Un titolo che non c’entra nulla,
ma che rimanda ad una poesia cinese che cito più avanti, e che trovo
imperdibile nella sua impalpabilità. Mentre trovo assolutamente perdibile il
nuovo episodio di Kay Scarpetta, e solo mediamente leggibile lo sforzo a
quattro mani della coppia Patterson & Paetro. Rimane l’ispettore Chen, che
si barcamena tra bassi e medi, ed il solito, immarcescibile Bosch di Connelly,
con quell’omaggio a Formanek che Carlo non potrà che condividere.
Patricia Cornwell “Polvere” Mondadori euro 13 (in realtà, scontato a
12,35 euro)
[A: 01/03/2015– I: 21/03/2017 – T: 25/03/2017] - & e ¾
[tit. or.: Dust; ling. or.: inglese; pagine: 417;
anno 2013]
Stiamo
scherzando? Questo, un nuovo episodio della saga “Scarpetta”? Manca
praticamente di quasi tutti gli elementi che ne hanno fatto, nel tempo, una
delle serie migliori, e forse maggiormente seguita (insieme a Bones). Ora (anzi
quattro anni fa) la nostra Patricia ci fa uscire un volume che, come forse
giustamente ha detto qualcuno nella rete (scusate la scarsa citazione, ma mi è
sfuggito) è un libro adatto ad un anatomopatologo, e non a noi lettori. Più o
meno compulsivi. Più o meno amanti della scrittrice. Un solo esempio, prima di
narrare qualcosa. Kay viene avvertita della necessità di un’analisi di un
cadavere. Tra la telefonata e l’arrivo sul posto, scontando anche il fatto che
debba aspettare la vengano a prendere, Patricia impiega quasi cento pagine.
Manca solo che ci si metta a descrivere tutte le piante del giardino di casa
Kay e del campo sportivo del MIT poi, e siamo a posto. Non solo, ma tra
divagazioni varie, ci narra almeno due volte che una vittima di un certo
delitto su cui sta indagando il marito, indossa mutandine non sue. Poi, dopo
che ci narra tutto per filo e per segno, tanto che “condensa” tutta la giornata
in 400 pagine (!), ci spiattella le ultime mosse in una decina di pagine scarne
e con dei salti qua e là, come se noi si dovesse sapere già tutto. Intanto c’è
un piccolo salto temporale tra l’ultimo libro (“Il letto di ossa”) dove la
troviamo coinvolta in varie vicissitudini legali, e questo dove si narra a più
riprese una sua presenza sul campo per l’analisi di una strage tipo Columbine,
ma di cui non c’è altra traccia nei suoi libri precedenti. Inoltre, Marino, un
tempo fido collaboratore sia in polizia sia nel Centro di Medicina Legale messo
in piedi dalla famiglia Scarpetta, si è dimesso ed è tornato a fare il
poliziotto. Lucy, la nipote mago dell’informatica, si è a sua volta messa con tale
Janet (che non ricordo se fosse una sua vecchia fiamma o una nuova). Infine, il
marito Benton, da sempre legalista e legato a filo ennuplo all’FBI, sembra
stufo dei bastoni che vengono messi alle sue ruote, anche perché il suo nuovo
capo, Ed Granby, non sembra granché affidabile. Comunque per quelle prime cento
pagine assistiamo alle peregrinazioni mentali di Kay, tra l’altro influenzata,
che saltabecca qua e là nel suo passato, come per farci riprendere le fila di
un discorso interrotto. Poi, analizzando la morta, trova strani collegamenti
con le morti di tre persone a Washington, su cui indaga l’FBI e di cui non
dovrebbe sapere nulla. Complichiamo il tutto: Gail, l’ultimo cadavere, è anche
in affari con Lucy su progetti avveniristici di “app” per aiutare indagini
legali. Ma Gail fa il doppio, se non il triplo gioco. Intenta una causa al suo
precedente ufficio, il “DoubleS” sostenendo che le ha fatto perdere soldi, ma
cercando sottobanco di rubare le app di Lucy e rivenderle proprio alla società
cui fa causa. Benton, nelle more, non è convinto delle tracce di DNA trovate
sui cadaveri della capitale, che farebbero risalire l’assassino ad un tizio
coinvolto nella morte della madre quindici anni prima e poi scomparso. Kay ha
anche l’intuizione che ci possa essere stato un cattivo uso delle banche dati
federali. Cosa che ci porta ben presto a sospettare che l’FBI centri, e non
poco. Quindi mentre scorrono le poche ore del racconto, ben diluite nelle
lunghe pagine, abbiamo modo di vedere: Kay che risale alla morte della Gabriela
madre del presunto killer, Kay che mette in mora il patologo che effettuò le
analisi del tempo, Kay che utilizzando il software avveniristico di Lucy,
tramite vecchie registrazioni video della scena del delitto, capisce che sulla
scena era presente qualcun altro, oltre al presunto killer. Che non poteva
essere l’assassino in quanto, all’epoca, ingessato ad un braccio. Intanto
avvengono altre morti, così come in un “Criminal Minds” d’annata. Una signorina
imbottita di droga si butta dal sesto piano. Lo psicologo che l’ha in cura
muore in un incidente stradale che ben presto si scopre essere un omicidio. E
tre persone, tra cui Lombardi e moglie che ne sono titolari, vengono uccise
nella super-controllata sede della “DoubleS”. Analizzando quest’ultimo delitto
(anzi delitti), e trafugando il server della società Kay, ma soprattutto Lucy,
hanno modo di ricostruire i legami tra Lombardi e Granby, l’ascesa di
quest’ultimo dopo il delitto di Gabriela, il collegamento tra Gail e la terza
morta nella sede societaria. A questo punto, nelle ultime pagine, al solito di
corsa, Benton tira fuori anche lui un asso dalla manica, collegando il terzo
incomodo sulla scena del delitto, Lombardi ed un misterioso inserviente di un
circo. Asso mancante della catena, che lo vede agire da serial killer per conto
di Lombardi, anche perché ne usava il prodotto che la “DoubleS”
commercializzava sottobanco, e cioè una potente droga sintetica. Che aveva
portato la signorina di cui sopra ad una overdose allucinatoria. Che il killer
aveva dovuto prima uccidere una tizia a Washington (originaria però del
Massachusetts) che metteva in pericolo Lombardi (e con Lombardi, Granby). Il
killer, fuori di testa per la droga, perde poi il controllo, uccide a più non
posso, tra cui Gail (che però muore per una sfortunata serie di coincidenze), e
poi fa la strage di cui sopra, perché… Insomma, 400 pagine di discussioni da
tavolo anatomiche e una ventina per risolvere il caso, mettere tutti gli attori
al loro posto. Con il colpevole che, praticamente, non compare mai se non
quando… Beh, qualche puntino di sospensione ve lo meritate. Patricia Cornwell
sta forse legandosi troppo a tutta quella catena di film “crime” americani, che
perde di vista la scrittura di un buon giallo. Continuiamo a sperare in una
risalita, anche se la vedo dura.
