domenica 3 settembre 2017

Avanti al femminile - 03 settembre 2017

Una prima trama settembrina dedicata alle scrittrici che da tempo erano in attesa di essere tramate. Soprattutto il primo libro letto, l’interessante, se non eccellente, romanzo-racconto di Elizabeth Strout. Per finire con il bellissimo libro di Zora Neale Hurston. Tra i due un libro letto per dover di cronaca, come uno dei più venduti degli ultimi tempi (non certo imperdibile), ed uno dei libri più venduti dell’ultimo secolo, avendo più di cento anni, ed essendo, pur nella sua lineare semplicità, ancora e sempre educativo.
Elizabeth Strout “Olive Kitteridge” Fazi editore euro 18,50 (in realtà, scontato a 13,88 euro)
[A: 01/10/2015– I: 15/12/2016 – T: 20/12/2016] - &&& e ½ 
[tit. or.: Olive Kitteridge; ling. or.: inglese; pagine: 383; anno 2009]
Anche se non fosse stato consigliato dalle mie libropeute, avrei letto primo o poi questo testo, che risulta essere il dodicesimo premio Pulitzer che leggo. Con un ravvicinamento negli ultimi anni a questo interessante premio americano. Di cui ho letto sei titoli pubblicati prima del 2000 (Hemingway, Harper Lee, Alice Walker, Toni Morrison, Philip Roth e Michael Cunningham) e sei dopo (Michael Chabon, Jeffrey Eugenides, Cormac McCarthy, Junot Diaz, Jennifer Egan e questo). Di questi dodici devo dire che Roth e Eugenides sono quelli che più mi hanno deluso. Questo di Elizabeth Strout si pone in una posizione intermedia. Un bel libro, scritto bene, con alcune pagine affascinanti. Ma è la struttura complessiva che mi ha lasciato un po’ di difficoltà nella lettura. Viene infatti acclamato come “romanzo di racconti”, in quanto poi risulta composto da 13 “tranche di vie”, ambientate nella cittadina di Crosby nel Maine (ovviamente fittizia, ma che, da attenta ricerca sembra potersi collocare sovrapposta alla reale città di Brunswick), e che vedono tutti e 13 comparire (come protagonista o come comparsa) la signora del titolo, l’interessante e controversa Olive Kitteridge. Io che ho difficoltà con i racconti mi sono trovato spaesato. Perché se parliamo di romanzi in cui racconti si incastrano per creare una struttura diversa (e leggibile) mi viene subito in mente “Il tempo è un bastardo” di Jennifer Egan. O, racconti che si potrebbero leggere come parti di un “romanzo” complessivo, ed allora penso a “In fuga” di Alice Munro. Qui la situazione è più varia e più complessa. Da un lato abbiamo una serie di racconti che ci tratteggiano la vita di alcuni cittadini della poco ridente città del Maine (a 150 km a Nord di Boston, abbarbicata tra il freddo Atlantico ed un improbabile Androscoggin River), dall’altra ci fanno seguire l’evoluzione della vita della nostra eroina, Olive, che, di racconto in racconto, cresce ed invecchia. Cambia anche, perché il mondo introno a lei cambia. Mantenendo tuttavia il suo difficile carattere. Di certo capiamo come possa rendere difficile la vita ad alcuni, ma come altri non dico ne siano affascinati, ma ne abbiano un ritorno positivo. Primo fra tutti il marito Henry, che seguiamo nelle prime battute quando è ancora farmacista, tutto