvolgere. Perché Benjamin (e la madre di lui) non possono uscire alla luce del sole. Vivono sotto copertura, anche se non ufficiale, per sfuggire al padre di Ben ed ex-marito della madre, violenta figura di ex-poliziotto. Che l’aveva riempita di botte, che aveva trovato la famiglia dopo una prima copertura, ed altre nefandezze da femminicidio che qui tralascio. Parlando con Ben, il nostro clavo Dan scopre anche che Lilliana ha partorito mesi prima e che ha un’amica nigeriana, Sally, con la quale viveva. Seguendo questa traccia, scopre il condominio dove vivevano le due, pieno di immigrati più o meno clandestini. Scopre Jo, l’amica nigeriana di Sally. Scopre che Lilliana aveva un amante nella ditta. Tutto questo mentre Torp e la polizia brancolano un po’ nel buio, seguendo solo alcune tracce di mail strane partite dal desktop di Elisabeth. Quando finalmente Torp e Dan si decidono a vincere timori vari e confrontano i loro avanzamenti, molto viene alla luce. Nella pacifica cittadina c’è una rete occulta di supporto a donne con problemi, spesso alla fuga da bordelli vari. Qualcuno li segnala ad Elizabeth che usa la sorella (capo della ditta di pulizie) per dar loro un lavoro ed Henrietta (moglie del capo di Dan) per dargli un tetto, visto che la donna possiede diversi stabili in città. Si scopre anche che un’altra dottoressa, che lavora nello studio di Marianne, viene utilizzata per curare le profughe, visto che queste non hanno copertura sanitaria. Peccato che venga trovata morta anche Sally, uccisa di botte e gettata nel fiordo. Peccato che la rete faccia acqua da tutte le parti: la ditta delle pulizie lucra alla grande sul lavoro nero. Ma è soprattutto Henrietta che ci puzza: qualcuno le aveva detto che Sally era l’amante del marito. Per cui lei pensa di chiedere aiuto a suo fratello, che, guarda caso, gestisce i bordelli da cui le povere ragazze fuggivano. Fratello che ha come uomo di punta nella brutalizzazione delle donne proprio il cattivone padre di Ben. Che trova le tracce di Sally. E scopre chi ha ucciso Liliana, iniziando un personale ricatto. E scopre anche che lì sono rifugiati Ben e la madre, che da cinque anni cerca per continuare a vendicarsi. Ovviamente sarà Dan, nella sua nuova veste di investigatore, che farà saltare tutti i meccanismi, portando alla luce il losco traffico, ed arrivando al giusto castigo per tutti i cattivi. Piccole altre storie sono presenti, ma quello che ci preme è la descrizione della nascita di una vocazione (che alla fine Dan si dimette dall’azienda, e penso in successivi romanzi si evolverà). L’ultimo accenno è a quel secondo filone che accennavo all’inizio. I clandestini che arrivano, vengono presi in carico da bande di malviventi, e, se donne, avviate alla prostituzione. Quello che sottolinea Anna Grue è il meccanismo perverso cui soggiace chi si ribella: fa magari arrestare qualche sfruttatore, ma, essendo in clandestinità, viene ben presto rimandato all’origine. Dove cadrà nuovamente nella rete di chi l’ha già sfruttata. L’autrice, oltre al grido di dolore, non può fare altro. Io mi associo, sottolineando che spesso chi emigra lo fa sotto minacce diverse. Ogni caso è un caso a sé, dove purtroppo, ora, in questo momento storico, l’aumento esponenziale dei casi, non favorisce la possibilità di trattarli singolarmente. Si mescola tutto, e non se ne esce più. Grazie Anna per questo piccolo tassello di discussione.
