domenica 10 settembre 2017

Maigret 8 - 10 settembre 2017

A volte i Maigret vengono a grappoli, a volte passano mesi. Come in questo caso, che l’ultimo volume tramato era giù in quel di aprile. Ed i prossimi saranno ancora lungi da venire, per gli insondabili paradigmi del caso. Intanto, comunque, torniamo al periodo americano del nostro belga giramondo. E come avevo preannunciato, si sta qui confermando, che i libri, lontano dall’Europa feconda, cominciano a dare segni di stanchezza.
Georges Simenon “I Maigret – volume 8” Adelphi s.p. (regalo di mamma)
[A: 03/03/2015– I: 09/04/2017 – T: 21/04/2017] - &&& e ½    
[tit. or.: vedi singoli libri; ling. or.: francese; pagine: 811; anno 2015]
Questa volta siamo nel pieno del periodo americano, con cinque romanzi tutti scritti nella tenuta di Shadow Rock nel Connecticut. Questo dà un po’ di uniformità agli scritti, rendendoli simili e comparabili, pur nella diversità. Purtroppo li rende anche un pochino uniformi verso il basso, che nessuno dei cinque si eleva molto sopra la sufficienza. Di certo ci consentono di approfondire il personaggio Maigret, ed ora che siamo all’ottavo volume ci sarebbe spazio per parlarne a tutto tondo. Tuttavia mi limito, tra suggerimenti e ricerche, di tirar fuori alcuni elementi di fondo, ed in particolare, vado a soffermarmi su analogie, rimandi. E su quei piccoli tocchi umoristici che la lontananza dall’Europa costringe Simenon ad aumentare di numero e di peso. Ah, la nostalgia delle bevute ai bistrot e delle chiacchiere a ruota libera. Lì, nell’esilio dorato, poco fa oltre scrivere e dedicarsi alle “famiglie”.

Titolo
Scritto
Uscito
Data
Luogo
Maigret al Picratt’s
30 novembre – 8 dicembre 1950
Scritto a Shadow Rock Farm, Lakeville, Connecticut (Stati Uniti d'America)
Aprile 1951
Maigret e l’affittacamere
14 – 21 febbraio 1951
Scritto a Shadow Rock Farm, Lakeville, Connecticut (Stati Uniti d'America)
Luglio 1951
Maigret e la Stangona
1 – 8 maggio 1951
Scritto a Shadow Rock Farm, Lakeville, Connecticut (Stati Uniti d'America)
Ottobre 1951
Maigret, Lognon e i gangster
1 – 8 ottobre 1951
Scritto a Shadow Rock Farm, Lakeville, Connecticut (Stati Uniti d'America)
Febbraio 1952
La rivoltella di Maigret
12 – 20 giugno 1952
Scritto a Shadow Rock Farm, Lakeville, Connecticut (Stati Uniti d'America)
Settembre 1952

“Maigret al Picratt’s”
[tit. or.: Maigret au Picratt’s; ling. or.: francese; pagine: 11 – 179 (168); anno 1951]
Siamo nel pieno del periodo “americano” di Simenon. In particolare siamo anche nel periodo calmo, quello dove per un lungo periodo non fa (lui e la sua famiglia allargata) il peripatetico da una costa all’altra dell’America. Ormai si è installato con la nuova famiglia (Denyse e John) nel Connecticut, nella cittadina di Lakeville (dove produrrà 26 romanzi in cinque anni, di cui la metà dedicati a Maigret). Il resto della famiglia (la prima moglie Tigy, con il primo figlio Marc e la tata Boule) sono solo a cinque-sei chilometri, a Lime Rock. Questo 1950 è come ho già detto un anno di grandi ripensamenti sulla vita e sulle proprie opere, tanto che per quasi un anno non ha messo mano alle storie del commissario. Poi nel precedente ne ha fatto una summa cronologica, ed ora, nel mese che porta al Natale in poco più di una settimana, tira giù una nuova storia. Che deve molto alla nostalgia delle atmosfere parigine che cerca di ricostruire per poter prendersi una bella birra con Jules, o fumare una pipa insieme ai suoi poliziotti. La storia è fragile, e molto d’atmosfera. Più che l’intreccio in sé, infatti, è il clima di Parigi, le sue strade notturne, i personaggi al limite della legalità (ed a volte anche oltre). Ha anche una connotazione di forte datazione, dove tutta l’ultima parte, incentrata su pedinamenti ed altro, è gestita da Maigret installatosi nel nightclub “Picratt’s” dove i suoi agenti gli telefonano per aggiornarlo. Come sarebbe diverso ora, nell’epoca dei cellulari! Una spogliarellista denuncia alla polizia di aver sentito due personaggi oscuri tramare per l’uccisione di una contessa. Il giorno seguente è invece Arlette, la spogliarellista, che muore strangolata. Indagando su alcuni dettagli forniti da Arlette, i nostri polizotti saranno coinvolti anche nella morte della contessa (che in un primo tempo era nell’inchiesta dell’ispettore Lognon). Sali che ti risali, collega un dettaglio qui ed uno là, Maigret ricostruisce tutta la sottile trama che fa capo al losco Oscar. Che riesce a fermare prima che commetta un nuovo omicidio. Come vedete, trama corta, lineare, ed anche poco appetibile. Non ci sono grandi misteri da svelare. Non c’è un colpevole da individuare tra tanti. Ci sono morti. Ci sono nightclub. Ci sono brasserie. Ci sono gli uomini e le donne che si aggirano nelle notti parigine. E tra tutti questi punti si dipana la scrittura del nostro maestro-scrivano, che guarda alla sottile trama, solo per ampliarne i contorni, e per fornirci un nuovo libro d’atmosfera. Non è la prima né l’ultima volta che Simenon usa nightclub e cabaret per le sue storie, ma notiamo che il nome Picratt’s è già stato usato cinque volte in altrettanti romanzi pubblicati tra il 1924 ed il 1931. Ed anche di passaggio ne "L'uomo che guardava passare i treni” (è infatti il locale dove si reca Kees Popinga quando arriva a Parigi). Qui diventa centrale, perché ci lavora Arlette, perché il giovane aiuto di Maigret, Lapointe, lì conosce e si innamora della giovane, perché diventerà il quartiere generale di Maigret nel momento culminante dell’indagine. Tra l’altro, per introdurci nell’atmosfera del romanzo e del nightclub, Simenon usa un approccio trasversale. Prima di entrare nella trama vera e propria e prima di fare entrare Maigret in scena, ci accompagna da nottambuli nel clima di Pigalle, intorno a Place Clichy. Prende un agente di strada e con i suoi occhi vediamo i vari personaggi entrare in scena: il corpulento proprietario (Fred), un’ombra quasi quella di un ragazzo (il Grillo, che fa da buttadentro per il locale), due uomini con un sassofono (i musicisti