dedito al lavoro. Farmacia dove si prende una cotta per la giovane Denise (troppo giovane), che aiuta nelle difficoltà, ma verso cui non muoverà mai un capello, frenato anche dalla necessità di avere accanto un punto fermo come Olive. Anche se Olive è burbera, anche se Olive in quel momento di reciproca rilassatezza pensa di lasciarlo per Jim. Ma questi muore in un incidente, ed il mondo va avanti. Anche il mondo di Olive e Henry, con il loro figlio Chris oppresso dalle due opposte realtà: la bonomia del padre che non prende mai una decisione e la durezza della madre, che ne prende troppe. Tanto che per sfuggire ai due Chris si sposa. Ma non sfugge alla morsa, ed allora dal Maine si sposta in California (il più lontano possibile). Dove divorzia, e contemporaneamente il padre Henry ha un ictus che lo costringe, cieco ed immobile, per anni ed anni in una casa di cura. Dove Olive lo cura amorevolmente, fino a quando Henry se ne andrà senza aver saputo che il figlio si è sposato di nuovo, si è trasferito a New York, ha avuto un figlio suo (ed Henry aveva per tutta la vita sognato di fare il nonno). Ma Chris non farà mai pace con Olive, cui salta la mosca al naso per un nonnulla (una macchia sulla camicetta in questo caso) e si ritira nelle sue stanze chiudendo la porta a tutti. Soprattutto ai sentimenti, che, forse, lascerà andare soltanto molto avanti con gli anni (credo vada sui 72), trovandosi probabilmente innamorata di un nuovo vicino, nonostante questi abbia una figlia gay e voti repubblicano. Intorno, poi, ci sono gli altri che passano. Kevin, che era stato suo allievo, che non si è mai ripreso dal suicidio della madre, e che medita anche lui l’estremo gesto. Angela la pianista che suona sempre la stessa canzone per i Kitteridge e che incontra una sua vecchia fiamma ora in declino. Nina l’anoressica che tenta di salvare, inutilmente, insieme ad Harmon e Bonnie. Harmon che lascerà la moglie per una serena vecchiaia insieme a Daisy. Jane che al concerto insieme ai Kitteridge scopre un antico tradimento del marito. Ma non vorrei fare l’elenco di tutte le microstorie di questo mosaico. Alla fine è comunque un bel mosaico, da cui ne esce, con tutti i pregi ed i difetti, l’eroina del titolo. Ho avuto solo difficoltà a raccordarmi tra tutti gli episodi, che spesso ritornano nomi di racconti precedenti. Ed io che sono un po’ maniacale avrei voluto un bel compendio che me ne riportasse la ragnatela delle relazioni. Ma va bene così, si può (si deve) leggere lasciando scorrere tutto verso la fine, con quell’immagine delle due fette di formaggio svizzero premute insieme (immagino groviera) in modo che ognuno dei due conoscesse i buchi che può dare all’altro. Un inno d’amore e di speranza che risolleva tutti i momenti del libro che non sono stati né d’amore né, purtroppo, di speranza. Un solo appunto di dispiacere sulla (forse cattivamente voluta) battuta a pagina 128, quando, ricordando la morte di Jerry Garcia, si dice che “spero sia morto con gratitudine”. Per i non addetti alla musica, ricordo che Jerry Garcia era il leader del gruppo musicale “Grateful Dead”.
