O meglio i classici del giallo?
Incominciamo una piccola rassegna di libri “di genere”, come dicono i grandi
commentatori. In particolare, una collana dedicata ad una serie di libri, in
genere, salvo qualche eccezione che segnalerò, pubblicati tra le due guerre.
Nei paesi di lingua inglese. Essendo un discreto numero, invece dei soliti
quattro, ve ne dedicherò 5 per volta. Incominciamo poi con alcune letture alte
e basse. Tre inglesi e due americane, di cui una, quella di Mary Rinehart,
interessante come dirò più avanti. Anche se, generalmente, non abbiamo delle
punte assolute.
Herbert Adams “La stessa sera alla stessa ora” Corriere della Sera
Gialli Anglosassoni 8 euro 6,90
[A: 14/03/2016– I: 13/01/2017
– T: 14/01/2017] - &&& ---
[tit. or.: The Chief Witness; ling. or.: inglese; pagine: 250; anno 1939]
Salutiamo
con questa entrata, l’inizio di un nuovo filone di letture gialle, che ci
accompagnerà per una trentina di volumi. Sono scritture che risalgono ai primi
trenta/quaranta anni del secolo scorso, di scrittori e scrittrici di lingua
inglese, e per la maggior parte poco noti o dimenticati. Visto che io leggo
casualmente, non ho iniziato dal numero 1, che, per attirare lettori, era
dedicato all’unico autore a tutt’oggi sempre noto e citato. Quel S. S. Van
Dine, che ricordiamo sempre per aver dettato le venti regole da seguire per
costruire un giallo ben fatto. Poi la collana parte proponendoci (e
proponendomi) nomi di difficile rintracciabilità. Io, allora, comincio a
parlarne partendo da questo “carneade” Herbert Adams. Tra l’altro, uno dei
meriti indubitati della collana è quello di proporre, in fin di volume, una
piccola sintesi biografica degli autori presentati. Scopriamo così che il
nostro Herbert è londinese, nato nel 1874 (e morto a 84 anni), che benché
volesse da sempre scrivere, solo a 50 anni riesce ad imporsi con un primo
racconto giallo. Scriverà poi una cinquantina di romanzi, inseriti in quello
che viene definito in termini inglesi “cosy (or cozy) mysteries”, dove la
violenza non è mai eccessiva, e spesso l’investigatore non è un detective di
professione. Più della metà di questi libri hanno per protagonista Roger
Bennion, benestante e golfista di classe. Come questo romanzo, che è l’ottavo
della serie. E che viene presentato con il solito titolo “anodino”, passando da
“Il testimone principale” a questo riferimento della stessa sera alla stessa
ora. Che ci pone subito nel pieno del problema: due fratelli muoiono (suicidio
o omicidio) lo stesso giorno alla stessa ora. Mentre iniziano le indagini
ufficiali, prende subito il centro della scena il nostro Roger, anche se qui
non sfrutterà mai le sue doti golfistiche. Si cercano coincidenze plausibili,
dovute al fatto che accanto ai due morti ci sono orologi che segnano la stessa
ora. Ma Roger capisce subito che ci sono elementi non compatibili con due
suicidi. Soprattutto uno. E se uno non è suicidio, sembra una coincidenza
inverosimile che lo sia il secondo. Il primo, Alexander Curtis, è avvocato, con
uno studio in comproprietà con l’avvocato Manson, la cui figlia Margot è
fidanzata con Wilfrid, nipote per parte di moglie di Frederick Curtis, il
secondo fratello. Questo, vedovo, ha una ditta di contabilità guidata
operativamente da Foyle. Alexander vive anche more uxorio da dieci anni con
Helen, con la quale ha un rapporto tempestoso. Vivono da sposi non potendo
Helen divorziare fino a poco prima ma ora che possono sposarsi Alex si tira
indietro avendo una storia con la pittrice Dreda. Helen sembra molto indiziata,
anche perché mente sul suo alibi, pur essendo, nelle ore del crimine, ad uno
spettacolo teatrale patrocinato da Manson. Ma le indagini su Alex si arenano,
perché prende il sopravvento la causa del fratello, visitato nottetempo e senza
