domenica 23 luglio 2017

I saggi non deludono - 23 luglio 2017

Riprendiamo le trame periodiche dopo la breve, intensa e gradevole al fine parentesi omanita. Aggiungendo altri indirizzi alla schiera dei miei (fedeli) lettori. Riprendiamo inoltre con una settimana di belle letture. Quattro saggi, tutto sopra media, anche di molto. Tra l’altro, non mi aspettavo di meno né da Borges né da Eco. Una gradita sorpresa Zucconi, ed una intrigante lettura del (forse solo a me) simpatico D’Avenia.
Jorge Luis Borges “L’idioma degli argentini” Adelphi euro 14
[A: 01/11/2016 – I: 08/02/2017 – T: 12/02/2017] - &&&&-  
[tit. or.: El idioma de los argentinos; ling. or.: spagnolo; pagine: 187; anno 1928]
Chi mi conosce, anche se non a fondo, sa, direttamente o per vie traverse, che Borges è uno dei numi tutelari del mio pantheon privato. Ci sono cose che non si riescono a spiegare in modo completamente razionale, ed a prescindere dalla persona, dal suo essere e dalle sue posizioni, ogni suo scritto mi ha sempre dato qualcosa. Una riflessione, uno spunto, finanche un piacere isolato dell’intelligenza a tutto tondo. Ne lessi consapevolmente le prime righe quasi quaranta anni fa, e non l’ho più lasciato. Così, non potevo esimermi dal prendere in mano questo libro, pur nella sua disomogeneità e conscio della sua storia trasversale. Perché è uno scritto giovanile, scritto quando aveva meno di trenta anni. Ma soprattutto perché è uno scritto che l’autore, quando ha ripensato alla sua opera, l’ha ordinata e ripulita, ha deciso che non fosse inserito nel corpo maggiore dei suoi scritti. Solo ora, a trent’anni dalla morte, la moglie argentino-tedesco-giapponese ne ha consentito la pubblicazione, anche a dispetto dei voleri del grande Jorge. Qui si potrebbe aprire una lunga discussione su cosa sia lo scritto di un autore, su quanto sia di sua proprietà e quanto un “bene comune”. Se ad esempio sono assolutamente certo che lettere private, ancorché piene di alti commenti, siano e debbano essere gestite dallo scrivente, un libro, una volta pubblicato, può diventare un esempio circolante del bene e del male dello scrittore stesso. Quindi, nel 1928, seppur in soli 500 esemplari, uscì questa eterogenea raccolta di testi. E se Borges, e lo poteva fare, non ne volle l’inclusione nella pubblicazione della sua “Opera Omnia”, sono contento che ora, noi, ne possiamo usufruire, anche per l’ottima traduzione di Lucia Lorenzini nonché le note esplicative e di commento di Antonio Melis. Nel merito, i diversi articoli riprodotti spaziano sui tre vertici del triangolo costitutivo del libro. Da un lato il linguaggio, dove la capacità di Borges è di spaziare “dall’inclito al volgo”, da una parodia dell’uso di un’analisi stilistica della frase di apertura del Don Chisciotte (che volando mi fa tornare a quel capolavoro di invenzione e metaforizzazione che sarà “Pierre Menard, autore del Chisciotte”, sei scarne pagine sconvolgenti), alla diatriba sulla realtà del linguaggio, sulla contrapposizione tra lingua e scritto, sulla strenua lotta tra i grammatici ed i seguaci di Benedetto Croce per i quali solo il testo nella sua interezza è reale. E dove Borges propone una sintesi, utilizzando come metodo di analisi la sintassi. In un passaggio esemplare, poi, riporta quanto logici e scienziati vari sostenevano e sostengono (ed io con loro) che la scienza tende alla semplicità e che qualsiasi teoria che non può essere spiegata in termini semplici è una mera bravata narcisistica. L’altra base del triangolo è l’Argentina, o meglio ancora Buenos Aires, su cui tornerò più avanti. Sintesi di entrambi, mistero e speranza, è l’eternità. Quella che si cela dietro le parole, quella che ci fa dire, mi fa dire ancora e per sempre, che è esistito un Cervantes, un Quevedo, un Borges, ma anche un Calvino o un Queneau. Ma io non so volare così alto, anzi mi sembra di essermi già spinto troppo avanti. Perciò torno a Buenos Aires, dove Borges mi ha fatto tornare con due dei suoi articoli. Uno dedicato al tango, alle sue ascendenze, alla genesi delle sue parole da taverna. Righe che portano e cullano quasi ovunque nei miei spazi. Da quel bar, il Cafè Tortoni nell’Avenida de Mayo, sino all’angolo con Calle Florida, dal cimitero della Recoleta agli ampi spazi del quartiere Palermo. Fino all’inarrivata melodia di Pedro Navaja di Ruben Blades. L’altro dedicato al truco, un gioco di carte che ho provato a comprendere ma che mi risulta più complicato delle spiegazioni di una partita di cricket. Quello che ho capito, e che mi affascina, è il fatto che il truco si giochi a coppie, sia