“Dobbiamo amare, altrimenti ci ammaliamo.” (66)
“Non si poteva smettere di provare certi sentimenti, qualunque cosa facesse l’altra persona. Bisognava solo aspettare. Alla fine il sentimento svaniva perché ne arrivavano altri.” (84)
“Quand’era che aveva smesso di avere opinioni?” (120)
“Dentro di te avevi paura di aver sposato una donna noiosa… Graziosa, ma noiosa.” (181)
Jojo Moyes “Io prima di te” Mondadori euro 13
[A: 07/03/2017– I: 14/04/2017 – T: 17/04/2017] - && +
[tit. or.: Me Before You; ling. or.: inglese; pagine: 390; anno 2012]
Non è che fossi particolarmente ansioso di leggere questo libro. Tuttavia mi sono reso conto che, accumulando arretrati biblici con tutti i libri che vorrei leggere, mi stavo perdendo un tocco di “attualità”. Per cui, oltre alle serie storiche dei “libri più vecchi che ho comprato e non ancora letto” e “libri da segnalazioni che mi convincono”, sto inaugurando un piccolo filone di “libri che hanno successo negli ultimi mesi”. Il primo di questa serie è stato proprio questo furbetto ed a tratti (ma non in tutti i tratti) prevedibile libro della scrittrice inglese Pauline Sara-Jo Moyes detta JoJo (unica cosa simpatica, che ricorda tanti soprannomi che hanno attraversato la mia vita). Libro scritto nel volger dei 45 anni della scrittrice, partendo da un’idea interessante, ed ovviamente strappa lacrime. D’altra parte, dopo dieci anni di giornalismo, a 33 anni JoJo decide di dedicarsi alla scrittura ed in particolare al genere che gli anglosassoni chiamano “Romance” (e che noi traduciamo con un poco carino “romanzo rosa” dalla copertina dei primi romanzi usciti, come i “romanzi gialli” per i polizieschi e così via colorando). Un genere che culturalmente viene anche da lontano (tipo “Pamela” di Richardson o i romanzi di Jane Austen) ma che nei tempi moderni è andato un po’ alla deriva, sulle onde alzate dai libri di Danielle Steel o Sveva Casati Modignani. Qui cerchiamo di fare un piccolo salto temporale all’indietro, cercando di rinverdire più che la narrativa rosa classica (eroina, belloccio che se ne innamora, antagonista che rompe le uova nel paniere), la narrativa strappalacrime tipo “Love Story”. Ma se Segal era un po’ un pioniere all’epoca (e di lacrime ne strappa tante, ed io confesso che men che ventenne lo lessi con un filo di commozione), Moyes, nel tentativo di percorrere strade nuove ed attualizzate, riesce di certo a coinvolgere ma senza quegli eccessi di partecipazione che potrebbero caratterizzare i libri meglio riusciti. La trama è semplice e lineare: Will, giovane, ricco ed iperattivo, ha un incidente che lo trasforma in tetraplegico; Louisa detta Lou, ne diventa assistente non infermieristica (lato ben occupato da Nathan). Il problema di fondo è che Will ha deciso di mettere fine alla sua vita in una clinica della dolce morte. E Lou tenta, per tutto il libro, di trovare il modo di fargli cambiare idea. Questo l’assillo che percorre tutto il libro. Riuscirà Lou? O Will convincerà Lou che non c’è altra via da percorrere? Mentre Will rimarrà comunque fedele al suo personaggio di scontroso malato, illuminato dalle pazzie di Lou, la ragazza subisce nel corso dei sei mesi del contratto base con la famiglia Traynor, un vistoso cambiamento di consapevolezza. Comincia con l’essere sbandata ed insicura, dedita ad alcuni punti fissi (precedente lavoro al bar, sorella minore super-intelligente, lungo fidanzamento con Patrick maniaco del Triathlon estremo), e nel confronto con l’intelligenza e la cultura di Will, acquista consapevolezza e sostanza. Non vi sto a narrare i tentativi di Lou di coinvolgere, rasserenare, e far uscire dalla disperazione interiore il bello ed immobile Will. Si possono leggere, ma non aggiungono molto. Né molto