motivi apparenti da Wilfrid. Che per una serie di indizi convergenti viene
accusato dell’omicidio. Motivi validi e causa intricata. Nelle pieghe dei
movimenti polizieschi, è tuttavia sempre Roger che trova fili nuovi. Trova la
scatola di cioccolatini che Wilfrid sostiene di aver preso da Frederick. Smonta
un testimone d’accusa. Toglie mattone dopo mattone la consistenza all’alibi di
Helen. Tuttavia arriva ad un punto morto. Sembra poter dimostrare chi non ha
commesso i delitti, senza arrivare a chi invece li ha perpetrati. Soprattutto,
sembra non trovare motivazioni per gli stessi. Fino a che non capisce che Alex
gestisce una serie di fondi fiduciari, che Frederick ne cura la contabilità,
che Manson vive al di sopra dei suoi mezzi, che Foyle si comporta in modo
decisamente ambiguo. Sarà un trust di sforzi che vede impegnato Roger in prima
persona, anche a rischio personale, con il supporto di Margot ed in particolare
di Dreda (personaggio veramente simpatico), a sbrogliare la matassa. Ed
applicando fino in fondo il dettame di Van Dine, a spiegarci nelle pieghe finali
del libro, le modalità, i retroscena e le conseguenze dei due omicidi. Tipico è
fin dall’inizio il modo di presentare tutta la storia: a parte il tono (appunto
cozy come si diceva) c’è una specie di introduzione dove alcuni personaggi
parlano convivialmente per introdurre un tema, presente come leit motiv del
libro. In questo caso “le coincidenze” (e si è capito perché). In maniera
simmetrica, le ultime pagine sono dedicate a riprendere quegli stessi
personaggi che commentano l’aderenza del testo all’assunto, ed eventualmente
spiegano le cose che fossero rimaste incomprese nel testo. Alfine, si sente che
è un testo datato, ma l’intreccio è solido ed anche a volte ingegnoso. Forse
solo Roger e Dreda sono pienamente riusciti come personaggi, ma un buon inizio
di lettura.
Joseph Smith Fletcher “Il mistero di Charing Cross” Corriere della Sera
Gialli 26 euro 6,90
[A: 02/08/2016– I: 06/04/2017
– T: 08/04/2017] - && e ½
[tit. or.: The Charing Cross Mystery; ling. or.: inglese; pagine: 308; anno 1923]
Secondo
libro della serie dei “Gialli Anglosassoni” della cosiddetta età dell’oro. Una
serie interessante, anche se, per ora, gli autori letti sono alquanto datati.
Come questo Joseph Smith Fletcher autore inglese assurto ad una discreta
notorietà poco dopo la Prima Guerra Mondiale. Soprattutto perché lanciato in
America da un lettore d’eccezione, l’allora presidente americano Woodrow
Wilson. Poiché gli autori della collana sono abbastanza poco noti al grande
pubblico, dedico anche due righe alla loro presentazione. In questo caso,
Fletcher è un autore inglese (nato nel 1863 ad Halifax), che inizia la carriera
come giornalista, ottiene una prima agiatezza sposando la scrittrice irlandese Rosamond
Langbridge (figlia di scrittori e con una piccola rendita). Da cui avrà un
figlio, Valentine, che diventerà reverendo cattolico protestante. Dopo una
serie di poco brillanti libri storici, dal 1914 trova la sua vena nel romanzo
poliziesco, di cui nel corso dei successivi 20 anni produrrà un centinaio di
titoli. Il libro amato da Wilson fu “Delitto a Middle Temple”, del 1919, in cui
rappresenta, oltre all’intrigo, l’influenza della carta stampata sulle
indagini. Qui viene riproposto un titolo successivo, che, come detto, è datato
in particolare perché, anche sviluppando decentemente li filone principale,
perde pezzi lungo la strada. Risultando, alla fine, una lettura
intellettualmente storica, ma poco riproponibile per i gusti attuali. Peccato
che l’inizio è invece di buona levatura. Un giovane avvocato, Hetherwick,
prende la metropolitana a tarda ora, e si trova in un vagone con due signori.
