Riprendiamo le trame periodiche
dopo la breve, intensa e gradevole al fine parentesi omanita. Aggiungendo altri
indirizzi alla schiera dei miei (fedeli) lettori. Riprendiamo inoltre con una
settimana di belle letture. Quattro saggi, tutto sopra media, anche di molto.
Tra l’altro, non mi aspettavo di meno né da Borges né da Eco. Una gradita
sorpresa Zucconi, ed una intrigante lettura del (forse solo a me) simpatico D’Avenia.
Jorge Luis Borges “L’idioma degli argentini” Adelphi euro 14
[A: 01/11/2016 – I: 08/02/2017 – T: 12/02/2017] - &&&&-
[tit. or.: El idioma de los
argentinos; ling. or.: spagnolo; pagine: 187; anno 1928]
Chi
mi conosce, anche se non a fondo, sa, direttamente o per vie traverse, che
Borges è uno dei numi tutelari del mio pantheon privato. Ci sono cose che non
si riescono a spiegare in modo completamente razionale, ed a prescindere dalla
persona, dal suo essere e dalle sue posizioni, ogni suo scritto mi ha sempre
dato qualcosa. Una riflessione, uno spunto, finanche un piacere isolato
dell’intelligenza a tutto tondo. Ne lessi consapevolmente le prime righe quasi
quaranta anni fa, e non l’ho più lasciato. Così, non potevo esimermi dal
prendere in mano questo libro, pur nella sua disomogeneità e conscio della sua
storia trasversale. Perché è uno scritto giovanile, scritto quando aveva meno
di trenta anni. Ma soprattutto perché è uno scritto che l’autore, quando ha
ripensato alla sua opera, l’ha ordinata e ripulita, ha deciso che non fosse
inserito nel corpo maggiore dei suoi scritti. Solo ora, a trent’anni dalla
morte, la moglie argentino-tedesco-giapponese ne ha consentito la
pubblicazione, anche a dispetto dei voleri del grande Jorge. Qui si potrebbe
aprire una lunga discussione su cosa sia lo scritto di un autore, su quanto sia
di sua proprietà e quanto un “bene comune”. Se ad esempio sono assolutamente
certo che lettere private, ancorché piene di alti commenti, siano e debbano
essere gestite dallo scrivente, un libro, una volta pubblicato, può diventare
un esempio circolante del bene e del male dello scrittore stesso. Quindi, nel
1928, seppur in soli 500 esemplari, uscì questa eterogenea raccolta di testi. E
se Borges, e lo poteva fare, non ne volle l’inclusione nella pubblicazione
della sua “Opera Omnia”, sono contento che ora, noi, ne possiamo usufruire,
anche per l’ottima traduzione di Lucia Lorenzini nonché le note esplicative e
di commento di Antonio Melis. Nel merito, i diversi articoli riprodotti
spaziano sui tre vertici del triangolo costitutivo del libro. Da un lato il
linguaggio, dove la capacità di Borges è di spaziare “dall’inclito al volgo”,
da una parodia dell’uso di un’analisi stilistica della frase di apertura del
Don Chisciotte (che volando mi fa tornare a quel capolavoro di invenzione e
metaforizzazione che sarà “Pierre Menard, autore del Chisciotte”, sei scarne
pagine sconvolgenti), alla diatriba sulla realtà del linguaggio, sulla contrapposizione
tra lingua e scritto, sulla strenua lotta tra i grammatici ed i seguaci di
Benedetto Croce per i quali solo il testo nella sua interezza è reale. E dove
Borges propone una sintesi, utilizzando come metodo di analisi la sintassi. In
un passaggio esemplare, poi, riporta quanto logici e scienziati vari
sostenevano e sostengono (ed io con loro) che la scienza tende alla semplicità e
che qualsiasi teoria che non può essere spiegata in termini semplici è una mera
bravata narcisistica. L’altra base del triangolo è l’Argentina, o meglio ancora
Buenos Aires, su cui tornerò più avanti. Sintesi di entrambi, mistero e
speranza, è l’eternità. Quella che si cela dietro le parole, quella che ci fa
dire, mi fa dire ancora e per sempre, che è esistito un Cervantes, un Quevedo,
un Borges, ma anche un Calvino o un Queneau. Ma io non so volare così alto,
anzi mi sembra di essermi già spinto troppo avanti. Perciò torno a Buenos
Aires, dove Borges mi ha fatto tornare con due dei suoi articoli. Uno dedicato
al tango, alle sue ascendenze, alla genesi delle sue parole da taverna. Righe
che portano e cullano quasi ovunque nei miei spazi. Da quel bar, il Cafè
Tortoni nell’Avenida de Mayo, sino all’angolo con Calle Florida, dal cimitero
della Recoleta agli ampi spazi del quartiere Palermo. Fino all’inarrivata
melodia di Pedro Navaja di Ruben Blades. L’altro dedicato al truco, un gioco di
carte che ho provato a comprendere ma che mi risulta più complicato delle
spiegazioni di una partita di cricket. Quello che ho capito, e che mi
affascina, è il fatto che il truco si giochi a coppie, sia fatto di una parte
di dichiarazioni varie (invito, richiesta, rifiuto, truco, e altre parole) ed
una fase di gioco. È un parente lontano e non riconosciuto (anche perché ha
tante altre cose che non sto qui a narrare) del bridge. Ma come il bridge, ha
il suo fascino nel fatto che abbia una sua sintassi, e che non possa che
ripetere giocate ancestrali, che qualche d’uno ha fatto nella sua vita. Una
ripetizione, una coazione alla ripetizione, che però è talmente diversa
dall’azione iniziale, che ogni volta, e per sempre, sarà diversa. Tuttavia mi
sto dilungando al solito su di me e non su Borges. Ma di proposito, che il
libro, se ne volete leggere, è d’obbligo farlo. Che ovviamente si parla di cose
ben più serie del truco. Di Gongora, di culteranesimo, delle poesie di Jorge
Manrique. Dell’amore, infinito, per i libri, come dice quella bellissima frase
finale, dove Borges confessa di aver amato anche gli errori di stampa. Ma per
me si parla sempre dell’uso dell’intelligenza per addentrarsi nei meandri della
vita. Quindi si parla ancora di truco. Con quante “c”?