aggiunge la tetra serenità di Will consapevole in fondo del percorso ineluttabile della sua vita. Queste due narrazioni, decontestualizzate, sarebbero di una inutilità estrema. Quello che risolleva, in parte, il filo narrativo è l’accenno, velato purtroppo, a due problematiche: dove trovare aiuto per un tetraplegico praticamente immobilizzato e dove, come e quando è lecito ricorrere alle cliniche svizzere della dolce morte, per porre fine alla propria vita. Se nel primo caso Lou, usando internet, chat, ed altri strumenti, ha qualche uscita interessante (la migliore, è procurare a Will uno strumento di interazione con il computer anche senza l’uso completo delle mani), nel secondo l’autrice dice due o tre frasi, poi sorvola. Sarebbe quella, al contrario, la parte da sollevare, da prendere crudamente in mano ed approfondire, sino all’ultimo respiro di ognuno. Non entro nella dimensione religiosa del problema, che esula dai miei scritti, che non saprei affrontare. Rimango nella dimensione morale, in quella dei Welby, della Englaro, di DJ Fabo, ma anche di Lucio Magri ed altri esempi più o meno illustri. Non so, spero di non trovarmi mai di fronte ad una domanda simile, ma cosa farei io, cosa fareste voi, in una situazione in cui la vita è talmente deviata dal proprio corso naturale da domandarsi se sia ancora vita. Non dico tanto e solo soffrire, ma sapere che non ci saranno miglioramenti, mai. Che si potrà solo peggiorare. Non so rispondere. E sebbene prenda spunto da questo libro, credo che anche questo poi non ponga né le domande né le risposte corrette. Questo è un “romance”, e più di tanto non può scavare. Noi, fortunatamente, siamo qui. Per quanto ancora non sappiamo. Ma qui, ora. Quindi, uscendo dalle secche, proprio perché siamo qui, ora, esorto tutti quanti a gioire del loro momento presente. è la cosa più bella che possiamo fare.
Frances Hodgson Burnett “Il giardino segreto” DeAgostini euro 10,90 (in realtà, scontato a 1,64 euro)
[A: 04/05/2016– I: 21/05/2017 – T: 24/05/2017] - &&& -
[tit. or.: The Secret Garden; ling. or.: inglese; pagine: 186; anno 1911]
Non poteva mancare di essere letto, prima o poi, questo libro. Pietra miliare dei libri per l’infanzia, anche se poco diffuso in Italia. Dove, ad esempio, l’autrice è forse più nota per “Il piccolo Lord”. Sia i libri felici che i libri curativi ne consigliavano la visione. Ed io sapevo, nelle pieghe della mia memoria, che ne avevo scorso dei pezzi in qualche edizione “antica” ed ero, moderatamente, curioso di leggerne. Cosa dire a valle della lettura? Pur avendo più di 100 anni, se preso nella sua giusta visione filologica ed educativa, è ben congeniato, e discretamente utile ad un pubblico giovane. Dirò di più: può essere un’utile lettura anche ad un pubblico adulto che non voglia chiudere gli occhi alla magia dell’adolescenza (o dell’infanzia) e che può prendere spunto per rapportarsi alle giovani generazioni in modo comprensivo ed empatico. Certo, confrontandolo con l’originale, si nota che la versione “per ragazzi” della DeAgostini qualcosa taglia. Ma rimane la freschezza e lo spirito con cui fu scritto. Seppur quindi con occhio adulto, non possiamo far meno di seguire la piccola, viziata e non amata Mary Lennox, dall’India natia sino al veloce ritorno in patria. Perché nella guarnigione del padre scoppia un’epidemia di colera, e solo Mary si salva, venendo mandata dallo zio Archibald. Uno zio che vive in un castello isolato, e che è colpito dal grande dolore della morte improvvisa della giovane ed amata moglie. Per questo passa la maggior parte del suo tempo in giro per il mondo, lasciando le cura della giovane Mary ai famigli della casa. Sarà soprattutto Martha a prendersi cura di Mary, a farle tornare il