fatto di una parte di dichiarazioni varie (invito, richiesta, rifiuto, truco, e altre parole) ed una fase di gioco. È un parente lontano e non riconosciuto (anche perché ha tante altre cose che non sto qui a narrare) del bridge. Ma come il bridge, ha il suo fascino nel fatto che abbia una sua sintassi, e che non possa che ripetere giocate ancestrali, che qualche d’uno ha fatto nella sua vita. Una ripetizione, una coazione alla ripetizione, che però è talmente diversa dall’azione iniziale, che ogni volta, e per sempre, sarà diversa. Tuttavia mi sto dilungando al solito su di me e non su Borges. Ma di proposito, che il libro, se ne volete leggere, è d’obbligo farlo. Che ovviamente si parla di cose ben più serie del truco. Di Gongora, di culteranesimo, delle poesie di Jorge Manrique. Dell’amore, infinito, per i libri, come dice quella bellissima frase finale, dove Borges confessa di aver amato anche gli errori di stampa. Ma per me si parla sempre dell’uso dell’intelligenza per addentrarsi nei meandri della vita. Quindi si parla ancora di truco. Con quante “c”?
“Cos’è il truco [ma potremmo leggere anche ‘il bridge’] per chi ci gioca se non un’abitudine? … Ogni giocatore, in realtà, non fa che ricascare in giocate remote. Il suo gioco è una ripetizione di giochi passati.” (35)
“Io sono un uomo più o meno triste che viaggia in tram [autobus?] e che sceglie strade dissestate per passeggiare, ma trovo giusto che esistano … automobili e una calle Florida con le vetrate splendenti.” (60)
“Se la matematica (sistema specializzato di pochi segni, fondato e governato con assiduità dall’intelligenza) contiene cose incomprensibili … quante non saranno le cose incomprensibili che oscurano il linguaggio, truppa raccogliticcia di migliaia di simboli?” (62)
“Ciò che davvero è stato non si perde; l’intensità è una forma di eternità.” (93)
“Credevo a tutto, persino alle brutte illustrazioni ed agli errori di stampa.” (94)
Vittorio Zucconi “Gli spiriti non dimenticano. Il mistero di Cavallo Pazzo e la tragedia dei Sioux”” Mondadori s.p. (Natalino di Paola)
[A: 25/12/2016 – I: 22/02/2017 – T: 27/02/2017] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 381; anno 1996]
Mi è sempre risultata gradita la prosa di Zucconi, che scorre via bene sia nei lunghi articoli su Repubblica, sia sulle cronache dall’America che si leggono sui supplementi “Venerdì” e D. Ma credo che anche sui saggi sai altrettanto leggibile e godibile. Come in questo lungo giro per gli Stati Uniti di 150 anni fa, sulle tracce dei nativi americani, sulle loro tragedie, e su quei bianchi che ora sembrano tornati al potere. Leggi di Zucconi e dei generali dalle vesti azzurre e vedi Trump ed i suoi amici. Insomma, un bel libro, ben scritto, che lo leggi e ti viene voglia di prendere gli americani e di sbatterli tutti contro il muro. L’ho finito talmente incazzato che se vedevo un immigrato americano gli avrei dato un paio di schiaffi. Per tornare al libro, ed a Zucconi, la trasformazione della vita di Cavallo Pazzo in un romanzo ha per corollario la (riuscita) rappresentazione da parte dell’autore di altri due aspetti: la vita dei Sioux (soprattutto lontano dai bianchi) e la tragedia del contatto tra nativi americani ed immigrati (che avranno la meglio, e quindi, da bravi vincitori, scriveranno loro la storia, con tutte le conseguenze che ben sappiamo). Vediamo intanto il primo aspetto. Chi erano, chi sono i Sioux? Innanzi tutto, non sono Sioux. Nel senso che la parola è lo spregiativo utilizzato dai nativi filo-francesi quando gli invasori americani chiedono il nome di questo popolo nomade arroccato tra il Wyoming ed il Montana. Spregiativo che traslitterato dall’originale ha il significato di “meno importante di un serpente”, dato che l’appellativo “serpente” era dato ai tradizionali indiani delle praterie canadesi, gli Irochesi. I Sioux (ed usiamo questo nome per comodità) erano una comunità di sette tribù, divise in tre gruppi: i Dakota orientali, i Dakota occidentali ed i Lakota. Questi ultimi, a loro volta, erano divisi in altre tribù, tra cui gli Oglala (con a capo Nuvola Rossa), i Brulé (con a capo Coda Pezzata) e gli Hunkpapa (con a capo Toro Seduto). La vita dei Lakota era diventata nomade a seguito delle lotte con i canadesi e dell’avanzata dei bianchi dell’Atlantico. Una vita legata alla terra, alla poca cultura stanziale, ed alla caccia al bisonte. Una vita da guerrieri, per gli uomini, e di grandi lavori per le donne (che costruivano le tende, i famosi “tepee”, cucinavano e badavano ai figli). Una vita “quasi” paritaria: se una donna voleva