del locale) e le tre ragazze striptiseuse (Tania, Betty e Arlette). In poche linee di scrittura, sarà Arlette a prendere il centro della scena. Minuta, con i capelli dorati, ma con troppi bicchieri mandati giù, quasi a volersi stordire per affrontare qualcosa di cui ha paura. Poi la vediamo con gli occhi degli altri poliziotti (per qualcuno è solo una che si spoglia, per Lucas qualcuno che ha dei segreti, per Lapointe il raggio che illumina i suoi giovani giorni). Sarà solo l’occhio di Maigret che vedrà aldilà delle apparenze, in questo personaggio dalla forte sessualità e dalla strana fragilità. Ed è Maigret, dopo averne scoperto la morte, che ne farà a ritroso la storia, andando a scavare nel passato. Scoprendo che non si chiama Arlette ma Jeanne Leleu, viene dall’Auvergne, dove è stata a lungo in un istituto di suore, per poi fuggire ed avere una storia appassionata con il bello e perverso Oscar. Di cui ha paura, di cui sa le trame losche, che cerca di fermare, ma che da Oscar sarà presto fermata. Oscar che appartiene al passato oscuro di Arlette, ma che è a sua volta oscuro ed impenetrabile. Tanto che solo dopo sette capitoli Simenon ce ne svela l’esistenza ed il mistero. Anche se rimarrà un’ombra per tutto il romanzo, specialmente durante il pedinamento, dove farà in modo di seminare i poliziotti. Solo alla fine, quando Maigret capisce chi sta cercando di uccidere, e lo stana, ne avremo un’immagine a tutto tondo. Che Simenon decide di eliminare con una nemesi: nel corso della colluttazione sarà Lapointe ad uccidere Oscar. Ma ad Oscar si era arrivati dopo la morte della contessa von Farnehim, una volta bella donna, anche lei di povere origini, che sposa il ricco e vecchio conte. Il quale muore in Costa Azzurra, probabilmente ucciso da lei o dal suo autista nonché amante. Che si rivelerà essere appunto il tenebroso Oscar. Il quale, dopo la morte del conte, continua per anni a chiedere ed ottenere soldi dalla contessa. Che però si è avviata alla droga e sta consumando soldi e vita in questa china. Motivo per cui Oscar decide di farla finita, ucciderla e prendere i suoi gioielli, prima di vederli sparire al Monte di Pietà. Un altro bell’esempio della scrittura del nostro belga, è l’uso, per tutto il romanzo, dei contrasti per mettere in rilievo o sottolineare diversi aspetti della vicenda. Contrasto tra l’origine borghese di Arlette ed il suo attuale mestiere. Contrasto tra la vita turbolenta di Arlette e l’ordine con cui tiene il suo appartamento. Contrasto tra la giovinezza di Arlette ed il corpo decrepito e rovinato della contessa. Contrasto tra il numero di Arlette, che tutti descrivono sensuale e coinvolgente, e quello della sua sostituta Dolly, maldestro e raccogliticcio. Contrasto tra il giovane Lapointe, poliziotto alle prime armi, ed il giovane Philippe, ladro, drogato, che cerca di approfittarsi anche lui della contessa, aiutando il misterioso Oscar. Tra l’altro sarà proprio pedinando Philippe che Maigret, dalla sua base al Picratt’s, risolverà la vicenda, che tra l’altro, è brevissima temporalmente, dato che si risolve in due giorni e mezzo. Come detto qui avrà poi il suo ruolo centrale Lapointe, che da un paio di romanzi è entrato nella scuderia di Maigret, affiancando i ben noti Lucas, Janvier e Torrence. E che avrà sempre un rapporto privilegiato con Maigret, quasi quello di un figlio che il commissario non ha mai avuto. Due ultime note per chiudere: l’ispettore Lognon dovrebbe occuparsi del caso, ma Maigret ed i suoi lo esautorano, e lo utilizzano nella squadra. Peccato che Lognon non sia mai in sintonia con il nostro, e che venga spesso usato come scarico di dissapori, che Lognon vorrebbe ma non sa restituire. Qui, nel finale, Maigret si dimentica di avvertirlo che la caccia è finita, e Lognon continua a fare da palo davanti ad un appartamento dove non arriverà nessuno. L’altro elemento è il sottile umorismo che utilizza talvolta Simenon. Nell’interrogatorio della cuoca Rosalie, ad esempio, mentre questa cucina, non apprezza le interruzioni del commissario (di cui conosciamo l’aspetto alla Gino Cervi). Tant’è che ad un certo punto Rosalie gli chiede come si chiami. E quando lui risponde “Maigret”, lei ribatte: “Un nome facile da ricordare. Visto che siete piuttosto corpulento”. Non bisogna essere francofoni per sapere che “Maigret” in francese significa “magrolino”. Un altro punto d’umorismo “alla Simenon”, è ancora il nome del locale, che ha una voluta assonanza con il francese “picrate”, che nel linguaggio familiare indica un vino rosso di cattiva qualità. Insomma un discreto romanzo, pieno di spunti, anche se non si colloca tra i migliori dedicati al commissario.
“Maigret e l’affittacamere”
[tit. or.: Maigret en meublé; ling. or.: francese; pagine: 183 – 336 (153); anno 1951]
Simenon si avvia verso i suoi cinquanta anni, e questo sarà uno degli anni più calmi di tutta la sua esistenza. Scandito soltanto, all’inizio ed alla fine dell’anno, da due lutti che lo toccano da vicino: il 4 gennaio muore Léopoldine Amélie Brüll-Thys, zia materna, ed il 16 novembre sarà la volta di Florent Joseph Lucien Simenon, lo zio paterno. Ma il nostro continua la sua tranquilla esistenza dividendosi tra Shadow Rock con la moglie e Lime Rock con il primo figlio. Un anno in cui produce “soltanto” sei libri, di cui tre dedicati a Maigret. Tanta è la tranquillità che questo primo Maigret del ’51 lo completa nella solta settimana intorno al suo compleanno. Pur essendo, com’è ovvio, un’altra storia, ci sono alcuni parallelismi con il precedente che illustrano anche il modo di procedere per assonanze di Simenon. Ci sono i suoi ispettori al centro della vicenda: nel precedente ricordate di Lapointe, ora c’è l’ispettore Janvier che viene ferito quasi mortalmente durante la sorveglianza ad una pensione. C’è Maigret che lascia il suo ufficio per trasferirsi al centro delle indagini: lì era al Picratt’s, qui si trasferisce nella pensione della signorina Clement. Ci sono infine i due personaggi chiave delle vicende, entrambi che compaiono