sorriso, a narrare delle buone cose di casa sua (povera ma onesta), a presentarle il fratello ecologo e bucolico Dickon. Le parla inoltre del famoso giardino segreto, quello curato dalla zia morta, cui a tutti è vietato l’accesso. Ovvio che Mary comincia a cercarlo. Ovvio che lo trova, lo apre, se ne innamora. Condividendolo con Dickon, con le sue piante e i suoi animali. Ma un nuovo mistero attanaglia i giorni della nostra signorina, che diventa a poco a poco, un po’ più simpatica. Le grida notturne, che al fine si scoprono essere quelle del cugino Colin. Malato di incerta malattia, poco curato o mal curato. Sicuramente poco amato dal padre, che gli rimprovera, anche se non esplicitamente, la morte della moglie. Mary comincia un’azione di coinvolgimento alla vita di Colin. Narrando del giardino, narrando degli animali, narrando di Dickon. Tanto che l’altrettanto viziato Colin decide di seguire le orme della cugina. Uscendo di casa nella sedia a rotelle. Andando in giardino. Cominciando a muovere i primi passi. Sino a che, ignota la malattia, ma sicuramente giovandogli aria aperta e compagnia, anche lui si integra nella cura del giardino e nell’inno alla vita. Tanto che la madre di Martha non si perita di richiamare sir Archibald dai suoi giri lontani. Il vecchio (ma credo che non arrivi ai cinquanta!) torna a casa, scopre le “malefatte” della nipote, ma scopre anche i benefici che ne porta il figlio. Così che, curando le piante si cura anche il cuore. E tutti quanti, alla fine, saranno contenti, e ne usciranno vittoriosi. Quante piccole zeppe di insegnamento in così poche pagine. Certo ingenue, certo senza nessun infingimento, subito lì, dirette. Mary non amata, unica che sopravvive (quindi anche chi sembra poco simpatico è meglio di chi è realmente antipatico). Martha e la sua famiglia (cioè il cuore aperto, il sorriso sulle labbra, il lavoro anche umile non possono che portare serenità). Martha e Dickon (quando l’amicizia travalica ogni confine). Martha e Colin (quando l’empatia vince ogni malattia, vera o presunta). Martha e lo zio Archibald (come non aver paura dei grandi quando si ha una grande idea in testa). La “pedagogica” Frances inzeppa il libro di buoni sentimenti. In particolare, l’ultima grande metafora è il collegamento tra i ragazzi ed il giardino: in entrambi i casi, i buoni semi, oltre ad essere piantati, devono essere difesi e coltivati. Ed il giardino, così come il bambino, potrà al fine crescere e diventare una pianta, un uomo o una donna. Ignorando Freud e tutta la psicologia, il bello (seppur limitato) del libro è proprio in questa immediatezza senza barriere. Un’ultima lancia la spezzerei sulla rivoluzione che all’epoca portò il libro. La convinzione nel mondo occidentale dell’inizio del XX° secolo era che solo la guida, l'insegnamento e la vigilanza costante degli adulti potevano garantire l'educazione di bambini e adolescenti, che l'amicizia tra ragazzi poteva essere pericolosa e andava sempre vigilata dagli adulti e che l'amicizia tra giovani di sesso opposto era molto pericolosa e andava controllata e limitata dagli adulti. Tutte e tre queste posizioni vengono confutate da Frances. Che apre vie nuove che hanno portato a noi. Perché allora non cominciamo anche noi a tracciarne altre? Forse è tutto troppo facile. Ma che dire se si riesce a togliere le barriere, i pensieri, gli attaccamenti a comportamenti troppo ingessati. Per comunicare. Questo, in fondo, è quello che insegna Mary: parlare, chiedere, è sempre meglio che stare zitti. Un NO è sempre meglio di non sapere la risposta. Tanto che spesso, il NO diventa un magico, bellissimo, giurassico SI. Quindi, salvando un po’ di ingenuità, perché non leggerlo ai Tommaso, ai Matteo, e a tutti gli altri?