divorziare dal marito, poteva prendere le cose di lui e portarle fuori dalla tenda o andare via a vivere nella tenda di qualche d’un altro. Oltre che guerrieri, erano anche dediti al sacro: onore al grande Dio unico, Watan-Tanka, fumo della pipa sacra e partecipazione alla grande “Danza del Sole”. Ci sarebbe molto da approfondire, ma per ora fermiamoci qui. Perché seguiamo anche brevemente la storia di Tashunka Uitko (questo il nome Lakota di Cavallo Pazzo, che in realtà sta per “Ta” – grande, “shunka” – cane, “Uitko” – estasi, follia sacra). Una storia durata meno di quaranta anni (qualcuno vorrebbe i soliti 33 delle grandi figure storiche e religiose, da Alessandro Magno a Gesù), dove seguiamo la gioventù del piccolo Oglala, presto uomo dopo aver ucciso il primo bisonte, posseduto da una visione mistica che non gli fece mai indossare altro che una piuma di uccello (senza quindi tutti quegli orpelli orrendi dei pellerossa cinematografici), che non gli fece mai commettere scempio sui nemici, che rifiutò sempre di farsi fotografare (ed infatti non ne abbiamo nessuna rappresentazione iconica), che non si sa con esattezza dove sia la sua tomba. La sua vita è narrata sui due versanti: quello privato, dove “Riccetto” (così il nome che aveva in gioventù) è timido e riservato, tanto che il prepotente Senz’Acqua gli frega la donna (figlia di Nuvola Rossa). Che poi riconquista, ma lascia sotto l’ingiunzione dei capi tribù per non creare divisioni durante le guerre. Avrà una seconda moglie (parente di Coda Pezzata), ed una figlia che muore di colera. Ma la sua importanza è la vita pubblica, di indomito ed invitto guerriero, mai colpito da pallottole nemiche. Infatti verrà ferito solo da Senz’Acqua durante la lite per la donna, e poi ucciso da un traditore Lakota mentre con l’inganno veniva arrestato. Era il 5 settembre 1877. Secondo il mito aveva 33 anni. Ma seguendo le tappe della sua vita dove averne tre o quattro di più. Le tappe che poi sono altrettanti momenti di battaglia tra nativi ed invasori. Il primo, e forse più importante, quello che fece scatenare ripicche e rappresaglie, e che non si riuscì mai a ricucire, nasce quasi come un caso “ridicolo”. Nel 1855, durante il passaggio dei mormoni verso lo Utah, dalla loro carovana fugge una mucca, che irrompe nell’accampamento di Coda Pezzata seminando il panico. Tanto che gli indiani sono costretti ad ucciderla. E da buoni nomadi, una volta ucciso un animale, cosa fare di meglio che mangiarlo? Ma i mormoni chiedono un risarcimento e l’esercito invia una pattuglia guidata dall’inesperto tenente Grattan ed avendo come interprete il sangue misto Arsene Lucier, che però non conosceva il dialetto locale. Una serie di incomprensioni porta Grattan ad uccidere il capo tribù Orso Conquistatore, cominciando a sparare sui nativi. I giovani capi presenti, Coda Pezzata e Nuvola Rossa si ribellano, ed uccidano Grattan ed 11 soldati. È l’inizio ufficiale delle “Guerre Sioux”. Se volete seguirne l’andamento, con l’ascesa di Cavallo Pazzo, forse è meglio che leggiate Zucconi piuttosto che queste scarne note. Certo non vanno via dalla mente i successivi tradimenti degli immigrati in Giacca Blu, che promettono aiuti se i nativi si arrendono, per poi negarli. Riuscendo a fomentare anche dissidi interni. E riuscendo a dare il comando di truppe a generali ignobili. Con gesta che culmineranno ad esempio, nel massacro di Sand Creek (quello della bellissima canzone di De André). I nativi, sotto la spinta unificatrice dell’uomo sacro, Toro Seduto, e del comandante mai sconfitto, Cavallo Pazzo, resistono, contrattaccano. Quando poi un filibustiere dell’esercito, tal generale George Armstrong Custer, trovando dell’oro nelle Colline Nere, luogo sacro di tutte le tribù Sioux (ma anche Cheyenne e Arapaho), decide di prendersi anche questo territorio, lo scontro è inevitabile. Scontro che ha il suo apice vicino alla riva di un piccolo fiume, il Little Big Horn. Sapete meglio di me l’iconografia di queste battaglie. Siamo nel giugno del 1876. Toro Seduto ripara in Canada, Cavallo Pazzo tenta di resistere, ma, fiaccato dal duro inverno, si arrende nel maggio 1877. Per poi essere ucciso, con una dinamica mai accertata, il 5 settembre 1877. Leggete il libro di Zucconi, che ringrazierò sempre Paola di avermi regalato. Mi ha fatto incazzare dalla prima all’ultima pagina, ma è un bel saggio. E con Cavallo Pazzo rivolgo a tutti il suo grido di battaglia: “Hoka Hey!”, che significa “Andiamo uomini!”, e solo dopo viene la parte che invece risulta impropriamente tradotta “Oggi è un buon giorno per morire”!