Li osserva curioso, ne annota fattezze e discussioni. Poi, alla fermata di
Charing Cross, uno dei due si sente male ed improvvisamente muore. Mentre
l’altro, fugge indisturbato. Hetherwick, come testimone e per curiosità sua, si
mette a disposizione della polizia, trovando una spalla nell’ispettore
Matherfield. Qui cominciano le indagini. Trovano l’albergo del morto, dove risiede
sua nipote Rhona. E già ci immaginiamo, a pagina 20, che Rhona e l’avvocato
convergeranno in qualche punto del romanzo (anche se solo dopo quasi 300
pagine). Il morto pare sia un inventore (di cosa non si sa) ed anche
ex-ispettore provinciale di polizia. Tra le sue carte, poi, i nostri trovano le
tracce di una truffa perpetrata dieci anni prima da una signora di
bell’aspetto, che trafuga con destrezza una collana di svariate migliaia di
sterline. Tracce che si concretizzano in una foto, che ritrae senza ombra di
dubbio l’attuale Lady Riversreade. Sembra tutto acclarabile: la signora, una
volta truffaldina, sposa un ricco ed anziano lord, trova una stabilità e cerca
di far dimenticare il passato. Non potendolo, perché il morto ne scopre le
carte, tramite qualche complice, lo uccide. Ma questo facile impianto trova ben
presto delle zeppe: l’amico del morto, quello fuggito, viene trovato morto a
sua volta. Anche lui con potenti tracce di veleno. L’avvocato convince Rhona ad
impiegarsi presso la Lady come segretaria per spiarne le mosse. E Rhona gli fa
capire che la signora non può di certo essere chi sembra. D’altra parte, che
cosa c’entra (se c’entra) l’invenzione che il morto dice di aver fatto? E chi è
che incontra nei tre giorni che trascorre a Londra prima di essere ucciso? Dopo
una prima metà decente, almeno per l’accumulo di interrogativi, Hetherwick
mette in campo anche il suo segretario Mapperley, simpatico e ben introdotto in
molti ambienti. Da qui, le cose precipitano. Mapperley scopre la frequentazione
di tutte le parti in causa presso un locale notturno, gestito dal losco
Baseverie. Mapperley scopre anche l’identità di un misterioso contatto del
morto, l’elegante ma altrettanto infido Ambrose. Il tutto comincia a bollire
nel calderone di accumulo di indizi ed altri rivoli poco allettanti quando:
scopriamo che la Lady ha una sorella gemella, che è in realtà la finta
truffaldina (finta in quanto mediatrice di gioielli ed ingannata da una rimessa
in denaro che non arrivò in tempo), detta sorella è promessa a sua volta ad un
Lord molto danaroso, l’invenzione del morto, poi, è un inchiostro nero molto
fluido. Mapperley, senza tanti giri di parole, svela all’avvocato come possono
essere andati i fatti, togliendo tutte il velo di mistero della storia, e facendola
girare in una sordida vicenda poliziesca. Il morto contatta Baseverie e
Ambrose, presentatesi come esperti tipografi, per vendere la sua invenzione. E
nei convivi serali svela il mistero delle gemelle. I due lo avvelenano con un
veleno a lento rilascio, che fa poco il suo effetto facendolo morire anzitempo.
Parallelamente, decidono di appropriarsi dei gioielli di cui tratta la signora
promessa sposa, e per farlo la rapiscono, insieme a Rhona. Qui scatta la furia
dell’avvocato, che, aiutato da polizia e Mapperley, scopre i vari passi, trova
la prigione, trova Ambrose avvelenato a sua volta, convince Matherfield a
seguire le tracce di Baseverie fino a farlo arrestare, non senza prima aver
liberato la sua bella. Ma tutta questa seconda parte è molto arrugginita, non dà
quelle piacevole sensazioni della prima parte, dove nasceva il mistero. L’uso
di gemelle dal comportamento divergente è alquanto banale. L’inchiostro nero
non sembra poter essere quel potente strumento come viene descritto.
Hetherwick, che all’inizio sembra ragionare molto, poi si perde (quando entra
in campo l’amore) e senza il segretario non caverebbe un ragno dal buco.
Insomma, una buona idea iniziale, che non si è saputo sviluppare, e si è
risolta facendo scendere e di molto il livello del romanzo. Non sarebbe male
allora l’idea di trovare una buona penna che sapesse riscriverlo seguendo le
mode del XXI secolo, magari cercando di non dimenticarsi pezzi e soluzioni
lungo la strada.