“Cos’è il truco [ma potremmo leggere anche
‘il bridge’] per chi ci gioca se non un’abitudine? … Ogni giocatore, in realtà,
non fa che ricascare in giocate remote. Il suo gioco è una ripetizione di
giochi passati.” (35)
“Io sono un uomo più o meno triste che
viaggia in tram [autobus?] e che sceglie strade dissestate per passeggiare, ma
trovo giusto che esistano … automobili e una calle Florida con le vetrate
splendenti.” (60)
“Se la matematica (sistema specializzato di
pochi segni, fondato e governato con assiduità dall’intelligenza) contiene cose
incomprensibili … quante non saranno le cose incomprensibili che oscurano il
linguaggio, truppa raccogliticcia di migliaia di simboli?” (62)
“Ciò che davvero è stato non si perde;
l’intensità è una forma di eternità.” (93)
“Credevo a tutto, persino alle brutte
illustrazioni ed agli errori di stampa.” (94)
Vittorio Zucconi “Gli spiriti non dimenticano. Il mistero di Cavallo
Pazzo e la tragedia dei Sioux”” Mondadori s.p. (Natalino di Paola)
[A: 25/12/2016 – I: 22/02/2017 – T: 27/02/2017] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 381;
anno 1996]
Mi
è sempre risultata gradita la prosa di Zucconi, che scorre via bene sia nei
lunghi articoli su Repubblica, sia sulle cronache dall’America che si leggono
sui supplementi “Venerdì” e D. Ma credo che anche sui saggi sai altrettanto
leggibile e godibile. Come in questo lungo giro per gli Stati Uniti di 150 anni
fa, sulle tracce dei nativi americani, sulle loro tragedie, e su quei bianchi
che ora sembrano tornati al potere. Leggi di Zucconi e dei generali dalle vesti
azzurre e vedi Trump ed i suoi amici. Insomma, un bel libro, ben scritto, che
lo leggi e ti viene voglia di prendere gli americani e di sbatterli tutti
contro il muro. L’ho finito talmente incazzato che se vedevo un immigrato
americano gli avrei dato un paio di schiaffi. Per tornare al libro, ed a
Zucconi, la trasformazione della vita di Cavallo Pazzo in un romanzo ha per
corollario la (riuscita) rappresentazione da parte dell’autore di altri due
aspetti: la vita dei Sioux (soprattutto lontano dai bianchi) e la tragedia del
contatto tra nativi americani ed immigrati (che avranno la meglio, e quindi, da
bravi vincitori, scriveranno loro la storia, con tutte le conseguenze che ben
sappiamo). Vediamo intanto il primo aspetto. Chi erano, chi sono i Sioux?
Innanzi tutto, non sono Sioux. Nel senso che la parola è lo spregiativo
utilizzato dai nativi filo-francesi quando gli invasori americani chiedono il
nome di questo popolo nomade arroccato tra il Wyoming ed il Montana.