Olivier Truc “L’ultimo lappone” Corriere della Sera GialloSvezia 7 euro 7,90
[A: 14/09/2015 – I: 17/03/2017 – T: 20/03/2017] - &&& +
[tit. or.: Le dernier Lapon; ling. or.: francese; pagine: 446; anno 2010]
Nuova lettura della collana dei Giallo Svezia, e, come per le prime lettura, nuovamente sono indignato della superficialità dei curatori. Peccato che quando torneremo a parlare del libro in sé vedremo che non è male, e pone qualche problema interessante. Ma tanto per iniziare, si può inserire nella collana un libro “Giallo Svezia” un nuovo libro scritto non in svedese da un autore, come vedete sopra, francese? Truc è di certo un francese che conosce bene le terre scandinave, da anni è corrispondente da Stoccolma per “Le Monde”. Inoltre, la sua scrittura (quasi) di piglio giornalistico è discretamente attraente (qualche lungaggine, ma ci può stare). Comunque è francese. E comunque parla di Lapponia (Sami in lingua locale) che non è una regione “solo” svedese, ma si estende tra Norvegia, Svezia, Finlandia ed una parte in Russia. Inoltre, la maggior parte della storia si svolge a Kautokeino. Dove vivono sì 2500 sami (la più alta concentrazione di tutta la regione), ma giuridicamente è norvegese e non svedese. Fatte queste premesse, incluso il fatto che gli “eroi” della saga (perché è uscito un secondo libro che prosegue le vicende di questo) sono due esponenti della “polizia delle renne”, Klemet Nango (sami) e Nina Nansen (svedese), veniamo a parlare della storia e non di queste considerazioni forse marginali ma per me importanti per connotare, ancora una volta, il mercato librario come un mercato che tende a raggirare il pubblico e non ad aiutare il lettore. Venendo al contesto, elementi di sicuro interesse sono gli spunti che l’autore ci dà con la sua conoscenza della cultura e della vita attuale del popolo sami (preferisco questa dizione al più generico lappone). Uno degli altri popoli che il progresso ha “benevolmente” sterminato. Prima imponendo confini, a volte invalicabili (come quello verso la Russia), che hanno reso difficile se non impossibile il mezzo di sostentamento dei sami: l’allevamento delle renne. I sami nascono nomadi ed allevatori. Anzi, l’allevatore è il punto più alto della loro piramide sociale. Costringere le renne ad obbedire ai confini degli uomini rende praticamente inattuabile l’allevamento di animali nati per essere liberi. Secondo, requisendo le terre sami per sfruttare i grandi giacimenti presenti sul terreno. Petrolio, oro e soprattutto uranio. Ovvio che portando alla luce materiale radioattivo, ad esempio, si inquinino falde acquifere, e si introducano malattie una volta sconosciute. Così svedesi, norvegesi e finlandesi si appropriano di queste terre, negando a volte anche il riconoscimento dello status autoctono dei sami. Potere che emargina, anche perché la lingua sami solo nell’Ottocento ha una sua svolta verso la scrittura. E sappiamo come chi detiene la scrittura detiene la giustizia, ha modo di indirizzare la vita altrui verso il proprio tornaconto. Studioso e quindi conoscitori del mondo sami, Truc ci presenta anche i due elementi caratteristici dei locali: i tamburi rituali ed il canto denominato “joick”. Avendo una tradizione orale, è attraverso il canto, ed i poeti cantori, che si tramandano le storie e le informazioni culturali. Provate a fare un giro anche su “YouTube” e potete sentire dove sono, ad esempio, le radici di Bjork e dei Sigur Ros. I tamburi poi, oltre che di accompagnamento per le cerimonie tribali, erano utilizzati come modo di tramandare informazioni. Sul territorio, sugli avvenimenti, insomma delle graphic novel condensate. Ovvio che i colonizzatori li prendessero di mira, tanto che i missionari si posero un punto d’onore di distruggerne il maggior numero. Si dice che siano rimasti meno di cento tamburi originali, rispetto alle migliaia tramandati dalla tradizione. Alla fine, immerso in tutto questo affascinante mondo (che spero si visiterà di nuovo) c’è anche la storia. Che proprio da questi elementi tradizionali prende l’avvio. Dal furto di uno degli ultimi tamburi rituali, che dovrebbe avere indicazioni per la scoperta di un favoloso giacimento. Dall’uccisione