Nicholas Brady “La casa degli strani ospiti” Corriere della Sera Gialli
9 euro 6,90
[A: 21/03/2016– I: 18/06/2017
– T: 21/06/2017] - &&& -
[tit. or.: The House of Strange Guests; ling. or.: inglese; pagine: 280; anno 1932]
Continuiamo
la da poco intrapresa lettura di questi gialli anglosassoni, cercando anche di districarci
tra inglesi, americani ed altre nazionalità. L’autore, in questo caso, nasce a
Manchester, con il nome di John Turner. Poco propenso agli studi, si dedica
subito alla scrittura. Sia da giornalista sia da scrittore, di racconti prima,
di romanzi poi. Come tutti coloro che all’epoca tra le due guerre, scrivevano e
molto, decide di utilizzare una serie di pseudonimi. Ognuno legato ad un
personaggio. Così, da Turner scrive delle vicende del reporter Amos Petrie.
Utilizzando lo pseudonimo di David Hume, ci parla dell’investigatore Mike
Cardby. Infine, con questo Nicholas Brady, ci parla invece dell’eccentrico
reverendo Ebenezer Buckle, appassionato orticoltore, cultore di lettere
classiche, nonché fratello di uno dei capi di Scotland Yard. Motivo per cui,
spesso e volentieri decide di dare una mano alla polizia per la risoluzione dio
intrighi misteriosi. Rimarcando di passaggio che in 15 anni di attività
pubblica più di 45 libri, nonché sottolineando la sua morte poco pubblicizzata
per tubercolosi, visto che aveva i polmoni devastati dalla allora poco salubre
aria di Manchester, possiamo anche passare a gustare lo scritto con cui il
reverendo Buckle muove i primi passi nell’ambiente del crimine. Nonostante gli
ottanta anni, infatti, la scrittura è discretamente scorrevole, e la trama, pur
con qualche involuzione, si segue in modo discreto. Tra l’altro (almeno stando
a quanto dicono di lui sul web) l’autore era più propenso alle storie d’azione.
Mentre qui abbiamo un giallo classico, tutto basato su interrogatori e
discussioni. Tutto comincia con la comunicazione alla polizia della morte di
uno strano tipo di londinese, Maurice Mostyn. Morte comunicata dal maggiordomo
Summers. L’ispettore, che sarà il filo conduttore del libro, anche se non il
risolutore, come vedremo, si reca sul posto e scopre alcune stranezze. Non
tanto per la stanza da bagno, chiusa e quasi sigillata ove si trova il morto,
quanto nelle strane frequentazioni della casa. Dove, periodicamente, si tengono
riunioni d’aspetto conviviale, ma che scopriamo presto celare altro. L’ispettore
Hallows infatti comincia ad interrogare i cinque ospiti della casa. Scoprendo
prima di tutto che Raymond Simms cela in realtà il reverendo Buckle, nella casa
sotto mentite spoglie per richiesta di un suo parrocchiano vittima di un
raggiro da parte di Mostyn. Questo è in realtà il vero mistero della casa:
Mostyn è a capo, o è coinvolto, in un grande giro di truffe e ricatti, in
special modo verso persone sposate che fanno scappatelle. Anche altri tre
ospiti della casa, in realtà, non sono altro che vittime di questi ricatti: miss
Lois Willing, Ralph May, miss Sonia Wether. Non così Andrew Posten, che, dopo
indagini ed agnizioni da parte di Buckle, si scopre essere un truffatore anche
lui. Anzi un accolito di Mostyn, che aiutava proprio nel raggirare sprovveduti.
Dall’interrogatorio di Posten scopriamo infatti il meccanismo, grande e
perverso, delle truffe: il gruppo di Mostyn (perché scopriamo che forse il
morto è solo un parafulmine) individua possibili ricattandi, passandoli a
diversi truffatori di media tacca. Quando i ricatti si bloccano, per miriadi di
motivi diversi, i truffati vengono invitati a casa Mostyn, che, con le sue arti
oratorie ed altre opzioni di ricatto, rimette tutto sulla retta via del crimine.
