domenica 9 luglio 2017

Simoni è meglio - 09 luglio 2017

Un quartetto italiano di scrittori generalmente seriali, che popolano la mia libreria, spesso con successo. Invece qui, coloro che dovevano portare tranquillità alla lettura mi hanno decisamente deluso. Mi riferisco soprattutto a Margherita Oggero, che fuori della professoressa Baudino non sempre mi convince. Ma anche a Pandiani, che i primi libri de “Les Italiens” aveva una verve interessante. Rimane Gianni Simoni, che in genere non mi convince, ma che qui si erge sopra il resto delle letture. Con interesse e qualche genialità.
Margherita Oggero “Il rosso attira lo sguardo” Mondadori euro 9,50 (in realtà, scontato a 7,60 euro)
[A: 21/03/2016 – I: 05/02/2017 – T: 07/02/2017] – && --  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 169; anno 2008]
Ho comperato il libro a scatola chiusa, perché l’autrice mi ha sempre fatto avere sensazioni positive nei suoi romanzi. Purtroppo la scatola, una volta aperta, si è rivelata un po’ come i cioccolatini di Forrest Gump: a volte ne capita uno al liquore, quando a te non piace. Ed in effetti, il primo dispiacere è che siano racconti, e come tali devono avere un carattere forte per essere ben digeriti. In genere, tra l’altro, i racconti gialli (o noir) sono tra i più difficili da digerire che ci vuole una particolare abilità per condensare sensazioni ed inchieste varie nello spazio di poche pagine. Il secondo è la mancanza della professoressa Camilla Baudino. Comprendo, nelle interviste nel tempo lasciate dalla Oggero, che il personaggio stava diventando ingombrante, quasi a crearne una identificazione istantanea tra l’autrice, Camilla e l’interprete della serie TV. Tuttavia, anche qui, bisogna sapersi muovere in questo mondo di libri. Camilleri è di certo l’autore di Montalbano, ma scrive anche altro, e vende bene in ogni caso. Comunque torniamo al libro, che scorre velocemente durante il viaggio cambogiano, e forse anche per questo, distratto dalle bellezze esterne, lascia poco spazio a sé, e non mi coinvolge molto. Unico elemento di rilievo, che rimarco per sottolineare che, volendo, autori ed editori riescono a fare uno sforzo per non essere troppo piatti, è il titolo ed il sottotitolo. “Il rosso attira lo sguardo” è un comune denominatore che unisce i quattro testi del libro, uniti appunto dal colore rosso: c’è un top rosso non indossato, gli abiti rossi di una professoressa oversize, un abito rosso da sera lacerato, una buca delle lettere di colore rosso. E sono elementi importanti nello svolgimento delle trame. Poi c’è il sottotitolo, “Quattro stagioni di relazioni pericolose”. Si comincia infatti con l’inverno, dove una rapina in una villa nella notte di capodanno trasforma un incontro galante in un incubo per il giovane rampante (che ci sta cordialmente antipatico) e Roxy, la bella cantante, dagli abiti troppo stretti e dalle calze a rete smagliate. Racconto poi ben costruito perché si alternano le varie voci dei protagonisti nel descrivere lo svolgimento della vicenda, l’accostarsi dei personaggi, l’avvicinarsi ad una possibile tragica conclusione, che, fortunatamente e/o probabilmente non arriva. O arriva in modo trasversale. Si continua con la primavera, intesa sicuramente come stagione iniziale della vita, dato che poi il racconto prosegue per anni ed anni. Dove la giovinezza di un ragazzo viene sconvolta da una storia d’amore con Nadia una ragazza attraente, misteriosa, pericolosa. Che lo usa, che gli fa commettere cose che non avrebbe pensato poter