Torniamo al mio immancabile
Cussler con quattro avventure non proprio all’altezza delle sue uscite
migliori. Anche se è una discreta panoramica sulle uscite della fucina del mio
amato avventuriero. Infatti abbiamo una trama con al centro Kurt Austin (Numa file),
una con Dirk Pitt (il classico), una con i coniugi Fargo (Fargo file) ed una
con il capitano Cabrillo (Oregon file). E forse neanche tanto stranamente la
migliore è proprio l’ultima arrivata, quella dei Fargo.
Clive Cussler & Graham Brown “Uragano” TEA euro 9,90 (in realtà,
scontato a 8,42 euro)
[A: 18/02/2015– I:
28/01/2017 – T: 21/02/2017] - && +
[tit. or.: The Storm; ling. or.: inglese; pagine: 366; anno 2012]
Nella
sterminata biblioteca che contiene le opere in italiano del maestro (mio)
dell’avventura, eccoci questa volta alle prese con una delle serie maggiori del
prolifico autore americano (e della sua factory). Siamo alle prese con quella che
viene chiamata in gergo “NUMA file”, il sottoprodotto maggiore delle avventure
di Dirk Pitt, dove i caratteri principali sono rappresentati da Kurt Austin,
capo dei Progetti Speciali, e del suo aiutante Joe Zavala. Questo è il decimo
episodio, dove (a partire dal precedente) il nostro Clive è coadiuvato nella
scrittura da Graham Brown. L’avevo iniziato poco prima di partire per il Laos,
ma essendo troppo ingombrante, ho continuato la lettura solo al ritorno. Come
nei classici di Cussler, cominciamo con un prologo prima di immergerci nella
vicenda attuale. Anzi con due. Uno relativo all’affondamento nel 1943 di una
nave militare americana da parte dei giapponesi. Il secondo nello Yemen del 1967,
dove una ricca famiglia nomade yemenita viene sterminata, a parte il piccolo Jinn.
A causa di un’oasi del deserto e della sua acqua. Tuttavia non sono i due
prologhi classici delle avventure di Dirk Pitt, che servono ad alcune parti del
racconto, non hanno il “mistero” che generalmente sottendono i prologhi delle sue
avventure. Il primo porterà alla scoperta di un misterioso aggeggio capace di
produrre suoni fastidiosi per distogliere un nemico che attacca. Il secondo per
spiegare, in modo psicologico, perché Jinn diventerà il cattivo della storia.
Che la storia sarà tutta incentrata sull’acqua e sulla potenza che si può avere
nel caso si riesca a conquistarla. O a condizionare la meteorologia, riuscendo
a far piovere (o non piovere) come e quando si vuole. Il via reale alla storia
avviene dopo la scomparsa di una nave di ricerca della NUMA che si trova
nell’Oceano Indiano per svolgere dei normali controlli. Un componente
dell’equipaggio nota una strana chiazza sulla superficie del mare, sembra olio
ma non lo è in quanto poco dopo uno sciame di strane particelle si riversa
sulla nave uccidendo tutto l’equipaggio. A questo punto si scatena il solito
grande circo delle avventure dei nostri amici della NUMA. In prima fila,
soprattutto Kurt (anche se Joe gli dà sempre una mano nei momenti difficili),
aiutato anche dai simpatici coniugi Trout. Si reca a Malè per indagare sulle
morti, viene agganciato da Leilani, sorella di uno dei morti che non ce la
conta giusta (sempre troppo al centro dell’attenzione). Con i potenti mezzi
dell’organizzazione che ha alle spalle, scopre che potrebbe essere un qualche
mini-drone, di cui non si capisce la natura. Però si capisce che possano essere
nati dai progetti del facoltoso Marchetti. Che vanno a trovare e che portano
dalla loro parte. La parte “fantascientifica” (ma solo di poco) è la presenza
di questi piccoli robot, che possono portare cambiamenti climatici nel momento
che, presenti in gran numero, possono far variare la temperatura delle acque.
Per fare questo, tuttavia, devono essere in grado di trovare combustibile per
potersi moltiplicare. Qui la tremenda idea, di utilizzare qualsiasi cosa che
incontrano sul loro camino, anche essere umani, che, una volta parcellizzati,
possono benissimo sostituire altri elementi di sostentamento. Stando da
Marchetti, Kurt capisce chi può esserci dietro tutto ciò. E parte in quarta con
Joe. Ovviamente, scopriamo che Leilani è una finta Leilani, messa lì proprio
dal cattivissimo Jinn. Il quale aveva due scopi in mano: attirare grossi
capitali (egiziani e cinesi) per finanziare il proprio progetto e creare un
cambiamento climatico, spostando la tempistica sia dei monsoni indiani che
delle inondazioni nilotiche. È anche abbastanza ovvio che Cussler & co ci
facciano dei pipponi su come cambiamenti tali possano portare a risultati
imprevedibili, nel medio e lungo termine. Ma a Jinn poco gliene frega. Per
convincere poi i finanziatori ad aprire la borsa, il nostro super cattivo,
pensa di utilizzare i robottini anche per distruggere la diga Nasser, ed
allagare l’Alto Egitto e la Nubia. Joe si occuperà dell’Egitto. Kurt del
cattivo, e di liberare la vera Leilani da lui rapita. Tutto finisce al solito
con la vittoria dei buoni, anche se dopo lunghe ed estenuanti lotte, anche con
qualche perdita marginale. Ma il tono è disteso, l’ambientalismo è salvo, e
l’amore, se c’è, rimane abbastanza sullo sfondo (anche perché l’hawaiana ha un
fidanzato…). Tutto bene, fatte salve motivazioni, e qualche digressione
laterale (tipo quella dell’isola del Pacifico con quegli strumenti citati nel
prologo), e fatta salva la pessima idea di chiamare il cattivo Jinn, come i
folletti delle favole arabe. Un nome più neutro sarebbe stato più appropriato.