non immediatamente e di cui si ha chiara visione solo verso la fine. Un altro elemento non di novità, dato che è usato diverso volte, ma comunque di freschezza (quasi fosse uno dei serial che tanto appassionano i patiti di FoxCrime) è l’intrecciarsi di due storie: una rapina ad un nightclub ed il ferimento di Janvier. Storie che all’inizio sembrano coincidere, ma che Maigret ben presto ci fa capire essere disgiunte. Tutto ebbe inizio con la signora Maigret che va dalla sorella operanda. Maigret è solo a Parigi, si trastulla con alcune trasgressioni (lumache per cena, un cinema solitario), ma quando viene avvertito che Janvier è stato ferito, prende in pugno la situazione. Visto poi che è solo nella casa di boulevard Richard-Lenoir, decide di trasferirsi nel centro dell’azione, presso la pensione della signorina Clement. Qui Simenon ha gioco di presentarci alcuni personaggi della fauna locale, che non hanno nulla a che fare con la vicenda poliziesca, ma servono all’autore come rumore di fondo per l’ambientazione. La rapina al nightclub è senz’altro opera di due ragazzi sbandati, uno dei quali abita propria nella pensione. Scrutando il comportamento della gente presente, Maigret farà ben presto tana al povero Paulus, nascosto sotto il letto della tenutaria. Qui ritroviamo l’umanità del commissario che capisce l’innocenza della signorina Clement, ed il suo buon cuore, per cui non le muove nessuna accusa. Ed anche verso Paulus ha l’atteggiamento di quel padre che non è mai riuscito ad essere (la signora Maigret rimase incinta i primi tempi del matrimonio, poi un aborto spontaneo con complicazioni porta i nostri due a rimpiangere i figli che non avranno, e talvolta a prendersi carico di qualche giovane, magari sul filo del rasoio tra bene e male). Rimane però il mistero del ferimento di Janvier, sicuramente non ad opera di Paulus. Dopo aver interrogato tutti i locatori della pensione, Maigret si dedica anche agli inquilini dello stabile di fronte. Incuriosito dalle finestre di un appartamento, approfondisce l’indagine pressando da vicino l’inquilina. Françoise Boursicault, sposa da 15 anni del marinaio Désiré, e da 5 costretta a letto da una malattia degenerativa. La signora è reticente, lui la pressa da vicino, scopre uno strano segnale alla finestra attraverso l’utilizzo di un vaso di rame. Scopre la giovinezza della signorina, nata Binet e chiamata Lulu. Cameriera, ricamatrice, forse anche per poco prostituta, ma non è certo. Certo è invece il suo amore folle per un tizio poi scomparso. Tanto che lei sposa il marinaio, dolce, compassionevole e spesso per lunghi periodi assente per i suoi imbarchi. Ed ecco che ci appressiamo al finale, dove ricompare l’amore di gioventù di Lulu, Julien. Lui era fuggito dopo aver ucciso un usuraio, era fuggito a Panama dove aveva fatto fortuna. Ora, malato, era da sette anni tronato a Parigi, dove, per caso nella metropolitana, incontra la sua vecchia fiamma. L’amore rinasce, anche senza speranza. I due si incontrano quando Désiré è in viaggio. Ma la malattia di Françoise dà un colpo mortale alla relazione. Julien la va a trovare di nascosto (seguendo i segnali del vaso). Ma la fatale sera, vedendo la polizia nella pensione di fronte, e dovendo andare via per l’imminente ritorno del marito, non trova di meglio che sparare a Janvier per creare confusione e fuggire. Tutto ciò lo confessa a Maigret quando questi lo rassicura che non tirerà in ballo la malata. Ritorna al fine l’umanità del commissario, che dopo aver tampinato e ridotto in lacrime Françoise, decide di inventare una frottola per lasciarla fuori (come del resto ha fatto anche con l’affittacamere). Anche qui, non c’è una vera tensione verso la soluzione, solo un seguire il commissario nelle sue azioni, e nella sua inchiesta che dura ben una settimana. E seguire il contemporaneo affresco che, da lontano, Simenon fa della sua Parigi, dando anche dei bei colpi di pennello ai suoi personaggi. Maigret che senza moglie non sa stare nella sua casa vuota. Maigret che frequenta una brasserie vicino alla pensione per riflettere. Maigret che prende appunti. Maigret che viene tentato dalle diverse donne che popolano il romanzo. Dalla signorina Clement, ben in carne, e che incontra spesso nottetempo. O la signorina Isabelle, segretaria spesso in casa, e spesso discinta. Ma proverbiale è e sarà la fedeltà di Maigret. Dove i suoi sgarri saranno solo gastronomici. Come detto, poi, uno dei punti di forza di questo romanzo è la descrizione dei personaggi, che Simenon ci presenta in modo graduale e ripetitivo: prima il punto di vista della signorina Clement su ogni inquilino, poi le note dell’agente Vauquelin, quindi il ricordo fatto da Maigret di ogni inquilino durante la sua prima notte nella pensione, ed infine le annotazioni sempre di Maigret sul suo taccuino. Stesso procedimento che poi utilizza per la storia, dove in diversi capitoli ce ne presenta una versione arricchita ogni volta da nuovi particolari. Ho notato anche l’andamento tra opposti atteggiamenti della storia stessa, che comincia quasi in dramma con il ferimento di Janvier, che volge al comico durante i rapporti tra Maigret ed i locatari, toccando la punta massima con la scena del sandwich notturno che la signorina Clement aveva preparato per Paulus ma che, scoperta da Maigret, è costretta a mangiare controvoglia, e che infine torna al dramma con l’arresto di Julien. Inciso, altro elemento di divertimento che Simenon sparge ogni tanto: Julien, tornato a Parigi, abita anche lui in Boulevard Richard-Lenoir, a pochi passi da Maigret. Notiamo infine che, dopo averlo abbandonato per tutto il tempo delle edizioni Gallimard, tornano i titoli dei capitoli. Non solo, qui, e per sette romanzi (come dicono gli esegeti del commissario) saranno titoli lunghi, in cui Simenon condensa in una frase il suo senso del capitolo stesso. Come al capitolo 3: “Dove l’evocazione di un bicchiere di birra svolge un ruolo importante e dove Maigret scopre un inquilino della signorina Clement in un luogo inaspettato”.