“Porgeva sempre la sinistra e mai la destra e non perché fosse mancino. ‘La sinistra è la mano del cuore, che si dà agli amici’ ripeteva, ‘La destra è la mano che afferra il pugnale … è la mano che fa il Male’.” (165)
“Gli indiani dovevano arrendersi perché avevano avuto l’impudenza di vincere.” (!) (343)
Umberto Eco “Come viaggiare con un salmone” La Nave di Teseo euro 10
[A: 29/02/2016 – I: 08/03/2017 – T: 10/03/2017] - &&&& --
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 206; anno 2016]
Pubblicato dalla (allora) nuova casa editrice “La Nave di Teseo” all’indomani della morte del grande Umberto, lo avevo immediatamente comperato, come sentito omaggio ad uno dei fari del mio pantheon privato. Che questo è stato Eco. Ne imparai le impervie vie letterarie ai miei tempi universitari, dove lessi il suo “Come si fa una tesi di laurea”, anche se stavo facendo un corso di laurea scientifico. Lessi e rimasi incantato dal “Diario minimo” e da “Il superuomo di massa”. E non solo per quel piccolo capolavoro di arguzia che fu “Fenomenologia di Mike Bongiorno”. Mi appassionai a tutte le sue scritture, e da logico di media capacità dedicai molto tempo alla lettura approfondita del suo “Trattato di semeiotica generale”. Lo seguii poi sempre fino… (lo so caro Umberto, eri assolutamente contrario ai puntini, ma qui per me ci vogliono) a “Il pendolo di Foucault”. Che non riuscii a finire. Dopo di che rimase un riferimento per l’analisi del contemporaneo, ma non una lettura costante (se non qualche arguta ed imperdibile “Bustina di Minerva” pubblicata su “L’Espresso”). Ma non potevo esimermi da un omaggio alla sua scomparsa. Ed allora eccomi ritornato alla lettura delle sue scritture. Con un testo non sempre pienamente riuscito, che spesso risente dei tempi di uscita di questi elzeviri (che vanno saltabeccando dal 1975 al 2014), ma che, di fondo, mi ha restituito il piacere del “mio” Eco (ed il dispiacere di aver perduto una persona degna). Non è certo il caso entrare nel merito di ognuno dei 45 piccoli pezzi che compongono questo mosaico di letture. Che non ritengo (come si commenta in quarta di copertina) un “libro di istruzioni”, anche se la capacità di mantenersi coerente fa sì che tutti i pezzi possano intitolarsi: “Come…”. È invece, come sempre in Eco, un libro di istantanee sulla nostra vita, sui suoi componenti, sui nostri comportamenti, sulle nostre reazioni (a volte mancanti, purtroppo) ai comportamenti altrui. Ed è, soprattutto, un libro coerente. Leggete due racconti a caso, e non avrete dubbi che siano scritti dalla stessa mano, anche se uno esce alla fine degli anni settanta ed uno agli inizi del secondo decennio di questo secolo. Leggeteli tutti, pur nella loro non omogenea riuscita, ed avrete la visione del mondo di questo illuminista del ventesimo secolo. Sempre pronto a cogliere le note stonate di quanto gli succede intorno. Sempre pronto sia ad accogliere la tecnologia che avanza, ma anche, e con più forza, a farcene avvertire i limiti ed i pericoli. Fin dall’inizio, Eco, ad esempio, ha stigmatizzato l’uso distorto prima del fax, poi dei cellulari, ed infine di internet. Riconoscendo che, ovvio, non è che si poteva circoscrivere il misutilizzo creando barriere, ma cercando di capirne l’uso positivo. Un esempio su tutti, quando (ed io sono d’accordo con lui) non si scaglia inutilmente sull’uso di internet per ricerche ed approfondimenti vari. Ma sa, e noi sappiamo con lui, che in rete si può trovare di tutto (ed anche la negazione del tutto). Allora propone ad un illuminato professore liceale di indirizzare una ricerca alla comparazione di come un dato evento sia stato riportato in modo diverso in diversi siti. La comparazione fa nascere pregi e difetti, ma, in particolare, costringe poi gli alunni a confrontarsi tra loro. Dicevo coerenza anche nell’analisi di ciò che ci succede: tutti i piccoli comportamenti vengono in Eco esasperati sino al paradosso, ma coerentemente e logicamente, dalla modalità di percezione che abbiamo dei pellerossa americani (o che avevamo il secolo scorso) alla protervia di dipendenti (pubblici e privati) ad attenersi a regole e modalità standard, in quanto la deviazione porta allo scoperto. Ad