Come solito commento finale, infine, la solita domanda ai traduttori: perché
dall’inglese “Tempesta (Storm)” si è passati all’italiano “Uragano
(Hurricane)”. Misteri editoriali insondabili! Forse l’uragano mette più paura
di una semplice tempesta. Allora, chiamatelo “Tsunami” e non se parli più.
Clive & Dirk Cussler “La freccia di Poseidone” TEA euro 9,90 (in
realtà, scontato a 7,42 euro)
[A: 03/04/2015– I: 14/05/2017 – T: 17/05/2017] - &&
e ½
[tit. or.: Poseidon’s Arrow; ling. or.: inglese; pagine: 366;
anno 2013]
Sono
sinceramente dispiaciuto che questo nuovo romanzo delle avventure di Dirk Pitt
sia leggermente inferiore alle attese. Nell’enorme fucina della “factory” di
Cussler, in genere i libri della serie principale, questa appunto di Dirk Pitt,
sono un pochino sopra gli altri. C’è più cura, più tensione, anche intrecci più
coinvolgenti, che magari toccano qualche tema socio-ambientale da non
disprezzare. Invece, in questo, c’è un pochino meno di tutto. Compresa anche
qualche non dico confusione, ma mancanza di delucidazioni. Intanto, per non
farci mancare nulla, si ripercorrono due strade usuali: un prologo dal passato
ed un cammeo. Passato non tanto remoto, visto che saltiamo solo nel 1943, e con
un mistero reale: quello della scomparsa, dopo la partenza da Singapore, del
sommergibile italiano Agostino Barbarigo. Scomparsa rimasta misteriosa, ma che
Cussler farà collegare al misterioso carico del sommergibile stesso. Un
miscuglio di minerali, di colore rosso, contenente una particolare terra rara,
la samarskite. Proprio sulle terre rare si fonda poi l’impianto tecnologico del
romanzo: utilizzando miniere di monazite, si estraggono le “terre rare”,
moderatamente radioattive, ed utilizzate nei superconduttori, nei motori ibridi
e nelle fibre ottiche. Cussler propone anche il loro uso per ottenere un
sottomarino a super cavitazione (elemento che viaggia nell’acqua all’interno di
una bolla di gas, come fanno gli attuali siluri russi Shkvel, ma che non sono
ancora mai stati sperimentati per oggetti più lunghi di un paio di metri).
Quindi, chi controlla le terre rare, controlla una buona parte dello sviluppo
tecnologico in questa direzione. Secondo fonti economiche attuali, dal 1990 il
maggior produttore di terre rare è la Cina. Dopo questa dotta introduzione, che
sicuramente vi avrà interessato, e lasciando il cammeo ai commenti finali, rientriamo
nel solco del romanzo e della tradizione dei libri di Cussler. C’è il cattivo
principale, un austriaco che, in base a tutta una serie di avvenimenti di cui
poco ci interessa qui, decide di diventare, con le buone o le cattive, il
monopolista di terre rare. Da un lato distrugge le miniere in essere (come ci
conforta Wikipedia, in California ed in Australia). Dall’altro, pirateggia
tutti i convogli che le trasportano. In ultimo tenta di impadronirsi del
prototipo di cui favoleggia Cussler, di un sottomarino a supercavitazione, il
“Sea Arrow”. Per fare questo, corrompe qualcuno nelle alte sfere americane
(ahó, sembra quasi leggere un libro su attività marginali di “The Donald”!),
che noi smaliziati lettori capiamo subito chi possa essere, mentre Pitt e soci
lo capiranno solo dopo 325 pagine. Non contento, uccide gli scienziati che lo
stanno progettando, cercando di trafugarne gli schemi costruttivi. In tutto
questo, ad un certo punto, viene coinvolto prima Pitt, e poi tutta la NUMA.
Dirk stava in vacanza con la moglie Loren, quando una nave da carico punta
senza controllo verso un molo. Con una tecnica che non vi dico, e da solo,
ovvio, il nostro super eroe, evita la catastrofe. Scoprendo che la nave
trasportava terre rare. Alla morte degli scienziati, Dirk si unisce ad
un’agente dell’FBI per la ricerca degli assassini, tale Ann Bennett. I due
formano una bella coppia d’attacco, con Ann che cerca anche di intortarsi Dirk.
Il quale tuttavia rimane fedele alla moglie Loren. Ovvio che da qui, potrà
nascere una bella amicizia, come direbbe Bogart in Casablanca. Per non farci
mancare nulla, vengono coinvolti nella ricerca del cattivo anche i figli
gemelli di Dirk, Dirk jr. e Summer. Tutto collasserà quando la NUMA, i Servizi
Segreti ed anche i cinesi, che l’austriaco cercava di “fare fessi”, scoprono la
base segreta del cattivo in quel di Panamá. Anche qui vi sorvolo i particolari
molto James Bond di tutte le cacce, gli inseguimenti, le lotte. Molto interessante
è l’inseguimento tra natanti che avviene lungo il canale di Panamá, tra chiuse
che si aprono e si chiudono, dislivelli, manovre al limite ed altre diavolerie
nautiche che (forse) farebbero la gioia del mio amico Renato. Alla fine
comunque, Dirk, aiutato dai cinesi, sbaraglia la base. Ann scopre la talpa. I
gemelli sveleranno il mistero del sommergibile italiano. Con una bella fine in
gloria per il varo del “Sea Arrow”. Dicevo del cammeo, sempre presente nelle
storie principali di Cussler (un po’ alla Hitchcock, tanto per far contento
Alessandro), che si presenta prestando uno zodiac-tender a Pitt che con quello
si mette all’inseguimento di alcuni banditi colombiani al soldo dell’austriaco.
Il tender appartiene, come ci dice l’autore, ad un certo … Clive Cussler.
