domenica 8 ottobre 2017

Ancora Clive 9 ottobre 2017

Torniamo al mio immancabile Cussler con quattro avventure non proprio all’altezza delle sue uscite migliori. Anche se è una discreta panoramica sulle uscite della fucina del mio amato avventuriero. Infatti abbiamo una trama con al centro Kurt Austin (Numa file), una con Dirk Pitt (il classico), una con i coniugi Fargo (Fargo file) ed una con il capitano Cabrillo (Oregon file). E forse neanche tanto stranamente la migliore è proprio l’ultima arrivata, quella dei Fargo.
Clive Cussler & Graham Brown “Uragano” TEA euro 9,90 (in realtà, scontato a 8,42 euro)
[A: 18/02/2015– I: 28/01/2017 – T: 21/02/2017] - && +  
[tit. or.: The Storm; ling. or.: inglese; pagine: 366; anno 2012]
Nella sterminata biblioteca che contiene le opere in italiano del maestro (mio) dell’avventura, eccoci questa volta alle prese con una delle serie maggiori del prolifico autore americano (e della sua factory). Siamo alle prese con quella che viene chiamata in gergo “NUMA file”, il sottoprodotto maggiore delle avventure di Dirk Pitt, dove i caratteri principali sono rappresentati da Kurt Austin, capo dei Progetti Speciali, e del suo aiutante Joe Zavala. Questo è il decimo episodio, dove (a partire dal precedente) il nostro Clive è coadiuvato nella scrittura da Graham Brown. L’avevo iniziato poco prima di partire per il Laos, ma essendo troppo ingombrante, ho continuato la lettura solo al ritorno. Come nei classici di Cussler, cominciamo con un prologo prima di immergerci nella vicenda attuale. Anzi con due. Uno relativo all’affondamento nel 1943 di una nave militare americana da parte dei giapponesi. Il secondo nello Yemen del 1967, dove una ricca famiglia nomade yemenita viene sterminata, a parte il piccolo Jinn. A causa di un’oasi del deserto e della sua acqua. Tuttavia non sono i due prologhi classici delle avventure di Dirk Pitt, che servono ad alcune parti del racconto, non hanno il “mistero” che generalmente sottendono i prologhi delle sue avventure. Il primo porterà alla scoperta di un misterioso aggeggio capace di produrre suoni fastidiosi per distogliere un nemico che attacca. Il secondo per spiegare, in modo psicologico, perché Jinn diventerà il cattivo della storia. Che la storia sarà tutta incentrata sull’acqua e sulla potenza che si può avere nel caso si riesca a conquistarla. O a condizionare la meteorologia, riuscendo a far piovere (o non piovere) come e quando si vuole. Il via reale alla storia avviene dopo la scomparsa di una nave di ricerca della NUMA che si trova nell’Oceano Indiano per svolgere dei normali controlli. Un componente dell’equipaggio nota una strana chiazza sulla superficie del mare, sembra olio ma non lo è in quanto poco dopo uno sciame di strane particelle si riversa sulla nave uccidendo tutto l’equipaggio. A questo punto si scatena il solito grande circo delle avventure dei nostri amici della NUMA. In prima fila, soprattutto Kurt (anche se Joe gli dà sempre una mano nei momenti difficili), aiutato anche dai simpatici coniugi Trout. Si reca a Malè per indagare sulle morti, viene agganciato da Leilani, sorella di uno dei morti che non ce la conta giusta (sempre troppo al centro dell’attenzione). Con i potenti mezzi dell’organizzazione che ha alle spalle, scopre che potrebbe essere un qualche mini-drone, di cui non si capisce la natura. Però si capisce che possano essere nati dai progetti del facoltoso Marchetti. Che vanno a trovare e che portano dalla loro parte. La parte “fantascientifica” (ma solo di poco) è la presenza di questi piccoli robot, che possono portare cambiamenti climatici nel momento che, presenti in gran numero, possono far variare la temperatura delle acque. Per fare questo, tuttavia, devono essere in grado di trovare combustibile per potersi moltiplicare. Qui la tremenda idea, di utilizzare qualsiasi cosa che incontrano sul loro camino, anche essere umani, che, una volta parcellizzati, possono benissimo sostituire altri elementi di sostentamento. Stando da Marchetti, Kurt capisce chi può esserci dietro tutto ciò. E parte in quarta con Joe. Ovviamente, scopriamo che Leilani è una finta Leilani, messa lì proprio dal cattivissimo Jinn. Il quale aveva due scopi in mano: attirare grossi capitali (egiziani e cinesi) per finanziare il proprio progetto e creare un cambiamento climatico, spostando la tempistica sia dei monsoni indiani che delle inondazioni nilotiche. È anche abbastanza ovvio che Cussler & co ci facciano dei pipponi su come cambiamenti tali possano portare a risultati imprevedibili, nel medio e lungo termine. Ma a Jinn poco gliene frega. Per convincere poi i finanziatori ad aprire la borsa, il nostro super cattivo, pensa di utilizzare i robottini anche per distruggere la diga Nasser, ed allagare l’Alto Egitto e la Nubia. Joe si occuperà dell’Egitto. Kurt del cattivo, e di liberare la vera Leilani da lui rapita. Tutto finisce al solito con la vittoria dei buoni, anche se dopo lunghe ed estenuanti lotte, anche con qualche perdita marginale. Ma il tono è disteso, l’ambientalismo è salvo, e l’amore, se c’è, rimane abbastanza sullo sfondo (anche perché l’hawaiana ha un fidanzato…). Tutto bene, fatte salve motivazioni, e qualche digressione laterale (tipo quella dell’isola del Pacifico con quegli strumenti citati nel prologo), e fatta salva la pessima idea di chiamare il cattivo Jinn, come i folletti delle favole arabe. Un nome più neutro sarebbe stato più appropriato. Come solito commento finale, infine, la solita domanda ai traduttori: perché dall’inglese “Tempesta (Storm)” si è passati all’italiano “Uragano (Hurricane)”. Misteri editoriali insondabili! Forse l’uragano mette più paura di una semplice tempesta. Allora, chiamatelo “Tsunami” e non se parli più.