esempio dell’utilizzo di un frigorifero alberghiero per non far deperire un ottimo salmone scandinavo. Una coerenza, al fine, che gli consentiva già nel 1990 di indicare le linee guida delle disposizioni testamentarie, palesatesi purtroppo ora nel momento della sua morte. Dove fin da 25 anni fa si scagliava contro il malvezzo di indire convegni appena qualcuno passi a miglior vita. Imponendo allora come ora, che non se ne facessero su di lui e sulla sua opera per un congruo numero di anni. Quindi non lo farò neanche io, non entrerò più a fondo in altro, ma non posso che chiudere sentendo la mancanza del suo lucido occhio. Come tutti i momenti positivi, e tutte le cose buone che si dicono sui suoi scritti, e come mi insegnò la mia maestra di comportamento sociale, termino solo ora sottolineando come, purtroppo, anche in Eco, come in altre degne persone che considero miei punti fermi (leggi ad esempio Zygmunt Bauman), la lucida analisi non sia potuta istanziarsi in un’altrettanta lucida prassi propositiva, che non fosse, forse, quella personale. Ma forse, è proprio questo lo scopo di un degno maestro. Indicare il metodo per arrivare alla via, non la via stessa. Rileggete Savater, allora.
“Ci sono diversi modi di fare un buon caffè: c’è il caffè alla napoletana, il caffè espresso, il caffè turco, il cafesinho brasiliano, il café filtre francese, il caffè americano.” [peccato che hai scordato il caffè vietnamita, degno di comparire in questo elenco] (89)
“Ah, dimenticavo. Ci sono anche le cartoline che ti arrivano da Kuala Lampur firmate ‘Giovanni’. Giovanni chi?” [ovvio che ero io, uno dei pochi che manda ancora cartoline] (107)
“L’intera industria dell’informazione … rischia di non comunicare più nulla perché dice troppo.” (115)
“Io non ho nulla contro il calcio … non amo il tifoso perché ha una strana caratteristica: non capisce perché tu non lo sei, e insiste a parlare come se tu lo fossi.” (144)
“Il cui motto era ‘provando e riprovando’ – e ‘riprovare’ non significava provare di nuovo … ma respingere (nel senso della riprovazione) quello che non poteva essere sostenuto alla luce della ragionevolezza e dell’esperienza.” (201)
Alessandro D’Avenia “L’arte di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita” Mondadori euro 19
[A: 21/03/2017 – I: 05/05/2017 – T: 12/05/2017] - &&& e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 209; anno 2016]
Anche questo di D’Avenia si inserisce nel filone “novità” inaugurato con la Moyes. In particolare, dato che risulta il libro più venduto nel gennaio di quest’anno. Premesso che D’Avenia mi sta discretamente simpatico, e che trovo interessante la sua scrittura (anche se ho letto solo il suo primo libro), e che il fatto di essere un insegnante me ne rende coinvolgente il modo di porgere, mi aspettavo qualcosa di più, come coinvolgimento cuore-testa-stomaco, triade immancabile per far salire i miei giudizi. Intanto mi ha dato un po’ fastidio il sottotitolo. Non perché non sia o possa essere vero che Leopardi ci possa aiutare. Lo fa e lo fa bene. Ma sembra proprio ammiccare a quei molti titoli usciti negli ultimi anni, spesso anche delle buone scritture ma alla fine molto, troppo, alla moda. Mi riferisco a quei tanti “Come… può salvarti la vita”. Ed al posto dei puntini potete mettere (cito a memori) Kafka, Proust, Schopenhauer, e via discorrendo. Credo che tutti coloro che hanno scritto cose intelligenti (cioè usando l’intelletto) se noi li ascoltiamo veramente, possano “salvarci la vita”. Anche se, forse, per salvarci la vita (a patto che uno decida proprio di rovinarsela, e quindi sia costretto a salvarsi) basta usare cuore, testa e stomaco. Basta capire che si possono fare sbagli, che si possono con umiltà ricucire, che è bene capire di non essere soli al mondo, che c’è una vita di relazione, che la felicità non si costruisce mai da soli. Continuo? Forse è sufficiente. Seguendo questa moda, credo che si potrebbe scrivere (potrei scrivere), come Asimov può salvarti la vita. O mio cugino Alessandro potrebbe aiutarmi magari con il suggerimento di come Borromini possa salvarci. Ma torniamo a questo Alessandro, ed a questo Leopardi. Sono contento che il libro abbia avuto un buon successo di