Insomma, come dicevo, tutto nel solco della tradizione. Però… però, se non
usavo internet mi sarei perso gran parte del divertimento sull’uso delle terre
rare. Però non c’è una vera storia d’amore: Pitt è sposato, e felicemente, il
suo secondo, Al Giordino è uomo da mille donne e non da una, Dirk jr. viene da
un amore sfortunato nell’ultimo episodio (la sua donna muore a Gerusalemme, se
non vi ricordate ve lo dico io), e Summer non è mai al centro di una vera e
propria storia, quasi che gli autori, maschi, non siano capaci di imbastire
storie al femminile. Però non c’è neanche un qualche afflato ambientale, anche
se, ovvio, le terre rare sono radioattive, i cinesi sono cattivi, l’austriaco
di più. Ma tutto molto più soft di altre prove. Quindi, tutti gli elementi
della fucina letteraria delle serie di Dirk Pitt ci sono, ma attenuati, messi
in una sordina, che affossa un po’ tutto il romanzo. Un’ultima considerazione:
l’unica freccia del libro è quella del sommergibile, chiamato appunto “Freccia
del mare”. Certo, Poseidone è, anche, il re del mare. Ma non è mai citato in
nessuna delle 366 pagine del libro italiano. Due ipotesi: tagli editoriali di
parti ritenute poco incisive (ipotesi buona) o dimenticanza dell’autore
(ipotesi cattiva). O viceversa.
Clive Cussler & Thomas Perry “Sepolcro” TEA euro 9,90
[A: 24/08/2016 – I: 21/06/2017 – T: 26/06/2017] - &&&
-
[tit. or.: The Tombs; ling. or.: inglese; pagine: 346; anno 2012]
Dopo
tre libri scritti con Grant Blackwood, il nostro Cussler long seller, decide di
cambiare partner di scrittura, per questa nuova avventura dei coniugi Fargo. L’ottantenne
Clive coinvolge così il settantenne Thomas Perry, autore di alcune serie
avventurose di successo, per cercare di sollevare un po’ le sorti di questo
che, essendo il quarto e ultimo (per ora) spin-off della scrittura di Cussler,
rimane tuttavia abbastanza lontano dalle serie maggiori. Sia in gradimento che
in coinvolgimento. Spiego meglio quest’ultima parola: il divertente
coinvolgimento delle avventure descritte da Cussler deriva da quei prologhi più
o meno complicati e contorti, che, spesso, nascondono episodi storici (o
pseudo-storici) che stimolano la fantasia. Devo dire infatti, che questo quarto
episodio, rispetto ai precedenti, ha almeno il pregio di divertire da questo
punto di vista. Anche se poi, per molta parte del libro, oltre alla lotta buoni
vs. cattivi, c’è solo una sorta di guida di viaggio tra luoghi insoliti. Divertente,
ma spesso è meglio leggere Lonely Planet. Divertire perché questa volta viene
coinvolto niente di meno che Attila, cercando di sviluppare una trama
avventurosa intorno ad uno dei misteri del grande condottiero. Non tanto quello
della sua morte, avvenuta in Pannonia il 16 marzo 453 (casualmente 1500 anni
prima della morte di Stalin), quanto quello dell’ubicazione della sua tomba. Poiché
nei romanzi “alla Cussler” ci devono essere buoni e cattivi, ed essendo i primi
nella fattispecie i nostri eroi, i coniugi Fargo, il ruolo del cattivo viene
assunto da un malavitoso ungherese, che si ritiene discendente diretto di
Attila. Che vuole quindi ritrovare i resti dell’antenato sia per rinfocolare la
leggenda sulle sue origini, sia, più prosaicamente, per beneficiare del ricco
tesoro contenuto. E se quindi da un lato assistiamo alla lotta senza esclusione
di colpi tra i nostri e Arpad il cattivo, spesso coadiuvati da suoi sodali in
loschi affari per molta parte dell’Europa, compresa una lunga lotta con un
russo malvagio e senza scrupoli. Con tanto di rapimenti, fughe rocambolesche,
inseguimenti, ed altre appendici avventurose che qui tralascio. Dall’altro, in
modo più interessante, seguiamo le scoperte dei coniugi Fargo (aiutati dalla
maga dei computer Selma nonché dall’esperto della materia, il professor Albrecht).
Scoperte che iniziano proprio in Ungheria, anzi in Pannonia, ultimo luogo
conosciuto calpestato dal Flagello di Dio. E qui, in effetti, scoprono una
tomba che, per reperti e datazioni, si può far risalire al tempo della morte di
Attila. Ma non vi sono i tesori sperati, bensì un indovinello, che costringe i
nostri a ripercorrere la vita e le vicende del condottiero Unno. Trovano
un’iscrizione che fa iniziare la caccia al tesoro: Attila dice di aver sepolto
indizi a ritroso in cinque sepolture, e solo nell’ultima alla fine si troverà
quanto si sta cercando. Il primo indizio li deve portare nel luogo di uno dei
grandi momenti della vita di Attila. I nostri così volano in Italia, tra
Verona, Brescia e Mantova, laddove nel 452 Leone I incontrò e fermò Attila che
stava scendendo verso Roma per sottoporla ad un nuovo saccheggio. Seconda tomba
e secondo indizio: andate laddove fui fermato nella mia grande avanzata di
conquista. Eccoci allora ad accorrere nel luogo della battaglia dei Campi
Catalaunici, del 451, laddove i romani capeggiati da Ezio con l’aiuto dei
Visigoti, fermarono le conquiste di Attila. Per gli amanti della storia, si
ricorda che, se Attila avesse sfondato il fronte, la storia avrebbe avuto un
diverso corso, e l’Europa come la conosciamo ora forse sarebbe diversa. I campi
suddetti si trovano comunque in Francia a Châlons-en-Champagne sul fiume Marna.