Clive & Dirk Cussler “La freccia di Poseidone” TEA euro 9,90 (in realtà, scontato a 7,42 euro)
[A: 03/04/2015– I: 14/05/2017 – T: 17/05/2017] - && e ½  
[tit. or.: Poseidon’s Arrow; ling. or.: inglese; pagine: 366; anno 2013]
Sono sinceramente dispiaciuto che questo nuovo romanzo delle avventure di Dirk Pitt sia leggermente inferiore alle attese. Nell’enorme fucina della “factory” di Cussler, in genere i libri della serie principale, questa appunto di Dirk Pitt, sono un pochino sopra gli altri. C’è più cura, più tensione, anche intrecci più coinvolgenti, che magari toccano qualche tema socio-ambientale da non disprezzare. Invece, in questo, c’è un pochino meno di tutto. Compresa anche qualche non dico confusione, ma mancanza di delucidazioni. Intanto, per non farci mancare nulla, si ripercorrono due strade usuali: un prologo dal passato ed un cammeo. Passato non tanto remoto, visto che saltiamo solo nel 1943, e con un mistero reale: quello della scomparsa, dopo la partenza da Singapore, del sommergibile italiano Agostino Barbarigo. Scomparsa rimasta misteriosa, ma che Cussler farà collegare al misterioso carico del sommergibile stesso. Un miscuglio di minerali, di colore rosso, contenente una particolare terra rara, la samarskite. Proprio sulle terre rare si fonda poi l’impianto tecnologico del romanzo: utilizzando miniere di monazite, si estraggono le “terre rare”, moderatamente radioattive, ed utilizzate nei superconduttori, nei motori ibridi e nelle fibre ottiche. Cussler propone anche il loro uso per ottenere un sottomarino a super cavitazione (elemento che viaggia nell’acqua all’interno di una bolla di gas, come fanno gli attuali siluri russi Shkvel, ma che non sono ancora mai stati sperimentati per oggetti più lunghi di un paio di metri). Quindi, chi controlla le terre rare, controlla una buona parte dello sviluppo tecnologico in questa direzione. Secondo fonti economiche attuali, dal 1990 il maggior produttore di terre rare è la Cina. Dopo questa dotta introduzione, che sicuramente vi avrà interessato, e lasciando il cammeo ai commenti finali, rientriamo nel solco del romanzo e della tradizione dei libri di Cussler. C’è il cattivo principale, un austriaco che, in base a tutta una serie di avvenimenti di cui poco ci interessa qui, decide di diventare, con le buone o le cattive, il monopolista di terre rare. Da un lato distrugge le miniere in essere (come ci conforta Wikipedia, in California ed in Australia). Dall’altro, pirateggia tutti i convogli che le trasportano. In ultimo tenta di impadronirsi del prototipo di cui favoleggia Cussler, di un sottomarino a supercavitazione, il “Sea Arrow”. Per fare questo, corrompe qualcuno nelle alte sfere americane (ahó, sembra quasi leggere un libro su attività marginali di “The Donald”!), che noi smaliziati lettori capiamo subito chi possa essere, mentre Pitt e soci lo capiranno solo dopo 325 pagine. Non contento, uccide gli scienziati che lo stanno progettando, cercando di trafugarne gli schemi costruttivi. In tutto questo, ad un certo punto, viene coinvolto prima Pitt, e poi tutta la NUMA. Dirk stava in vacanza con la moglie Loren, quando una nave da carico punta senza controllo verso un molo. Con una tecnica che non vi dico, e da solo, ovvio, il nostro super eroe, evita la catastrofe. Scoprendo che la nave trasportava terre rare. Alla morte degli scienziati, Dirk si unisce ad un’agente dell’FBI per la ricerca degli assassini, tale Ann Bennett. I due formano una bella coppia d’attacco, con Ann che cerca anche di intortarsi Dirk. Il quale tuttavia rimane fedele alla moglie Loren. Ovvio che da qui, potrà nascere una bella amicizia, come direbbe Bogart in Casablanca. Per non farci mancare nulla, vengono coinvolti nella ricerca del cattivo anche i figli gemelli di Dirk, Dirk