domenica 17 settembre 2017

L'aroma è svanito - 17 settembre 2017

Un titolo che non c’entra nulla, ma che rimanda ad una poesia cinese che cito più avanti, e che trovo imperdibile nella sua impalpabilità. Mentre trovo assolutamente perdibile il nuovo episodio di Kay Scarpetta, e solo mediamente leggibile lo sforzo a quattro mani della coppia Patterson & Paetro. Rimane l’ispettore Chen, che si barcamena tra bassi e medi, ed il solito, immarcescibile Bosch di Connelly, con quell’omaggio a Formanek che Carlo non potrà che condividere.
Patricia Cornwell “Polvere” Mondadori euro 13 (in realtà, scontato a 12,35 euro)
[A: 01/03/2015– I: 21/03/2017 – T: 25/03/2017] - & e ¾   
[tit. or.: Dust; ling. or.: inglese; pagine: 417; anno 2013]
Stiamo scherzando? Questo, un nuovo episodio della saga “Scarpetta”? Manca praticamente di quasi tutti gli elementi che ne hanno fatto, nel tempo, una delle serie migliori, e forse maggiormente seguita (insieme a Bones). Ora (anzi quattro anni fa) la nostra Patricia ci fa uscire un volume che, come forse giustamente ha detto qualcuno nella rete (scusate la scarsa citazione, ma mi è sfuggito) è un libro adatto ad un anatomopatologo, e non a noi lettori. Più o meno compulsivi. Più o meno amanti della scrittrice. Un solo esempio, prima di narrare qualcosa. Kay viene avvertita della necessità di un’analisi di un cadavere. Tra la telefonata e l’arrivo sul posto, scontando anche il fatto che debba aspettare la vengano a prendere, Patricia impiega quasi cento pagine. Manca solo che ci si metta a descrivere tutte le piante del giardino di casa Kay e del campo sportivo del MIT poi, e siamo a posto. Non solo, ma tra divagazioni varie, ci narra almeno due volte che una vittima di un certo delitto su cui sta indagando il marito, indossa mutandine non sue. Poi, dopo che ci narra tutto per filo e per segno, tanto che “condensa” tutta la giornata in 400 pagine (!), ci spiattella le ultime mosse in una decina di pagine scarne e con dei salti qua e là, come se noi si dovesse sapere già tutto. Intanto c’è un piccolo salto temporale tra l’ultimo libro (“Il letto di ossa”) dove la troviamo coinvolta in varie vicissitudini legali, e questo dove si narra a più riprese una sua presenza sul campo per l’analisi di una strage tipo Columbine, ma di cui non c’è altra traccia nei suoi libri precedenti. Inoltre, Marino, un tempo fido collaboratore sia in polizia sia nel Centro di Medicina Legale messo in piedi dalla famiglia Scarpetta, si è dimesso ed è tornato a fare il poliziotto. Lucy, la nipote mago dell’informatica, si è a sua volta messa con tale Janet (che non ricordo se fosse una sua vecchia fiamma o una nuova). Infine, il marito Benton, da sempre legalista e legato a filo ennuplo all’FBI, sembra stufo dei bastoni che vengono messi alle sue ruote, anche perché il suo nuovo capo, Ed Granby, non sembra granché affidabile. Comunque per quelle prime cento pagine assistiamo alle peregrinazioni mentali di Kay, tra l’altro influenzata, che saltabecca qua e là nel suo passato, come per farci riprendere le fila di un discorso interrotto. Poi, analizzando la morta, trova strani collegamenti con le morti di tre persone a Washington, su cui indaga l’FBI e di cui non dovrebbe sapere nulla. Complichiamo il tutto: Gail, l’ultimo cadavere, è anche in affari con Lucy su progetti avveniristici di “app” per aiutare indagini legali. Ma Gail fa il doppio, se non il triplo gioco. Intenta una causa al suo precedente ufficio, il “DoubleS” sostenendo che le ha fatto perdere soldi, ma cercando sottobanco di rubare le app di Lucy e rivenderle proprio alla società cui fa causa. Benton, nelle more, non è convinto delle tracce di DNA trovate sui cadaveri della capitale, che farebbero risalire l’assassino ad un tizio coinvolto nella morte della madre quindici anni prima e poi scomparso. Kay ha anche l’intuizione che ci possa essere stato un cattivo uso delle banche dati federali. Cosa che ci porta ben presto a sospettare che l’FBI centri, e non poco. Quindi mentre scorrono le poche ore del racconto, ben diluite nelle lunghe pagine, abbiamo modo di vedere: Kay che risale alla morte della Gabriela madre del presunto killer, Kay che mette in mora il patologo che effettuò le analisi del tempo, Kay che utilizzando il software avveniristico di Lucy, tramite vecchie registrazioni video della scena del delitto, capisce che sulla scena era presente qualcun altro, oltre al presunto killer. Che non poteva essere l’assassino in quanto, all’epoca, ingessato ad un braccio. Intanto avvengono altre morti, così come in un “Criminal Minds” d’annata. Una signorina imbottita di droga si butta dal sesto piano. Lo psicologo che l’ha in cura muore in un incidente stradale che ben presto si scopre essere un omicidio. E tre persone, tra cui Lombardi e moglie che ne sono titolari, vengono uccise nella super-controllata sede della “DoubleS”. Analizzando