“Ciascuno può essere strano agli occhi di qualcun altro.” (258)
“Maigret e la Stangona”
[tit. or.: Maigret et la Grande Perche; ling. or.: francese; pagine: 339 – 491 (152); anno 1951]
Dopo tre mesi dal precedente Maigret, ed avendo nel frattempo scritto un romanzo non-Maigret, Simenon torna nella prima settimana di maggio a tirar giù un nuovo episodio del nostro commissario. Come detto, è sempre nel Connecticut, ed è sempre nella stabile situazione familiare, stabile ancorché complessa, come al solito. Ma non ci sono grandi avvenimenti esterni, così che lo scrittore si dedica a questo romanzo in cui caratterizza ancora di più cosa intenda fare nello scrivere le avventure di Maigret. Questo romanzo, infatti, ha due caratteristiche che lo rendono tipico. Una minore, che ritroviamo in molti scritti, ed è il girovagare e rimembrare per la “sua” Parigi. Tra l’altro, impianta il grosso dello svolgimento del romanzo a Neuilly, in particolare nella casa del dentista Guillaume Serre, in Rue de la Ferme, una parallela del Boulevard Richard-Wallace, dove Simenon abitò tra il ’36 ed il ’38. Questo è uno dei suoi modi tipici, che l’azione percorre strade a lui familiari, sia quelle da lui poco amate di Neuilly, sia quelle che più amava, passato il ponte sulla Senna, nella zona popolare di Puteaux. Anche qui, una persona più attenta e precisa di me (e credo che qualcuno lo abbia pur fatto) potrebbe andare a scavare nella topologia parigina di Maigret. L’altra caratteristica, che definirei maggiore, è invece il contrasto, spesso presente solo in modo latente, ma qui ben evidenziato, tra il mondo borghese, che Simenon conosce e non ama, e quello popolare, che l’autore ritiene più vero e sincero, anche con tutti i debordamenti al limite della legalità. L’anima popolare è rappresentata da Ernestine Jussiaume nata Micou detta Tine, la stangona del titolo, supposta vecchia conoscenza di Maigret. Supposta che Maigret non la ricorda, anche se lei si presenta rammentando al nostro il suo arresto, diciassette anni prima, per un borseggio ad un cliente quando faceva la prostituta. Per non farsi arrestare, si spoglia davanti ad un Maigret imbarazzato che non sa che fare davanti alla stangona nuda. Piccola chicca: Tine sostiene che il furto è opera di una sua collega chiamata Lulu, che potrebbe benissimo essere la Françoise Binet del romanzo precedente (che faceva anche lei la vita, proprio con il nome di Lulu). Ora Tine è sposata con Freddie il triste, ex-installatore di casseforti, ora diventato scassinatore, e chiede aiuto a Maigret in quanto Alfred è scomparso dopo avergli detto che, mentre apriva una cassaforte a Neuilly, ha visto nella stanza una donna morta. Qui comincia l’indagine di Maigret che individua casa Serre, ed entra in contatto con la famiglia: Guillaume, dentista cinquantenne, vedovo, risposato con un’olandese, e la madre, arcigna signora della casa. La moglie Marie, secondo i due, è tornata in Olanda a seguito di dissapori. Ma non se ne ha traccia. Quello che intriga Maigret è che non ci sia traccia di nulla neanche a casa Serre. Niente cadaveri, niente cassaforte scassinata, niente vetro rotto. Simenon ci porta pagina dopo pagina nella lotta, di nervi e di posizione, tra Maigret e Guillaume. Maigret si basa solo sulle affermazioni di Tine, dato che anche Freddie è scomparso. Ma la famiglia Serre è compatta nell’azzerare ogni tentativo e richiesta della polizia, opponendo sempre elementi plausibili, ed ovviamente contrari al racconto di Tine. L’elemento poliziesco che Simenon sfrutta per farci entrare nelle indagini, qui si basa sullo svolgimento temporale dei fatti. Tine va da Maigret il giovedì sostenendo che Freddie ha fatto il colpo nella notte tra martedì e mercoledì. Sempre il martedì Guillaume va al bar per bere del vino, inusualmente; e sempre martedì dovrebbe partire la moglie. C’è un vetro rotto in casa Serre, ma la madre dice che è stato riparato lunedì. Maigret chiede poi di indagare sulla partenza dell’olandese e sui taxi che non ha presi. Finalmente una luce: il ferramenta conferma il vetro rotto del lunedì, ma afferma essercene stato un secondo riparato mercoledì. Seconda luce: un portiere sostiene di aver visto Guillaume in macchina il martedì notte. Tutta una questione di tempi, in un’indagine che dura solo tre giorni, e di lavoro della polizia scientifica, che trova tracce di mattoni rossi nella vettura, dello stesso tipo scaricato vicino alla Senna da una chiatta solo il lunedì sera. L’ultimo aspetto è la lotta senza mezzi termini tra i due “pugili super-massimi”: da una parte Maigret e dall’altra Guillaume. C’è tutto un capitolo in cui i due si affrontano senza esclusione di colpi (verbali). Di converso c’è invece un altro capitolo dove, in contrasto tra i due massimi, c’è un combattimento tra due “pesi mosca”: la madre Serre e Tine, che sono in sala d’attesa. Alla fine sarà il nostro Jules ad uscire vincitore con il colpevole in mano, anche se non vi dico chi è. Perché Maigret è massiccio nel suo peso, mentre Serre è molle. E Guillaume finirà per sgonfiarsi davanti alle intuizioni temporali del commissario, che lo porteranno ad individuare i moventi del vero colpevole. Colpevole di due omicidi, almeno, ed in procinto a commetterne un terzo. Ho iniziato dicendo che questa dei contrasti tra ambienti sociali è uno dei pallini di tutta l’opera di Simenon. Infatti, lui aveva scritto nelle sue memorie di aver iniziato pensando ad un personaggio che, cambiando luogo e compagnia, si adeguasse, come lo Zelig di Woody Allen, alla situazione. Ha poi deciso di passare ad un più concreto atteggiamento, utilizzando l’occhio di Maigret come lente di ingrandimento di questo modo di rappresentare le sue vicende. Ed è Maigret, che, in tutte le vicende, osserva i vari modi di vivere, cercando di sverniciarli dalle sovrapposizioni esteriori, per arrivare alla sostanza, per arrivare a quello che Simenon chiama appunto nei suoi scritti “l’uomo nudo”. Come nel precedente, ci sono anche piccoli brandelli umoristici sparsi qua e là nel testo, quando ad esempio paragona il cappello di Lucas ad un abat-jour, o meglio ancora quando, dovendo portare la signora Maigret al Quai des Orfevres, le raccomanda di non lamentarsi che le stanze sono polverose e che ci sarebbe bisogno di una bella pulita! Per inciso chiudo con un’ultima chicca: in “Maigret al Picratt’s”, l’agente che con il suo sguardo ci introduce nel mondo di Pigalle, si chiama Jussiaume, come Freddie il triste. Omonimia voluta o solo uso improprio di qualche foglietto con dei nomi casuali?