fare. Che scompare, lasciandogli dentro il ricordo ed il rimpianto di un amore che non poteva essere, anche se sarà l’amore di tutta una vita. In estate ci si presenta un difficile rompicapo da decifrare: la morte di una ragazza che ha sedotto diversi uomini nelle vacanze al mare di un microcosmo di famiglie borghesi. L’unico che contiene anche una parvenza di indagine, intorno alla strana morte della bella Biki. Ma le scarpe tacco dodici lasciate all’inizio della scogliera, ed il tormento che sentiamo esserci nella storia stessa della ragazza possono far pensare anche ad una soluzione personale. Quale sarà lo scioglimento del mistero? Questo, come poco altro, ma che sicuramente c’è, lo lascio agli intrepidi estimatori dell’autrice. Come lascio concludere a voi l’autunno della fine della giornata di lavoro di Alessandra, una giovane donna, coinvolta nuovamente in una rapina, il cui tragico epilogo le riporta alla mente il suo turbolento passato. E la porta verso una decisione che deve prendere per sé stessa e per la sua vita. Notiamo che tutti i personaggi principali, anche se non sempre i soli al centro delle storie, sono donne e sono giovani. E come dissi in altre trame ed in altre tempi, solo una donna riesce a rimandarmene sentimenti che sento autentico. Sono poi tutti personaggi solitari, chiusi, che fanno fatica a comunicare emozioni e sentimenti, come molto del mondo attuale, chiuso tra lo smartphone e Facebook. Però non c’è slancio, non c’è partecipazione intensa. Rimane tutto lì, scritto discretamente bene, ma senza che io riesca ad emozionarmi. Peccato che la Baudino mancherà ancora dai nostri scaffali.
“Mi accorgevo che non riuscivo a provare con le altre le stesse emozioni che avevo provato con lei.” (89)
Enrico Pandiani “Lezioni di tenebra” Instar euro 11
[A: 18/02/2015 – I: 26/02/2017 – T: 28/02/2017] - && e ½   
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 411; anno 2011]
Eccoci allora al terzo episodio della serie “super hard-boiled” di Enrico Pandiani. Libri che hanno una ventina di morti violente per ogni romanzo, nel solco di quella tradizione francese che faceva capo a quel maestro che ne fu Jean-Pierre Manchette. Certo, con un occhio anche oltre oceano a Spillane ed epigoni suoi. Comunque siamo ancora qui, a seguire la brigata della polizia criminale chiamata “Les Italiens” (come dal titolo del primo libro), guidata dal commissario Jean-Pierre Mordenti, e composta tutta da personale di ascendenza italiana o corsa: Servandoni, Cofferati e Coccioni, e tutti con l’accento sull’ultima “i”. tuttavia, dopo la prima uscita, e la seconda buona riuscita con “Troppo piombo”, qui si comincia un po’ ad essere ripetitivi. Non tanto nello schema particolare, di cui parleremo più avanti. Quanto nell’iterazione di morti, indagini, vendette, morti, ed ancora morti. Altro elemento che poco mi ha convinto è l’uso della lingua. Ora, se un romanzo ambientato a Parigi è giustamente, visto che l’autore è italiano, scritto nella madre lingua, si ha dell’ovvia difficoltà quando l’azione si sposta a Torino (pur ben caratterizzata e non a caso città madre dell’autore), dove si incontrano i francesi che parlano italiano con gli italiani che parlano italiano davanti ad alcuni francesi che non lo capiscono. Il tutto crea un senso di straniamento poco consono alla trama. Forse, avrei evitato in questa parte i dialoghi, così da non cadere in bisticci linguistici. Tra l’altro, Mordenti sembra avere un dono per le donne fatali, o comunque una vocazione a rimanere ben