quest’ultimo delitto (anzi delitti), e trafugando il server della società Kay, ma soprattutto Lucy, hanno modo di ricostruire i legami tra Lombardi e Granby, l’ascesa di quest’ultimo dopo il delitto di Gabriela, il collegamento tra Gail e la terza morta nella sede societaria. A questo punto, nelle ultime pagine, al solito di corsa, Benton tira fuori anche lui un asso dalla manica, collegando il terzo incomodo sulla scena del delitto, Lombardi ed un misterioso inserviente di un circo. Asso mancante della catena, che lo vede agire da serial killer per conto di Lombardi, anche perché ne usava il prodotto che la “DoubleS” commercializzava sottobanco, e cioè una potente droga sintetica. Che aveva portato la signorina di cui sopra ad una overdose allucinatoria. Che il killer aveva dovuto prima uccidere una tizia a Washington (originaria però del Massachusetts) che metteva in pericolo Lombardi (e con Lombardi, Granby). Il killer, fuori di testa per la droga, perde poi il controllo, uccide a più non posso, tra cui Gail (che però muore per una sfortunata serie di coincidenze), e poi fa la strage di cui sopra, perché… Insomma, 400 pagine di discussioni da tavolo anatomiche e una ventina per risolvere il caso, mettere tutti gli attori al loro posto. Con il colpevole che, praticamente, non compare mai se non quando… Beh, qualche puntino di sospensione ve lo meritate. Patricia Cornwell sta forse legandosi troppo a tutta quella catena di film “crime” americani, che perde di vista la scrittura di un buon giallo. Continuiamo a sperare in una risalita, anche se la vedo dura.
“Hai una pistola sotto quella giacca o sei semplicemente contento di vedermi?” [solita frase ammiccante attribuita a Mae West, che l’attrice non pronunciò mai] (80)
Michael Connelly “La scatola nera” Piemme euro 13 (in realtà, scontato a 10,40 euro)
[A: 21/03/2016– I: 22/04/2017 – T: 24/04/2017] - &&& e ½
[tit. or.: The Black Box; ling. or.: inglese; pagine: 364; anno 2012]
Come dice anche l’autore in un sentito ringraziamento finale (che contiene anche altro di cui non anticipiamo il contenuto), Connelly si trova qui al suo 25° libro. Non è certo poco, anche considerando che molti di questi libri hanno avuto un discreto successo commerciale (si dice che i suoi libri con Bosch abbiano superato le 50 milioni di copie vendute). Anche qui il nostro Harry prosegue nel suo lavoro nei “Cold Case”, ma, essendo un evento celebrativo, l’autore si inventa una trama altrettanto celebrativa. O, come si dice spesso, autoreferenziale. Qui infatti Bosch comincia ad indagare sulla morte di una giornalista danese, avvenuta durante la sommossa di Los Angeles che seguì il “caso Rodney King”. Con l’aggiunta che fu proprio Bosch, nel 1992, a scrivere i primi referti sul caso, aiutato dalla Guardia Nazionale, lì presente per far fronte ai disordini. Ma questi presero presto il sopravvento, e Anneke finì negli scaffali dei casi irrisolti. Ora, 20 anni dopo, la comparsa di una pistola dà modo ad Harry di riaprire il caso. Seguendo tutta una serie di citazioni trasversali, il nostro detective in attesa di pensionamento (ormai mancano due anni e mezzo, secondo quanto scritto nel 24° libro), risale una china di indizi per arrivare a qualcosa. Ponendosi alla ricerca di quella che un suo collega anni ed anni prima gli aveva indicato come elemento di svolta. Come per i disastri aerei, Harry è alla ricerca della scatola nera. Lì serve per ricostruire gli ultimi momenti prima del disastro, qui, nei casi polizieschi, caldi o freddi, serve per ripercorrere momenti ed istanti che hanno portato qualcuno a commettere un crimine. Harry pensa di averla trovata nella pistola, ne segue le tracce, trovandone un primo filo attaccato ad un criminale che l’ha usato per un omicidio. Poi la pistola compare in altri omicidi, compiuti da persone diverse, ma tutte appartenenti alla stessa banda. E tutte riportano ad un elemento di spicco della stessa, purtroppo ormai morto. Ed infine ad un cortile vicino a dove fu trovato il corpo di Anneke. Cortile dove abita un altro componente della banda, e dove finalmente trova la pistola. E con questa risale alla sua origine: guerra in Iraq dei primi anni ’90. Guerra dove fotografava anche il reporter Anneke. Harry capisce allora che deve seguire, anche, i movimenti della giornalista. Con l’aiuto del fratello danese e del giornale di lei, risale a tutti i movimenti di Anneke, e ad un file di foto di guerra e di sollazzo presso la base navale di Bassora, dove si riposavano i militari impegnati nella guerra. Poi a Berlino, ed infine in giro per l’America. Come se Anneke cercasse qualcosa, come se non fosse capitata a Los Angeles per i disordini razziali, ma seguendo un suo personale filo. Ed è questo filo, questa scatola nera, che Harry riesce a trovare, collegandola ad una strana telefonata ricevuta dieci anni prima dalla cittadina di