vendita, pur non essendo né un romanzo né un saggio. In realtà, è molto difficile darne un’etichetta (se pure ce ne fosse bisogno). Un epistolario con una persona defunta (e che persona! E che epistolario!). Senza risposte dirette, ma con tante risposte che si possono trovare nelle bellissime (e qui sono concorde pienamente con l’autore) pagine di Leopardi. Ha scritto di tutto, e di tutto possiamo trovare. Per chi conosce poco, o in modo superficiale il grande recanatese (ed ha magari visto l’interessante seppur un po’ palloso film di Mario Martone) è un bel percorso, che sfata, se ce ne fosse bisogno, tutti i falsi miti su Leopardi. Pessimista, sfortunato, malinconico, e via etichettando. D’Avenia ci fa capire, con delle citazioni giuste ed opportune, che sì, è tutto vero. Ma la bellezza, la forza di Leopardi è quella di darci la speranza, la possibilità, i mezzi, per uscirne fuori. Per vedere la possibilità di fare, di essere altro. Come l’ultima ginestra che fiorisce dalla lava del Vesuvio. Come le stupende, bellissime domande del pastore errante. Come la durezza della Natura a cospetto dell’Islandese. come, sempre e comunque, la forza, immensa, dell’infinito. Una poesia che ho sempre mantenuta cara fin dai tempi del liceo. Quando, nel nostro piccolo, io e Pier Vittorio ci scagliavamo contro le letture in “calando” che ne faceva il nostro (ora amatissimo, allora odiato) professor Torinto. Grazie Alessandro di avermi ricordato come quegli interminati spazi anch’io mi figuravo. Per poi decidere, quando è stato possibile, di percorrerli, di andare a trovare anche quei sovrumani silenzi, scoperti finalmente nei miei amati deserti (ah, quando si tornerà nell’Akakus!). È un libro che invoglia a parlare di sé, che non serve percorrerne l’ordito. Passeggiando e scrivendo con Leopardi, l’autore ci porta attraverso le stagioni della vita, dalla pericolosa adolescenza alla difficile età cosiddetta matura, sino alla morte, unica certezza della vita. La fatica dell’autore è quella di rivolgersi, più che a noi, ormai consolidati giovanotti, che dovrebbero aver fatto qualche percorso interiore nella nostra lunga vita per capire chi siamo, anche se non sappiamo dove andiamo, di rivolgersi ai giovani, ai suoi studenti, a quelli che ogni giorno incontra nelle aule dove insegna. Sono loro che devono capire non solo chi sia Leopardi, ma come si approccia un autore, come ci si pone verso la scrittura, la poesia, la vita. Rivenendomi in mente i tempi delle mie frequentazioni al Liceo Dante, delle autogestioni, e del Nanni di allora. Non entro tuttavia nel merito della fragilità. Una categoria corretta per affrontare il mondo, si sia un gigante come Leopardi, o una persona normale come noi. Perché fragilità implica rispetto, di sé e degli altri. Rispetto dei limiti, rispetto delle proprie e delle altrui capacità (ed essenze, ed esistenze). E rispetto è la mia categoria di vita. Alla fine però, il libro non si eleva verso le vette che ci si poteva aspettare. Rimane forse troppo didattico (stavo per dire didascalico), esortativo, che sicuramente serve ai ragazzi di D’Avenia. Io mi aspettavo, al fine, più incisività. Tuttavia D’Avenia si conferma un solido scrittore. Che non mi dispiace leggere.
“Contemplare la natura e leggere libri sono abitudini che non generano consumi.” [trasposizione da parte dell’autore di alcuni pensieri desunti dal “Mondo nuovo” di Huxley da far leggere a molti Ministri della Pubblica Istruzione degli ultimi venti anni] (46)
“Se si sottovaluta o addirittura si trascura una tappa della vita, si rischia di passare il tempo a recuperarla in altre età.” (47)
“Dov’è la conoscenza che abbiamo perduto nell’informazione?” [cit. di T.S. Eliot] (63)
“Niente ci fa morire in vita … come un amore non corrisposto.” (134)
“Non si può rimanere fedeli a sé stessi se i veri amici non si sostituiscono a noi proprio nei momenti in cui abbiamo smesso di credere nella nostra più profonda essenza.” (151)
Sebbene a singhiozzo è pur sempre la terza trama del mese, onde per cui ecco che vi dovete sorbire anche l’appendice per i libri felici, questa volta dedicato ad un mondo d’infanzia che, seppur nella sua ingenua rappresentazione, mai dobbiamo scordarci.