Spregiativo che traslitterato dall’originale ha il significato di “meno
importante di un serpente”, dato che l’appellativo “serpente” era dato ai
tradizionali indiani delle praterie canadesi, gli Irochesi. I Sioux (ed usiamo
questo nome per comodità) erano una comunità di sette tribù, divise in tre
gruppi: i Dakota orientali, i Dakota occidentali ed i Lakota. Questi ultimi, a
loro volta, erano divisi in altre tribù, tra cui gli Oglala (con a capo Nuvola
Rossa), i Brulé (con a capo Coda Pezzata) e gli Hunkpapa (con a capo Toro
Seduto). La vita dei Lakota era diventata nomade a seguito delle lotte con i
canadesi e dell’avanzata dei bianchi dell’Atlantico. Una vita legata alla
terra, alla poca cultura stanziale, ed alla caccia al bisonte. Una vita da
guerrieri, per gli uomini, e di grandi lavori per le donne (che costruivano le
tende, i famosi “tepee”, cucinavano e badavano ai figli). Una vita “quasi”
paritaria: se una donna voleva divorziare dal marito, poteva prendere le cose
di lui e portarle fuori dalla tenda o andare via a vivere nella tenda di
qualche d’un altro. Oltre che guerrieri, erano anche dediti al sacro: onore al
grande Dio unico, Watan-Tanka, fumo della pipa sacra e partecipazione alla
grande “Danza del Sole”. Ci sarebbe molto da approfondire, ma per ora
fermiamoci qui. Perché seguiamo anche brevemente la storia di Tashunka Uitko
(questo il nome Lakota di Cavallo Pazzo, che in realtà sta per “Ta” – grande,
“shunka” – cane, “Uitko” – estasi, follia sacra). Una storia durata meno di
quaranta anni (qualcuno vorrebbe i soliti 33 delle grandi figure storiche e
religiose, da Alessandro Magno a Gesù), dove seguiamo la gioventù del piccolo
Oglala, presto uomo dopo aver ucciso il primo bisonte, posseduto da una visione
mistica che non gli fece mai indossare altro che una piuma di uccello (senza
quindi tutti quegli orpelli orrendi dei pellerossa cinematografici), che non
gli fece mai commettere scempio sui nemici, che rifiutò sempre di farsi
fotografare (ed infatti non ne abbiamo nessuna rappresentazione iconica), che
non si sa con esattezza dove sia la sua tomba. La sua vita è narrata sui due
versanti: quello privato, dove “Riccetto” (così il nome che aveva in gioventù)
è timido e riservato, tanto che il prepotente Senz’Acqua gli frega la donna
(figlia di Nuvola Rossa). Che poi riconquista, ma lascia sotto l’ingiunzione
dei capi tribù per non creare divisioni durante le guerre. Avrà una seconda
moglie (parente di Coda Pezzata), ed una figlia che muore di colera. Ma la sua
importanza è la vita pubblica, di indomito ed invitto guerriero, mai colpito da
pallottole nemiche. Infatti verrà ferito solo da Senz’Acqua durante la lite per
la donna, e poi ucciso da un traditore Lakota mentre con l’inganno veniva
arrestato. Era il 5 settembre 1877. Secondo il mito aveva 33 anni. Ma seguendo
le tappe della sua vita dove averne tre o quattro di più. Le tappe che poi sono
altrettanti momenti di battaglia tra nativi ed invasori. Il primo, e forse più
importante, quello che fece scatenare ripicche e rappresaglie, e che non si
riuscì mai a ricucire, nasce quasi come un caso “ridicolo”. Nel 1855, durante
il passaggio dei mormoni verso lo Utah, dalla loro carovana fugge una mucca,
che irrompe nell’accampamento di Coda Pezzata seminando il panico. Tanto che
gli indiani sono costretti ad ucciderla. E da buoni nomadi, una volta ucciso un
animale, cosa fare di meglio che mangiarlo? Ma i mormoni chiedono un risarcimento
e l’esercito invia una pattuglia guidata dall’inesperto tenente Grattan ed
avendo come interprete il sangue misto Arsene Lucier, che però non conosceva il
dialetto locale. Una serie di incomprensioni porta Grattan ad uccidere il capo
tribù Orso Conquistatore, cominciando a sparare sui nativi. I giovani capi
presenti, Coda Pezzata e Nuvola Rossa si ribellano, ed uccidano Grattan ed 11
soldati. È l’inizio ufficiale delle “Guerre Sioux”. Se volete seguirne
l’andamento, con l’ascesa di Cavallo Pazzo, forse è meglio che leggiate Zucconi
piuttosto che queste scarne note. Certo non vanno via dalla mente i successivi
tradimenti degli immigrati in Giacca Blu, che promettono aiuti se i nativi si
arrendono, per poi negarli. Riuscendo a fomentare anche dissidi interni. E
riuscendo a dare il comando di truppe a generali ignobili. Con gesta che
culmineranno ad esempio, nel massacro di Sand Creek (quello della bellissima
canzone di De André). I nativi, sotto la spinta unificatrice dell’uomo sacro,
Toro Seduto, e del comandante mai sconfitto, Cavallo Pazzo, resistono,
contrattaccano. Quando poi un filibustiere dell’esercito, tal generale George
Armstrong Custer, trovando dell’oro nelle Colline Nere, luogo sacro di tutte le
tribù Sioux (ma anche Cheyenne e Arapaho), decide di prendersi anche questo
territorio, lo scontro è inevitabile. Scontro che ha il suo apice vicino alla
riva di un piccolo fiume, il Little Big Horn. Sapete meglio di me l’iconografia
di queste battaglie. Siamo nel giugno del 1876. Toro Seduto ripara in Canada,
Cavallo Pazzo tenta di resistere, ma, fiaccato dal duro inverno, si arrende nel
maggio 1877. Per poi essere ucciso, con una dinamica mai accertata, il 5
settembre 1877. Leggete il libro di Zucconi, che ringrazierò sempre Paola di
avermi regalato. Mi ha fatto incazzare dalla prima all’ultima pagina, ma è un
bel saggio. E con Cavallo Pazzo rivolgo a tutti il suo grido di battaglia:
“Hoka Hey!”, che significa “Andiamo uomini!”, e solo dopo viene la parte che
invece risulta impropriamente tradotta “Oggi è un buon giorno per morire”!