Manteca, California. Inciso, ci sono passato l’anno scorso andando da San Francisco allo Yosemite Park. Passateci se volete capire l’America. Se volete capire Trump e chi lo ha votato. Perché l’America non è (solo) New York, Boston o San Francisco, ma Manteca, Modesto, Stockton e perché no, Winslow “standing on the corner” come cantavano gli Eagles. Ma torniamo alla pistola, all’Iraq, alla Guardia nazionale che guidava i camion nella Guerra del Golfo, che si riposava a Bassora, che aiutava la polizia per arginare i disordini del ’92. Harry risale i fili della scatola nera, sino ad un quintetto che proviene proprio da Manteca. Uno è morto anni prima, uno guida ancora i camion, un vende auto usate. Ma Carl è uno dei più ricchi della zona, e Drummond è lo sceriffo della vicina Modesto, ed aspira ad una carriera politica. Possiamo ora capire la successione degli avvenimenti. Senza che vi dica io chi è il “colpevole ultimo” (o primo?). Harry risolve tutto, inaspettatamente aiutato dalla poliziotta che sta indagando su di lui per presunti abusi amministrativi. Ma questa è un’altra storia, una storia nella storia, importante e marginale al tempo stesso. Di quelle che servono a Connelly per riempire la vita dei suoi personaggi. Come la riempie con Maddie la figlia, sempre più simpatica, e sempre più avviata, nel futuro, ad una carriera poliziottesca. Come la riempie con il suo nuovo amore, la simpatica Hannah, che comincia anche ad avere un rapporto non conflittuale con la figlia di Bosch. Elementi di complemento, gradevoli per il clima generale, non sempre funzionali a tutti. Ma Connelly prova a descriverci momenti di vita, anche se ai margini. Anche perché sono quelli che riempiono la vita proprio di quel mondo americano che nostri intellettuali spesso faticano a penetrare. Tuttavia le cose migliori, personalmente, sono, come dal primo libro su Bosch, le citazioni musicali. Qui, con un profluvio di accenni ad Art Pepper, ed al suo sassofono. Ed uno, che sottolineerò per tutta la vita, a Michael Formanek. Un bassista molto interessante (vero Carlo?), nato un 7 maggio di sessanta anni fa (imperdibile, no?).
Qiu Xialong “Cyber China” Marsilio euro 13 (in realtà, scontato a 9,75 euro)
[A: 19/10/2015– I: 01/05/2017 – T: 06/05/2017] - &&& --
[tit. or.: The Enigma of China; ling. or.: inglese; pagine: 315; anno 2013]
Siamo già all’ottavo libro che Qiu Xialong, professore emigrato negli States dove insegna letteratura cinese, dedica alla saga dell’ispettore Chen. Ispettore atipico, che nasce come poeta e traduttore. Ma che è servito all’autore, fino ad ora, per illustrare i modi e gli sviluppi del “comunismo alla cinese”. Toccando via via diversi punti nodali: i nuovi ricchi, la burocrazia, il comunismo prima e dopo il mercato, la rivoluzione culturale. Arrivando ora ad un punto cruciale ed irrinunciabile: il rapporto tra il potere e internet. Un rapporto difficile e conflittuale in quasi tutti i paesi che hanno ferree censure di stato (oltre all’esempio cinese di cui qui si parla, mi viene subito in mente la Turchia, ma questo è un altro discorso). Il grosso problema con i libri di Qiu è che, addentrandosi sempre più nella disamina del mondo cinese attuale, perde di vista, e di molto, l’aspetto “poliziesco” iniziale, usandolo solo come spunto, ma lasciandosi poi trasportare da altro. Il secondo aspetto è l’uso di categorie sociali e politiche molto locali, che con una grossa difficoltà noi occidentali non cinesi riusciamo a decrittare. Per questo secondo aspetto, ad esempio, una grossa parte del libro è basata su un meccanismo molto in voga in Cina, conosciuto con il nome “motore di ricerca di carne umana”. Per spiegarlo, faccio il seguente esempio, preso da un articolo su questa questione pubblicato in rete da Ivan Franceschini. Su di un sito (un blog, un forum) viene postata una notizia (o un video o una foto) chiedendone informazioni. Gli utenti (“la carne umana come ricercatori”) si attivano riuscendo a trovare tutti gli elementi del caso (nell’articolo, un’infermiera che tortura un animale con la scarpa), trovando quindi “la carne umana come ricerca”. Questo meccanismo è molto usato in Cina dove non tutti gli accessi ad Internet sono consentiti, quindi i “ricercatori” usano mezzi extra-web per trovare le informazioni. Magari poi riversandole sui pochi siti consentiti e controllati. Scusate la lungaggine, ma questo punto è il centro del romanzo: viene messa in rete una foto di un “potente” che fuma delle sigarette costose e non consentite al suo rango. Da qui viene trovato, inquisito, tratto in arresti domiciliari in un albergo, dove pochi giorni dopo muore. Omicidio o suicidio? Il nostro Chen è coinvolto nelle indagini, anche se non in prima linea: il morto sembra avere avuto accesso a fondi non consentiti, indaga la polizia segreta, ed altre cineserie. Ma, non essendo arrivati ad una incriminazione