presto solo. Qui, purtroppo, il primo morto è proprio la compagna di Mordenti, la bella Martine, uccisa davanti a lui da una misteriosa donna dai capelli rossi (parrucca?) e dal volto coperto. Che uccide le vittime dopo averle legate con la tecnica erotica giapponese, lo shibari, di cui vi ho ampiamento parlato tramando il libro di Aldo Budriesi “Identità violate”. Il colpo basso rischia di falsare l’obiettività indagativa che deve avere un commissario, tanto che il suo capo gli affianca, per aiutarlo ma anche per frenarne le pulsioni omicide, il tenente Maëlis Deslandes, affascinante poliziotta, discretamente belloccia, tanto da attenuare (anche se non cancellare) l’ossessione del nostro relativamente alla morte di Martine. Mordenti, Maëlis e gli “italiani” cominciano allora un’indagine che porta ben presto nel mondo dell’arte e dei falsari. Che Martine lavorava per uno studio fotografico di fama, specializzato in foto soprattutto di opere d’arte destinate a cataloghi importanti. Il nostro non sa che Martine era stata messa lì dal capo della sezione “furti d’arte”, e che lì aveva cominciato ad avere sentore appunto sia di furti, sia di falsi ben realizzati, sia di future grandi opere. Non vi sto a narrare la lunga scia di morti che le indagini ci fanno scoprire pagina dopo pagina. Altri fotografi dello studio, che avevano per denaro tradito Martine, un titolare dello studio, il falsario da anni scomparso ma che continuava a produrre opere di difficile riconoscimento. E via morendo, con altre uccisioni laterali, e meno importanti. Le indagini incrociate tra Mordenti e le altre forze di polizia portano i nostri a Torino dove si deve fare un servizio su di un quadro del Mantegna. Che è un obiettivo primario dei ladri d’arte, dove si utilizza un meccanismo ruotante per sostituire al volo il quadro con la copia fatta dal falsario Calogero. Anche se poi, indagando sul marchese Raschera-Bettelmatt e sulla sua segretaria ungherese Szathmary, Mordenti ed i suoi capiranno che il vero obiettivo è un oggetto unico custodito in quel di Torino: la sacra Sindone. La parte finale è un po’ folleggiante intorno al conte che sta fuori di testa credendosi un discendente semi-divino, sua moglie, la bella Carmilla, disponibile e forse non coinvolta, e la fondazione tutta. C’è anche tempo per un interludio di sesso tra il nostro commissario e Maëlis, anche se, come ci si aspetta, la bella poliziotta, pur trovando simpatico Jean-Pierre, è innamorata e ricambiata da un ispettore italiano, il commissario Cat Berro. Che aiuta i franco-italiani nelle indagini, svolgendo anche parti importanti nel finale convulso. Dove muoiono in molti, tra cui la famosa rossa erotico-giapponese che non vi dico chi sia a che ho nominato nel corso della trama. Insomma tutto si risolve, Maëlis si apparta con il suo amore, e Mordenti troverà modo di avere una piccola consolazione con… E che mo’ vi svelo tutto? Pandiani abbonda, e con gusto mio, di ironia, di citazioni (anche musicali), di parole gergali (madama, berta, cannone, bambola, e via citando). Ha anche un gusto onomatopeico per i nomi che ci suonano come ben presto provenienti da intrighi internazionali (il falsario Calogero Vastedda, il marchese Raschera-Bettelmatt e sua moglie Carmilla, l’ispettore Cat Berro, la segretaria dottoressa Szathmary). Manca un po’ della suspense cui ci aveva abituati, e Mordenti, morta Martine, ha per molto tempo un’aria afflitta e distruttiva. Questo fa scendere un po’ il giudizio, anche se la lettura procedeva con piacere.