Zora Neale Hurston “I loro occhi guardavano Dio” Cargo euro 17,50
[A: 07/05/2015 – I: 07/07/2017 – T: 10/07/2017] - &&&& e ½
[tit. or.: Their Eyes Were Watching God; ling. or.: inglese; pagine: 267; anno 1937]
Bellissimo suggerimenti delle libropeute, per un libro ottantenne ma fresco e doloroso e gioioso come non mai. L’introduzione, partecipata, di Zadie Smith l’avevo da poco letta nel saggio della Smith su “Cambiare idea”, anche se, riletta ora dopo aver letto il libro, mi ha fatto sentire meglio alcuni passaggi. Cosa che non riesce a fare la postfazione, praticamente inutile, di Goffredo Fofi. Oltre alla Smith, dobbiamo anche ringraziare Alice Walker che negli anni ’70 iniziò l’opera di recupero di questa scrittrice nata nel 1891 in Alabama, presto trasferitasi in Florida, di cui anche qui dà un’immagine particolarmente viva, e poi a New York, per far parte negli anni ’20 a quel movimento detto “Harlem Renaissance”, sul recupero delle radici degli afro-americani. Ma i suoi romanzi, quattro scritti negli anni ’30, dopo un piccolo exploit, vennero poi accantonati. Dai bianchi che non capivano tutto questo interesse verso i “colored”, ma anche dai neri che le rimproveravano l’uso del dialetto, quasi a denigrare il loro modo di vivere. Invece è proprio questo il modo che, a me, fa sorgere un sentimento di gratitudine per questa scrittrice. Si sente che è anche antropologa, che affonda le sue righe nella cultura, spesso orale del popolo afro-americano. Dandoci qui, oltre alle vicende della crescita personale di Janie, cui torneremo tra un po’, anche il modo di vedere e descrivere un mondo tutto “nero”. Come fu la cittadina di Eatonville, dove lei stessa abitò in gioventù. Città della Florida, la prima in tutta l’America ad essere abitata solo da neri. E le descrizioni del modo di vivere, della nascita del borgo, poi della città, con l’emporio, poi l’Ufficio Postale (due pilastri della cultura americana, cui presto si unirà la pompa di benzina), dello stare insieme, ma anche del razzismo interno tra quelli, come Janie e la signora Turner, che hanno del sangue bianco al loro interno. Ma mentre Janie lo vive “da sinistra” (anche se la Hurston era una repubblicana, e forse anche per questo, purtroppo, messa al bando dagli estremismi neri), la signora Turner lo vive “da destra”, deprecando l’esistenza di tutta questa gente di colore che non sa vivere “come noi bianchi (!!)”. Tuttavia questo è il contorno, ben costruito e descritto, della vicenda centrale. La crescita e presa di coscienza della nostra Janie. Abbandonata dalla madre vive l’infanzia con la nonna, una ex-schiava che ha una visione in tono minore del mondo. Basta stare al proprio posto, avere un tetto sulle spalle, e magari un uomo che ti protegge. Per questo, quando Janie comincia a manifestare i segni dell’adolescenza, la manda in sposa con un tristo figuro, anziano, non comunicativo, ma che ha una casa e del terreno. Janie si sente ben presto soffocare, e quando passa di lì l’allegro Joe Starks, gran parlatore, ma anche grande organizzatore, fugge con lui. I due, attratti dal miraggio della città dei neri, di Eatonville, vi si trasferiscono. E Joe ha modo di far vedere tutte le sue doti. Pensa in grande e fa in modo che la città cresca. Tira su un emporio, diventa sindaco. Con sempre Janie al suo fianco. Tuttavia Joe, con il potere, con la responsabilità che sente, vede anche di cattivo occhio la bellezza di Janie, il fatto che tutti la guardino, che tutti le stanno intorno. La deprime così nel ruolo subalterno di “moglie di…”. Passano gli anni, la città si consolida, e così i rapporti di forza e di amicizia. Ma anche Janie si sente stretta nel suo ruolo, vede invecchiare precocemente Joe, si ribella a poco a