di Mattis, un allevatore sami, molto legato alla tradizione dei tamburi. Oltre alla polizia tradizionale, anche i nostri “poliziotti delle renne” vengono convolti, che di mezzo ci sono di sicuro allevatori locali. Seguiamo allora Klemet e Nina nelle loro indagini, pagina dopo pagina, sfogliare il problema come fosse un carciofo cui andiamo togliendo le foglie esterne per scoprire il cuore. Vediamo l’ultimo lappone, Aslak, unico che ancora usa metodi tradizionali nell’allevamento, che si sa muovere nella vidda, il nome sami degli altopiani locali. Vediamo Olsen, il malvagio svedese, che cerca con tutti i mezzi di trovare il giacimento. Anche coinvolgendo il cattivo Racagnal (con pervicace malizia, l’autore francese incarna il peggior soggetto del libro proprio in un suo compatriota). Racagnal che era già stato anni prima nella zona, che conosce bene in quanto geologo, che inoltre ha un debole per le minorenni. Un cattivo soggetto, che con la forza costringe Aslak ad aiutarlo nella ricerca del giacimento. Basandosi sulla mappa fornita da Olsen, cui l’aveva data il padre, che l’aveva rubata cinquanta anni prima ad un geologo tedesco, uccidendolo. Vi risparmio tutti i passaggi di conoscenza che ci fa seguire l’autore nel suo denso libro. Però Klemet e Nina capiranno il mistero del tamburo, capiranno chi lo ha rubato, capiranno chi e perché ha ucciso Mattis, capiranno com’è formata la squadra dei cattivi. Noi capiremo anche perché è impazzita la moglie di Aslak, e perché Aslak si deve vendicare. E vedremo come riuscirà nell’intento. Pur tuttavia, la storia, anche se intrigante ed incasinata, serve solo a presentarci il mondo sami. A farcene capire le bellezze. E le stranezze. E le durezze (come si fa a vivere bene in un paese dove d’inverno si viaggia tra i 20 ed i 40 sotto zero e dove a gennaio le ore di luce sono circa due?). uUna buona scrittura, indubbiamente, ma una storia forse troppo ampia ed ambiziosa per un libro solo. Comunque, in conclusione, sono però contento che qualcuno mi abbia aperto questo spiraglio. Vedremo cosa ne uscirà fuori, in futuro.
Magnus Montelius “L’inganno del passato” Corriere della Sera Svezia 12 euro 7,90
[A: 19/10/2015– I: 25/04/2017 – T: 30/04/2017] - &&--
[tit. or.: Mannen från Albanien; ling. or.: svedese; pagine: 366; anno 2011]
Allora, finalmente un libro della collana svedese scritto da uno svedese. Tra l’altro, di vasta e risonante discendenza (in patria, almeno), che la famiglia Montelius annovera tra i suoi membri diverse personalità di spicco, come il nonno, lo zio ed il cugino di Magnus (scrittore, registi, attori), nonché la sorellastra Martina (figlia dello stesso padre Mons). Esperto consulente ambientale, vissuto tra i Balcani e l’America Latina, quasi cinquantenne esce con questo libro. Che ha alcuni punti di interesse (conoscenza della materia, ambiente spionistico tentacolare), ma che, purtroppo, decade molto non riuscendo a tenere salda tutta la complessa materia di cui tratta. Risultato: si fa fatica nella lettura, non scorre come dovrebbe. I personaggi principali a volte hanno dei passaggi a vuoto, mentre in altri punti accelerano le loro agnizioni quasi senza che noi poveri lettori riusciamo a tenerne il passo. Intanto, Tobias, il personaggio che sembra essere il fulcro, il motore della storia, non esce con nitidezza dalle pagine. Più o meno trentenne, dedito a tanti lavori in cui mette una buona capacità, senza riuscire in nessuno in maniera decisa, ha una formazione da storico ed una vocazione giornalistica. Noi iniziamo seguendolo in uno scoop che gli dovrebbe consentire uno scatto nell’ambiente della carta stampata, che gli si ritorce contro, poiché si scontra con politici molto più attenti e maneggioni di quanto, ingenuamente, suppone. Ma questo ci dà solo la sua connotazione di perdente, come perdente è il suo rapporto con Hanna, che lascia dopo i primi capitoli. Tuttavia si imbatte in una possibile storia inciampando in un morto. Che sembra una disgrazia, ma alla fine sarà omicidio. Un morto senza nome, o meglio, con un passaporto albanese. Falso, come falsa tutta la sua storia. Lui indaga, prende delle dritte da un barbone (che verrà ucciso ben presto anche