“Un uomo ha l’età della donna che si trova accanto.” (308)
Gianni Simoni “Lo specchio del barbiere” TEA euro 9 (in realtà, scontato a 7,65 euro)
[A: 12/06/2015– I: 26/03/2017 – T: 28/03/2017] - &&& -
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 320; anno 2010]
Torno dopo due anni alle storie descritte nel sottotitolo come “Un caso di Petri e Miceli”. Notando che, invece, nella scrittura Simoni lascia passare tre anni tra il deludente “Ucciderò Labruna” e questo nuovo caso. Ha scritto altro, e questo ha affinato la scrittura stessa, rendendola più adeguata alla trama, anche se, e credo sia una sua caratteristica, l’autore non riesce a fare a meno, ad un certo punto, di partire per la tangente e divagare da qualche parte. Come in questo caso, quando per una cinquantina di pagine seguiamo le peripezie mediche dell’ex-giudice, riuscendo solo a stabilire che sarebbe meglio smettesse di fumare (ma si poteva fare anche più velocemente). Certo, il lungo giro permette di inserire una terza storia, alle due che fanno da binario alle indagini della nostra onesta squadra poliziesca bresciana. E sottolineo il dato cittadino, che le indagini, i modi, e le andature dei personaggi, riescono mirabilmente a riproporci l’atmosfera della “Leonessa d’Italia” di carducciana memoria. Questo per dire, prima di tornare alla trama, che il libro, pur con degli alti e bassi certificati da quel meno in pagella, è gradevole. Da buon ex-magistrato capace di mettere in ordine ai suoi processi (ed anche da buon conoscitore dei libri seriali), Simoni ci fa immergere immediatamente nell’atmosfera della sua squadra, che è lei che tira le fila delle indagini, con Petri come punto di riferimento. Tanto che direi questo essere un libro dedicato principalmente a lui. La squadra, probabilmente per via delle ferie, è ridotta all’osso: Grosso e Tordelli (il duo “comico” ma che sta sempre più connotandosi come coppia investigativa puntigliosa anche se non celere) che indagano su di un neonato abbandonato, morto, in un cassonetto, Grazia Bruni, con l’aiuto del sempre a lei più vicino Maccari, sulle tracce della morte di un presunto rapinatore per mano di un tabaccaio. E Petri su tutti che prima si riposa a Montisola nel Lago d’Iseo, dove trova modo di imbattersi nella strana vicenda della signora Lucia, del suo odioso marito Anselmo e della di lui amante Gertrud. Con una serie di colpi di teatro che sembrano portare Lucia sull’orlo della depressione psichiatrica. Poi, tornando a Brescia, si scopre che il tabaccaio che ha sparato è quello che gli ha insegnato a fumare la pipa (vista che deve smettere le sigarette; ma non sarebbe meglio non fumare affatto, allora?). Il duo poliziesco aveva comunque individuato una possibile madre del bimbo morto, una cameriera, che Petri e la Bruni vanno a scrutare sul posto di lavoro, facendosene un’idea di persona poco propensa a mali affari. Anche perché, se è vero che era incinta, il bimbo nato è ora in custodia dai nonni in provincia. Tra una divagazione e l’altra, tra una sigaretta, una fumata di pipa ed una passeggiata, incluso il ritorno di Miceli dalle ferie (ma non darà un apporto decisivo alle indagini), è sempre Petri che butta là domande che illuminano la scena. Anche perché, e noi lo sappiamo dalle prime pagine, il tabaccaio è sicuramente autore di un omicidio premeditato nei confronti dell’amante della giovane moglie. Dal patologo inoltre veniamo a sapere che il DNA del bimbo morto corrisponde con quello della cameriera. Dalla motorizzazione veniamo anche a sapere che il numero di targa nel portafoglio del tabaccaio è della macchina del morto (che per l’inciso era anche in combutta con l’Anselmo di cui nell’isola). Ma che il morto aveva venduto ad un conoscente di Petri, quello che lo aveva indirizzato al tabaccaio come ad un esperto fumatore di pipa. Spronato dall’analisi del tentativo di suicidio della signora Lucia, alla fine saranno comunque le intuizioni di Petri ha portare a soluzione i tre misteri. Il tabaccaio voleva uccidere il morto o ha sbagliato bersaglio? I bambini nati erano gemelli, come testimonia il fatto che il padre, sposato, ha già avuto due gemelli della legittima consorte. Ma chi e perché uccide la vicina di casa della cameriera? E la signora Lucia è vittima della cattiveria del perfido Anselmo o ha inscenato tutto per sbarazzarsene? Lascio a voi le conclusioni, sia se le volete indovinare sia se volete leggere un libro leggero ma non inutile. Due soli appunti. Uno leggero: la morte della vicina viene risolta in meno di mezza pagina, senza entrare nel profondo, quasi sorvolando. Uno più di fondo: nell’epilogo la simpatica moglie di Petri paragona tutte queste vicende allo specchio del barbiere (da cui il titolo) dove si vede l’immagine riflessa e bisogna capire realmente quale sia la destra e quale la sinistra. Ma non è così per tutti gli specchi? O quello del barbiere è particolare ed io non ho capito come? Per concludere, un libro come detto sereno, che merita di essere letto in pace, su di una bella poltrona, sentendo della buona musica (magari del mio amico Carlo) e perché no, fumando una sigaretta.