del morto, la polizia, e quindi Chen, deve comunque essere presente. Per tutto il resto del romanzo, Chen va in cerca di informazioni, aiutato da una giovane giornalista, verso cui sembra avere qualche propensione amorosa. Peccato che Lili sia sempre presente nei momenti cruciali, spesso anche un passo avanti a Chen. Che tuttavia non si impegna fino a che non viene ucciso un suo collaboratore che sembra aver avuto alcune intuizioni sui meccanismi della gogna verso Zhou (questo il nome del morto). Il tutto sempre farcito da citazioni di poesie cinesi che, qui lo dico per l’ottava volta, visto che è l’ottavo libro, mi lasciano freddo e distante. Apro una piccola parentesi: non è mai facile tradurre poesie, che sono dei piccoli stati d’animo molto legati al modo di esprimersi e di vivere. Quindi anche alla lingua ed ai costumi. Queste poesie cinesi, decontestualizzate, mi risultano di difficile digestione. Tornando alla storia, anche se volenteroso, Qiu non si addentra molto nelle possibili ricerche via Internet (post da Internet Point, indirizzi IP crittati, ed altre “diavolerie” in rete che nel mondo occidentale sono ormai pane quotidiano), riuscendo solo a farci capire sia le difficoltà delle comunicazioni via Web in Cina, sia i controlli che ne vengono effettuati. Alla fine, ed è ovvio, la storia con Lili non andrà avanti (Chen è sempre attratto da qualcuno ma non riesce mai a trovare la donna giusta), anche perché (e questo lo sospettavamo sin dalle prime battute) è stata proprio Lili a scatenare la “ricerca di carne umana” che, come tessere di un domino che rotola, ha portato alla morte di Zhou. Ovvio che lei non ne sia implicata, ma la valanga che ha contribuito a far nascere travolge molto di più di quanto si aspettava. Chen risolve anche il mistero della morte di Zhou, unendo i puntini di un puzzle che le diverse polizie vorrebbero tener nascosti. Ma Qiu ce ne parla quasi di passaggio, tra la storia non sbocciata di Lili e Chen, e la carriera di Chen che sembra progredire sempre di più verso i vertici. Altre cineserie adombrano la storia: i rapporti tra Chen ed un ricco proprietario di ristoranti, tra Chen ed un medico, tra Chen ed un blogger (di cui aiuta la madre malata). Ma sono rivoli, e soprattutto sono proprio elementi di quel mondo cinese che Qiu vorrebbe descriverci, e che qui, in modo particolare, sono talmente legati alla Cina da risultare poco comprensibili. Tra l’altro, le mire dell’autore erano anche altre, a partire dal titolo originale (“L’enigma cinese”) che si riferisce ad una conferenza presentata nelle prime pagine, e che pone alcuni punti ed interrogativi sul modo evolutivo di questo “comunismo in salsa cinese”. Certo, come visto, poi si parla di Internet, ma “Cyber China” lo trovo un titolo veramente poco calzante. Non demordo e spero di capirne di più, della Cina e dell’economie asiatiche, in qualche altro libro. Non si può mai smettere di cercare di capire. È uno dei pochi modi di rimanere vivi.
“Sono quarant’anni che non ci vediamo / … l’aroma è svanito / … / Sono un vecchio che sta per trasformarsi nella polvere / … / ancora scoppio a piangere / dinanzi a questa vecchia scena.” (232)
James Patterson & Maxine Paetro “Le testimoni del club omicidi” Repubblica Noir 9 euro 7,90
[A: 01/09/2015 – I: 16/05/2017 – T: 19/05/2017] - && e ½
[tit. or.: 12th of Never; ling. or.: inglese; pagine: 348; anno 2013]
Non amo ne conosco in modo particolare James Patterson, una delle grandi icone dei libri seriali americani. Anche perché non ho avuto occasione (ancora) di incontrare il suo personaggio principale, lo psicologo forense Alex Cross. Di lui posso solo dire che mi disturba non poco la sua prolificità (dal ’93 ha pubblicato 22 libri su Alex Cross, 16 delle “Donne del Club Omicidi”, 9 su Michael Bennett, 13 della serie “Private” ed una trentina di altri titoli vari), nonché il suo vezzo, a parte la serie su Cross, di scrivere “in coabitazione”. Ad esempio, con l’esimia Maxine Paetro ha pubblicato 23 libri co-firmati. Entrambi provengono dal mondo della pubblicità, si conoscono da una vita, ed hanno stretto questo forte legame dal 4 libro di questa serie. Per inciso, Maxine è un’eccellente giardiniera, e possiede un giardino, Broccoli Hall, citato in diverse riviste di “Gardens”. Ma veniamo al libro ed al suo contenuto, cominciando subito con altri lamenti. Posso capire che pubblicando il 12° volume di una serie poco nota al grande pubblico, laddove non tutti i volumi della serie stessa sono usciti in italiano, anche se nascostamente pubblicati dal gruppo Longanesi-TEA, si voglia trovare un titolo che attiri il lettore. Tuttavia scambiare il nome collettivo delle donne che fanno sodalizio per aiutarsi a vicenda per il titolo del libro è capzioso e fuorviante. Laddove il titolo originale, al contrario, era quanto meno consono alla storia stessa. Volendo essere sempre