lui), si incaponisce a voler farne una storia. Fortunatamente, una sua collega giornalista, Natalie, sembra capirne le potenzialità (della storia). Anche perché lei stessa ha avuto dei problemi con i politici ed è stata licenziata dalla televisione. Insomma, quadri foschi di gente onesta che viene stritolata dal potere. Montelius, ogni tanto, prende questi spezzoni, si immerge in rivoli laterali, perde il filo cercando di darci immagini complete delle persone che abbiamo davanti. Ma si perde. Come si perde seguendo il commissario Tilas, che non sappiamo perché anche lui emarginato, ma che segue il filone indagativo capendo, per primo, che stiamo di fronte ad omicidi (ce ne saranno un certo numero). La svolta, anche narrativa, l’abbiamo quando Tobias scopre che il “morto albanese” è in realtà Erik Lindman. Qui comincia tutta la grande saga della storia della sinistra svedese negli anni sessanta e settanta, nonché il ruolo della Svezia come punto nodale di spionaggio da e per i paesi d’oltre cortina. Dimenticavo, la storia si svolge nel 1990, poco dopo la caduta del Muro di Berlino, quando molti cadaveri, veri o presunti, escono dagli armadi. Erik era un giovane di sinistra, uomo di punta di gruppetti comunisti o vicini a, fidanzato con la bella Sonia, amico del giovane Carl, mentore del più giovane Åke. Erik, ad un certo punto, scompare, Sonia chiede aiuto alla polizia, e si scopre che, forse, Erik era una spia russa che stava per essere scoperta, e per questo ripara oltrecortina. Montelius ci fa viaggiare con dovizia di particolari (in fondo è ben documentato, per quanto si può vedere dal nostro punto di osservazione). Comunque Erik non compare, Sonia poco dopo sposa un politico traffichino di nome Peter. Ma dopo cinque anni, inspiegabilmente, divorziano e lei abbandona la politica per fare il giudice. Carl, dopo gli anni di opposizione, rientra nell’alveo parentale della grande famiglia industriale e politica da cui proviene. Peter continua a fare il politico, anche se, rispetto alle capacità dimostrate i primi anni, un po’ defilato. Ma Erik aveva detto a Åke che si allontanava di nascosto. Il clamore che invece viene suscitato fa precipitare tutto. Erik era andato in Albania, che negli anni ’60 sembrava un’isola promettente di comunismo realizzato, benché isolato. Tuttavia, uscendo sui giornali che lui poteva essere una spia russa, gli albanesi lo prendono di mira, rinchiudendolo per anni in prigione. Solo ora, nel ’90, con tutti i cambiamenti in atto, riesce a tornare. Volendo ricostruire la verità. Che non era lui la spia, ma, e questo Tobias riesce a capirlo, poteva o doveva essere uno del suo giro. O una. Poteva essere Sonia o Carl o Peter. Sarà Natalie a trovare il bandolo per far uscire l’asso dal mazzo. Non vi sto a tediare con i lunghi tentativi della polizia segreta di insabbiare tutto strada facendo. Cercando di impaurire Tobias. Cercando di emarginare Tilas. Mettendo in mezzo i giornalisti cattivi. Alla fine Tobias verrà comunque licenziato (per lui finisce sempre male) e Natalie verrà riassunta con incarico a Londra. Purtroppo non sappiamo che sarà di Tilas. Ed altri pezzi del grande puzzle non andranno mai al loro posto. Troppa carne al fuoco. Troppo veloce la fine che non spiega tutto, all’insegna che i politici cattivi fanno sapere molto poco della verità e quella che noi verremmo a conoscere sarà solo frutto di logiche deduzioni. Per questo, pur pieno di buone intenzioni, non lo trovo un libro ben riuscito. Due annotazioni: non so se presente nell’originale o solo nelle edizioni estere, ma le paginette introduttive sulla storia dell’Albania sono poco utili. Meglio se le stesse notizie fossero venute nel corso del libro. In fondo non è un libro di storia, ma un giallo. Secondo poi, perché mettere quel titolo italiano senza capo né coda? Certo nel passato, da dove viene Erik, ci sono stati inganni e menzogne. Me il titolo originale è “L’uomo venuto dall’Albania” che voleva probabilmente riecheggiare un grande classico delle spy story, quel bel libro di Le Carrè, che in svedese era riportato come “Spionen från kylan”, e se lo confrontate con il titolo originale che ho riportato sopra, penso mi abbiate capito.