“Hai una pistola sotto quella giacca o sei
semplicemente contento di vedermi?” [solita frase ammiccante attribuita a Mae
West, che l’attrice non pronunciò mai] (80)
Michael Connelly “La scatola nera” Piemme euro 13 (in realtà, scontato
a 10,40 euro)
[A: 21/03/2016– I: 22/04/2017
– T: 24/04/2017] - &&& e ½
[tit. or.: The Black Box; ling. or.: inglese; pagine: 364; anno 2012]
Come
dice anche l’autore in un sentito ringraziamento finale (che contiene anche
altro di cui non anticipiamo il contenuto), Connelly si trova qui al suo 25°
libro. Non è certo poco, anche considerando che molti di questi libri hanno
avuto un discreto successo commerciale (si dice che i suoi libri con Bosch
abbiano superato le 50 milioni di copie vendute). Anche qui il nostro Harry
prosegue nel suo lavoro nei “Cold Case”, ma, essendo un evento celebrativo,
l’autore si inventa una trama altrettanto celebrativa. O, come si dice spesso,
autoreferenziale. Qui infatti Bosch comincia ad indagare sulla morte di una
giornalista danese, avvenuta durante la sommossa di Los Angeles che seguì il
“caso Rodney King”. Con l’aggiunta che fu proprio Bosch, nel 1992, a scrivere i
primi referti sul caso, aiutato dalla Guardia Nazionale, lì presente per far
fronte ai disordini. Ma questi presero presto il sopravvento, e Anneke finì
negli scaffali dei casi irrisolti. Ora, 20 anni dopo, la comparsa di una
pistola dà modo ad Harry di riaprire il caso. Seguendo tutta una serie di
citazioni trasversali, il nostro detective in attesa di pensionamento (ormai
mancano due anni e mezzo, secondo quanto scritto nel 24° libro), risale una
china di indizi per arrivare a qualcosa. Ponendosi alla ricerca di quella che
un suo collega anni ed anni prima gli aveva indicato come elemento di svolta.
Come per i disastri aerei, Harry è alla ricerca della scatola nera. Lì serve
per ricostruire gli ultimi momenti prima del disastro, qui, nei casi
polizieschi, caldi o freddi, serve per ripercorrere momenti ed istanti che
hanno portato qualcuno a commettere un crimine. Harry pensa di averla trovata
nella pistola, ne segue le tracce, trovandone un primo filo attaccato ad un
criminale che l’ha usato per un omicidio. Poi la pistola compare in altri
omicidi, compiuti da persone diverse, ma tutte appartenenti alla stessa banda.
E tutte riportano ad un elemento di spicco della stessa, purtroppo ormai morto.
Ed infine ad un cortile vicino a dove fu trovato il corpo di Anneke. Cortile
dove abita un altro componente della banda, e dove finalmente trova la pistola.