Una nuova tomba viene trovata con un messaggio che fa riferimento alla morte
del fratello Bleda, avvenuta nel 445 in Romania, in quella città che ora si
chiama Alba Iulia. Che poi non sappiamo se fu morte naturale, o forse, come
Cussler suggerisce, fu proprio Attila a far fuori il fratello per regnare da
solo. Ma è ovvio che non ci si ferma qui, e nella tomba di Bleda, si fa
riferimento al padre di Attila, Mundzuk. Che muore a Talas nel Kazakistan nel
434. I nostri intrepidi coniugi, scansando mille pericoli, arrivano fin quaggiù,
in questa caccia al tesoro a ritroso nel tempo (avrete senz’altro notato che
ogni tomba è più antica della precedente). Qui c’è l’ultimo messaggio che fa
riferimento anch’essa ad una leggenda, con forse qualche punto di novità.
Perché pare che Attila fanciullo fosse stato inviato a Roma come pegno per le
alleanze degli Unni con l’Impero Romano. Facendola breve, e tagliando rami
secchi, i nostri scopriranno l’ultima dimora del grande sovrano nelle Catacombe
di Domitilla proprio a Roma. Dopo aver trovato tutti i tesori possibili, ed
averli consegnati alle autorità locali, dato che sempre dal cattivo Arpad sono inseguiti,
vi sarà un lungo scontro finale nella residenza californiano dei Fargo. Vi
lascio immaginare come andrà a finire. Insomma, alla fine è risultato più
divertente di quanto poteva essere all’inizio. Soprattutto perché mi ha permesso
di seguire e ricostruire la storia di Attila, cui avevo sempre pensato di
dedicare qualche minuto del mio tempo. Come detto, più che un libro, una guida
turistica. Che le parti di lotta ed avventurose mi hanno lasciato non dico
freddo, ma gelido (cosa che potrebbe esser un bene in questo torrido luglio
romano). Due ultime chicche per finire. Il nome del padre di Attila, che
significa “portafortuna”, non solo è citato nell’inno ungherese come uno dei
padri della patria magiara, ma è anche la radice di un cognome slavo molto
diffuso (Mandzukic, per chi si intende di bianco e nero). Infine, Sam e Remi,
quando sono nel Nord Italia, decidono di andare ad un ristorante di Mantova,
che si chiama “Ochina bianca”, che ho visitato anche io nei brevi soggiorni
mantovani. Un solo dubbio: è vero che ordinano un tipico dolce mantovano,
chiamandolo “Torta Sabbiosa”, ed è vero che esiste ed è una specie di pan di
spagna. Io, nei panni dello scrittore, avrei però optato per l’altro dolce
tipico della zona, la famosa Sbrisolona (una torta friabile alle mandorle).
Quindi, romanzo poca cosa, contorno storico interessante.
Clive Cussler & Jack Du Brul “Miraggio” TEA euro 9,90 (in realtà,
scontato a 4,95 euro)
[A: 01/12/2015 – I: 10/07/2017 – T: 12/07/2017] - &&
--
[tit. or.: Mirage; ling. or.: inglese; pagine: 406;
anno 2013]
Eccoci
allora alla nona avventura degli “Oregon file”, la sotto serie del grande
Cussler, dove la fa da padrone il capitano Juan Cabrillo e la sua superattrezzata
nave, la Oregon. Come i miei affezionai lettori sanno, Cussler ha ormai in
cantiere ben 5 storie seriali, dalla storica di Dirk Pitt, alla prima sotto
serie, i “Numa file” di Kurt Austin, dalle storie della nave Oregon e del suo
capitano Cabrillo alle vicende dei coniugi Fargo, per terminare con le
avventure del detective solitario Isaac Bells. Lasciando a parte quest’ultima,
che ha un suo andamento proprio, le altre andrebbero analizzate a coppie. Ed in
questo confronto, le avventure di Sam e Remi Fargo prendono consistenza e risalgono
dopo un inizio poco convincente, le avventure del comandante Cabrillo e della
sua Oregon stanno invece scendendo, anche perché sempre più legate alle guerre
americane, all’atteggiamento della CIA ed altre guerresche imprese. Come questo
“Miraggio”, che ha un solo merito indubbio, di cui parlerò più avanti, ma che
per il resto è un susseguirsi di avvenimenti improbabili e di vicende molto
guerrieri, quasi che Cussler pensasse di seguire Wilbur Smith sulle onde
dell’ultimo impresentabile personaggio di quest’ultimo. Le premesse della
storia, al solito, hanno radici nel passato, questa volta abbastanza prossimo. Prima,
al largo del Delaware, il 1 agosto 1902, il mercantile Mohican viene per
mezz’ora circondato da effetti magnetici inspiegabili, trovandosi ai margini di
una luminosità color cobalto che pare rendere di ghiaccio il mare intorno alla
nave. Svanita la luce, la nave riprende la rotta, mentre un battello con cinque
uomini sembra scomparso. Quando si torna invece al presente, vediamo prima il
nostro Juan che, con la solita sua audacia, libera da una super-protetta base
siberiano il suo amico Jurij Borodin, lì incarcerato per la sua inimicizia con
l’astro nascente della marina russa, l’ammiraglio Kenin (guarda caso amico di
Putin). La fuga riesce ma Jurij muore, non prima di aver detto una parola
chiave che servirà da grimaldello al romanzo “Tesla”. Questo è l’indubbio
elemento positivo di cui parlavo. Tutto il romanzo, infatti, è un dovuto e
doveroso omaggio allo scienziato serbo (o forse croato), naturalizzato
americano, ed alle sue invenzioni. O meglio alle sue visioni profetiche. Che
non solo Tesla è stato l’inventore e propugnatore dell’uso della corrente