“Mi faccio sempre i miei quattro piani di scale a piedi … E la respirazione come va? … Va come per uno che ha fatto quattro piani di scale a piedi … E non hai mai pensato che senza sigarette di piani potresti fartene anche otto? … Non ho mai avuto intenzione di trasferirmi in un grattacielo.” (45)
“Sarebbe come … concludere un capitolo, e non potrei evitarmi di pensare che, alla mia età, ben che vada, di capitoli ne restano molto pochi.” (47)
Gianni Simoni “La morte al cancello” TEA euro 9 (in realtà, scontato a 6,75 euro)
[A: 27/07/2015– I: 28/03/2017 – T: 30/03/2017] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 371; anno 2011]
Parafrasando il vecchio adagio, direi ad epigrafe della nuova lettura di romanzi di Gianni Simoni: “Scrivendo si impara”. Perché qui, scritto a ruota del precedente, crescendo sui (pochi) sbagli di scrittura, abbiamo un capitolo più interessante della vita bresciana dei nostri giorni. Un capitolo più equilibrato, meno disperso in tanti rivoli, con i personaggi ben centrati, e con finali non scontati. Tra l’altro, appunto sfruttando il reiterato scrivere, seppur cerca di cominciare con più inchieste contemporaneamente, così come è ormai uso dei serial televisivi alla Fox Crime, noi sappiamo che l’inchiesta è una sola. Come anche se non tanto presto lo scopriranno Miceli e compagnia. Ed appunto dalla compagnia cominciamo, che anche qui ci si va consolidando. Intanto, l’ex-giudice Petri, pur illuminando la scena con le sue idee che consentono di arrivare al centro della soluzione, ha un ruolo meno ingombrante rispetto al libro precedente. Qualche passo avanti fa il commissario Miceli, si posiziona ben sui ragionamenti collettivi la simpatica Grazia Bruni, tallonata in ufficio ed altrove dal “suo” Maccari. Scendono qualche gradino i Gianni e Pinotto del comando, anche perché l’ispettore Grasso è assente per lungo tempo a seguito di un’influenza. Cresce invece Esposito, che si rivela una fonte di buoni propositi e belle riuscite (sa usare il computer, sa stenografare, e chi più ne ha più ne metta). La vicenda, che ripeto è bresciana fino al midollo, come evidenziavo nella trama precedente, è poi presentata su due versanti, in modo che il lettore possa seguire l’accadimento, magari sapendo qualche cosa in più della polizia. Ma non tutto. Così vediamo presto e senza fallo chi sia l’assassino e come venga commesso il delitto di cui al cancello del titolo. Ma saperlo non ci fa risolvere il mistero, che vediamo anche ci sia qualcuno che muove i fili nell’ombra. La morta è una donna facoltosa sposata ad un medico di fama. Vediamo qualcuno ingaggiare due dropout, Gaspare e Giovita, nella zona malfamata della città (dove c’è una simpatica trattoria che si chiama “Il Gatto in affitto” ed un curioso caffè, il “Caffè del Porto”, gestito da un nostalgico della Francia, che non fa pagare chi ordina un Pernod) per effettuare il colpo. I due però non se la sentono, e subappaltano il lavoro ad un vero duro, il Nero (e certo un nome simile a Brescia, fa subito pensare ad altro, ma stiamo divagando). Il Nero fa il lavoro, ed una parte della squadra di Miceli comincia ad indagare. Ma quando Gaspare e Giovita vanno a riscuotere, l’ingaggiatore non paga e li uccide. Qui parte il secondo filone di indagine. L’indagine sui due è più veloce, che scopriamo presto che i due erano stati notati in quanto più in soldi del normale, traccia che permette di risalire al caffè, e da lì all’ingaggiatore. D’altra parte, si riesce anche a risalire a Camillino, un ex-ladro di auto, rimessosi sulla buona strada, che aveva collegato Gaspare al Nero. Così si capisce che questa pista è ben stretta sull’altra, che più complicata invero