sull’onda del marketing, ma un pochino meno fuori fuoco, si poteva mettere questo come sottotitolo, lasciando il titolo originale: “Twelfth of never”, titolo di una canzone lanciata nel 1957 da Johnny Mathis, e poi ripresa, con più successo, da Cliff Richard. Per chi fosse poco aduso ai termini popolari anglosassoni, l’espressione significa un tempo che non si verifica mai o che non avrà mai fine. Come nella canzone, dove il cantante dichiara che il suo amore durerà fino appunto alle 12 di giammai, e fino a che i fiori si dimenticheranno di sbocciare. Ricordo infatti che in anglosassone il tempo è diviso in due giri di 12 ore, e la dodicesima in genere viene omessa. Ma torniamo a bomba alla serie, almeno come viene impiantata da Patterson: in base alla loro professione, ed alla simpatia reciproca, ed all’aiuto vicendevole, ci sono almeno quattro donne che si riuniscono periodicamente parlando dei loro casi e risolvendoli. C’è il motore primo della vicenda, che parla in prima persona, la detective della squadra omicidi Lindsay Boxer. Intorno si muovono Claire Washborn, abbondante e gioviale direttrice dell’Istituto di Medicina Legale della città, Yuki Castellano, giovane e nervosa procuratore italo-nippo-americana, e Cindy Thomas, bionda giornalista di cronaca nera. Quattro amiche, sempre pronte a sostenersi a vicenda ed a discutere dei loro casi e dei loro guai bevendo margaritas da Susie’s. Mi dicono che una caratteristica delle serie (almeno chi ne parla in rete) è proprio quella di mescolare almeno un paio di casi e seguirli per tutto il romanzo. Qui, i due autori, si sono sforzati di mettercene il più possibile, sia di casi legali che umani. C’è Boxer che partorisce nelle prime pagine, per poi scoprire che la figlia Julie ha una qualche malattia, che potrebbe essere cancro (storia n.1). C’è un professore che si presenta al Distretto di Polizia raccontando i suoi sogni, che descrivono omicidi non ancora avvenuti, ma che puntualmente avvengono dopo pochi giorni (storia n.2). C’è il processo ad un avvocato accusato di aver ucciso la moglie e fatto sparire la figlia (storia n.3). C’è la morte della fidanzata di un giocatore di football e la successiva ed inspiegabile scomparsa del cadavere (storia n.4). C’è la ricerca di una serie di donne scomparse, ma forse più probabilmente di cadaveri, legati ad uno psicopatico in prigione (storia n.5). C’è Mackie, la nuova apprendista al distretto di polizia, che si mette in mezzo e distrugge la relazione tra l’aiutante di Boxer e la giornalista (storia n.6). Ovviamente, e per fortuna, molte storie hanno una fine, buona o cattiva che sia. E ci sono parti di storie che si collegano tra loro. In particolare la 2, la 5 e la 6. Alla fine del libro, con fatica, e stando molto attenti, troverete la soluzione delle prime 5. La 6 invece (almeno a quanto si legge in rete) avrà fine solo nel 14° episodio. Ora, sapete bene che anche io indulgo nella visione di qualche serie televisiva su Fox Crime, di cui, non avendo il televisore, vedo e seguo pezzi volanti qua e là. Ma la bravura del mezzo tv è di farti avere una visione completa almeno del 90% di quanto accade. Qui, i nostri due autori, per quanto bravi, hanno messo troppa carne al fuoco. La sanno gestire, ma è come mangiare per una settimana di seguito un asado argentino tutte le sere. Alla fine, non vedi l’ora di mangiare una mozzarella.
Terza domenica, quindi, anche se non c’è molto da spendere in spiccioli di felicità, cerchiamo di sorridere e metterci d’animo buono con una terapia d’amore bella forte, seppur quasi novantenne.
A proposito dei quali, speriamo di riuscire ad imboccare una giusta strada per le mamme in ambasce, visto che per ora poco altro si riesce a combinare. Anzi, nulla se non pensare ai miei amici ed ai miei viaggi.

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni

SETTEMBRE 2017
Ritorniamo ancora a curare il mal di cuore con un libro vecchio, datato, ma che ho letto con piacere, facendo qualche passo verso il grande vecchio americano, piacevole solo a Cuba.

TERAPIE D’AMORE (VII)

ADDIO ALLE ARMI di ERNEST HEMINGWAY (1929)

Pillole di trama       
Henry è un giovane americano che si arruola volontario come conducente di ambulanze sul fronte italiano durante il primo conflitto mondiale. Non ci mette molto a rendersi conto che la guerra non ha niente a che vedere con gli ideali che lo hanno spinto ad arruolarsi e ci mette altrettanto poco a innamorarsi dell’infermiera Catherine. Perfino durante la guerra sembrerebbe esserci la possibilità di un idillio amoroso (la ragazza rimane anche incinta), ma è solo un’illusione. In seguito alla disfatta di Caporetto Henry è costretto a fuggire, diserta e si nasconde con Catherine oltre il confine, in Svizzera. Ma proprio quando pensano di essere riusciti a mettersi in salvo arriva il tragico epilogo. Preparate i fazzoletti, perché serviranno.