E con questa risale alla sua origine: guerra in Iraq dei primi anni ’90. Guerra
dove fotografava anche il reporter Anneke. Harry capisce allora che deve
seguire, anche, i movimenti della giornalista. Con l’aiuto del fratello danese
e del giornale di lei, risale a tutti i movimenti di Anneke, e ad un file di
foto di guerra e di sollazzo presso la base navale di Bassora, dove si
riposavano i militari impegnati nella guerra. Poi a Berlino, ed infine in giro
per l’America. Come se Anneke cercasse qualcosa, come se non fosse capitata a
Los Angeles per i disordini razziali, ma seguendo un suo personale filo. Ed è
questo filo, questa scatola nera, che Harry riesce a trovare, collegandola ad
una strana telefonata ricevuta dieci anni prima dalla cittadina di Manteca,
California. Inciso, ci sono passato l’anno scorso andando da San Francisco allo
Yosemite Park. Passateci se volete capire l’America. Se volete capire Trump e
chi lo ha votato. Perché l’America non è (solo) New York, Boston o San
Francisco, ma Manteca, Modesto, Stockton e perché no, Winslow “standing on the
corner” come cantavano gli Eagles. Ma torniamo alla pistola, all’Iraq, alla
Guardia nazionale che guidava i camion nella Guerra del Golfo, che si riposava
a Bassora, che aiutava la polizia per arginare i disordini del ’92. Harry
risale i fili della scatola nera, sino ad un quintetto che proviene proprio da
Manteca. Uno è morto anni prima, uno guida ancora i camion, un vende auto
usate. Ma Carl è uno dei più ricchi della zona, e Drummond è lo sceriffo della
vicina Modesto, ed aspira ad una carriera politica. Possiamo ora capire la
successione degli avvenimenti. Senza che vi dica io chi è il “colpevole ultimo”
(o primo?). Harry risolve tutto, inaspettatamente aiutato dalla poliziotta che
sta indagando su di lui per presunti abusi amministrativi. Ma questa è un’altra
storia, una storia nella storia, importante e marginale al tempo stesso. Di
quelle che servono a Connelly per riempire la vita dei suoi personaggi. Come la
riempie con Maddie la figlia, sempre più simpatica, e sempre più avviata, nel
futuro, ad una carriera poliziottesca. Come la riempie con il suo nuovo amore,
la simpatica Hannah, che comincia anche ad avere un rapporto non conflittuale
con la figlia di Bosch. Elementi di complemento, gradevoli per il clima
generale, non sempre funzionali a tutti. Ma Connelly prova a descriverci
momenti di vita, anche se ai margini. Anche perché sono quelli che riempiono la
vita proprio di quel mondo americano che nostri intellettuali spesso faticano a
penetrare. Tuttavia le cose migliori, personalmente, sono, come dal primo libro
su Bosch, le citazioni musicali. Qui, con un profluvio di accenni ad Art
Pepper, ed al suo sassofono. Ed uno, che sottolineerò per tutta la vita, a
Michael Formanek. Un bassista molto interessante (vero Carlo?), nato un 7
maggio di sessanta anni fa (imperdibile, no?).
Qiu Xialong “Cyber China” Marsilio euro 13 (in realtà, scontato a 9,75
euro)
[A: 19/10/2015– I: 01/05/2017
– T: 06/05/2017] - &&& --
[tit. or.: The Enigma of China; ling. or.: inglese; pagine: 315; anno 2013]
Siamo
già all’ottavo libro che Qiu Xialong, professore emigrato negli States dove
insegna letteratura cinese, dedica alla saga dell’ispettore Chen. Ispettore
atipico, che nasce come poeta e traduttore. Ma che è servito all’autore, fino
ad ora, per illustrare i modi e gli sviluppi del “comunismo alla cinese”.
Toccando via via diversi punti nodali: i nuovi ricchi, la burocrazia, il
comunismo prima e dopo il mercato, la rivoluzione culturale. Arrivando ora ad un
punto cruciale ed irrinunciabile: il rapporto tra il potere e internet. Un
rapporto difficile e conflittuale in quasi tutti i paesi che hanno ferree
censure di stato (oltre all’esempio cinese di cui qui si parla, mi viene subito
in mente la Turchia, ma questo è un altro discorso). Il grosso problema con i
libri di Qiu è che, addentrandosi sempre più nella disamina del mondo cinese
attuale, perde di vista, e di molto, l’aspetto “poliziesco” iniziale, usandolo solo
come spunto, ma lasciandosi poi trasportare da altro. Il secondo aspetto è
l’uso di categorie sociali e politiche molto locali, che con una grossa
difficoltà noi occidentali non cinesi riusciamo a decrittare. Per questo
secondo aspetto, ad esempio, una grossa parte del libro è basata su un meccanismo
molto in voga in Cina, conosciuto con il nome “motore di ricerca di carne
umana”. Per spiegarlo, faccio il seguente esempio, preso da un articolo su
questa questione pubblicato in rete da Ivan Franceschini. Su di un sito (un
blog, un forum) viene postata una notizia (o un video o una foto) chiedendone
informazioni. Gli utenti (“la carne umana come ricercatori”) si attivano
riuscendo a trovare tutti gli elementi del caso (nell’articolo, un’infermiera
che tortura un animale con la scarpa), trovando quindi “la carne umana come
ricerca”. Questo meccanismo è molto usato in Cina dove non tutti gli accessi ad
Internet sono consentiti, quindi i “ricercatori” usano mezzi extra-web per
trovare le informazioni. Magari poi riversandole sui pochi siti consentiti e controllati.