“Porgeva sempre la sinistra e mai la destra
e non perché fosse mancino. ‘La sinistra è la mano del cuore, che si dà agli
amici’ ripeteva, ‘La destra è la mano che afferra il pugnale … è la mano che fa
il Male’.” (165)
“Gli indiani dovevano arrendersi perché
avevano avuto l’impudenza di vincere.” (!) (343)
Umberto Eco “Come viaggiare con un salmone” La Nave di Teseo euro 10
[A: 29/02/2016 – I: 08/03/2017 – T: 10/03/2017] - &&&&
--
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 206;
anno 2016]
Pubblicato
dalla (allora) nuova casa editrice “La Nave di Teseo” all’indomani della morte
del grande Umberto, lo avevo immediatamente comperato, come sentito omaggio ad
uno dei fari del mio pantheon privato. Che questo è stato Eco. Ne imparai le
impervie vie letterarie ai miei tempi universitari, dove lessi il suo “Come si
fa una tesi di laurea”, anche se stavo facendo un corso di laurea scientifico.
Lessi e rimasi incantato dal “Diario minimo” e da “Il superuomo di massa”. E
non solo per quel piccolo capolavoro di arguzia che fu “Fenomenologia di Mike
Bongiorno”. Mi appassionai a tutte le sue scritture, e da logico di media
capacità dedicai molto tempo alla lettura approfondita del suo “Trattato di
semeiotica generale”. Lo seguii poi sempre fino… (lo so caro Umberto, eri
assolutamente contrario ai puntini, ma qui per me ci vogliono) a “Il pendolo di
Foucault”. Che non riuscii a finire. Dopo di che rimase un riferimento per
l’analisi del contemporaneo, ma non una lettura costante (se non qualche arguta
ed imperdibile “Bustina di Minerva” pubblicata su “L’Espresso”). Ma non potevo
esimermi da un omaggio alla sua scomparsa. Ed allora eccomi ritornato alla
lettura delle sue scritture. Con un testo non sempre pienamente riuscito, che spesso
risente dei tempi di uscita di questi elzeviri (che vanno saltabeccando dal
1975 al 2014), ma che, di fondo, mi ha restituito il piacere del “mio” Eco (ed
il dispiacere di aver perduto una persona degna). Non è certo il caso entrare
nel merito di ognuno dei 45 piccoli pezzi che compongono questo mosaico di
letture. Che non ritengo (come si commenta in quarta di copertina) un “libro di
istruzioni”, anche se la capacità di mantenersi coerente fa sì che tutti i
pezzi possano intitolarsi: “Come…”. È invece, come sempre in Eco, un libro di
istantanee sulla nostra vita, sui suoi componenti, sui nostri comportamenti,
sulle nostre reazioni (a volte mancanti, purtroppo) ai comportamenti altrui. Ed
è, soprattutto, un libro coerente. Leggete due racconti a caso, e non avrete
dubbi che siano scritti dalla stessa mano, anche se uno esce alla fine degli
anni settanta ed uno agli inizi del secondo decennio di questo secolo.