Supposta-saggezza
Suggerendo di premunirsi di fazzoletti prima di accingersi alla lettura di “Addio alle armi” non vorrei che qualcuno fraintendesse pensando che questa storia, in parte autobiografica, sia il classico melodramma d’amore strappala-crime, stucchevole e piagnucoloso. No. I fazzoletti servono perché la passione che scoppia tra i protagonisti è così intensa da coinvolgere e commuovere per-fino gli animi meno sensibili e poco disposti al pianto. Non ci sono amori contrastati né tradimenti, ma due amanti di fronte alla precarietà dell'esistenza e all’ineluttabilità del destino. In “Addio alle armi” c’è il dramma dell’impotenza dell’uomo di fronte alla Vita e alla Storia, una condizione che accomuna tutti gli esseri umani, innamorati o no, perché «il mondo spezza tutti quanti... ma quelli che non spezza, li uccide. Uccide imparzialmente i molto buoni e i molto gentili e i molto coraggiosi. Se non siete fra questi potete essere certi che ucciderà anche voi. ma non avrà una particolare premura».
Per questo è praticamente impossibile restare indifferenti al romanzo e anche se non si arriva fino al punto di piangere (effetto collaterale auspicabile per alleggerire il peso di molte patologie esistenziali), si resta quantomeno storditi da una strana sensazione che brucia nel petto. Non si tratta di bruciore di stomaco (in caso qualcuno pensasse che il libro sia di difficile digestione) quanto piuttosto di un bruciante fastidio provocato dall’ingiustizia della guerra e della vita.
“Addio alle armi” è anche un romanzo di denuncia così vibrante che in Italia fu pubblicato solo nel ’48 perché i gerarchi fascisti lo ritenevano lesivo dell’immagine dell’esercito italiano (fortemente antimilitarista, osava affrontare argomenti intoccabili come la disfatta di Caporetto e le fucilazioni sommarie che seguirono). Nel 1943 Fernanda Pivano lo aveva tradotto clandestinamente e per questo fu arrestata. E proprio lei ha fornito una delle più pertinenti e sin-tetiche interpretazioni del libro analizzandone semplicemente il titolo originale: “A Farawell To Arms”. In inglese “arms” vuol dire sia armi che braccia. Così l’addio è alla guerra e a tutti i suoi falsi ideali ma è anche e soprattutto un ad-dio alle braccia della donna amata, un definitivo e ineluttabile distacco dall’amore. In disaccordo con chi dice che «in guerra e in amore tutto è lecito» Hemingway sembra voler dire che in guerra, dal cui orrore è impossibile fuggi-re, l’amore non è permesso e resta un’aspirazione vana. Ma forse resta l’unica battaglia degna di essere combattuta.
“Addio alle armi” è un romanzo che scuote, commuove, amareggia e fa piangere. Hemingway riesce a trascinare il lettore al centro della storia immergendolo nelle vicende del protagonista come se si trovasse al suo fianco, con personaggi, ambienti, dialoghi e situazioni che si scolpiscono nel cuore. Per tutto questo è difficile restare indifferenti e alla fine i fazzoletti servono a tutti.
Posologia
“Addio alle armi” è particolarmente indicato per il trattamento delle aritmie cardiache. In caso di ipertensione e tachicardia previene il rischio d’infarto spostando l’attenzione dal proprio cuore malato ai dolori dei protagonisti, men-tre in caso di ipotensione e insufficienza cardiaca (anche grave) la sua vicenda appassionata aiuta ad aumentare il battito, alleviando il malessere causato da un tran tran sentimentale ripetitivo o dalla sua eventuale e totale assenza. In entrambi i casi la storia tramortisce quel tanto che basta per anestetizzare e dimenticare i dispiaceri amorosi di varia natura. Data la sua composizione può essere tollerato anche da pazienti allergici ai romanzi d’amore (Hemingway fa più intellettuale e radical chic di Rosamunde Pilcher). Con la scusa che è anche un romanzo di guerra, può essere assunto senza troppe difficoltà dagli uomini, tendenzialmente intolleranti alle vicende passionali.
A causa del suo amaro epilogo, la lettura potrebbe provocare un temporaneo calo dell’ottimismo con il conseguente manifestarsi di una sensazione diffusa di tristezza che in questo caso, però, aiuta l’organismo a metabolizzare il concetto che nella vita poco o niente dipende da noi, ma i sentimenti sono le uniche armi a nostra disposizione per contrastare l’ineluttabilità del destino.