Scusate la lungaggine, ma questo punto è il centro del romanzo: viene messa in
rete una foto di un “potente” che fuma delle sigarette costose e non consentite
al suo rango. Da qui viene trovato, inquisito, tratto in arresti domiciliari in
un albergo, dove pochi giorni dopo muore. Omicidio o suicidio? Il nostro Chen è
coinvolto nelle indagini, anche se non in prima linea: il morto sembra avere
avuto accesso a fondi non consentiti, indaga la polizia segreta, ed altre
cineserie. Ma, non essendo arrivati ad una incriminazione del morto, la
polizia, e quindi Chen, deve comunque essere presente. Per tutto il resto del
romanzo, Chen va in cerca di informazioni, aiutato da una giovane giornalista,
verso cui sembra avere qualche propensione amorosa. Peccato che Lili sia sempre
presente nei momenti cruciali, spesso anche un passo avanti a Chen. Che
tuttavia non si impegna fino a che non viene ucciso un suo collaboratore che
sembra aver avuto alcune intuizioni sui meccanismi della gogna verso Zhou
(questo il nome del morto). Il tutto sempre farcito da citazioni di poesie
cinesi che, qui lo dico per l’ottava volta, visto che è l’ottavo libro, mi
lasciano freddo e distante. Apro una piccola parentesi: non è mai facile
tradurre poesie, che sono dei piccoli stati d’animo molto legati al modo di
esprimersi e di vivere. Quindi anche alla lingua ed ai costumi. Queste poesie
cinesi, decontestualizzate, mi risultano di difficile digestione. Tornando alla
storia, anche se volenteroso, Qiu non si addentra molto nelle possibili
ricerche via Internet (post da Internet Point, indirizzi IP crittati, ed altre
“diavolerie” in rete che nel mondo occidentale sono ormai pane quotidiano),
riuscendo solo a farci capire sia le difficoltà delle comunicazioni via Web in
Cina, sia i controlli che ne vengono effettuati. Alla fine, ed è ovvio, la
storia con Lili non andrà avanti (Chen è sempre attratto da qualcuno ma non
riesce mai a trovare la donna giusta), anche perché (e questo lo sospettavamo
sin dalle prime battute) è stata proprio Lili a scatenare la “ricerca di carne
umana” che, come tessere di un domino che rotola, ha portato alla morte di
Zhou. Ovvio che lei non ne sia implicata, ma la valanga che ha contribuito a
far nascere travolge molto di più di quanto si aspettava. Chen risolve anche il
mistero della morte di Zhou, unendo i puntini di un puzzle che le diverse
polizie vorrebbero tener nascosti. Ma Qiu ce ne parla quasi di passaggio, tra
la storia non sbocciata di Lili e Chen, e la carriera di Chen che sembra
progredire sempre di più verso i vertici. Altre cineserie adombrano la storia:
i rapporti tra Chen ed un ricco proprietario di ristoranti, tra Chen ed un
medico, tra Chen ed un blogger (di cui aiuta la madre malata). Ma sono rivoli,
e soprattutto sono proprio elementi di quel mondo cinese che Qiu vorrebbe
descriverci, e che qui, in modo particolare, sono talmente legati alla Cina da
risultare poco comprensibili. Tra l’altro, le mire dell’autore erano anche
altre, a partire dal titolo originale (“L’enigma cinese”) che si riferisce ad
una conferenza presentata nelle prime pagine, e che pone alcuni punti ed
interrogativi sul modo evolutivo di questo “comunismo in salsa cinese”. Certo,
come visto, poi si parla di Internet, ma “Cyber China” lo trovo un titolo
veramente poco calzante. Non demordo e spero di capirne di più, della Cina e
dell’economie asiatiche, in qualche altro libro. Non si può mai smettere di
cercare di capire. È uno dei pochi modi di rimanere vivi.
“Sono quarant’anni che non ci vediamo / …
l’aroma è svanito / … / Sono un vecchio che sta per trasformarsi nella polvere
/ … / ancora scoppio a piangere / dinanzi a questa vecchia scena.” (232)
James Patterson & Maxine Paetro “Le testimoni del club omicidi”
Repubblica Noir 9 euro 7,90
[A: 01/09/2015 – I: 16/05/2017
– T: 19/05/2017] - && e ½
[tit. or.: 12th of Never; ling. or.: inglese; pagine: 348; anno 2013]
Non
amo ne conosco in modo particolare James Patterson, una delle grandi icone dei
libri seriali americani. Anche perché non ho avuto occasione (ancora) di
incontrare il suo personaggio principale, lo psicologo forense Alex Cross. Di
lui posso solo dire che mi disturba non poco la sua prolificità (dal ’93 ha
pubblicato 22 libri su Alex Cross, 16 delle “Donne del Club Omicidi”, 9 su
Michael Bennett, 13 della serie “Private” ed una trentina di altri titoli
vari), nonché il suo vezzo, a parte la serie su Cross, di scrivere “in
coabitazione”. Ad esempio, con l’esimia Maxine Paetro ha pubblicato 23 libri
co-firmati. Entrambi provengono dal mondo della pubblicità, si conoscono da una
vita, ed hanno stretto questo forte legame dal 4 libro di questa serie. Per inciso,
Maxine è un’eccellente giardiniera, e possiede un giardino, Broccoli Hall,
citato in diverse riviste di “Gardens”. Ma veniamo al libro ed al suo
contenuto, cominciando subito con altri lamenti. Posso capire che pubblicando
il 12° volume di una serie poco nota al grande pubblico, laddove non tutti i
volumi della serie stessa sono usciti in italiano, anche se nascostamente
pubblicati dal gruppo Longanesi-TEA, si voglia trovare un titolo che attiri il
lettore. Tuttavia scambiare il nome collettivo delle donne che fanno sodalizio
per aiutarsi a vicenda per il titolo del libro è capzioso e fuorviante. Laddove
il titolo originale, al contrario, era quanto meno consono alla storia stessa.