Anche pochi giorni in questa calda Roma di luglio (mai calda come il nostro simpatico Oman), e si andrà di nuovo verso altri lidi, in previsione più freschi. Intanto si aspettano gli amici che transiteranno nei prossimi giorni, per svago o per lavoro, in questa nostra città. Aspettandomi di vederli, sentirli, abbracciarli, ed insieme a tutti gli altri, salutarli.
I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
LUGLIO 2017
Non è bello dilungarsi troppo in questo caldo mese, ma è bello passare momenti di serenità accanto ad un libro più che centenario.

PILLOLE D’AVVENTURA E FANTASIA (I)

IL GIARDINO SEGRETO di FRANCES H. BURNETT (1911)

Una bambina orfana e inizialmente un po’ antipatica, uno zio anaffettivo e assente che la ospita in un tetro castello immerso nella desolata brughiera, un cugino malaticcio e piagnucolone, un bambino con il pollice verde, un pettirosso, una chiave che apre un mondo di avventure e, soprattutto, un giardino abbandonato e segreto che riporta tutti alla vita. Questi sono gli ingredienti principali de “Il giardino segreto”, un super classico per l’infanzia che conquista fin dalle prime righe mettendo in circolo nel sangue il vivace messaggio che tutto può riprendere vita, bastano un po’ di cure e tanto amore. Un principio valido sia per un giardino abbandonato che per una persona, perché le erbacce possono crescere anche in un cuore trascurato e le relazioni umane hanno bisogno di essere coltivate con costanza perché fioriscano. L'autrice era più che convinta che il giardinaggio fosse un’attività pedagogica e terapeutica, pertanto, se vivete in città e i vostri pargoli non possono cimentarsi con il gardening, considerate “Il giardino segreto” come un’alternativa altrettanto salutare dal punto di vista umano nonché un valido vaccino contro la noia e quella fastidiosa tendenza a dire sempre ‘no’ che, se sottovalutata, in età adulta rischia di degenerare in una invalidante componente caratteriale. L’effetto indesiderato osservato più frequentemente è la richiesta di un fazzoletto di terra da trasformare in giardino segreto. Chi ha letto il romanzo lo sa, è un desiderio contagioso che tormenta tutti, come quello di avere un cucciolo o un pony.
Per coltivare nei bambini sentimenti come amore, amicizia, ottimismo e capacità di affrontare le difficoltà con coraggio, si consiglia la lettura di altri due classici di Frances H. Burnett: “Il piccolo lord” e “La piccola principessa”.

Commenti

Della Burnett, ricordavo il film tratto da “Il piccolo Lord” (anche per l’ineguagliata bravura di Alec Guinness). Ma questa avventura di fantasia va letta con gli occhi di quelli che eravamo, e che speriamo diventino i piccoli uomini intorno a noi (ed anche le piccole donne).