“Maigret, Lognon e i gangster”
[tit. or.: Maigret, Lognon et les gangsters; ling. or.: francese; pagine: 495 – 653 (158); anno 1952]
Ci si avvia alla fine di questo calmo 1951, e nella prima settimana di ottobre, Simenon completa il suo nuovo Maigret. Rimanendo fedele a quel modello che si è imposto negli ultimi anni, di alternanza tra un Maigret ed un non-Maigret. È anche l’ultimo romanzo del forse ultimo anno veramente di calma nel suo esilio americano. Non si è mosso per tutto l’anno da Shadow Rock, non ha avuto problemi con le sue famiglie. Insomma, calma piatta. Ma è anche una calma che esaspera alcune sue idiosincrasie. Se infatti negli ultimi scritti, aveva nostalgicamente mostrato quanto gli mancasse Parigi e la Francia, qui vuole anche dimostrare come il vecchio mondo sia superiore al nuovo. E non potendo far viaggiare di nuovo Maigret (che è in ogni caso un commissario, quindi non è che se ne possa andare di qua e di là come un turista), ha l’idea balzana di far viaggiare i criminali. Ecco quindi che sono i gangster e le loro modalità criminali che sbarcano nel Vecchio Continente. Tutto il romanzo sarà quindi incentrato sui tentativi di Maigret di bloccare questi criminali, dimostrando, alla fine, la superiorità continentale, a dispetto delle molte persone che per tutto il romanzo lo consigliano di desistere. Consigli che ovviamente non fanno che aumentare la voglia di Maigret di far vedere cosa sia capace quando gioca in casa. Il tutto però era iniziato dalle disavventure di Lognon. Questi, che abbiamo incontrato anche in precedenti romanzi, non fa parte della squadra di Maigret, anche se Lognon lo vorrebbe. È sfortunato, lamentoso, senza un minimo di grazia, afflitto anche da una moglie insopportabile ed irascibile (Solange). Come più volte descritto in questo che di Lognon è il romanzo più centrato, magari se fosse più umile, meno concentrato su sé stesso e sulle sue sfortune, Lognon potrebbe anche aspirare al meglio. Qui, trovandosi un possibile caso tra le mani, decide di cominciare da solo l’indagine. Mentre fa un appostamento, una macchina scaraventa sul marciapiede un corpo. Un morto? Forse. Lognon guarda, vede la macchina fuggire e comincia inseguimenti e ricerca di tracce. Peccato che, tornato sul marciapiede il corpo è scomparso. Peccato che loschi figuri, che non parlano francese, visitino casa Lognon mettendo molta paura alla moglie. Intanto Lognon sembra essere scomparso e Solange chiede aiuto a Maigret. A questo punto, il lamentoso deve per forza affidarsi al commissario. Gli racconta tutto. Maigret capisce anche che ci sono di mezzo non francesi. Con Lognon visita il ristorante di Pozzo, un italo americano, dove comincia a trovare dei fili da annodare. Ci sono due loschi figuri di gangster americani che si aggirano per Parigi: Charlie Cinaglia e Tony Cicero. Non si sa la loro missione, ma si appoggiano ad un altro americano, specialista in truffe, Bill Larner. Che un po’ li aiuta, ma non pare convinto né troppo coinvolto. Mentre Maigret cerca traccia dei due anche con l’aiuto del suo amico dell’FBI, tramite anche telefonate transoceaniche, Lognon viene lasciato di guardia da Pozzo. Ma viene scoperto, malmenato e quasi ucciso. Da questo punto in poi lo lasciamo in ospedale a curare le ferite, mentre Maigret continua le sue ricerche. Andando anche a stanare Luigi, altro ristoratore italiano, meno convolto di Pozzo, ma che qualcosa sa. Tanto che esce fuori un collegamento con gli ippodromi, e Maigret mette in scena anche un altro ispettore “fuori squadra”, il Barone (sia per il portamento, che per il nome che si chiama, appunto, Baron). Intanto anche Luigi, oltre Pozzo (nonché il suo amico americano) cercano di convincere Maigret di non immischiarsi nei fatti americani. Nella parte finale, Simenon comincia anche a tributare omaggi agli hard-boiled americani: c’è un pedinamento che finisce a pistolettate con un poliziotto quasi ucciso, un ladro ferito che fugge. Sarà riuscendo a trovare le tracce del ferito, che Maigret ed i suoi scoprono il nascondiglio di Tony e Charlie, e dopo una colluttazione (in cui Maigret riceve anche una pistolettata nel cappello) li arrestano. Ma il bandolo verrà fuori dal Barone, che si ubriaca con un americano di nome Harry, ma che alla fine, in una divertente scena nel suo appartamento tra fiumi di alcool ed altro, consegna a Maigret gli ultimi fili per far segnare il vantaggio definitivo ai francesi. C’è stato un assassinio a Saint Louis, da parte di un mafioso per altro insospettabile, e di cui è stato testimone Joe Mascarelli, detto Joe lo Sciatto. Questi, paventando di essere fatto fuori dai sicari del boss, fugge in Francia. Ma alla fine chiede aiuto agli americani di casa, che inviano Harry Pills per riportarlo sano e salvo a casa. Prima però lo trovano Charlie e Tony che cercano di farlo fuori. Non riuscendo, e vedendo sparire il corpo, i due coinvolgono Bill nella ricerca. Che un po’ li aiuta, ma quando i due quasi uccidono Lognon, Bill, specialista in truffe, se ne va e sparisce. Harry riesce a salvare Joe, a curarlo. Ed alla fine lo riporterà a Saint Louis. Mentre Charlie e Tony rimarranno in carcere a Parigi. Benché non riuscitissimo, è un romanzo che ribadisce alcuni dei migliori punti fermi di Simenon. La capacità di variare registro, dal duro delle sparatorie (mirabile l’agguato a Maigret in rue Grange-Batelière vicino al Passage Joufroy, uno dei più belli di Parigi in quel di Montmartre e vicino all’Hard Rock se conoscete la zona), al comico delle disavventure di Lognon o della descrizione del racconto alcolistico di Baron, fino ai tocchi poetici, quando, prima di ingaggiare la furiosa lotta che porta all’arresto dei gangster, ci parla del vento e delle nuvole della campagna. Segnaliamo infine alcune piccole perle: la cena notturna tra Maigret e Luigi, dove quest’ultimo dà indicazioni decisive al commissario, si svolge in uno dei locali aperti giorno e notte, il bar “La Coupole” a Montparnasse (visitato varie volte, oh yes). Poi abbiamo la descrizione di uno strumento, in francese chiamato “bélinographe”, che sarebbe in italiano corretto “telefoto” (mentre viene erroneamente tradotto con telescrivente), un aggeggio, inventato negli anni ’20 da Bélin (francese e non genovese) per la trasmissione a distanza di fotografie, e molto utilizzato dai giornali sino ai primi anni ’60. Infine quel tocco umoristico sul detective americano Harry Pills, quello che Baron non ricordava ma aveva un nome di cantante. Ovvio che a noi Pills dica poco, ma per i francesi Jacques Pills, cantante, è stato una celebrità negli anni ’40 e ’50, non solo come cantante, ma anche come marito nel 1952 (e per quattro anni) di Edith Piaf. Altra chicca: testimone della sposa in quel matrimonio fu Marlene Dietrich. Beh, ora basta spigolature, che ne ho tirato fuori carrettate. Certo che Simenon è proprio una fucina di connessioni e di rimandi vari (interni ed esterni) che mi fanno godere le pagine, anche se, ripeto, questo romanzo non è ai suoi massimi espressivi.