I piccoli truffatori lavorano quindi a percentuale. Ed i quattro presenti in
casa (i tre ricattati ed il piccolo truffaldino) per motivi diversi avevano
bisogno di Mostyn: chi perché stufo o impossibilitato a pagare, chi, come
Posten, perché voleva alzare la propria posta. Lo strano è che Mostyn, quando
ascolta i suoi ospiti, non dà mai una risposta immediata. Come se dovesse
pensarci su. O come se dovesse consultarsi con qualcuno. Saranno le arti
indagatorie di Blake, costruite passo passo con i successivi interrogatori e
l’analisi delle varie stanze della casa, che porteranno alla più classica delle
soluzioni. Che non vi dico, ma che potete immaginare, perché il colpevole è
sempre … Perché e come lo lascio alla discreta lettura del libro. Che scorre
appunto con grazia, con una scrittura discretamente sciolta, e con una buona
dosa di affastellamento di indizi, proprio come in un classico degli anni
Trenta. Una lettura piacevole, e stimolante per gli amanti del genere. Forse
anche per chi vuole passare qualche ora estiva a leggere un libro discreto e
ben costruito. Certo, c’è qualche caduta di tono, spesso dovuta agli 80 anni
passati dalla scrittura, con ovvi debiti rispetto alla modernità. Tuttavia,
meno di quanto mi sarei aspettato. Una bella prova, insomma, seppur non
eccelsa.
“Terenzio: quanto spesso le cose che non
osiamo nemmeno sperare accadono per puro caso.” (271)
Mary Roberts Rinehart “L’uomo nella cuccetta n.10” Corriere della Sera
Gialli 3 euro 6,90
[A: 09/02/2016– I: 26/06/2017
– T: 28/06/2017] - &&&
[tit. or.: The Man in Lower Ten; ling. or.: inglese; pagine: 295; anno 1907]
Eccoci
ad un altro caposcuola del genere. Anche se non so come si dica caposcuola al
femminile. Una maestra del genere, e questa volta americana di Pittsburgh e non
inglese. Una scrittrice dell’Ottocento (di nascita) che per una serie di
rovesci familiari (andate a vedere la biografia su Facebook se volete, io certo
non ne ho spazio qui), ed avendo facilità di scrittura, inizia a produrre
racconti, e poi (a puntate, come si usava un tempo) romanzi. Come questo suo
primo che, nonostante i 110 anni, ancora si fa (abbastanza) leggere. Sottolineo
abbastanza, che, ed è ovvio, risente dell’età, del clima di scrittura. Ma anche
di quello che poi sarà la cifra stilistica di Mary. Quella specie di finto
stupore, per cui i protagonisti stanno lì, guardano gli avvenimenti, e ad un
certo punto dicono: “Se lo avessi saputo …”. Tanto che questo modo di scrivere
venne proprio così etichettato (“Had I but Known - HIBK”). Sarà meglio espresso
nel suo secondo libro, intitolato “La scala a chiocciola”, anche se non ha
nulla a che vedere con il film di Siodmak del 1945 (tratto dall’omonimo libro
dell’altra grande scrittrice HIBK, Ethel Lina White). Anche perché qui il
personaggio principale è un uomo, rispetto alle donne che in genere sono il
motore dell’HIBK. Un giovane avvocato, Lawrence, che viene coinvolto in una
serie di avvenimenti, la maggior parte dei quali sembrano fortuiti. Lawrence ha
uno studio con l’amico McKnight, entrambi impegnati in una causa per truffa
intentata dal vecchio Gillmore al noto ma mai condannato truffatore Bronson.
McKnight ha anche l’inizio di una storia con Alison, la nipote di Gillmore.
Tutto nasce quando Lawrence, dopo aver fatto riconoscere delle cambiali
falsificate da Bronson, deve tornare in treno da Pittsburgh a New York. Treno
dove salgono un anziano e scorbutico signore, abbastanza alticcio. Un
misterioso mr. Sullivan con la sorella, che si scopre essere figlia dello
scorbutico. Una donna misteriosa, che ad un certo punto scopriamo essere
Alison. Lawrence ha la cuccetta numero 10, ma quando va a prendere posto per la
notte scopre che è occupata dallo scorbutico, ubriaco e dormiente. Si mette
allora a dormire nella cuccetta numero 9, con a fianco la borsa con i
documenti. Di notte, insonne, va a fumare una sigaretta, quindi torna in
cuccetta. La mattina scopre che sono scomparsi sia i vestiti che la borsa.
Scopre inoltre che sta dormendo nella cuccetta 7, né 9 né 10, quindi. Scoprendo
alfine che l’uomo nella cuccetta 10 è stato ucciso. Per una serie di
circostanze, tutti gli indizi puntano su di lui. Quand’ecco il primo colpo di
scena: un treno sperona il nostro facendo una catastrofe di lamiere e morti.