Effetti collaterali
L’effetto collaterale più comunemente riscontrato è la già menzionata sensazione di tristezza che tende a protrarsi nel tempo (analoga a quella che sopraggiunge la prima volta che si vede “Titanic” e che è capace di durare per giorni, a seconda dell’ipersensibilità del soggetto). Spesso questa sorta di spleen può essere accompagnato da un senso di rabbia (la stessa che segue la visione di “Titanic”. Chi, infatti, non ha sbraitato lamentandosi che se si fosse-ro sistemati meglio, ci sarebbero potuti stare tutti e due sul quel cavolo di pezzo di legno?). Questo groviglio di malumore è causato dalla difficoltà congenita a mandare giù l’amaro boccone dell’unhappy ending sia nei libri che nei film, quell’universo parallelo in cui spesso ci rifugia in cerca di pace. Il senso di di-spiacere scatenato dalla lettura del romanzo è particolarmente sentito perché la tragedia arriva come un vaso di ciclamini in testa quando tutto sembrava ormai risolto e i protagonisti proiettati verso un futuro roseo (ma si chiama colpo di scena e, se ben congegnato, funziona sempre). La reazione di un lettore molto sensibile è ben documentata nel bel film di David O. Russell “Il lato positivo”. Dopo una notte passata a leggere “Addio alle armi”, il protagonista infuriato scaglia il libro fuori dalla finestra perché incapace di accettarne il tragico finale. Accusa Hemingway di farci tifare per tutto il tempo perché Henry sopravviva alla guerra e stia con la donna amata. E lui ce la fa, sopravvive e fugge in Svizzera con lei, che è anche incinta, quindi è meraviglioso, e tutti li immaginiamo tra le montagne a bere e ballare, felici e contenti. E pensiamo che sia finita lì e siamo soddisfatti anche noi. E invece Hemingway scrive un altro finale e fa morire Catherine. E allora eccoci tutti inferociti perché, cavoli, il mondo è già difficile così, almeno lui poteva regalarci un lieto fine! Ora, intendiamoci, Pat, il protagonista del film, ha problemi di bipolarismo e voi, probabilmente, non reagireste proprio con la stessa veemenza. Eppure potreste pensarla come lui, soprattutto se state soffrendo da matti e cercate un po’ di positività. In caso, seguite il suo consiglio: prendete tutta la negatività e usatela come carburante per trovare il lato positivo della vita. Come dice Pat: «Il mondo ti spezza il cuore in ogni modo immaginabile», lo sa Hemingway, lo sanno i suoi personaggi, lo sappiamo tutti ma impantanarsi nella negatività equivale ad assumere ogni giorno una dose di veleno che lentamente ci uccide. Anche se “Addio alle armi” avesse come unica conseguenza lo stimolo a vedere il lato positivo per scrollarsi di dosso tristezza, rabbia e negatività, vorrebbe dire che come medicina per vivere felici ha raggiunto il suo scopo. Anche se lo buttiamo dalla finestra.
Terapia cinematografica sostitutiva
Amore e guerra sono due ingredienti di cui il cinema è ghiotto, in parti-colare quello americano. Di conseguenza “Addio alle armi” è un romanzo molto appetitoso che si è prestato a numerosi adattamenti cinematografici. Per una terapia sostitutiva consiglio la versione del 1932 diretta da Frank Borzage con Gary Cooper e Helen Hayes. Romantico e sentimentale molto più del romanzo, è un melodrammone in bianco e nero perfetto per crogiolarsi tra le lacrime soffrendo per l’amore impossibile di qualcun altro. La visione è consigliata soprattutto a un pubblico femminile, rigorosamente con una scatola di Kleenex a por-tata di mano per il gran finale (meglio la scatola perché i fazzoletti si estraggo-no con più rapidità). È del 1957 la versione diretta da Charles Vidor con Rock Hudson, Jennifer Jones, Vittorio De Sica e Alberto Sordi. In caso di tristezza eccessiva, reintegrate la quota fisiologica di ottimismo con “Il lato positivo”. I due protagonisti, quello del libro e quello del film, condividono la ferma convinzione che il mondo faccia di tutto per spezzarci il cuore e le gambe. Anche il personaggio del film di David O. Russell, Pat, è impegnato in una personale battaglia contro nemici invisibili ma devastanti come il bipolarismo e la rabbia incontrollata. Nella trincea della fragilità incontra un’“infermiera”, diciamo così, anche lei alle prese con una ferita di guerra difficile da rimarginare. Insieme riusciranno a rimettersi in ballo, nel senso stretto del termine, trovando il giusto ritmo per vivere una vita ballerina. Contando su un ottimo cast (accanto a uno straordinario e fighissimo Bradley Cooper ci sono una potentissima Jennifer Lawrence e un Robert De Niro in gran forma), il film si tiene in perfetto equilibrio tra dramma e commedia.

Commenti

Sono d’accordo con l’esimia Giulia Fiore, che la lettura dei commenti di Ferdinanda Pivano è imperdibile se si vuole entrare con tutta la testa ed il cuore nella scrittura di papà Hemingway. Fortunatamente, anche in questa edizione Mondadori è presenta, per cui vi invito, in ogni caso, a leggerne.