Leggeteli tutti, pur nella loro non omogenea riuscita, ed avrete la visione del
mondo di questo illuminista del ventesimo secolo. Sempre pronto a cogliere le
note stonate di quanto gli succede intorno. Sempre pronto sia ad accogliere la
tecnologia che avanza, ma anche, e con più forza, a farcene avvertire i limiti
ed i pericoli. Fin dall’inizio, Eco, ad esempio, ha stigmatizzato l’uso
distorto prima del fax, poi dei cellulari, ed infine di internet. Riconoscendo
che, ovvio, non è che si poteva circoscrivere il misutilizzo creando barriere,
ma cercando di capirne l’uso positivo. Un esempio su tutti, quando (ed io sono
d’accordo con lui) non si scaglia inutilmente sull’uso di internet per ricerche
ed approfondimenti vari. Ma sa, e noi sappiamo con lui, che in rete si può
trovare di tutto (ed anche la negazione del tutto). Allora propone ad un
illuminato professore liceale di indirizzare una ricerca alla comparazione di
come un dato evento sia stato riportato in modo diverso in diversi siti. La
comparazione fa nascere pregi e difetti, ma, in particolare, costringe poi gli
alunni a confrontarsi tra loro. Dicevo coerenza anche nell’analisi di ciò che
ci succede: tutti i piccoli comportamenti vengono in Eco esasperati sino al
paradosso, ma coerentemente e logicamente, dalla modalità di percezione che
abbiamo dei pellerossa americani (o che avevamo il secolo scorso) alla
protervia di dipendenti (pubblici e privati) ad attenersi a regole e modalità
standard, in quanto la deviazione porta allo scoperto. Ad esempio dell’utilizzo
di un frigorifero alberghiero per non far deperire un ottimo salmone
scandinavo. Una coerenza, al fine, che gli consentiva già nel 1990 di indicare
le linee guida delle disposizioni testamentarie, palesatesi purtroppo ora nel
momento della sua morte. Dove fin da 25 anni fa si scagliava contro il malvezzo
di indire convegni appena qualcuno passi a miglior vita. Imponendo allora come
ora, che non se ne facessero su di lui e sulla sua opera per un congruo numero
di anni. Quindi non lo farò neanche io, non entrerò più a fondo in altro, ma
non posso che chiudere sentendo la mancanza del suo lucido occhio. Come tutti i
momenti positivi, e tutte le cose buone che si dicono sui suoi scritti, e come
mi insegnò la mia maestra di comportamento sociale, termino solo ora
sottolineando come, purtroppo, anche in Eco, come in altre degne persone che
considero miei punti fermi (leggi ad esempio Zygmunt Bauman), la lucida analisi
non sia potuta istanziarsi in un’altrettanta lucida prassi propositiva, che non
fosse, forse, quella personale. Ma forse, è proprio questo lo scopo di un degno
maestro. Indicare il metodo per arrivare alla via, non la via stessa. Rileggete
Savater, allora.
“Ci sono diversi modi di fare un buon caffè:
c’è il caffè alla napoletana, il caffè espresso, il caffè turco, il cafesinho
brasiliano, il café filtre francese, il caffè americano.” [peccato che hai
scordato il caffè vietnamita, degno di comparire in questo elenco] (89)
“Ah, dimenticavo. Ci sono anche le cartoline
che ti arrivano da Kuala Lampur firmate ‘Giovanni’. Giovanni chi?” [ovvio che
ero io, uno dei pochi che manda ancora cartoline] (107)
“L’intera industria dell’informazione …
rischia di non comunicare più nulla perché dice troppo.” (115)
“Io non ho nulla contro il calcio … non amo
il tifoso perché ha una strana caratteristica: non capisce perché tu non lo
sei, e insiste a parlare come se tu lo fossi.” (144)
“Il cui motto era ‘provando e riprovando’ –
e ‘riprovare’ non significava provare di nuovo … ma respingere (nel senso della
riprovazione) quello che non poteva essere sostenuto alla luce della
ragionevolezza e dell’esperienza.” (201)
Alessandro D’Avenia “L’arte di essere fragili. Come Leopardi può
salvarti la vita” Mondadori euro 19
[A: 21/03/2017 – I: 05/05/2017 – T: 12/05/2017] - &&&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 209;
anno 2016]
Anche questo di
D’Avenia si inserisce nel filone “novità” inaugurato con la Moyes. In
particolare, dato che risulta il libro più venduto nel gennaio di quest’anno.
Premesso che D’Avenia mi sta discretamente simpatico, e che trovo interessante
la sua scrittura (anche se ho letto solo il suo primo libro), e che il fatto di
essere un insegnante me ne rende coinvolgente il modo di porgere, mi aspettavo
qualcosa di più, come coinvolgimento cuore-testa-stomaco, triade immancabile
per far salire i miei giudizi. Intanto mi ha dato un po’ fastidio il
sottotitolo. Non perché non sia o possa essere vero che Leopardi ci possa
aiutare. Lo fa e lo fa bene. Ma sembra proprio ammiccare a quei molti titoli
usciti negli ultimi anni, spesso anche delle buone scritture ma alla fine
molto, troppo, alla moda. Mi riferisco a quei tanti “Come… può salvarti la
vita”. Ed al posto dei puntini potete mettere (cito a memori) Kafka, Proust,
Schopenhauer, e via discorrendo. Credo che tutti coloro che hanno scritto cose
intelligenti (cioè usando l’intelletto) se noi li ascoltiamo veramente, possano
“salvarci la vita”. Anche se, forse, per salvarci la vita (a patto che uno
decida proprio di rovinarsela, e quindi sia costretto a salvarsi) basta usare
cuore, testa e stomaco. Basta capire che si possono fare sbagli, che si possono
con umiltà ricucire, che è bene capire di non essere soli al mondo, che c’è una
vita di relazione, che la felicità non si costruisce mai da soli. Continuo?