lo è. Il medico di fama, dottor Anselmi, è davvero in vista in città, tanto che il Procuratore Martinelli cerca di proteggerlo. Tuttavia il lavoro incrociato di Miceli e Petri non glielo consentirà. Scopriamo così che Anselmi ha per amante la bella Luisella, da circa tre anni trattata con tutti gli onori dal medico (tutte le spese pagate, una casa intestata, insomma, la bella vita, seppur nell’ombra). Scopriamo che Antonella, la morta, aveva una relazione con un fantomatico ingegnere, che però si rivela soltanto un avido Don Giovanni, che, una volta avuti i soldi per un suo progetto di casa, stava mollando la signora. Signora che era stata presa di mira anche da Dominici, il titolare di un’azienda vinicola, amico di famiglia. Ma la mira era sbagliata, che Antonella l’aveva subito mandato a quel paese, anche se l’enologo non mollava, non per affetto, ma per urgente bisogno di soldi. Cosa di cui si era accorta Clara (dei soldi, ovvio) per investimenti vitivinicoli sballati, e per la presenza di Salvi, un factotum che un po’ puzza. Comunque, Antonella, la morta, era quella che, tra tutti, aveva i soldi, e circuita dall’ingegnere, aveva detto ad Anselmi di volere il divorzio. Quindi, quasi tutti avevano interesse alla sua morte: Anselmi che avrebbe ereditato i soldi della morta, Luisella, che avrebbe potuto uscire dall’ombra, Dominici che poteva vantare dei ritorni economici tramite strani e contorti giri gestiti da Salvi. Una volta esaurita la pista del Nero (con l’arresto del pericoloso pluriomicida), Petri riesce a collegare il filone “omicidi su commissione” all’azienda vincola scoprendo che la macchina usata per ingaggiare Gaspare e Giovita era proprio dell’azienda. Ma sarà solo quando Petri avrà un ultimo colpo di genio che tutti i tasselli torneranno al loro posto, scoprendo una realtà finale meschina ma ipotizzabile e ricostruibile con il ragionamento anche da noi poveri ed inermi spettatori. Un solo appunto: capisco che per rendere l’emarginazione di Gaspare e Giovita sia corretto utilizzare il dialetto (due ubriaconi che parlano la lingua di Dante sono un po’ stonati), ma il bresciano è talmente ostico che, confesso, non ho capito un quarto di cosa si dicono i due, come potete vedere dall’esempio che riporto. Delle note a piè pagina erano troppo difficili? Sul versante curiosità in positivo, invece, mettere proprio Giovita, che non è una qualsiasi storpiatura di nomi classici, ma proprio uno dei nomi più usati nel bresciano, dove per l’appunto la città ha per patroni i Santi Faustino e Giovita, due nobili bresciani del II secolo, martirizzati dall’imperatore Adriano il 15 febbraio 134. Mentre Giovita rimane comunque un santo locale, Faustino fa carriera, e venendo ricordato il giorno dopo San Valentino, diventa il santo di riferimento dei single. Stiamo un po’ divagando, ma per tornare al libro, la trama come detto è solida, e tutti i nodi vengono ben illustrati nel loro scioglimento, in una piccola cascata di finale e sottofinale. Trovo insomma una serie in crescita, aspettando prove successive.
“Èco šà che ghé söm … Tè i solc’ tè i-ét finìc’ o no?” [cioè?] (32)
Seconda trama lugliesca, e quindi vi prendete tra capo e collo (anzi tra bocca e fronte) questa cura per la … miopia.
Confermo la prossima partenza per un posto dove fa più caldo che in questa Roma estiva e desertata. Salteremo così una settimana di notizie dal caldo dei contorni vaticani. Non salterò, almeno nella memoria, compleanni e prese della Bastiglia.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

LUGLIO 2017
Non è sempre facile portare gli occhiali, tuttavia a volte, cambiare lo sguardo rende la vita migliore, o almeno così diceva Proust.