“La rivoltella di Maigret”
[tit. or.: Le revolver de Maigret; ling. or.: francese; pagine: 657 – 811 (163); anno 1952]
Peccato che anche il quinto romanzo di questo volume delle avventure di Maigret sia in linea con i precedenti: qualche spunto, punti di interesse, ma non verso le migliori vette di Simenon. Tra l’altro, passano diversi mesi tra la scrittura del precedente e questa, poiché, per la prima volta da molti anni, la “famiglia Simenon” fa una lunga visita in Europa. I clamori del dopo-guerra sono ormai alle spalle, ed a marzo, lo scrittore, con Denyse ed il loro figlio di tre anni, si imbarca a New York sul piroscafo “Liberté” volendo fare un giro nel Vecchio Continente. Non solo grandi trionfi a Parigi (compresa una visita ufficiale al Quai des Orfèvres), ma un salto in Costa Azzurra da Jean Cocteau, affacci in Italia a Milano e Roma, nonché una toccante visita a Liegi alla madre ammalata. Avrà anche il tempo di essere insignito del seggio all’Accademia Belga di letteratura, di scrivere un ricordo dei suoi primi scritti giornalistici di venti anni prima, ed alla fine anche di subire un processo, che un oscuro negoziante si era riconosciuto in un personaggio bistrattato nella sua non ortodossa biografia (un giorno o l’altro parlerò anche di questo “Pedigree”, dove Simenon narra della sua vita in modo che “niente è vero, ma tutto è esatto”, sublime). A giugno, finalmente, torna negli States e dà subito vita a questa nuova avventura, dallo svolgimento veloce (anche qui, l’indagine non dura più di tre giorni), ma che stenta a decollare, anche perché, per molto tempo, non si capisce se sia o meno un giallo. Per gran parte, infatti, è più uno studio psicologico sui personaggi. Soprattutto i due corni del dilemma, il patetico e decaduto barone Lagrange e la sua vecchia amante ora, forse, complice, Jeanne Debul. Ma tutto nasce antecedentemente, con il solito andamento lento. Maigret deve andare a cena dal suo amico, il dottor Pardon (che qui è collocato in boulevard Voltaire, mentre in altre storie abita in rue Popincourt), che gli vuol fare incontrare un suo amico che ha dei problemi. L’amico non si presenta, adducendo malesseri improbabili. Maigret lo va a trovare e scopre che è proprio il padre di quel giovanotto che la mattina precedente si è presentato a casa sua, aspettandolo inutilmente, e poi dileguandosi con la sua pistola. Inciso: riferimento incrociato, la pistola è quella che è stata donata a Maigret nel romanzo “Maigret va dal coroner”. Maigret non è convinto dell’atteggiamento del barone Lagrange, e comincia ad indagare sulle sue mosse, scoprendo che il giorno prima ha portato un baule al deposito bagagli della Gare du Nord. Lo apre e vi trova il corpo addirittura di un deputato, André Deteil. Il barone tace, e Maigret cerca allora di trovare le tracce del figlio Alain. Scopre che si è recato dall’amante del barone, la sopra citata Jeanne, che però è improvvisamente partita per Londra. Scopre che anche Alain ci sta andando, e come succede raramente (questa è solo la terza volta in 35 romanzi) parte anche lui verso Londra. Tralascio i piccoli umorismi che Simenon sparge contro i cugini d’oltre manica, perché quello che interessa è il confronto, duro, che avrà con la signora Debul. È lei l’anima nera della storia, ed è lei che Simenon descrive a tinte fosche e spregiative. Ma da buona dura, riesce a tirarsi fuori dalle secche, perché, benché sia lei l’autrice dei piccoli ricatti che le consentono da vivere, nulla è entrata nella morte di Deteil. Maigret esce sconfitto da Jeanne, ma trova Alain prima che questi faccia sciocchezze con la sua pistola. Anche qui, nel confronto con un ragazzo di 19 anni, esce l’animo paterno del commissario, che avrebbe voluto un figlio ma non è mai riuscito ad averne (sappiamo tutto quando ne scrisse nel precedente “Le memorie di Maigret”). Si lascia andare anche ad altre reminiscenze tristi, il nostro commissario, ricordando ad Alain che anche lui ha perso la madre quando era piccolo, e con grande ed irrecuperabile dolore. Maigret ed Alain tornano a Parigi lasciando la colpevole, almeno moralmente, Jeanne a Londra. Ma questa strana inchiesta non avrà una soluzione limpida. Il barone, realmente o astutamente, dà fuori di testa, e non sapremo se il colpo mortale è partito volontariamente o accidentalmente. Non è questo poi, come sappiamo che interessa Simenon, che voleva tornare al suo Maigret mettendoci un po’ della psicologia che sta usando nei suoi romanzi non maigrettiani. Non è un caso che nel capitolo 8 Simenon scrive “sino alla fine, questa non era un’inchiesta come le altre”. Ma a parte la psicologia, su cui altri hanno ben dissertato, torniamo pure su alcune chicche del Simenon americano. L’umorismo, al solito, come durante l’interrogatorio della cameriera di Jeanne, la simpatica Georgette, che, a domanda di Maigret, risponde di non sapere bene come il commissario veniva descritto nei giornali, ma di persona, era meglio. E Maigret ne è non poco imbarazzato. O quando nel capitolo 7, dovendo Maigret fare un appostamento, si lamenta, anche per telefono, di non riuscire a mangiare, poi di non riuscire a fare pipì, poi di non riuscire a fare altro che restare lì, ad aspettare, e “a fare l’imbecille”. Divertente l’accostamento, nel primo capitolo, del giovane Alain con il “Bébé Cadum”. Il Cadum era una marca di saponi da toilette, che utilizzavano come poster pubblicitario un neonato sorridente e pulito vicino alla linea di saponette. Inciso, nei tempi moderno, Cadum venne acquistato da Palmolive, e poi da Colgate, ma il bimbo rimane sempre il marchio di fabbrica. Come rimane un marchio il passaggio per il cibo, e qui il libro finisce citando una cena al cui centro c’è un piatto definito “spettacolare”: la testina di vitello tartarugata. Un piatto tipico non della cucina francese di Maigret, ma di quella belga di Simenon, che si ottiene unendo, ad una testina di vitello, del limone, del Madeira, del pepe, torli d’uovo e gamberi. Credo sia di una pesantezza invalicabile. Ma è con questa cena che si chiude il romanzo, e il libro.
Come ben sapete oramai, seconda domenica ed ecco puntuale l’allegato per curare le malattie, anche se questa volta la paura non mi sembra centratissima.
Inoltre, sapete anche che queste giornate sono più dedicate all’interno (verso la mamma che tanti Maigret mi ha regalato) che verso l’esterno dei viaggi. Anche per alcuni problemi passaportuali, fortunatamente e con velocità già risolti. Ed allora continuiamo a goderci questo tempo improbabile, ma che rinfrescando un poco ci consente di sopportare le avversità.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
SETTEMBRE 2017
Ovvio che quando qualcosa gira intorno, anche se non si avvicina, poi sembra che tutto lì converga. Anche questo mese di libropedia.

MORTE, PAURA DELLA

Don DeLillo                       “Rumore bianco”
Alejandro Jodorowsky        “Quando Teresa si arrabbiò con Dio”
Vi siete mai chiesti come fanno gli altri ad andare avanti sapendo che possono essere spazzati via da un momento all’altro? Vi capita qualche volta di svegliarvi la notte con i sudori freddi, inchiodati al letto dalla terribile consapevolezza che smetterete di esistere, e durerà in eterno?
Non siete i soli. La consapevolezza della morte è ciò che ci differenzia dagli animali. Come scegliamo di affrontare questa realtà, invece - se preferiamo credere in Dio e in una vita ultraterrena, oppure convivere con l’idea della non-esistenza, o semplicemente cerchiamo di non pensarci - è ciò che ci distingue gli uni dagli altri.