Ernest Hemingway “Addio alle armi” Mondadori euro 10,50 (in realtà, scontato a 8,90 euro)
[trama scritta il 3 settembre 2017]
Eccoci ora ad un altro libro imperdibile, che tuttavia fino ad ora non avevo letto. Più che altro per una sorta di amore – odio che ho sempre provato per Hemingway. Ho amato le sue scritture fino a “Per chi suona la campana”, anche se non avevo letto questo. Ho faticato a ritrovarmi nei suoi libri tardi, e non sono mai entrato in sintonia con “Il vecchio e il mare” (di cui mi ritorna in mente solo il film con Spencer Tracy). Mi erano congeniali le sue prese di posizione contro la guerra, contro i totalitarismi. Non ho mai capito il suo machismo, il suo rapporto con le donne, il suo amore per le corride, per le armi. Devo dire che un grande passo verso di lui l’ho fatto lo scorso anno, quando, a Cuba, ho visitato la sua villa, ho visto il suo bagno pieno di libri, la vista da lontano sulla capitale e sul mare, la piscina, le tombe dei suoi cani. Poi, sotto la spinta delle terapie amorevoli per la felicità, si prende in mano questo libro. Che pur in una mia ambivalenza che cercherò di spiegare, mi ha fatto bene. Un bel libro, una bella scrittura, una storia interessante, magari per me più intensa e partecipata nella prima parte che nell’ultima. Ma soprattutto due grandi inni: uno contro la guerra ed uno per l’amore. Volendo essere estremi, poi, forse è un solo grande inno, unificato dalla passione. La storia, che anche chi non ha letto il libro ricorderà nel bel film di King Vidor con Rock Hudson, Jennifer Jones e Vittorio De Sica, è abbastanza semplice. L’americano Frederick Henry si arruola nell’esercito e con il grado di tenente viene a guidare ed organizzare i trasporti con le ambulanze sul fronte italo-austriaco. Lo vediamo in difficoltà con i pari grado militaristi, a parte lo scanzonato e disilluso tenente medico Rinaldi. Lo vediamo frequentare le infermiere che sono al fronte. Lo vediamo gravemente ferito trasportato in ospedale a Milano, dove ritrova l’infermiera Catherine. Con la quale aveva cominciato a flirtare al fronte e che ora, nelle lunghe giornate di malattia prima e di convalescenza poi, stringe in amoroso assedio. Fino a far sbocciare una tenera storia d’amore in guerra. Lo vediamo, dimesso, rispedito al fronte pochi giorni prima della disfatta di Caporetto. Cui viene coinvolto, e dove si ritira dal fronte in una delle più belle pagine di descrizione degli orrori della guerra, e delle follie di insani militaristi che burocraticamente mandano soldati al macello, per poi punirli se per l’appunto vengono macellati. Pagine che mi hanno rimandato a quelle immagini di “Sentieri di gloria” di Kubrick con lo splendido Kirk Douglas anche lì nella parte di un inane lottatore contro le follie umane. Il nostro tenentino, per non essere fucilato come disertore, anche se lui aveva soltanto abbandonato una autoambulanza inguidabile nel fango, ed era ripiegato verso una linea difendibile, fugge nella notte. Raggiunge con fatica Milano dove si trova ancora Catherine. Quindi con lei, che gli ha appena detto di essere incinta, ripara in Svizzera, dove spera che gli arrivino presto buone notizie: la fine della guerra, la nascita del figlio, il matrimonio con Catherine. Queste sono le pagine, pur dolci, pur scritte con la solita maestria, che mi hanno lasciato meno segni sul cuore. Non c’è più la rabbia della prima parte, gli orrori della guerra giungono attutiti. O non giungono per nulla. Ci sono belle pagine d’amore. Ma non ci sorprendiamo che, alla fine, nulla finisce in modo positivo. Il bimbo, nonostante il cesareo, nasce morto. Catherine stessa muore di setticemia. Rimane solo lui, con l’ultimo saluto all’amata. Con le ultime parole che in pochi tratti ci danno il senso del mondo, e che scritte nel ’29 hanno una forza immutata nel tempo: “Dopo un po’ me ne andai e uscii dall’ospedale e ritornai a piedi in albergo.” Punto. Hemingway ha detto capitoli prima addio alle armi. Ora mestamente dice addio alla speranza. Perché la vita in tutte le sue forme è precaria. Per colpa dell’ottusità degli uomini e dell’insondabilità del fato. Oltre al bel libro, ed all’ottima traduzione di Fernanda Pivano, la stessa scrittrice, in poche e scarne pagine finali, ci dà una descrizione dell’autore e dell’opera che sono magistrali e che ho apprezzato moltissimo. Come mi piacerebbe poterne scrivere di simili. Che da un lato, la grande americanista ci comunica il suo amore per la letteratura americana e per questo libro di “papà” Hemingway. Dall’altro, con poche frasi, ce ne svela motivi e genesi. Hemingway aveva partecipato alla Prima Guerra Mondiale, dove venne anche lui ferito. Tanto che alcuni ne leggono gran parte come un’autobiografia. È invece una storia che nasce dal personale, ma che si fa universale. È vero, Hemingway partecipò alla prima guerra mondiale, dove amò delle infermiere (non una sola, che questa risulta essere il compendio di più donne, e di una sua personale idea di donna). Inoltre, mentre scriveva l’ultima parte, anche sua moglie stava finendo il tempo del parto. Anzi Pauline partorisce con un cesareo, rischiando la vita sua e del figlio Patrick. E mentre Ernest rivede la stesura del libro, gli arriva anche la notizia del suicidio del padre in seguito ai disastri del famoso venerdì nero del 1929. Non ci meravigliamo quindi che ne esca fuori un accorato appello alla vita che percorriamo come acrobati sul filo, il più delle volte cadendo rovinosamente. Certo, e per fortuna, rimangono le bellissime pagine contro la guerra, contro tutte le guerre. Speriamo di riuscire a portare a termine le nostre vite senza altri disastri, se non quelli a noi direttamente imputabili.
“Sai bene che non amo che te. Non dovrebbe importarti se qualcuno mi ha amata.” (112)

Finalino

Certo, cardiopatie ed acciacchi coronarici sono sempre pronti ad essere sollecitati. Ma quando si riesce a passare da Pilcher, Steel o Casati Modignani a Ernest il salto, anche di piacere è notevole. Non so se aiuti a superare traumi d’amore, ma può essere utile a superare trami da letture poco degne. 

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