MIOPIA

Michel Tournier                 “Il re degli ontani”
Anna Maria Ortese             “Il mare non bagna Napoli”
Joào Guimaràes Rosa         “Miguilim”
La miopia è un guasto di focalizzazione, una perdita di lucidità. Era già piuttosto diffusa al tempo degli dei e dei miti. I ciclopi, si sa, ci vedevano male, sin dall’inizio. Polifemo aveva un occhio solo, e perderà anche quello. Ma ci sono storie più recenti. Abel Tiffauges è un orco contemporaneo «affamato di tenerezza, miope e visionario» che abita le pagine di un romanzo di Michel Tournier. Nel suo corpo c’è un primato del rovescio sul diritto della medaglia. Ha un nome biblico e oltre che miope è mancino. Vive nell’antro sporco di grasso di un garage. Eppure il suo sguardo insufficiente è capace di riconoscere il demone del suo tempo: la purezza. Nella primavera del 1938, scrive nel suo diario con la mano sinistra: «la purezza è l’inversione maligna dell’innocenza». Sa bene che in nome di questa ossessione, di razza, religiosa, linguistica, politica, sono stati e saranno perpetrati i peggiori crimini della storia. Tenete a mente la storia dell’orco Abel. La questione è tutta nel gioco tra vicino e distante. Così, se qualcuno vi prende in giro perché avvicinate troppo le cose agli occhi, mostrerete con facilità a tutti quanto un miope può vedere lontano.
In fondo, la miopia può anche essere un antidoto efficace alle brutture e al dolore di stare nel mondo. Curiosamente, in due parti opposte del pianeta, ma affratellate dallo stesso spettacolo e sentimento di un Sud misero e irredimibile, nascono all’inizio degli anni Cinquanta del Novecento due personaggi analoghi: Eugenia, la bambina di un racconto di Anna Maria Ortese, e il piccolo Miguilim dell’omonimo romanzo breve di Joào Guimaràes Rosa. I luoghi sono un basso di Napoli e la desolazione del Nordeste brasiliano. I due bambini sono miopi e poveri. Un velo di afflizione e di ignoranza gli copre gli occhi, ma li protegge anche: la vita è uno spaesamento, ma sopportabile. Fino al giorno in cui il dottor Lourenço nell’entroterra del Brasile e la zia di Eugenia a Napoli non gli poseranno sul naso un paio di occhiali e tutto di colpo, per loro, smetterà d’essere opaco e spugnoso. L’intollerabile percezione della realtà li colmerà di nausea. Improvvisamente, per Eugenia «i balconi cominciarono a diventare tanti, duemila, centomila; i carretti con la verdura le precipitavano addosso; le voci che riempivano l’aria, i richiami, le frustate, le colpivano la testa come se fosse malata; si volse barcollando verso il cortile, e quella terribile impressione aumentò». Quello di Miguilim sarà invece un ultimo sguardo di commiato, prima di partire. Le correzioni, come ci ha insegnato Jonathan Franzen, sono dolorose. Quindi, il nostro consiglio è di abituarvi ai vostri piccoli difetti. Anche togliersi gli occhiali, di tanto in tanto, può far bene.

Bugiardino

Lessi qualcosa di Tournier, ma l’ho sempre trovato ostico e sono che l’ho abbandonato. Così come ho fatto per il brasiliano, con una scrittura troppo fantastica per le mie povere capacità di comprensione. Rimane Anna Maria Ortese, che conoscevo di nome. E che invece consiglio a gran voce.