Jack Gladney, professore di Studi Hitleriani in un college del Midwest, soffre costantemente di paura della morte. Jack è ossessionato da quando morirà, dal non sapere se morirà prima lui o la moglie Babette (e spera segretamente che tocchi a lei), e dalle dimensioni di «buche, voragini e altri spazi vuoti». Un giorno scopre che Babette ha paura della morte tanto quanto lui. Fino ad allora, quella donna bionda e corpulenta era rimasta tre lui e la sua paura, e aveva rappresentato la «luce del giorno e la concretezza della vita». La scoperta lo lascia turbato - e scuote le fondamenta del suo matrimonio, altrimenti felice.
Jack esplora ogni possibilità, filosofica o meno, di superare la paura della morte, dal cercare protezione nella folla al credere nella reincarnazione. («Come pensa di trascorrere la sua risurrezione?» gli domanda, amichevole, un Testimone di Geova, come se parlasse di un weekend lungo). Il modo migliore che trova per tranquillizzarsi (o almeno distrarsi per un po’) è sedersi a guardare il suo bambino che dorme, un’attività che lo fa sentire «devoto, parte di un sistema spirituale». Per chi ha la fortuna di avere a portata di mano un bambino addormentato, si tratta di un balsamo che raccomandiamo di cuore per ogni genere di paura, non solo quella della morte.
Forse uno dei tentativi di Jack funzionerà anche per voi. In caso contrario, “Rumore bianco” vi permetterà, almeno, di associare il pensiero delia morte a qualche risata. DeLillo è uno scrittore divertente, e la sua descrizione di Jack mentre cerca di parlare tedesco è uno dei momenti più buffi della letteratura. Leggete questo libro di notte, quando arriva la paura, e la vedrete trasformarsi in una risata.
L’altro volume da tenere accanto al letto è “Quando Teresa si arrabbiò con Dio”. Questo romanzo sulla famiglia Jodorowsky, di origine yiddish ed emigrata in Cile, può essere letto più e più volte, poiché gli eventi che racconta si susseguono in una sorta di eterno ciclo, ed è scritto in maniera così densa che a ogni rotazione troverete nuove gemme e nuove scoperte. Siccome la storia copre più di un intero secolo capita pure che qualcuno muoia, e succede così spesso e in tono così pragmatico o magico che i personaggi non possono che accettare il naturale ordine delle cose - un atteggiamento che, col tempo, potreste arrivare a condividere.
Se ciò non accade, continuate a leggere il libro. Più e più volte, come si è detto. Una notte, forse, quando volterete stancamente l’ultima pagina e ricomincerete da capo, inizierete a comprendere la necessità che tutte le cose buone, prima o poi, finiscono.

Bugiardino

Uno dei rari mesi in cui ho letto tutti i libri consigliati per la paura della morte. Ecco, benché ne abbia capito il senso, rimango molto lontano, che né DeLillo né Jodorowsky hanno soddisfatto i miei appetiti letterari.
Don DeLillo “Rumore bianco” Repubblica Novecento euro 4,90
[trama pubblicata il 22 maggio 2011]
Mi ero sempre rifiutato di accostarmi a DeLillo, che in qualche misura accostavo a Leavitt e Bretton Ellis. Ebbene, facevo bene a continuare così. Che libro inutile! Ovviamente ha vinto mucchi di premi, soprattutto in America, e i critici lo accostano invece a Paul Auster (!). Io ci sento un abisso. Certo, non è un minimalista, anche perché scrive sempre romanzi fiume di pagine e pagine. Ma l’aspetto di toccare lievemente le cose, di stare lì a guardare, un po’ rimane. Ma poi viene preso dal fiume impetuoso di volere dire e fare. Comincia così ad inzeppare le pagine di tutte le tematiche calde della fine dello scorso millennio: il consumismo rampante, la saturazione mediatica, l'intellettualismo spicciolo, le cospirazioni sotterranee, la disintegrazione e la reintegrazione della famiglia, fino ad arrivare alle qualità potenzialmente positive della violenza umana. Usando quel tono tra l’alto ed il basso, tra l’umorista ed il dissacrante. Creando momenti di piacere (devo confessarlo) ma tutto di testa, quando il protagonista Jack è preso dai vortici di discussione con il figlio maggiore Heinrich. E tutta la trama viene imbevuta in questa estremizzazione dei modi, tanto per essere veracemente americana. Il protagonista è un professore di una piccola università americana, che si è costruito il suo spazio fondandovi il Centro di Studi Hitleriani (benché non sappia una parola di tedesco). Ed all’Università è in continua discussione con il suo amico Murray che cerca di fondare un analogo centro ma sulla figura di Elvis Presley. È sposato con Babette, sua quinta moglie, e vivono insieme in una casa con una marea di ragazzi, due figli di lui e due di lei, poi lui ne ha altri due sparsi per il mondo. E tutto il romanzo scivola, per le sue quasi 400 pagine, tra questi personaggi che si vivono, che sentono radio e televisione, che vanno al supermercato (tutti elementi che producono quel rumore di fondo, quel “rumore bianco” del titolo, che è, questa sì, una delle caratteristiche negative del mondo moderno), che girano per le strade e si chiedono se prima dell’avvento della televisione fosse tutto così perdutamente inutile, che hanno paura di morire e cercano di trovare e provare di tutto (anche psico-farmaci) per vincere questa paura, che vedono la loro città invasa da una nube tossica (siamo poco prima di Chernobyl) che però non fa grandi vittime. Alimenta soltanto le paure e le fobie del bel modo di vivere americano. Da manuale, l’uscita della famigliola a cena, che compra cibo-spazzatura e se lo mangia in macchina. Mentre ne scrivo, raccontandone brandelli, sembra quasi interessante. Quello che mi lascia indifferente è invece proprio questo. Scivola via, pagina dopo pagina, cercando di toccare temi eccelsi, ma non lasciandomi una briciola di moto dell’anima da nessuna parte. Forse i 25 anni passati non sono stati clementi con i temi ed i modi del suo scrivere (ma quanti scrittori con più e più anni lasciano il segno? E come non ricordare il coevo “Soccombente” da poco letto…). Per di più, è trascinato nel mio negativismo la non accuratezza della confezione, che speravo voluta, ma forse no. Titoli di capitolo a volte in numeri romani ed altri in numeri cosiddetti arabi, il capitolo XVIII che perde la V, e diventa XIII. No, non mi è piaciuto. L’ho letto per vedere se, prima o poi, scattasse qualche meccanismo positivo. Purtroppo, sono arrivato alla fine e l’unica cosa che mi rimane sono qualche battuta qua e là dei due figli, Heinrich e Denise, che, forti dei loro 14 ed 11 anni, dicono le cose più sensate del libro. Cerco qualcuno, ora, che mi faccia cambiare idea. Per ora, il buon DeLillo torna nell’ombra cui lo avevo lasciato per tanti anni.