Per strada, quasi incolumi, si ritrovano Lawrence (con un braccio rotto) e
Alison. Che da questo momento cominciano un sodalizio di prendere e lasciare:
un po’ si avvicinano, sembra che sbocci qualcosa, poi, soprattutto a causa di
Alison, tutto si allontana. Perché il meccanismo complesso che la brava
scrittrice ha messo in piedi si arricchisce, capitolo dopo capitolo, di nuovi
ed inquietanti elementi. Si scopre che il morto è tal Harrington, la cui figlia
sposò il truffaldino mr. Sullivan, che, non avendo soldi né di suo né dalla
famiglia della moglie, fugge in Italia dalla sorella. Dove conosce Alison, e
intortora uno stratagemma complesso per ricavarne denaro. Sposarla, pur in
bigamia, passare qualche anno in Italia, e poi spolparla del denaro dello zio
Gillmore. Nel frattempo, visto che qualche truffa deve fare, diventa il braccio
sporco di Bronson. Che lo manda sul treno per recuperare le famose cambiali.
Quindi, nel momento culmine della vicenda, sul treno abbiamo: il signor
Harrington con la figlia Ida, quella sposata dal truffatore in prime nozze, il
signor Sullivan con la sorella Alice ed Alison, la signora Conway, vecchia
fiamma di Bronson che cerca anche lei le cambiali per costringerlo a sposarla,
nonché l’ignaro Lawrence. Per una serie di disguidi che capirete leggendo,
avvengono morti, cambiamenti di posto, nonché il famoso incidente, dove l’unica
persona che muore è Alice. Sullivan si ritrova inopinatamente le cambiali, che
consegna alla signora Conway, che ha un alterco con Bronson in seguito al
quale… Ida è ricoverata in ospedale, ma ormai è anche ereditiera. E poi… beh,
non vi dico tutto, anche se fortunatamente nei capitoli finali, la scrittrice,
obbedendo alle future “leggi Van Dine”, spiega e ricapitola tutti gli
avvenimenti. Di striscio, noto anche che c’è una specie di investigatore
dilettante, tal Hotchkiss, che aiuta Lawrence in vari frangenti, ma che ha
anche la peculiarità di abbozzare teorie sugli avvenimenti, però sempre
sbagliate. Il romanzo, alla fine, risulta un po’ pesante, che ci si perde a
seguire tutte le persone, a ritrovarle, a capire chi fa cosa e quando. Ma lo
stile HIBK aiuta molto a rendere fresco il narrare di Lawrence. Con una chicca
d’avanguardia: Lawrence capisce che la sua teoria del ladro che lo deruba sul
treno è corretto vedendo al cinema un cinegiornale che mostra le fasi
dell’incidente ferroviario ripreso da un aereo che sorvolava la zona. E dal
filmato si vede appunto che, quando il treno rallenta, un uomo salta giù
dall’ultimo vagone. Un uso veramente all’avanguardia del mezzo cinematografico.
Insomma, d’epoca, ma di una buona epoca.
“L’amore è come il morbillo … più da vecchio
lo prendi, peggio è.” (130)
Darwin & Hildegarde Teilhet “Il dardo piumato” Corriere della Sera
Gialli 14 euro 6,90
[A: 26/04/2016– I: 10/07/2017
– T: 13/07/2017] - & e ½
[tit. or.: The Feather Cloak Murders; ling. or.: inglese; pagine: 281; anno 1936]
Nuova
lettura dei gialli anglosassoni, con un piccolo paragone interno che mi è
subito venuto in testa: la differenza tra gli anglosassoni inglesi e gli
analoghi americani. Con una netta prevalenza, nelle mie simpatie, dei primi sui
secondi. Laddove l’inglese punta molto sul ragionamento, e l’americano
sull’azione. Sarà uno stereotipo, ma risulta (quasi) sempre vero. Anche qui,
dove i coniugi Teilhet cercano, in qualche modo, di coniugare le due anime del
giallo creando un ponte sull’atlantico. Perché, benché originari dell’Illinois,
i due hanno una cultura anche europea, con studi parigini e viaggio di nozze
sul lago di Como. Sarà Darwin (con questo bel nome evoluzionistico,
complementato da un indecifrabile secondo nome che fa “LaOra”, e che non sono
riuscito a decifrare), da giornalista, a capire che scrivere gialli negli anni
Trenta permetteva di tirar fuori un po’ di soldi con non tanta difficoltà. Dopo
alcune prove in solitario, decide di unire le forze con la moglie Hildegarde,
creando uno strano tipo di detective, che affascinerà l’immaginario americano,
lasciando noi di qua dell’Oceano un po’ freddini. Dopo una serie di libri su
questo detective, Darwin riprenderà la scrittura solitaria, con fortune alterne
ma costanti. L’idea avvincente dei due era quella di prendere un tipico
esemplare europeo e farlo piombare di sana pianta nel milieu americano.