Seconda domenica del mese, quindi un bell’allegato dedicato alla memoria, ora che, in molti, ci lascia (o forse siamo noi che la lasciamo?).
Un Maggio, pieno, fiorito, più difficile del previsto, ma, forse, con più ampie prospettive. Per ora, nel pieno della giornata festiva, non posso mancare di mandare un saluto a tutte le mamme.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
MAGGIO 2017
Maggio, mese delle mamme, dei compleanni, e quindi, in modo diretto ed indiretto, a ricordare ed a fissare tutto nella memoria. Cosa di meglio che parlare allora della sua perdita.

MEMORIA, PERDITA DELLA

Samuel Beckett                 “L’innominabile”
Gabriel García Márquez       “Cent'anni di solitudine”
Mordecai Richler                “La versione di Barney”
L’errore che commettete, ovviamente, è quello di pensare alla memoria come se esistesse davvero, in un luogo speciale, mentre non è altro che una proiezione del momento. Vi lasceremo, tuttavia, perseverare nell’errore fino al confine estremo della vostra follia, e allora potrete affrontare di nuovo la questione, facendo attenzione a non compromettervi con l’uso di termini, se non di concetti, accessibili per l’intelletto umane. Un supplemento di riflessione potrebbe dimostrarvi che in realtà venite spinti a dimenticare, e che l’ora del ricordo, lungi dall’essere scoccata, potrebbe non scoccare mai. Perché dunque non pensare ad altro, a qualcosa la cui esistenza sembri in qualche modo già misurabile, a qualcosa che possa essere nominata? E insomma, lo preferiamo, bisogna dire che lo preferiamo, perché il vostro atteggiamento verso di noi è cambiato, siamo ingannati, e potreste essere voi la porta verso la memoria. Se solo l’ascoltaste, la voce vi direbbe tutto.
Vi chiedete, non sentite una bocca su di voi, non sentite gli spintoni delle parole sulle labbra, e quando pensate a un libro che vi piace, ammesso che vi piacciano i romanzi, sull’autobus, o a letto, le parole sono lì, le parole che cadono, non si sa dove, non si sa da dove, gocce di silenzio, si sente un orecchio, si sente un naso, anche se francamente adesso non vi sembra, ed è necessario che vi facciate una testa.
Pensate di cambiare voi non cambiate mai continuerete a dire la stessa cosa finché non morirete. Dove, ora? Chi, ora? Quando, ora? Lo dimenticate sempre, e dobbiamo riprendere, dovete riprendere, non smettere mai di raccontare storie a voi stessi, e domandarvi dove le avete prese, se nella terra dei vivi, dove immagazzinate i ricordi, nella testa, e non ve la sentite la testa, voi siete fatti di silenzio, noi siamo fatti di storie, noi saremmo voi, noi saremmo il silenzio, voi sareste le storie, vi siete lasciati indietro, vi state aspettando. Dovete andare avanti, non potete andare avanti, vi abbiamo condotto sulla soglia della vostra storia, prima che la porta si apra sulla vostra storia, resterete sorpresi, la porta si aprirà, voi sarete voi.