Volendo essere sempre sull’onda del marketing, ma un pochino meno fuori fuoco,
si poteva mettere questo come sottotitolo, lasciando il titolo originale:
“Twelfth of never”, titolo di una canzone lanciata nel 1957 da Johnny Mathis, e
poi ripresa, con più successo, da Cliff Richard. Per chi fosse poco aduso ai
termini popolari anglosassoni, l’espressione significa un tempo che non si
verifica mai o che non avrà mai fine. Come nella canzone, dove il cantante
dichiara che il suo amore durerà fino appunto alle 12 di giammai, e fino a che
i fiori si dimenticheranno di sbocciare. Ricordo infatti che in anglosassone il
tempo è diviso in due giri di 12 ore, e la dodicesima in genere viene omessa.
Ma torniamo a bomba alla serie, almeno come viene impiantata da Patterson: in
base alla loro professione, ed alla simpatia reciproca, ed all’aiuto
vicendevole, ci sono almeno quattro donne che si riuniscono periodicamente
parlando dei loro casi e risolvendoli. C’è il motore primo della vicenda, che
parla in prima persona, la detective della squadra omicidi Lindsay Boxer.
Intorno si muovono Claire Washborn, abbondante e gioviale direttrice
dell’Istituto di Medicina Legale della città, Yuki Castellano, giovane e
nervosa procuratore italo-nippo-americana, e Cindy Thomas, bionda giornalista
di cronaca nera. Quattro amiche, sempre pronte a sostenersi a vicenda ed a
discutere dei loro casi e dei loro guai bevendo margaritas da Susie’s. Mi
dicono che una caratteristica delle serie (almeno chi ne parla in rete) è
proprio quella di mescolare almeno un paio di casi e seguirli per tutto il
romanzo. Qui, i due autori, si sono sforzati di mettercene il più possibile,
sia di casi legali che umani. C’è Boxer che partorisce nelle prime pagine, per
poi scoprire che la figlia Julie ha una qualche malattia, che potrebbe essere
cancro (storia n.1). C’è un professore che si presenta al Distretto di Polizia
raccontando i suoi sogni, che descrivono omicidi non ancora avvenuti, ma che
puntualmente avvengono dopo pochi giorni (storia n.2). C’è il processo ad un
avvocato accusato di aver ucciso la moglie e fatto sparire la figlia (storia
n.3). C’è la morte della fidanzata di un giocatore di football e la successiva
ed inspiegabile scomparsa del cadavere (storia n.4). C’è la ricerca di una
serie di donne scomparse, ma forse più probabilmente di cadaveri, legati ad uno
psicopatico in prigione (storia n.5). C’è Mackie, la nuova apprendista al
distretto di polizia, che si mette in mezzo e distrugge la relazione tra
l’aiutante di Boxer e la giornalista (storia n.6). Ovviamente, e per fortuna,
molte storie hanno una fine, buona o cattiva che sia. E ci sono parti di storie
che si collegano tra loro. In particolare la 2, la 5 e la 6. Alla fine del
libro, con fatica, e stando molto attenti, troverete la soluzione delle prime
5. La 6 invece (almeno a quanto si legge in rete) avrà fine solo nel 14°
episodio. Ora, sapete bene che anche io indulgo nella visione di qualche serie
televisiva su Fox Crime, di cui, non avendo il televisore, vedo e seguo pezzi
volanti qua e là. Ma la bravura del mezzo tv è di farti avere una visione
completa almeno del 90% di quanto accade. Qui, i nostri due autori, per quanto
bravi, hanno messo troppa carne al fuoco. La sanno gestire, ma è come mangiare
per una settimana di seguito un asado argentino tutte le sere. Alla fine, non
vedi l’ora di mangiare una mozzarella.
Terza
domenica, quindi, anche se non c’è molto da spendere in spiccioli di felicità,
cerchiamo di sorridere e metterci d’animo buono con una terapia d’amore bella
forte, seppur quasi novantenne.
A
proposito dei quali, speriamo di riuscire ad imboccare una giusta strada per le
mamme in ambasce, visto che per ora poco altro si riesce a combinare. Anzi,
nulla se non pensare ai miei amici ed ai miei viaggi.
I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia
Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
SETTEMBRE 2017
Ritorniamo ancora a curare il mal di cuore con un libro
vecchio, datato, ma che ho letto con piacere, facendo qualche passo verso il
grande vecchio americano, piacevole solo a Cuba.
TERAPIE D’AMORE (VII)
ADDIO ALLE ARMI di ERNEST HEMINGWAY (1929)
Pillole
di trama
Henry è un giovane americano che si arruola volontario come
conducente di ambulanze sul fronte italiano durante il primo conflitto mondiale.
Non ci mette molto a rendersi conto che la guerra non ha niente a che vedere
con gli ideali che lo hanno spinto ad arruolarsi e ci mette altrettanto poco a
innamorarsi dell’infermiera Catherine. Perfino durante la guerra sembrerebbe
esserci la possibilità di un idillio amoroso (la ragazza rimane anche incinta),
ma è solo un’illusione. In seguito alla disfatta di Caporetto Henry è costretto
a fuggire, diserta e si nasconde con Catherine oltre il confine, in Svizzera.
Ma proprio quando pensano di essere riusciti a mettersi in salvo arriva il
tragico epilogo. Preparate i fazzoletti, perché serviranno.