Tuttavia, ma questa è una nota personale, non credo che riuscirà mai a scalare
le vette del mio piacere seguire le vicende del protagonista che si chiama “barone
Franz Maximilian Karagoz von Kaz”!!! Tralasciando quindi i dispiaceri
personali, veniamo anche alle scelte editoriali fatte, che questo non è neanche
il primo dei libri con al centro il barone. Così che intuiamo anche altre trame
ed altre connessioni, solo per sentito dire, rimanendo confusi. Come confusa è
buona parte della prima metà del libro. Saranno gli ottanta anni che sono
passati, ma noi siamo ormai abituati a tutt’altro modo di porgere i personaggi.
Mentre qui, devo dire, anche io ho fatto fatica a capire chi sia Bolton, chi
sia Sargent e chi sia Preacher. Intanto vi dico, visto che nel libro è omesso,
che il barone Franz era un poliziotto viennese (forse addirittura capo della
polizia locale), fuggito dal Vecchio Continente per sottrarsi a qualche bega,
personal e politica. Di cui intuiamo bene solo la seconda, visto che siamo nel
’36, e che Hitler sta facendo passi da gigante sulla scena politica
internazionale. Quella personale, purtroppo, veniva narrata nel primo volume
della serie, e non sono riuscito a ritrovarla. Il barone, tuttavia, fuggito, ha
molte frecce al suo arco: capacità deduttive, possibilità di frequentazioni
alte, ed altre “nobili” motivazioni per diventare un buon investigatore
americano. Che inizia il libro facendo da guardia del corpo ad un giapponese
minacciato di morte. Sulla nave che dal Giappone li porta alla Hawaii, ci sono
i tre di cui sopra, nonché un quarto personaggio, quello che minacciava il
giapponese. E che sulla nave muore colpito dal dardo del titolo. C’è anche una
bella signorina nell’entourage dei colpevoli, assassini o assassinati, su cui
torneremo. Ed una vicenda che si svolge tutta nelle belle isole del Pacifico,
quasi si fosse già in un libro di Biggers e del suo commissario Charlie Chen.
Devo dire che, fortunatamente, lo spirito inglese di Darwin consente alla
coppia di seminare indizi che ad un attento lettore porteranno alla soluzione
ed al “vero” colpevole. Anche dopo una serie di colpi di scena, di finti
finali, di agnizioni ed altro. Tuttavia, gli indizi sono calati in una
scrittura un po’ ingarbugliata, che si fa fatica a decrittare. Anche le
motivazioni degli omicidi rimangono alquanto oscure (vi dico solo che anche il
giapponese farà una brutta fine), tanto che mi limito qui a sconsigliarne la lettura
se non ad appassionati e masochisti vari. Come ha scritto una lettrice più
attenta di me, tanto per fare un esempio di come la scrittura sia andata in
modo diverso dai voleri degli autori, pensiamo alla bella Mary che, nel bel
mezzo di una bufera con tuoni, lampi e fulmini, sotto un acquazzone
torrenziale, si arrampica per un terreno impervio di roccia lavica scivoloso di
brutto, in compagnia del barone che, fino a due giorni prima, non ha preso in
considerazione neanche per un tè, per raggiungere una caverna ove,
presumibilmente, incontreranno un altro tale che ha già fatto fuori due persone
con successo e tentato di assassinare un bambino di otto anni a badilate e che
l’unico pensiero che riesca a formulare sia: “E se lui le avesse chiesto di
sposarla? Cosa avrebbe risposto?”. Forse volevano creare una situazione
ironica. Ne esce fuori solo una lettura patetica.
Finale
di settembre sempre più complicato, con inizio anche di una nuova stagione
nelle cure di mia madre. Un mese molto dedito alle vicende familiari, che
speriamo si avviino ora verso lidi migliori e meno agitati. Per il resto, sto
alla finestra di altri avvenimenti e vicende, accumulo notizie ed idee.
Speriamo si sciolga tutto in una nuova stagione positiva per tutti.
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