alternata, ma anche di molte altre cose (piccole e grandi) legate
all’elettromagnetismo: il motore a corrente alternata, la bobina a doppia
spira, diversi strumenti che utilizzano campi magnetici rotanti, strumenti
fondamentali di sistemi per la comunicazione senza fili (antecedenti
all'invenzione della radio), oscillatori a radio frequenza, apparecchi per
l'amplificazione di onde stazionarie, apparecchi a raggi x, e via discorrendo,
fino ad alcune applicazioni che permettono la costruzione di aerei a decollo
verticale (VTOL). Ma Tesla era anche un grande visionario, oltre ad essere
ossessivo-compulsivo. Era legato inspiegabilmente al numero 3 (tanto che visse
gli ultimi anni della sua vita al New Yorker Hotel, nella stanza n°3327, al 33°
piano, tutti numeri divisibili per 3, appunto). Inoltre pensava, con i suoi
esperimenti sulla corrente, di poter realizzare l’arma finale, che permettesse
di porre fine a tutte le guerre. Un prototipo era stato messo appunto proprio
su quel battello scomparso nel 1902. Un nuovo esperimento venne messo in atto
dieci mesi dopo la sua morte, a Filadelfia, con quella che viene ritenuta una
delle più grandi bufale della storia americana (ma questa è una storia diversa
che meriterebbe essere seguita in diversi e più autorevoli contesti; basti
accennare che si trattava di un teletrasporto di una nave da Filadelfia a
Norfolk e ritorno, cosa che, secondo alcuni presenti, avvenne per 4 secondi, e
che secondo molti altri è solo una grande presa in giro). Fatto sta che,
partendo da Tesla, e da appunti che manteneva la vedova di Jurij, Juan risale
al lago d’Aral e ritrova il battello, il Lady Marguerite. Ovviamente è
coinvolto in azioni guerresche, che Kenin ed accoliti fanno di tutto sia per
fermarlo, che per distruggere tutte le prove eventualmente risalenti agli
esperimenti di Tesla. Perché Kenin è convinto della bontà delle teorie di
Tesla, fa di tutto per costruire questa nuova arma. Che una volta approntata sarà
messa all’asta, e che se dovesse cadere in mani sbagliate potrebbe essere
pericolosa per gli interessi degli Stati Uniti. Per risolvere tutti i misteri,
svelando alcuni file segreti dei servizi americani, Juan ed i suoi si trovano
alle prese con un sommergibile usato da Tesla nei suoi esperimenti e forse
coinvolto nella bufala di cui sopra. Qui si svolge la battaglia finale, con
Kenin ed i suoi che cercano di utilizzare l’energia pensata da Tesla per la
trasmissione elettrica senza fili come campo protettivo, creando quindi per i
potenziali avversari un effetto “miraggio”, per colpire qualcosa che è altrove,
e che risponde al fuoco invece direttamente. Tralascio molte parti quasi
inutili, sorvolo sul fatto che si i russi sono un po’ cattivi, ma i cinesi, per
Cussler (e per Trump) lo sono di più. Riconosco la buona idea di affrontare un
campo magnetico strambo in modo perpendicolare, cosa che offre minor resistenza
e permette a Cabrillo di “uscire vincitor”. Nonché di terminare con un
possibile appuntamento con una bella signorina. Ma tutto il libro rimane al di
sotto della normale capacità di presa dei libri di Cussler, riscattato, come
detto, solo dagli accenni agli esperimenti di Tesla. Un ultimo accenno
trasversale, sarà il grande espero navale Pelmutter (quello amico di Dirk Pitt)
che svelerà come abbai poi fatto il “Lady Marguerite” a finire sul lago Aral.
Come sottoprodotto “culturale” infine, il dramma del lago azero-uzbeko cui si
accenna nel libro è vero e reale. Tanto che mi viene quasi voglia di andarlo a
vedere.
Essendo
la seconda trama d’ottobre abbiamo anche un giro di trame dedicate, dalle
terapeute del libro, a chi è colmo di anni e d’avventure.
Come
aveva ben previsto Alessandra, la luna piena mi ha portato anche al rango di
prozio (nome dal sapore antico, ma di divertente scansione). Diamo quindi
benvenuto a Filippo, mentre il prozio cerca di incastrare le proprie giornate
con i futuri viaggi.
CURARSI CON I LIBRI di
Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
OTTOBRE 2017
Allora, visto che ottobre è anche
il mese genetliaco di mia madre, dedichiamo questa “cura” per novantenni
soprattutto a lei
NOVANT’ANNI, AVERE
I dieci migliori
romanzi per novantenni
Heinrich Böll Opinioni di un clown
Lewis Carroll Alice oltre lo specchio
Charles Dickens Casa desolata
Ernest Hemingway Il vecchio e il mare
Milan Kundera Il libro del riso e dell’oblio
Primo Levi Il sistema periodico
Gabriel Garcia Marquez L’autunno del patriarca
Salvatore Satta Il giorno del giudizio
Mario Soldati America primo amore
P. G. Wodhouse La stagione degli amori
Bugiardino
Senza per ora entrare nel merito
degli anni, di questa decine ne ho letti nel temo ben sei. Ma tre sono ben
lontani nel tempo. Non parlo di Carroll, ancora dei tempi adolescenziali. Ma
anche dei miei trent’anni con un Hemingway che non mi piacque (forse lo dovrei
riprendere ora che ne capisco meglio la scrittura, e che sono anche andato a
Cuba) ed un clown che invece tenne per molto tempo il posto privilegiato tra i
miei preferiti. Qui allora parlerò di Kundera (molto ondivago), di Gabo (che
non mi è piaciuto per nulla) e di un bellissimo, al contrario, Salvatore Satta.