poco. Fino ad emergere con la sua dirittura, anche quando, per anzianità e stravizi, Joe muore. Rimane lei, a gestire l’emporio, ad avere bei soldi da parte per fare una vita tranquilla. Fino a che non irrompe la giovialità di Tea Cake, quindici anni meno di lei, ma allegro, strampalato, sempre pronto a buttarsi in tutte le imprese folli. Con la sua freschezza conquista Janie, ed i due abbandonano la città e si danno alla vita girovaga. Ma Tea ha una sua dirittura, non prende i soldi di Janie, ma ne guadagna con lavori astrusi, per poi arrotondarli (ed anche perderli a volte) giocando ai dadi. Ma quello che importa è la spensieratezza del tempo che passano insieme. Fino ad una tempesta che squassa le loro vite (come il ciclone Katrina), anche perché Tea è morso da un cane rabbioso e si ammala. Brutta malattia, che ne annebbia il cervello, tanto che cerca di assalire la stessa Janie, che per difendersi lo deve uccidere. Triste semi-finale, anche se Janie viene assolta dal Tribunale. E torna, mesta, ma cresciuta nella sua Eatonville. Ora è una quarantenne, due volte vedova, ma con la saggezza di aver compiuto quello che voleva nella vita. Ora si metterà di nuovo lì, nei portici della città, a parlare con le sue amiche, a narrare delle sue avventure. A vivere, serenamente anche se non spensieratamente, il resto della sua vita. La scrittura di Zora è talmente scorrevole che non ci si accorge del passare delle pagine. Solo rileggendone, si colgono le sfumature, i messaggi che ci manda, tutto il bello della descrizione di un mondo che sta nascendo. E che si imbastisce di mille episodi tramandati dalle tradizioni orali della gente di colore. Se non ci fosse stata la Hurston, non saremmo arrivati alla Morrison. Un bel libro, una bella scrittura. Una storia che pur nella sua dolorosità, fa riflettere, ma comunica anche tanta gioia di vivere. Vivere la vita che si vuole, che si sceglie, che ci si costruisce intorno.
“Con i mariti, la terza volta è quella buona (dall’Introduzione di Zadie Smith, ripresa in “Cambiare idea”).” (11)
“Se hai visto la luce dell’alba, non t’importa di morire all’imbrunire. C’è tanta gente che non vede mai la luce.” (215)
Questa volta prima, e sicuramente non sola, trame del mese. Ecco allora i tredici libri letti nel mese di giugno, nonostante (o grazie anche) il bel viaggio israeliano. Tutti di una allarmante medietà (cioè gradimento medio), a parte i due perdibili libri di Fabio Volo, da cui mi aspetto di più.

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Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Raymond Queneau
Il diario intimo di Sally Mara
Feltrinelli
7
3
2
Valerio Varesi
Bersaglio l’oblio
Diabasis
10
3
3
Fabio Volo
A cosa servono i desideri
Mondadori
s.p.
1
4
Paula Daly
Da quando sei scomparsa
TEA
10
3
5
Kjell Ola Dahl
False apparenze
Corriere della Sera Svezia
7,90
3
6
Bee Wilson
In punta di forchetta
Corriere della Sera Cucina
7,90
3
7
Nicholas Brady
La casa degli strani ospiti
Corriere della Sera Gialli
6,90
3
8
Antonio Manzini
Non è stagione
Sellerio
14
3
9
Antonio Manzini
Era di maggio
Sellerio
14
3
10
Clive Cussler & Thomas Perry
Sepolcro
TEA
9,90
3
11
Fabio Volo
Le prime luci del mattino
Mondadori
11
1
12
Mary Roberts Rinehart
L’uomo nella cuccetta n.10
Corriere della Sera Gialli
6,90
3
13
Colin Dexter
L’ultima corsa per Woodstock
Sellerio
14
3

Ribadisco la penuria di viaggi settembrini, ma non di ipotesi di lavoro, che la mia fertile mente sempre si proietta i progetti (che altrimenti si muore). Purtroppo si deve anche badare ad una ricerca badante, sperando di concretizzarla positivamente. Ma noi si è sempre positivi, e si trova sempre un motivo per andare avanti.

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