Supposta-saggezza
Suggerendo di premunirsi di fazzoletti prima di accingersi
alla lettura di “Addio alle armi” non vorrei che qualcuno fraintendesse
pensando che questa storia, in parte autobiografica, sia il classico melodramma
d’amore strappala-crime, stucchevole e piagnucoloso. No. I fazzoletti servono
perché la passione che scoppia tra i protagonisti è così intensa da coinvolgere
e commuovere per-fino gli animi meno sensibili e poco disposti al pianto. Non
ci sono amori contrastati né tradimenti, ma due amanti di fronte alla
precarietà dell'esistenza e all’ineluttabilità del destino. In “Addio alle
armi” c’è il dramma dell’impotenza dell’uomo di fronte alla Vita e alla Storia,
una condizione che accomuna tutti gli esseri umani, innamorati o no, perché «il
mondo spezza tutti quanti... ma quelli che non spezza, li uccide. Uccide
imparzialmente i molto buoni e i molto gentili e i molto coraggiosi. Se non
siete fra questi potete essere certi che ucciderà anche voi. ma non avrà una
particolare premura».
Per questo è praticamente impossibile restare indifferenti
al romanzo e anche se non si arriva fino al punto di piangere (effetto
collaterale auspicabile per alleggerire il peso di molte patologie
esistenziali), si resta quantomeno storditi da una strana sensazione che brucia
nel petto. Non si tratta di bruciore di stomaco (in caso qualcuno pensasse che
il libro sia di difficile digestione) quanto piuttosto di un bruciante fastidio
provocato dall’ingiustizia della guerra e della vita.
“Addio alle armi” è anche un romanzo di denuncia così
vibrante che in Italia fu pubblicato solo nel ’48 perché i gerarchi fascisti lo
ritenevano lesivo dell’immagine dell’esercito italiano (fortemente
antimilitarista, osava affrontare argomenti intoccabili come la disfatta di
Caporetto e le fucilazioni sommarie che seguirono). Nel 1943 Fernanda Pivano lo
aveva tradotto clandestinamente e per questo fu arrestata. E proprio lei ha
fornito una delle più pertinenti e sin-tetiche interpretazioni del libro
analizzandone semplicemente il titolo originale: “A Farawell To Arms”. In
inglese “arms” vuol dire sia armi che braccia. Così l’addio è alla guerra e a
tutti i suoi falsi ideali ma è anche e soprattutto un ad-dio alle braccia della
donna amata, un definitivo e ineluttabile distacco dall’amore. In disaccordo
con chi dice che «in guerra e in amore tutto è lecito» Hemingway sembra voler
dire che in guerra, dal cui orrore è impossibile fuggi-re, l’amore non è
permesso e resta un’aspirazione vana. Ma forse resta l’unica battaglia degna di
essere combattuta.
“Addio alle armi” è un romanzo che scuote, commuove,
amareggia e fa piangere. Hemingway riesce a trascinare il lettore al centro
della storia immergendolo nelle vicende del protagonista come se si trovasse al
suo fianco, con personaggi, ambienti, dialoghi e situazioni che si scolpiscono
nel cuore. Per tutto questo è difficile restare indifferenti e alla fine i
fazzoletti servono a tutti.
Posologia
“Addio alle armi” è particolarmente indicato per il
trattamento delle aritmie cardiache. In caso di ipertensione e tachicardia
previene il rischio d’infarto spostando l’attenzione dal proprio cuore malato
ai dolori dei protagonisti, men-tre in caso di ipotensione e insufficienza
cardiaca (anche grave) la sua vicenda appassionata aiuta ad aumentare il
battito, alleviando il malessere causato da un tran tran sentimentale
ripetitivo o dalla sua eventuale e totale assenza. In entrambi i casi la storia
tramortisce quel tanto che basta per anestetizzare e dimenticare i dispiaceri
amorosi di varia natura. Data la sua composizione può essere tollerato anche da
pazienti allergici ai romanzi d’amore (Hemingway fa più intellettuale e radical
chic di Rosamunde Pilcher). Con la scusa che è anche un romanzo di guerra, può
essere assunto senza troppe difficoltà dagli uomini, tendenzialmente
intolleranti alle vicende passionali.
A causa del suo amaro epilogo, la lettura potrebbe provocare
un temporaneo calo dell’ottimismo con il conseguente manifestarsi di una
sensazione diffusa di tristezza che in questo caso, però, aiuta l’organismo a
metabolizzare il concetto che nella vita poco o niente dipende da noi, ma i
sentimenti sono le uniche armi a nostra disposizione per contrastare
l’ineluttabilità del destino.