Milan Kundera “Il libro del riso e dell’oblio” Adelphi euro 10 (in
realtà, scontato a 7,50 euro)
[trama pubblicata il 6 luglio 2014]
Quanti
anni erano che non prendevo in mano un libro dell’esule famoso? Tra una cosa e
l’altra, dopo “L’insostenibile” (letto per arboriana memoria e mediamente
gradito), avevo negli anni Ottanta e Novanta provato a leggerne. Ricordo di
averne iniziati almeno due, e di uno (“Il valzer degli addii”) ricordo anche di
essermene stufato dopo poche decine di pagine. Ora, col senno della maturità e
con la volontà di recupero, spinto anche da altre letture omologhe e marginali,
ho preso, letto, e mal digerito questo quasi quarantenne libro. Non dico
romanzo, che Kundera scrive affastellato, qui come spesso altrove. Ci sono
pensieri, trame che tracciano solchi di racconti, unioni e disgiunzioni. Quasi
a suggellare quello che in quarta di copertina ci si ostina a chiamare
“variazioni”, per riprendere uno dei tanti fili del narrare. Quel bel pezzo del
rapporto con il padre ormai malato e quasi incapace di parlare, e la sua
ostinazione di studio sulle variazioni di un pezzo di Beethoven. E non dico
che, probabilmente, inserito nel suo contesto storico, il testo non abbia una
sua valenza. Come non calarsi nello spirito del ’76, e pensare ai cechi (o
meglio, ai Boemi), al loro modo di vivere in una terra occupata, alle
ribellioni ed agli ostracismi. Ricordo che fu l’anno di uno dei più tristi fine
d’anno da me passati, proprio in quel di Praga, a casa dell’allora amico
lettore di italiano, con i miei sodali dell’epoca e con la mia allora
fidanzata. Ricordi di un paese bello, ma di tristezza immensa, con un’unica
girandola luminosa a segnalare il nuovo anno. E con un dolce fatto di latte
cagliato, zucchero e qualche fragola in pezzi. Ecco se mi calo nel mio io
d’allora, capisco meglio e bene lo scritto di Milan, la sua rabbia verso il
russo oppressore, la rovina del paese, la storia della ragazza che, per
aiutarlo, verrà bandita anche lei. Ed anche il muoversi per il paese seguiti da
macchine della polizia segreta. Nascondere lettere compromettenti. Cercare
lettere d’amore perdute. Ma questa comprensione non riscatta il testo generale.
Perché un testo che suoni le mie corde, deve anche rimanere vive al di là degli
anni che passano. E questo non sopravvive, in me, allo scorrere del tempo. Non
mi dà nessuna sensazione la lunga digressione sulle vicende di Tamina, del suo
amore perduto, dell’isola dei bambini, ed altre metafore che probabilmente non
colgo. Non mi coinvolge Mirek ed il suo strano ex-rapporto con Zedna la brutta.
Poco mi sembra cogliere nelle vicende del riso legato alla possibile
rappresentazione dei “Rinoceronti” di Ionesco (e ricordo ai deboli di memoria,
che Ionesco insieme a Borges è stato una delle punte del mio amore giovanile
verso la scrittura, che ancora persiste immutato verso di loro). E tutta quella
digressione sul rammarico (che questa dovrebbe essere la traduzione di
“litost”), con il rapporto tra lo studente e la bella (ma campagnola) Krystina,
con lo spaesamento tra la vita in campagna e quella in città, con gli
scrittori, le loro idee sulla poesia e sulla vita. Una parte di una pallosità
unica, con qualche sprazzo laddove si tenta dell’ironia. Ma subito annegato nel
rammarico generale di un qualcosa di incompiuto. Salviamo soltanto
quell’accenno all’oblio. Sì, il fatto che qualcuno ha scritto di un tempo
altro, che ha ricordato Gottwald e le epurazioni, l’agosto del ’68 ed i carri
armati russi, i tristi anni settanta, questo ha un suo senso. Quello di non
lasciar cadere quei tempi nell’oblio. Mentre leggo le parole di Kundera rivolte
a quegli anni, tornano come bolle le memorie di quei tempi. Non erano nel mio
oblio personale, che ora riesco a ripercorrerle in tutti e dieci quegli anni
giovanili. Ma forse nell’oblio collettivo sì. Ed allora, senza nessun ricordo
del riso, e con la consapevolezza che l’io di allora è sempre l’io mio attuale
(con qualche ruga in più e qualche slancio in meno), lasciamo che la memoria
ripercorra i tempi e ce li restituisca. Sperando in lettura coeve ma più
coinvolgenti.
“Stava con una donna brutta perché non aveva
abbastanza coraggio per andare con quelle belle.” (25)
“Il romanzo è frutto dell’umana illusione di
poter comprendere il prossimo.” (115)
“Quel che attirò Tamina furono le sue
domande. Non per il loro contenuto, ma per il semplice fatto che egli le
ponesse. Mio Dio, era talmente tanto tempo che nessuno le domandava niente! …
Solo suo marito le faceva incessantemente delle domande, perché l’amore è un
continuo interrogare.” (198)
Gabriel Garcia Marquez “L’autunno del patriarca” Mondadori euro 9 (in
realtà, scontato a 6,75 euro)
[trama pubblicata il 4 dicembre 2016]
Sarà pure consigliato dalle
libropeute di cui (abbastanza) mi fido, e sarà inoltre stato scritto da un
Gabbo appena uscito da un trip super-vincente come quello di “Cento anni”, e
sarà che il nostro grande colombiano ha impiegato anni e anni per scriverlo,
insomma sarà quel che sarà stato, ma devo dirlo subito (e lo avrete anche
capito dal voto): non mi è piaciuto. Ho trovato difficile la lettura, poco
coinvolgente, un lungo pamphlet contro il potere e le sue degenerazioni,
trasfigurato nella lingua come solo Gabbo sapeva fare. Ma non ce la posso fare
a sostenere con piacere dei periodi così lunghi senza punti che Marcel Proust
si sta ancora rivoltando nella tomba cercando di leggere questo scritto, senza
però riuscire a trovarne piacere. Come purtroppo è successo a me. Di certo è un
libro complesso, di certo è un libro che è frullato nella testa dell’autore per
anni ed anni. Ne parla alla moglie nel ’58, inizia a scriverne nel ’68, lo
termina solo nel ’75. Diciassette anni, amici miei, non è certo poco. Per una
serie di scelte personali poi Gabbo decide di farne un libro diverso dai
precedenti, risultando in una specie di flusso di coscienza, joyciano di impianto
con “lunghissimi periodi pieni di subordinate che compongono anacoluti
interminabili”, mescolando inoltre persone di riferimento, passando da punti di
vista differenti, anche all’interno della stessa frase. Alla fine, i critici
che sanno ben parlare, lo descrivono come un libro barocco, e forse lo è, e
proprio come il barocco per questo risulta distante dal mio sentire. Posso
guardare un’architettura barocca, anche con piacere, ma non sono mai riuscito
ad amarne uno. Il nostro narratore, in questo lungo canto di morto di questo
fittizio dittatore caraibico (che mescola in sé tratti dei peggiori dittatori
sudamericani: da Marcos Pérez Jiménez venezuelano, a Rafael Trujillo della Repubblica
Domenicana, da Fulgencio Batista cubano a Anastasio Somoza García del Nicaragua)
ce ne prospetta tutte le venature e le sfaccettature, l’ipocondria, la mania di
persecuzione, la ricerca del piacere sessuale ad ogni costo (in alcune parti
sembra leggere con venticinque anni di anticipo alcune vicende italiane), la
repressione, la venerazione verso la madre (e non mi ripeto). Insomma di tutto,
di più. Faccio un solo esempio, del parossismo dittatoriale. Periodicamente
(ogni mese, ogni settimana, non si capisce) avviene l’estrazione della
lotteria. Tre bambini estraggono tre palle numerate da tre sacchetti.