In ogni caso, sappiate che ci sono due eccellenti metodi per far fronte a questo progressivo buco nero che si propaga nel vostro cervello. Il primo fu adottato nel villaggio di Macondo quando venne colpito dalla peste dell’insonnia e della smemoratezza. Le due calamità sono collegate: “la cosa più temibile dell’insonnia non era l’impossibilità di dormire, dato che il corpo non provava alcuna fatica, bensì la sua inesorabile evoluzione verso una manifestazione più critica: la perdita della memoria. Significava che quando il malato si abituava al suo stato di veglia, cominciavano a cancellarsi dalla sua memoria i ricordi dell’infanzia, poi il nome e la nozione delle cose, e infine l’identità delle persone e perfino la coscienza del proprio essere, fino a sommergersi in una specie di idiozia senza passato”. Quando questa malattia divampò in pochi giorni, José Arcadio Buendia riunì tutti i capifamiglia per adottare delle misure che impedissero al flagello di propagarsi alle altre popolazioni della palude. Macondo si mise così in quarantena, perché “tutte le cose da bere e da mangiare erano contaminate di insonnia” ed Aureliano escogitò un sistema di difesa. Scrisse su un foglio il nome delle cose che stava per dimenticare, a cominciare dagli strumenti del suo laboratorio di oreficeria, e glielo appiccicò sopra. “A poco a poco, studiando le infinite possibilità del dimenticare, si accorse che poteva arrivare un giorno in cui si sarebbero individuate le cose dalle loro iscrizioni, ma non se ne sarebbe ricordata l’utilità. Allora fu più esplicito. Il cartello che appese alla nuca della vacca era un modello esemplare del modo in cui gli abitanti di Macondo erano disposti a lottare contro la perdita della memoria: Questa è la vacca, bisogna mungerla tutte le mattine in modo che produca latte e il latte bisogna farlo bollire per aggiungerlo al caffè e fare il caffellatte. Così continuarono a vivere in una realtà sdrucciolosa, momentaneamente catturata dalle parole, ma che sarebbe fuggita senza rimedio quando avessero dimenticato i valori delle lettere scritte”.
Più semplice è invece l’esercizio a cui ogni giorno si sottopone Barney Panofsky per tentare affannosamente di sottrarsi alla sua storia di perdita, della memoria come degli affetti. Non stancarsi di porsi sempre le stesse decisive domande:
Qual è il nome dei sette nani?
E dei fratelli Marx?
Quanti decimi di vista aveva Omero?
Chi è il più grande cabarettista della storia?
Per sapere se è ancora in forma, vi basterà passargli una matita e un foglio e vedere se a quest’ultima domanda risponderà ancora Dio, scrivendolo alla rovescia.

Bugiardino

Di Beckett ho letto altro, e questo attacco alla memoria da parte delle mie scrittrici terapeutiche mi ha lasciato un po’ destabilizzato, anche se è in puro stile beckettiano. Un flusso di parole che si attorcigliano al mio ed al vostro cervello. Ovviamente invece ho letto, divorato, digerito e riletto, il capolavoro di Gabo, ma molto, molto prima delle mie trame. Rimane il canadese che non mi ha mai convinto del tutto, che ho letto dieci anni fa, e di cui riporto le scarne righe che allora scrissi.
Mordecai Richler “La versione di Barney” Adelphi euro 10
[trama pubblicata il 07 giugno 2007]
Mi è sembrato una specie di Lamento di Portnoy degli anni ’90. Non posso dire che non mi sia piaciuta, l’autobiografia romanza di Mordecai (anche se lui negava). In effetti il libro era stato fatto diventare l’icona del politicamente scorretto, di tutto quello che si pensa e non si dice. Ma se si riesce a tornare alla pagina, dopo aver personalmente mitigato la delusione di pensare di trovarmi davanti ad un “vecchio Holden”, esce fuori la descrizione di una persona che non riesce ad essere sincero con la vita, e tanto meno con sé stesso. E che vorrebbe, vorrebbe, ma alla fine ricade sempre sui propri errori, senza sembrare di comprenderne i meccanismi. In fondo, tuttavia, sono contento di averlo letto adesso e non dieci anni fa.
“Non credo di averglielo mai detto, ma avrei potuto passare la vita a guardarla”

Conclusioni


Penso che l’unico libro appropriato sia proprio il sudamericano, soprattutto per quella trovata stupenda dei nomi appiccicati alle cose, per sapere come si chiamano. E poi per la spiegazione di come usarle. Non mi convince Richler, come non mi convinse allora. Ma, sinceramente, avrei messo come efficace contraltare il Funés di Borges. Domanda finale, quindi, è meglio ricordare tutto o scordare tutto?

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