Effetti
collaterali
L’effetto collaterale più comunemente riscontrato è la già
menzionata sensazione di tristezza che tende a protrarsi nel tempo (analoga a
quella che sopraggiunge la prima volta che si vede “Titanic” e che è capace di
durare per giorni, a seconda dell’ipersensibilità del soggetto). Spesso questa
sorta di spleen può essere accompagnato da un senso di rabbia (la stessa che
segue la visione di “Titanic”. Chi, infatti, non ha sbraitato lamentandosi che
se si fosse-ro sistemati meglio, ci sarebbero potuti stare tutti e due sul quel
cavolo di pezzo di legno?). Questo groviglio di malumore è causato dalla
difficoltà congenita a mandare giù l’amaro boccone dell’unhappy ending sia nei
libri che nei film, quell’universo parallelo in cui spesso ci rifugia in cerca
di pace. Il senso di di-spiacere scatenato dalla lettura del romanzo è
particolarmente sentito perché la tragedia arriva come un vaso di ciclamini in
testa quando tutto sembrava ormai risolto e i protagonisti proiettati verso un
futuro roseo (ma si chiama colpo di scena e, se ben congegnato, funziona
sempre). La reazione di un lettore molto sensibile è ben documentata nel bel
film di David O. Russell “Il lato positivo”. Dopo una notte passata a leggere
“Addio alle armi”, il protagonista infuriato scaglia il libro fuori dalla
finestra perché incapace di accettarne il tragico finale. Accusa Hemingway di
farci tifare per tutto il tempo perché Henry sopravviva alla guerra e stia con
la donna amata. E lui ce la fa, sopravvive e fugge in Svizzera con lei, che è
anche incinta, quindi è meraviglioso, e tutti li immaginiamo tra le montagne a
bere e ballare, felici e contenti. E pensiamo che sia finita lì e siamo
soddisfatti anche noi. E invece Hemingway scrive un altro finale e fa morire
Catherine. E allora eccoci tutti inferociti perché, cavoli, il mondo è già
difficile così, almeno lui poteva regalarci un lieto fine! Ora, intendiamoci,
Pat, il protagonista del film, ha problemi di bipolarismo e voi, probabilmente,
non reagireste proprio con la stessa veemenza. Eppure potreste pensarla come
lui, soprattutto se state soffrendo da matti e cercate un po’ di positività. In
caso, seguite il suo consiglio: prendete tutta la negatività e usatela come
carburante per trovare il lato positivo della vita. Come dice Pat: «Il mondo ti
spezza il cuore in ogni modo immaginabile», lo sa Hemingway, lo sanno i suoi
personaggi, lo sappiamo tutti ma impantanarsi nella negatività equivale ad
assumere ogni giorno una dose di veleno che lentamente ci uccide. Anche se
“Addio alle armi” avesse come unica conseguenza lo stimolo a vedere il lato
positivo per scrollarsi di dosso tristezza, rabbia e negatività, vorrebbe dire
che come medicina per vivere felici ha raggiunto il suo scopo. Anche se lo buttiamo
dalla finestra.
Terapia
cinematografica sostitutiva
Amore e guerra sono due ingredienti di cui il cinema è
ghiotto, in parti-colare quello americano. Di conseguenza “Addio alle armi” è
un romanzo molto appetitoso che si è prestato a numerosi adattamenti
cinematografici. Per una terapia sostitutiva consiglio la versione del 1932
diretta da Frank Borzage con Gary Cooper e Helen Hayes. Romantico e
sentimentale molto più del romanzo, è un melodrammone in bianco e nero perfetto
per crogiolarsi tra le lacrime soffrendo per l’amore impossibile di qualcun
altro. La visione è consigliata soprattutto a un pubblico femminile,
rigorosamente con una scatola di Kleenex a por-tata di mano per il gran finale
(meglio la scatola perché i fazzoletti si estraggo-no con più rapidità). È del
1957 la versione diretta da Charles Vidor con Rock Hudson, Jennifer Jones,
Vittorio De Sica e Alberto Sordi. In caso di tristezza eccessiva, reintegrate
la quota fisiologica di ottimismo con “Il lato positivo”. I due protagonisti,
quello del libro e quello del film, condividono la ferma convinzione che il
mondo faccia di tutto per spezzarci il cuore e le gambe. Anche il personaggio
del film di David O. Russell, Pat, è impegnato in una personale battaglia
contro nemici invisibili ma devastanti come il bipolarismo e la rabbia
incontrollata. Nella trincea della fragilità incontra un’“infermiera”, diciamo
così, anche lei alle prese con una ferita di guerra difficile da rimarginare.
Insieme riusciranno a rimettersi in ballo, nel senso stretto del termine,
trovando il giusto ritmo per vivere una vita ballerina. Contando su un ottimo
cast (accanto a uno straordinario e fighissimo Bradley Cooper ci sono una
potentissima Jennifer Lawrence e un Robert De Niro in gran forma), il film si
tiene in perfetto equilibrio tra dramma e commedia.
Commenti
Sono d’accordo con l’esimia Giulia
Fiore, che la lettura dei commenti di Ferdinanda Pivano è imperdibile se si
vuole entrare con tutta la testa ed il cuore nella scrittura di papà Hemingway.
Fortunatamente, anche in questa edizione Mondadori è presenta, per cui vi
invito, in ogni caso, a leggerne.
Ernest Hemingway
“Addio alle armi” Mondadori euro 10,50 (in realtà, scontato a 8,90 euro)
[trama
scritta il 3 settembre 2017]
Eccoci
ora ad un altro libro imperdibile, che tuttavia fino ad ora non avevo letto.