Ovviamente, le palle sono state tenute giorni in frigorifero così da essere più
fredde delle altre. Ovviamente, il numero è quello del biglietto del
presidente. Ovviamente i bambini vengono sequestrati per non far rivelare l’imbroglio.
Ovviamente, ad un certo punto, i bambini sono talmente tanti che non si
gestisce più la situazione. Vengono messi su macchine di spostamento (treni,
aerei, navi) e fatti saltare in aria. L’unico (poco) respiro al testo viene
dato dalla suddivisione in sei capitoli, anche se non numerati, dedicati ognuno
ad uno degli aspetti della vita del dittatore. Anche se ogni capitolo si apre
con la descrizione delle scene del palazzo che si presentano a coloro che, a
causa di un lungo silenzio, si accorgono che il dittatore è morto. Poi ogni
pezzo di storia va per la sua strada. Nel primo si narra del sosia del
dittatore Patricio Aragonés, che lo sostituisce in pubblico e che morirà anche
al suo posto, così da permettergli di inscenare la scena di un funerale che
dovranno essere replicata alla sua vera morte. Nel secondo si narra della sua
passione senile per la bellissima Manuela Sánchez, in onore della quale
riuscirà ad organizzare un’eclisse di sole, durante il cui tempo oscuro Manuela
riesce a fuggire, lasciando in pianti e rimpianti il dittatore. Nel terzo si
gustano le vicende del generale Rodrigo de Aguilar, suo maggior secondo, quello
letterato, che il nostro dittatore, sorto al potere dopo un colpo di stato, non
sapeva leggere (glielo insegnerà Leticia) ed era solo dotato del fiuto per il
potere. Mentre tutto veniva fatto e disfatto da Rodrigo, che ovviamente ad un
certo punto complotterà contro il dittatore, e questi lo farà servire cotto a
mo’ di porchetta ad un pranzo di palazzo. Nel quarto c’è il lungo panegirico
per le gesta e l’amore della madre, Benedición Alvarado, umile popolana che non
capirà mai né il potere né i soldi che ha, continuando a (fingere di) campare
vendendo uccelli dipinti al mercato. Questo capitolo contiene anche il lungo
tema della rottura dei rapporti tra il dittatore ed il Vaticano, quando tenta
di convincere il papa a canonizzare la madre. Tematica che si riallaccia nel
capitolo seguente perché la cacciata delle suore permette al dittatore di
vederne una, nuda, e di invaghirsene tanto da rapirla. È Leticia Nazareno, che
prima resisterà al dittatore, poi ne diventerà la moglie legittima, gli darà un
erede, farà di tutto per far tornare i papisti nell’isola, fino a morire (non
si sa se per colpa dei nemici o degli amici del dittatore) sbranati lei ed il
figlio, da una muta di cani. A questo episodio si collega l’ultimo capitolo,
con le tremende repressioni, uccisioni e torture guidate da José Ignacio Saenz
de la Barra, che fanno piombare il paese in un clima di terrore. Ed ovviamente
di povertà, tanto che il dittatore dovrà vendere tutto, anche il mare, agli
americani. Per poi trovare in Ignacio il capro espiatorio su cui far convergere
l’ira dei cittadini, invece che verso di lui. Così che alla fine, come pochi
dittatori (ed a mia memoria solo Francisco Franco in quelli dell’area ispanica)
muore nel proprio giaciglio. Tuttavia, questa difficile ed anche compendiosa
ricostruzione è merito di letture trasversali, ricostruzioni mentali del vostro
tramatore, nonché della bellissima e difficilissima introduzione al libro di
Cesare Segre. Al quale rendiamo omaggio, come rendiamo omaggio alla fatica del
bravissimo spagnolista Enrico Cicogna per una traduzione che non esito a
pensare di grande difficoltà. Ma ripeto, non è un libro che mi è piaciuto, non
è un libro che consiglierei di leggere a cuor leggero. Certo, è un libro
importante, e si può capire come l’autore sia degno di aver vinto il Nobel.
Tuttavia, se oltre la testa i libri devono nutrire la pancia, questo fallisce
il suo scopo. À la proxima, Gabbo!