“Fotografano il fotografare.” (19)
“I medici perdono interesse per coloro che si contraddicono … Gli studi medici mi deprimono ancora più degli ospedali.” (87)
“Si passa la vita a dire addio agli altri. Come si fa a dirlo a sé stessi?” (316)
Alejandro Jodorowsky “Quando Teresa si arrabbiò con Dio” Feltrinelli s.p. (prestato da Alessandra)
[trama pubblicata il 7 settembre 2014]
Anche questo viene dal natalino dell’arabista, e sono stato “piacevolmente” costretto a leggerlo dall’insistenza di chi voleva un parere su di un autore che conosco (per altre cose di cui dirò) e che non era riuscito a convincere. Veniamo allora a Jodorowsky, che frequentavo una trentina di anni fa, quando insieme al geniale Moebius diede vita ad uno dei più bei fumetti della storia dei comics: “L’Incal”. Una storia onirica, complicata, ma rese graficamente da Moebius con una capacità e semplicità che ne smussava i toni altri. Conoscevo anche in parte l’opera teatrale del nostro, più che altro perché ero stato un ammiratore in gioventù del grande Fernando Arrabal. Poi lo avevo lasciato andare per la sua strada, non convinto né dalle sue performance filmiche (“El Topo” o “La montagna sacra”), ed in seguito per quella svolta verso la disciplina esoterica da lui inventata: la psicomagia. Mi era sembrata una strada non mia, che non mi avrebbe portato nulla di interessante, coniugando dimensioni che (in parte) conosco come carattere e psicologia, ad altre che sinceramente non mi convincono o coinvolgono (magie, onirismi, ed altri stati di alterazione). Certo Jodorowsky è un personaggio interessante, con quegli anni passati alla corte di Marcel Marceau che sicuramente andrebbero ripensati e rivalutati. In questo libro, che non è altro che la trasposizione magica della storia della famiglia Jodorowsky, a partire dai nonni paterni per arrivare alla nascita del nostro, questa storia viene “stravolta” non tanto capovolgendone o inventandone avvenimenti, quanto amplificandoli ed inframmezzandoli da salti logici, che secondo Jodo fanno parte del suo realismo magico. Come quando parla del terremoto che accoglie i suoi all’arrivo a Valparaiso o quando immagina sé stesso nella sua incarnazione precedente che tira le fila per far congiungere quelli che aveva deciso fin dalla cacciata degli ebrei dalla Spagna che fossero i suoi genitori, cioè Jaime e Sara Felicidad. La realtà, depurata dai suoi voli eccessivi, è di contro abbastanza (anche se non completamente) semplice. Nel tardo diciannovesimo secolo, Aleksandr Levi (n.1873), nonno paterno di Jodorowsky era un ebreo ucraino che nel 1900 si sposa Teresa Groismann (n.1879). L'anno seguente, nasce Jaime, il secondo di cinque fratelli (il figlio maggiore muore annegato e nonna Teresa ne sarà stravolta per tutta la vita) e sarà l’unico ad avere a sua volta dei figli. Nel 1909, il nonno compra il cognome Jodorowsky da un nobile polacco e cambia legalmente il suo originale nome ebraico, Levi, probabilmente a causa dei pogrom che avvenivano nella regione, ma secondo l'autore l’ha fatto per evitare al polacco di essere arruolato nell'esercito. Poco prima della fine della prima guerra mondiale, i nonni paterni di Alessandro fuggono in Francia. A Parigi sono aiutati da un gioielliere di nome Moishe Rosenthal, membro del Comitato israelita di Mutuo Soccorso. Poco dopo partono per Marsiglia e, come molti altri immigrati ebrei della diaspora, da qui si rifugiano con i loro figli in Sud America, con un viaggio che termina in Cile, da dove non torneranno mai più in Europa. La migrazione di sua madre, Sara Felicidad Prullansky, nata a Buenos Aires è più complicata. Durante l’epoca dei pogrom fomentati dallo Zar Alessandro III, Jashe, la nonna materna, sefardita, bruna di pelle, viene violentata da un cosacco. Incinta, fugge dalla Russia, sbarca in Argentina, dove dà alla luce una ragazza dalla pelle di marmo e dai grandi occhi azzurri: Sara. La nonna Jashe sposa poi in Argentina un uomo d'affari ebreo, Mosè, con il quale ha altri due figli. La famiglia si trasferisce a Iquique, un porto fiorente dove venivano imbarcati nitrati per l’Europa. Sua madre Sara ha una relazione peccaminosa con un non-Ebreo e la famiglia la costringe quindi a sposare Jaime Jodorowsky, spostandoli nella vicina Tocopilla per sfuggire ai pettegolezzi della comunità ebraica di Iquique. Pertanto, nel suo albero, oltre agli ucraini paterni, ci sono per via matrilineare ebrei polacchi (i Prullansky), i lituani (Trumper), i russi di origine germanica (Groismann) e sefardita (Arcavi). Tuttavia Jodorowsky non ha mai ricevuto come figlio l'educazione religiosa ebraica (o di qualsiasi altra religione), se non altro perché suo padre, un militante comunista, era profondamente anti-religioso. Anche per questo, nella parte cilena, l’autore infarcisce il tutto con manifestazioni, attentati anarchici, ed altre diavolerie pseudo-rivoluzionarie. Jodorowsky ha spiegato innumerevoli volte che dal divieto del culto religioso, emerse il suo interesse per lo studio di molte religioni e dei loro simboli, che lo porta alle sue teorie attuali. Jodorowsky basa la sua metodologia sul presupposto che l'inconscio prende atti simbolici come fatti reali, in modo che un sacro atto simbolico magico può cambiare il comportamento dell'inconscio, e quindi se bene applicato, può curare alcuni traumi psicologici. Questi atti sono "su misura" e sono prescritti dopo che lo "psicomago" analizza le caratteristiche personali del cliente, anche studiandone l’albero genealogico. Per questo, Jodorowsky ha creato anche la Psicogenealogia. Questa parte della premessa che certi traumi e comportamenti inconsci vengono trasmessi di generazione in generazione, in modo che, un individuo, per diventarne consapevole e separarsi da loro, deve studiare e poi agire in base al suo albero genealogico. E questo risulta anche dal titolo di questo romanzo che si riferisce proprio alle origini di una persona. Il titolo spagnolo si riferisce a “Dove meglio canta un uccello”, riprendendo una frase ironica di Jean Cocteau che dice “Un uccello canta meglio sul proprio albero genealogico”. Mi convince allora Jodorowsky e tutto ciò? Devo proprio dire di no. Come non mi è piaciuta, non mi ha coinvolto la scrittura. Senza la mediazione della grafica, rimane un esercizio per “épater le bourgeois”, e non è nelle mie corde. Ritengo che Jodo abbia di certo una bella testa, ed una capacità di essere ancora ben lucido alla sua attuale età di 85 anni. anche se, appunto, le sue fantasie non mi incuriosiscono. Come, e per finire, nel sostenere nel libro di essere nato il giorno della caduta delle borse di New York (che ricordo essere il 24 ottobre del 1929), mentre in tutte le biografie risulta essere nato il 7 febbraio dello stesso anno. Mah!

Conclusioni

Questa volta siamo molto distanti. Soprattutto Alejandro non mi convince nel ruolo che gli assegna questo scritto. In effetti, lo sostituirei volentieri con “L’amante giapponese” di Isabel Allende, dove la morte è presente dalla prima all’ultima pagina. Paura? Forse, ma tanto quella c’è sempre.

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