Forse è sufficiente. Seguendo questa moda, credo che si potrebbe scrivere
(potrei scrivere), come Asimov può salvarti la vita. O mio cugino Alessandro
potrebbe aiutarmi magari con il suggerimento di come Borromini possa salvarci.
Ma torniamo a questo Alessandro, ed a questo Leopardi. Sono contento che il
libro abbia avuto un buon successo di vendita, pur non essendo né un romanzo né
un saggio. In realtà, è molto difficile darne un’etichetta (se pure ce ne fosse
bisogno). Un epistolario con una persona defunta (e che persona! E che
epistolario!). Senza risposte dirette, ma con tante risposte che si possono
trovare nelle bellissime (e qui sono concorde pienamente con l’autore) pagine
di Leopardi. Ha scritto di tutto, e di tutto possiamo trovare. Per chi conosce
poco, o in modo superficiale il grande recanatese (ed ha magari visto
l’interessante seppur un po’ palloso film di Mario Martone) è un bel percorso,
che sfata, se ce ne fosse bisogno, tutti i falsi miti su Leopardi. Pessimista,
sfortunato, malinconico, e via etichettando. D’Avenia ci fa capire, con delle
citazioni giuste ed opportune, che sì, è tutto vero. Ma la bellezza, la forza
di Leopardi è quella di darci la speranza, la possibilità, i mezzi, per uscirne
fuori. Per vedere la possibilità di fare, di essere altro. Come l’ultima
ginestra che fiorisce dalla lava del Vesuvio. Come le stupende, bellissime
domande del pastore errante. Come la durezza della Natura a cospetto
dell’Islandese. come, sempre e comunque, la forza, immensa, dell’infinito. Una
poesia che ho sempre mantenuta cara fin dai tempi del liceo. Quando, nel nostro
piccolo, io e Pier Vittorio ci scagliavamo contro le letture in “calando” che
ne faceva il nostro (ora amatissimo, allora odiato) professor Torinto. Grazie
Alessandro di avermi ricordato come quegli interminati spazi anch’io mi
figuravo. Per poi decidere, quando è stato possibile, di percorrerli, di andare
a trovare anche quei sovrumani silenzi, scoperti finalmente nei miei amati
deserti (ah, quando si tornerà nell’Akakus!). È un libro che invoglia a parlare
di sé, che non serve percorrerne l’ordito. Passeggiando e scrivendo con
Leopardi, l’autore ci porta attraverso le stagioni della vita, dalla pericolosa
adolescenza alla difficile età cosiddetta matura, sino alla morte, unica
certezza della vita. La fatica dell’autore è quella di rivolgersi, più che a
noi, ormai consolidati giovanotti, che dovrebbero aver fatto qualche percorso
interiore nella nostra lunga vita per capire chi siamo, anche se non sappiamo
dove andiamo, di rivolgersi ai giovani, ai suoi studenti, a quelli che ogni
giorno incontra nelle aule dove insegna. Sono loro che devono capire non solo
chi sia Leopardi, ma come si approccia un autore, come ci si pone verso la
scrittura, la poesia, la vita. Rivenendomi in mente i tempi delle mie
frequentazioni al Liceo Dante, delle autogestioni, e del Nanni di allora. Non
entro tuttavia nel merito della fragilità. Una categoria corretta per
affrontare il mondo, si sia un gigante come Leopardi, o una persona normale
come noi. Perché fragilità implica rispetto, di sé e degli altri. Rispetto dei limiti,
rispetto delle proprie e delle altrui capacità (ed essenze, ed esistenze). E
rispetto è la mia categoria di vita. Alla fine però, il libro non si eleva verso
le vette che ci si poteva aspettare. Rimane forse troppo didattico (stavo per
dire didascalico), esortativo, che sicuramente serve ai ragazzi di D’Avenia. Io
mi aspettavo, al fine, più incisività. Tuttavia D’Avenia si conferma un solido
scrittore. Che non mi dispiace leggere.
“Contemplare la natura e leggere libri sono
abitudini che non generano consumi.” [trasposizione da parte dell’autore di
alcuni pensieri desunti dal “Mondo nuovo” di Huxley da far leggere a molti
Ministri della Pubblica Istruzione degli ultimi venti anni] (46)
“Se si sottovaluta o addirittura si trascura una
tappa della vita, si rischia di passare il tempo a recuperarla in altre età.”