Salvatore Satta “Il giorno del giudizio” Adelphi euro 12 (in realtà,
scontato a 9 euro)
[trama pubblicata il 4 gennaio 2016]
È
davvero un libro valido per tenere compagnia ai novantenni, come dice qualche
signorina maligna? Credo proprio di no. Certo, è un libro di difficile lettura,
perché nulla concede al pubblico, nulla concede all’applauso facile. Forse
perché rimasto tanti (troppi?) anni nel cassetto del grande giurista sardo
Salvatore Satta, da cui ne uscì solo postumo. Ed essendo un libro privato, per
questo non concede, ma è dolente, diretto, debordante di ricordi, e molto altro
ancora. Probabilmente, almeno nelle mie personali corde di lettore, manca
qualcosa che ne chiuda le tante parentesi aperte, invece di scorrere via, e poi
ad un certo punto, purtroppo finire. Non è comunque facile tracciarne una
trama, un percorso, che il libro alla fine è forse un trionfo di ricordi, ed
una laude ad una città che non è sia molto ricorrente nei ricordi collettivi.
certo, tutti (molti?) sanno che Nuoro è la città natale di Grazia Deledda. E
Deledda ebbe il Nobel per la Letteratura nel 1926. Ma quella che ci porta alla
luce Satta con il suo scavare nei ricordi e nelle pietre, una ad una, della
città, è la Nuoro città, la Nuoro campagna, la Nuoro lontana dall’Italia eppur
così vicina. Seguendo, bene o male, la storia di Don Sebastiano Sanna Carboni e
della sua famiglia. Don Sebastiano il notaio, che, in quanto notaio, ha beni al
sole, e, onestissimo ed integerrimo, continua ad accumularne se e solo quando
può e come può. Senza mai barare (tanto che per un debito di gioco, non intacca
i soldi di casa, ma lavora di notte come amanuense). Don Sebastiano che,
trentenne, decide di metter su famiglia sposando Donna Vincenza, la figlia di
un piemontese immigrato ai tempi dell’unificazione, ventenne ed inesperta.
Donna Vincenza che gli darà 9 figli, sette maschi vivi al tempo del racconto, e
due femmine prematuramente morte. Donna Vincenza che governa la casa, ma poco
più, come dice la feroce sentenza di Don Sebastiano che riporto in calce. Ed i
sette figli che vanno dal maggiore Giovanni, per anni incupito da un amore
andato a male, e poi messosi sulla scia paterna una volta questi invecchiato.
Poi altri figli mezzani, che non vedono l’ora, e presto lo faranno, di
andarsene per altri lidi. Ed infine i tre minori: Lodovico, il cagionevole,
che, scapolo e misogino, farà il triste avvocato per tutta la vita, Sebastiano,
quello che dovrebbe perpetrare il nome, ma non avrà mai né arte né parte,
oscurato dal di poco maggiore Peppino, che morirà di polmonite nella Prima
Guerra Mondiale. E mentre seguiamo le vicende per anni ed anni della famiglia
Sanna, ne seguiamo l’inserimento nel mondo sardo in generale e nuorese in
particolare. Belle, anche se apparentemente disorganiche, tutte le pagine che
Satta tira fuori. Dalla nascita della città, quando il vescovo Roich nel secolo
XII sposta la diocesi dalla malsana Galtellì sulla costa, verso l’interno più
salubre. Laddove la città si sviluppa sui tre assi in contrapposizione: i
poveri della Seuna, i malviventi (e bella è la descrizione di come ci si
diventa) barbaricini della genia dei Corrales abbarbicati al rione San Pietro,
ed i benestanti del Corso. Laddove c’è la grande casa di Don Sebastiano, la
farmacia di Don Pasqualino, il caffè Tettamanzi centro e ritrovo di tutto
quello che avviene in città. Seguiamo l’alternanza dei preti e dei canonici,
dei vescovi, con il munifico Monsignor Dettori in testa, i primi fermenti
socialisti che Don Ricciotti tenta di cavalcare, subito imbrigliato dalle
gerarchie ecclesiastiche che spingono a deputo Paolo Masala il gran parlatore.
La lotta per la terra, la macina del grano, il pane carasau, i formaggi e le
olive. Un mondo che svolta il bordo del secolo scorso, e si affaccia sul nuovo.
Don Sebastiano che legge la morte lontana di un arciduca ucciso chissà dove, e
che porterà alla morte il suo Peppino. Morte che, prima o poi, raggiunge tutti.
Il canonico, l’ubriacone Boelle, il fantasioso Paolo Catte, Fileddu, la zia
Agostina. E Satta ce li riporta in vita per quel breve tratto che passeggiamo
insieme, quando con lui ci si aggira per il cimitero. Che sta dalle parti di
San Pietro, così che i poveri hanno l’agio di passare almeno una volta per il
Corso, anche se dentro la bara. E attraverso i morti, si arriverà a quel giorno
del Giudizio che tutti accomuna in un grande mescolamento. Giorno che Satta
anticipa parlando e descrivendo il bene ed il male di molti. Ma lui non ne dà
di giudizi. Lui espone, narra, a volte spiega, il più delle volte si macera
anche lui nella sofferenza. È un po’ questa mancanza di un filo forte, di un
meglio seguire le vicende dei Sanna che mi ha lasciato qualche momento di
esitazione. In un libro che, per il resto, ho trovato veramente bello e
convincete.
“Tu stai al mondo soltanto perché c’è
posto.” (24)
“Riusciva a non far nulla senza essere
ozioso e questo gli aveva procurato … fama di saggio.” (87)
Conclusioni
Come avete capito già dalle
trame, non credo che i libri proposti siano di valido aiuto ai plurianni
portanti. Forse ne gioverebbe a quella età una rilettura. Anche se, seguendo
l’iter di mia madre, vedo meglio elementi di distrazione. Magari anche di
intrigo ed intreccio, come potrebbero essere gialli ben costruiti alla Christie
o alla Simenon. Per una volta, un completo disaccordo.
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