Anna Maria Ortese “Il mare non bagna Napoli” Adelphi euro 10 (in realtà, scontato a 7,50 euro)
[trama pubblicata il 21 settembre 2014]
Anna Maria Ortese è una scrittrice il cui nome riecheggiava in qualche fondo di memoria. Ne sapevo l’esistenza, mi giungevano echi di possibili scritture, e mi rimaneva in testa questo titolo, come se sapessi che prima o poi ne avrei letto. E prima della lettura, c’erano anche i rumori di lotte, discussioni, forti dissensi, infiniti ed insormontabili litigi. Mi sembrava ricordare qualcuno che parlava male della scrittrice, che bollava astioso ed irreale questo suo scritto. Non avevo mai avuto voglia di sbrogliare questa matassa. Ma, come dico anche altrove, la forza della maturità mi spinge a prendere in mano testi che forse non pensavo di leggere. Maturità e curiosità direi. E bene ho fatto. Che questo libro, pur coevo, e quindi con del testo che va misurato all’età, rimane bello, appassionato. Una serie di scritti, tre racconti e due testimonianze, che, nelle loro diversità, ci fanno scendere nei gironi danteschi dell’universo napoletano del dopoguerra. Sia una discesa fisica, come nei crudeli racconti e nella testimonianza, sia una discesa della testa e dell’intelligenza in quell’ultima, lunga e bellissima narrazione dell’universo intellettuale partenopeo di quegli anni. E separiamo allora, anche nella narrazione, questi due momenti. Nei racconti e nella prima testimonianza, Ortese ci cala nella Napoli del dopoguerra, nella vita quotidiana, nell’estrema povertà. La si accusa di “godere” della descrizione del dolere di vivere. Ma a me restituisce il senso di una certa vita. Della piccola Eugenia e del dramma di essere povera e quasi cieca. Dello scorrere quasi inutile della vita della quasi zitella Anastasia. Della vita quotidiana e delle sue piccole furberie tra San Biagio dei Librai ed il Monte di Pietà (ed ancor oggi, passeggiando per Spaccanapoli se ne avverte il sapore, quasi immutato dopo sessanta anni). Di quel monumento descrittivo della miseria e del degrado che furono i Granili, e la massa di senza tetto che per decenni vi si era ammassata (Granili poi finalmente demoliti proprio nel ’53). Le immagini della Ortese, nella loro crudezza, non sono crudeli. Forse irreali, laddove l’irrealtà a volte descrive meglio la realtà di una foto sbiadita. Ne leggo, e torno a Napoli ed a pensarla nella vita minuta. Nei gesti dei napoletani che ho conosciuto dopo, ma che ritornano, come delle maschere immote nel tempo. E poi c’è la lunga, sofferta testimonianza della vita dei sodali della scrittrice nei primi anni del dopoguerra. In quell’insieme di intellettuali, scrittori, giornalisti ed altro che cercarono, ognuno con le proprie forze ed idee, di dare svolta ad una città che si andava incartando su sé stessa. Ne uscirono sconfitti, e la nostra scrittrice, andando a ritrovarli dopo, nell’epoca della sconfitta avvenuta, ce li rende con il suo pathos di un essere altrettanto sconfitto, ma che vuole salvarne il senso dall’oblio. Il ritratto viene fuori impietoso, e posso capire che chi ne lesse si sentisse colpito dall’essere messo davanti alla propria sconfitta. Ed a quella di una generazione. Ma non capisco, non accetto, l’ostracismo che verso l’Ortese ne seguì. Il fatto che proprio in seguito a questo scritto, nessuno dei suoi ex-amici la volle più in città. E lei ne fuggì, con la Napoli nel cuore, errando per luoghi italici, fino al buon ritiro e morte in una Rapallo di fine secolo. Io invece li vedo, Luigi Compagnone zoppicante con il suo bastone, il suo salotto, con Pratolini, con il giovane Domenico Rea. La casa dell’allora azzimato La Capria (che rimarrà nella mia testa quando lo incontrai con la moglie Ilaria Occhini alla GS del Pantheon). E, ultimo e molto importante, Prunas, il motore della rivista “SUD”, che tanto sembrava poter smuovere, e che purtroppo non smosse. Lo vedo allontanarsi, dopo un caffè al Gambrinus, verso Monte di Dio, che mi riporta al migliore De Luca di tanti decenni dopo. Tutto quel dolore non è inutile mostra delle ferite di una sconfitta, né astio per chi ti allontana. È comprensione per quello che poteva succedere. Ed è anche speranza. Quella che in molti non ebbero. Quella che mi ritornava in mente leggendo il libro e pensando alla di non molto successiva morte di Renato Caccioppoli (ed alla bellissima interpretazione che ne diede Carlo Cecchi in “Morte di un matematico napoletano”).  Ma torniamo al libro, alla Ortese, ed a quel mare che non bagna Napoli. Un libro che va letto. Nonostante.

Conclusioni

Penso che la miopia della Ortese sia da prendere ad esempio. Prima di degenerare nella cecità di Saramago. Sul resto, come dicono i migliori di me, non sapendo, non mi pronuncio.

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