Più che altro per una sorta di amore – odio che ho sempre provato per
Hemingway. Ho amato le sue scritture fino a “Per chi suona la campana”, anche
se non avevo letto questo. Ho faticato a ritrovarmi nei suoi libri tardi, e non
sono mai entrato in sintonia con “Il vecchio e il mare” (di cui mi ritorna in
mente solo il film con Spencer Tracy). Mi erano congeniali le sue prese di
posizione contro la guerra, contro i totalitarismi. Non ho mai capito il suo
machismo, il suo rapporto con le donne, il suo amore per le corride, per le
armi. Devo dire che un grande passo verso di lui l’ho fatto lo scorso anno,
quando, a Cuba, ho visitato la sua villa, ho visto il suo bagno pieno di libri,
la vista da lontano sulla capitale e sul mare, la piscina, le tombe dei suoi
cani. Poi, sotto la spinta delle terapie amorevoli per la felicità, si prende
in mano questo libro. Che pur in una mia ambivalenza che cercherò di spiegare,
mi ha fatto bene. Un bel libro, una bella scrittura, una storia interessante,
magari per me più intensa e partecipata nella prima parte che nell’ultima. Ma
soprattutto due grandi inni: uno contro la guerra ed uno per l’amore. Volendo
essere estremi, poi, forse è un solo grande inno, unificato dalla passione. La
storia, che anche chi non ha letto il libro ricorderà nel bel film di King
Vidor con Rock Hudson, Jennifer Jones e Vittorio De Sica, è abbastanza
semplice. L’americano Frederick Henry si arruola nell’esercito e con il grado
di tenente viene a guidare ed organizzare i trasporti con le ambulanze sul
fronte italo-austriaco. Lo vediamo in difficoltà con i pari grado militaristi,
a parte lo scanzonato e disilluso tenente medico Rinaldi. Lo vediamo
frequentare le infermiere che sono al fronte. Lo vediamo gravemente ferito
trasportato in ospedale a Milano, dove ritrova l’infermiera Catherine. Con la
quale aveva cominciato a flirtare al fronte e che ora, nelle lunghe giornate di
malattia prima e di convalescenza poi, stringe in amoroso assedio. Fino a far
sbocciare una tenera storia d’amore in guerra. Lo vediamo, dimesso, rispedito
al fronte pochi giorni prima della disfatta di Caporetto. Cui viene coinvolto,
e dove si ritira dal fronte in una delle più belle pagine di descrizione degli
orrori della guerra, e delle follie di insani militaristi che burocraticamente
mandano soldati al macello, per poi punirli se per l’appunto vengono macellati.
Pagine che mi hanno rimandato a quelle immagini di “Sentieri di gloria” di
Kubrick con lo splendido Kirk Douglas anche lì nella parte di un inane
lottatore contro le follie umane. Il nostro tenentino, per non essere fucilato
come disertore, anche se lui aveva soltanto abbandonato una autoambulanza
inguidabile nel fango, ed era ripiegato verso una linea difendibile, fugge
nella notte. Raggiunge con fatica Milano dove si trova ancora Catherine. Quindi
con lei, che gli ha appena detto di essere incinta, ripara in Svizzera, dove
spera che gli arrivino presto buone notizie: la fine della guerra, la nascita
del figlio, il matrimonio con Catherine. Queste sono le pagine, pur dolci, pur
scritte con la solita maestria, che mi hanno lasciato meno segni sul cuore. Non
c’è più la rabbia della prima parte, gli orrori della guerra giungono attutiti.
O non giungono per nulla. Ci sono belle pagine d’amore. Ma non ci sorprendiamo
che, alla fine, nulla finisce in modo positivo. Il bimbo, nonostante il
cesareo, nasce morto. Catherine stessa muore di setticemia. Rimane solo lui,
con l’ultimo saluto all’amata. Con le ultime parole che in pochi tratti ci
danno il senso del mondo, e che scritte nel ’29 hanno una forza immutata nel
tempo: “Dopo un po’ me ne andai e uscii dall’ospedale e ritornai a piedi in
albergo.” Punto. Hemingway ha detto capitoli prima addio alle armi. Ora
mestamente dice addio alla speranza. Perché la vita in tutte le sue forme è
precaria. Per colpa dell’ottusità degli uomini e dell’insondabilità del fato.
Oltre al bel libro, ed all’ottima traduzione di Fernanda Pivano, la stessa
scrittrice, in poche e scarne pagine finali, ci dà una descrizione dell’autore
e dell’opera che sono magistrali e che ho apprezzato moltissimo. Come mi
piacerebbe poterne scrivere di simili. Che da un lato, la grande americanista
ci comunica il suo amore per la letteratura americana e per questo libro di
“papà” Hemingway. Dall’altro, con poche frasi, ce ne svela motivi e genesi.
Hemingway aveva partecipato alla Prima Guerra Mondiale, dove venne anche lui
ferito. Tanto che alcuni ne leggono gran parte come un’autobiografia. È invece
una storia che nasce dal personale, ma che si fa universale. È vero, Hemingway
partecipò alla prima guerra mondiale, dove amò delle infermiere (non una sola,
che questa risulta essere il compendio di più donne, e di una sua personale
idea di donna). Inoltre, mentre scriveva l’ultima parte, anche sua moglie stava
finendo il tempo del parto. Anzi Pauline partorisce con un cesareo, rischiando
la vita sua e del figlio Patrick. E mentre Ernest rivede la stesura del libro,
gli arriva anche la notizia del suicidio del padre in seguito ai disastri del
famoso venerdì nero del 1929. Non ci meravigliamo quindi che ne esca fuori un
accorato appello alla vita che percorriamo come acrobati sul filo, il più delle
volte cadendo rovinosamente. Certo, e per fortuna, rimangono le bellissime
pagine contro la guerra, contro tutte le guerre. Speriamo di riuscire a portare
a termine le nostre vite senza altri disastri, se non quelli a noi direttamente
imputabili.
“Sai bene che non amo
che te. Non dovrebbe importarti se qualcuno mi ha amata.” (112)
Finalino
Certo, cardiopatie ed acciacchi coronarici sono sempre
pronti ad essere sollecitati. Ma quando si riesce a passare da Pilcher, Steel o
Casati Modignani a Ernest il salto, anche di piacere è notevole. Non so se
aiuti a superare traumi d’amore, ma può essere utile a superare trami da
letture poco degne.
Nessun commento:
Posta un commento