Frances Hodgson Burnett “Il giardino segreto” DeAgostini euro 10,90 (in realtà, scontato a 1,64 euro)
[trama scritta il 24 maggio 2017]
Non poteva mancare di essere letto, prima o poi, questo libro. Pietra miliare dei libri per l’infanzia, anche se poco diffuso in Italia. Dove, ad esempio, l’autrice è forse più nota per “Il piccolo Lord”. Sia i libri felici che i libri curativi ne consigliavano la visione. Ed io sapevo, nelle pieghe della mia memoria, che ne avevo scorso dei pezzi in qualche edizione “antica” ed ero, moderatamente, curioso di leggerne. Cosa dire a valle della lettura? Pur avendo più di 100 anni, se preso nella sua giusta visione filologica ed educativa, è ben congeniato, e discretamente utile ad un pubblico giovane. Dirò di più: può essere un’utile lettura anche ad un pubblico adulto che non voglia chiudere gli occhi alla magia dell’adolescenza (o dell’infanzia) e che può prendere spunto per rapportarsi alle giovani generazioni in modo comprensivo ed empatico. Certo, confrontandolo con l’originale, si nota che la versione “per ragazzi” della DeAgostini qualcosa taglia. Ma rimane la freschezza e lo spirito con cui fu scritto. Seppur quindi con occhio adulto, non possiamo far meno di seguire la piccola, viziata e non amata Mary Lennox, dall’India natia sino al veloce ritorno in patria. Perché nella guarnigione del padre scoppia un’epidemia di colera, e solo Mary si salva, venendo mandata dallo zio Archibald. Uno zio che vive in un castello isolato, e che è colpito dal grande dolore della morte improvvisa della giovane ed amata moglie. Per questo passa la maggior parte del suo tempo in giro per il mondo, lasciando le cura della giovane Mary ai famigli della casa. Sarà soprattutto Martha a prendersi cura di Mary, a farle tornare il sorriso, a narrare delle buone cose di casa sua (povera ma onesta), a presentarle il fratello ecologo e bucolico Dickon. Le parla inoltre del famoso giardino segreto, quello curato dalla moglie morta, cui a tutti è vietato l’accesso. Ovvio che Mary comincia a cercarlo. Ovvio che lo trova, lo apre, se ne innamora. Condividendolo con Dickon, con le sue piante e i suoi animali. Ma un nuovo mistero attanaglia i giorni della nostra signorina, che diventa a poco a poco, un po’ più simpatica. Le grida notturne, che al fine si scopre essere quelle del cugino Colin. Malato di incerta malattia, poco curato o mal curato. Sicuramente poco amato dal padre, che gli rimprovera, anche se non esplicitamente, la morte della moglie. Mary comincia un’azione di coinvolgimento alla vita di Colin. Narrando del giardino, narrando degli animali, narrando di Dickon. Tanto che l’altrettanto viziato Colin decide di seguire le orme della cugina. Uscendo di casa nella sedia a rotelle. Andando in giardino. Cominciando a muovere i primi passi. Sino a che, ignota la malattia, ma sicuramente giovandogli aria aperta e compagnia, anche lui si integra nella cura del giardino e nell’inno alla vita. Tanto che la madre di Martha non si perita di richiamare sir Archibald dai suoi giri lontani. Il vecchio (ma credo che non arrivi ai cinquanta!) torna a casa, scopre le “malefatte” della nipote, ma scopre anche i benefici che ne porta il figlio. Così che, curando le piante si cura anche il cuore. E tutti quanti, alla fine, saranno contenti, e ne usciranno vittoriosi. Quante piccole zeppe di insegnamento in così poche pagine. Certo ingenue, certo senza nessun infingimento, subito lì, dirette. Mary non amata, unica che sopravvive (quindi anche chi sembra poco simpatico è meglio di chi è realmente antipatico). Martha e la sua famiglia (cioè il cuore aperto, il sorriso sulle labbra, il lavoro anche umile non possono che portare serenità). Martha e Dickon (quando l’amicizia travalica ogni confine). Martha e Colin (quando l’empatia vince ogni malattia, vera o presunta). Martha e lo zio Archibald (come non aver paura dei grandi quando si ha una grande idea in testa). La “pedagogica” Frances inzeppa il libro di buoni sentimenti. In particolare, l’ultima grande metafora è il collegamento tra i ragazzi ed il giardino: in entrambi i casi, i buoni semi, oltre ad essere piantati, devono essere difesi e coltivati. Ed il giardino, così come il bambino, potrà al fine crescere e diventare una pianta, un uomo o una donna. Ignorando Freud e tutta la psicologia, il bello (seppur limitato) del libro è proprio in questa immediatezza senza barriere. Un’ultima lancia la spezzerei sulla rivoluzione che all’epoca portò il libro. La convinzione nel mondo occidentale dell’inizio del XX° secolo era che solo la guida, l'insegnamento e la vigilanza costante degli adulti potevano garantire l'educazione di bambini e adolescenti, che l'amicizia tra ragazzi poteva essere pericolosa e andava sempre vigilata dagli adulti e che l'amicizia tra giovani di sesso opposto era molto pericolosa e andava controllata e limitata dagli adulti. Tutte e tre queste posizioni vengono confutate da Frances. Che apre vie nuove che hanno portato a noi. Perché allora non cominciamo anche noi a tracciarne altre? Forse è tutto troppo facile. Ma che dire se si riesce a togliere le barriere, i pensieri, gli attaccamenti a comportamenti troppo ingessati. Per comunicare. Questo, in fondo, è quello che insegna Mary: parlare, chiedere, è sempre meglio che stare zitti. Un NO è sempre meglio di non sapere la risposta. Tanto che spesso, il NO diventa un magico, bellissimo, giurassico SI. Quindi, salvando un po’ di ingenuità, perché non leggerlo ai Tommaso, ai Matteo, e a tutti gli altri?

Finalino

Che dire? Non posso che ripetere il finale di trama. Qualche pillola di avventura e fantasia per tutti i citati, e per quelli in arrivo (vero nipotina?).

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