(47)
“Dov’è la conoscenza che abbiamo perduto
nell’informazione?” [cit. di T.S. Eliot] (63)
“Niente ci fa morire in vita … come un amore non
corrisposto.” (134)
“Non si può rimanere fedeli a sé stessi se i veri
amici non si sostituiscono a noi proprio nei momenti in cui abbiamo smesso di
credere nella nostra più profonda essenza.” (151)
Sebbene a singhiozzo è pur sempre
la terza trama del mese, onde per cui ecco che vi dovete sorbire anche l’appendice
per i libri felici, questa volta dedicato ad un mondo d’infanzia che, seppur
nella sua ingenua rappresentazione, mai dobbiamo scordarci.
Anche pochi giorni in questa
calda Roma di luglio (mai calda come il nostro simpatico Oman), e si andrà di
nuovo verso altri lidi, in previsione più freschi. Intanto si aspettano gli
amici che transiteranno nei prossimi giorni, per svago o per lavoro, in questa
nostra città. Aspettandomi di vederli, sentirli, abbracciarli, ed insieme a
tutti gli altri, salutarli.
I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia
Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
LUGLIO 2017
Non è bello dilungarsi troppo in questo caldo mese, ma è
bello passare momenti di serenità accanto ad un libro più che centenario.
PILLOLE D’AVVENTURA E FANTASIA (I)
IL GIARDINO SEGRETO di FRANCES H. BURNETT (1911)
Una bambina orfana e
inizialmente un po’ antipatica, uno zio anaffettivo e assente che la ospita in
un tetro castello immerso nella desolata brughiera, un cugino malaticcio e
piagnucolone, un bambino con il pollice verde, un pettirosso, una chiave che
apre un mondo di avventure e, soprattutto, un giardino abbandonato e segreto
che riporta tutti alla vita. Questi sono gli ingredienti principali de “Il
giardino segreto”, un super classico per l’infanzia che conquista fin dalle
prime righe mettendo in circolo nel sangue il vivace messaggio che tutto può
riprendere vita, bastano un po’ di cure e tanto amore. Un principio valido sia
per un giardino abbandonato che per una persona, perché le erbacce possono
crescere anche in un cuore trascurato e le relazioni umane hanno bisogno di
essere coltivate con costanza perché fioriscano. L'autrice era più che convinta
che il giardinaggio fosse un’attività pedagogica e terapeutica, pertanto, se
vivete in città e i vostri pargoli non possono cimentarsi con il gardening, considerate “Il giardino
segreto” come un’alternativa altrettanto salutare dal punto di vista umano
nonché un valido vaccino contro la noia e quella fastidiosa tendenza a dire
sempre ‘no’ che, se sottovalutata, in età adulta rischia di degenerare in una
invalidante componente caratteriale. L’effetto indesiderato osservato più
frequentemente è la richiesta di un fazzoletto di terra da trasformare in
giardino segreto. Chi ha letto il romanzo lo sa, è un desiderio contagioso che
tormenta tutti, come quello di avere un cucciolo o un pony.
Per coltivare nei bambini
sentimenti come amore, amicizia, ottimismo e capacità di affrontare le
difficoltà con coraggio, si consiglia la lettura di altri due classici di
Frances H. Burnett: “Il piccolo lord” e “La piccola principessa”.
Commenti
Della Burnett, ricordavo il film
tratto da “Il piccolo Lord” (anche per l’ineguagliata bravura di Alec
Guinness). Ma questa avventura di fantasia va letta con gli occhi di quelli che
eravamo, e che speriamo diventino i piccoli uomini intorno a noi (ed anche le
piccole donne).
Frances Hodgson
Burnett “Il giardino segreto” DeAgostini euro 10,90 (in realtà, scontato a 1,64
euro)
[trama
scritta il 24 maggio 2017]
Non
poteva mancare di essere letto, prima o poi, questo libro. Pietra miliare dei
libri per l’infanzia, anche se poco diffuso in Italia. Dove, ad esempio,
l’autrice è forse più nota per “Il piccolo Lord”. Sia i libri felici che i
libri curativi ne consigliavano la visione. Ed io sapevo, nelle pieghe della
mia memoria, che ne avevo scorso dei pezzi in qualche edizione “antica” ed ero,
moderatamente, curioso di leggerne. Cosa dire a valle della lettura? Pur avendo
più di 100 anni, se preso nella sua giusta visione filologica ed educativa, è
ben congeniato, e discretamente utile ad un pubblico giovane. Dirò di più: può
essere un’utile lettura anche ad un pubblico adulto che non voglia chiudere gli
occhi alla magia dell’adolescenza (o dell’infanzia) e che può prendere spunto
per rapportarsi alle giovani generazioni in modo comprensivo ed empatico.
Certo, confrontandolo con l’originale, si nota che la versione “per ragazzi”
della DeAgostini qualcosa taglia. Ma rimane la freschezza e lo spirito con cui
fu scritto. Seppur quindi con occhio adulto, non possiamo far meno di seguire
la piccola, viziata e non amata Mary Lennox, dall’India natia sino al veloce
ritorno in patria. Perché nella guarnigione del padre scoppia un’epidemia di
colera, e solo Mary si salva, venendo mandata dallo zio Archibald. Uno zio che
vive in un castello isolato, e che è colpito dal grande dolore della morte
improvvisa della giovane ed amata moglie. Per questo passa la maggior parte del
suo tempo in giro per il mondo, lasciando le cura della giovane Mary ai famigli
della casa. Sarà soprattutto Martha a prendersi cura di Mary, a farle tornare
il sorriso, a narrare delle buone cose di casa sua (povera ma onesta), a
presentarle il fratello ecologo e bucolico Dickon. Le parla inoltre del famoso giardino
segreto, quello curato dalla moglie morta, cui a tutti è vietato l’accesso.
Ovvio che Mary comincia a cercarlo. Ovvio che lo trova, lo apre, se ne
innamora. Condividendolo con Dickon, con le sue piante e i suoi animali. Ma un
nuovo mistero attanaglia i giorni della nostra signorina, che diventa a poco a
poco, un po’ più simpatica. Le grida notturne, che al fine si scopre essere
quelle del cugino Colin. Malato di incerta malattia, poco curato o mal curato.
Sicuramente poco amato dal padre, che gli rimprovera, anche se non
esplicitamente, la morte della moglie. Mary comincia un’azione di
coinvolgimento alla vita di Colin. Narrando del giardino, narrando degli
animali, narrando di Dickon. Tanto che l’altrettanto viziato Colin decide di
seguire le orme della cugina. Uscendo di casa nella sedia a rotelle. Andando in
giardino. Cominciando a muovere i primi passi. Sino a che, ignota la malattia,
ma sicuramente giovandogli aria aperta e compagnia, anche lui si integra nella
cura del giardino e nell’inno alla vita. Tanto che la madre di Martha non si
perita di richiamare sir Archibald dai suoi giri lontani. Il vecchio (ma credo
che non arrivi ai cinquanta!) torna a casa, scopre le “malefatte” della nipote,
ma scopre anche i benefici che ne porta il figlio. Così che, curando le piante
si cura anche il cuore. E tutti quanti, alla fine, saranno contenti, e ne
usciranno vittoriosi. Quante piccole zeppe di insegnamento in così poche
pagine. Certo ingenue, certo senza nessun infingimento, subito lì, dirette.
Mary non amata, unica che sopravvive (quindi anche chi sembra poco simpatico è
meglio di chi è realmente antipatico). Martha e la sua famiglia (cioè il cuore
aperto, il sorriso sulle labbra, il lavoro anche umile non possono che portare
serenità). Martha e Dickon (quando l’amicizia travalica ogni confine). Martha e
Colin (quando l’empatia vince ogni malattia, vera o presunta). Martha e lo zio
Archibald (come non aver paura dei grandi quando si ha una grande idea in
testa). La “pedagogica” Frances inzeppa il libro di buoni sentimenti. In
particolare, l’ultima grande metafora è il collegamento tra i ragazzi ed il
giardino: in entrambi i casi, i buoni semi, oltre ad essere piantati, devono
essere difesi e coltivati. Ed il giardino, così come il bambino, potrà al fine
crescere e diventare una pianta, un uomo o una donna. Ignorando Freud e tutta
la psicologia, il bello (seppur limitato) del libro è proprio in questa
immediatezza senza barriere. Un’ultima lancia la spezzerei sulla rivoluzione
che all’epoca portò il libro. La convinzione nel mondo occidentale dell’inizio
del XX° secolo era che solo la guida, l'insegnamento e la vigilanza costante
degli adulti potevano garantire l'educazione di bambini e adolescenti, che
l'amicizia tra ragazzi poteva essere pericolosa e andava sempre vigilata dagli
adulti e che l'amicizia tra giovani di sesso opposto era molto pericolosa e
andava controllata e limitata dagli adulti. Tutte e tre queste posizioni
vengono confutate da Frances. Che apre vie nuove che hanno portato a noi.
Perché allora non cominciamo anche noi a tracciarne altre? Forse è tutto troppo
facile. Ma che dire se si riesce a togliere le barriere, i pensieri, gli
attaccamenti a comportamenti troppo ingessati. Per comunicare. Questo, in
fondo, è quello che insegna Mary: parlare, chiedere, è sempre meglio che stare
zitti. Un NO è sempre meglio di non sapere la risposta. Tanto che spesso, il NO
diventa un magico, bellissimo, giurassico SI. Quindi, salvando un po’ di
ingenuità, perché non leggerlo ai Tommaso, ai Matteo, e a tutti gli altri?
Finalino
Che dire? Non posso che ripetere il finale di trama. Qualche
pillola di avventura e fantasia per tutti i citati, e per quelli in arrivo
(vero nipotina?).
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