jr. e Summer. Tutto collasserà quando la NUMA, i Servizi Segreti ed anche i cinesi, che l’austriaco cercava di “fare fessi”, scoprono la base segreta del cattivo in quel di Panamá. Anche qui vi sorvolo i particolari molto James Bond di tutte le cacce, gli inseguimenti, le lotte. Molto interessante è l’inseguimento tra natanti che avviene lungo il canale di Panamá, tra chiuse che si aprono e si chiudono, dislivelli, manovre al limite ed altre diavolerie nautiche che (forse) farebbero la gioia del mio amico Renato. Alla fine comunque, Dirk, aiutato dai cinesi, sbaraglia la base. Ann scopre la talpa. I gemelli sveleranno il mistero del sommergibile italiano. Con una bella fine in gloria per il varo del “Sea Arrow”. Dicevo del cammeo, sempre presente nelle storie principali di Cussler (un po’ alla Hitchcock, tanto per far contento Alessandro), che si presenta prestando uno zodiac-tender a Pitt che con quello si mette all’inseguimento di alcuni banditi colombiani al soldo dell’austriaco. Il tender appartiene, come ci dice l’autore, ad un certo … Clive Cussler. Insomma, come dicevo, tutto nel solco della tradizione. Però… però, se non usavo internet mi sarei perso gran parte del divertimento sull’uso delle terre rare. Però non c’è una vera storia d’amore: Pitt è sposato, e felicemente, il suo secondo, Al Giordino è uomo da mille donne e non da una, Dirk jr. viene da un amore sfortunato nell’ultimo episodio (la sua donna muore a Gerusalemme, se non vi ricordate ve lo dico io), e Summer non è mai al centro di una vera e propria storia, quasi che gli autori, maschi, non siano capaci di imbastire storie al femminile. Però non c’è neanche un qualche afflato ambientale, anche se, ovvio, le terre rare sono radioattive, i cinesi sono cattivi, l’austriaco di più. Ma tutto molto più soft di altre prove. Quindi, tutti gli elementi della fucina letteraria delle serie di Dirk Pitt ci sono, ma attenuati, messi in una sordina, che affossa un po’ tutto il romanzo. Un’ultima considerazione: l’unica freccia del libro è quella del sommergibile, chiamato appunto “Freccia del mare”. Certo, Poseidone è, anche, il re del mare. Ma non è mai citato in nessuna delle 366 pagine del libro italiano. Due ipotesi: tagli editoriali di parti ritenute poco incisive (ipotesi buona) o dimenticanza dell’autore (ipotesi cattiva). O viceversa.
Clive Cussler & Thomas Perry “Sepolcro” TEA euro 9,90
[A: 24/08/2016 – I: 21/06/2017 – T: 26/06/2017] - &&& -  
[tit. or.: The Tombs; ling. or.: inglese; pagine: 346; anno 2012]
Dopo tre libri scritti con Grant Blackwood, il nostro Cussler long seller, decide di cambiare partner di scrittura, per questa nuova avventura dei coniugi Fargo. L’ottantenne Clive coinvolge così il settantenne Thomas Perry, autore di alcune serie avventurose di successo, per cercare di sollevare un po’ le sorti di questo che, essendo il quarto e ultimo (per ora) spin-off della scrittura di Cussler, rimane tuttavia abbastanza lontano dalle serie maggiori. Sia in gradimento che in coinvolgimento. Spiego meglio quest’ultima parola: il divertente coinvolgimento delle avventure descritte da Cussler deriva da quei prologhi più o meno complicati e contorti, che, spesso, nascondono episodi storici (o pseudo-storici) che stimolano la fantasia. Devo dire infatti, che questo quarto episodio, rispetto ai precedenti, ha almeno il pregio di divertire da questo punto di vista. Anche se poi, per molta parte del libro, oltre alla lotta buoni vs. cattivi, c’è solo una sorta di guida di viaggio tra luoghi insoliti. Divertente, ma spesso è meglio leggere Lonely Planet. Divertire perché questa volta viene coinvolto niente di meno che Attila, cercando di sviluppare una trama avventurosa intorno ad uno dei misteri del grande condottiero. Non tanto quello della sua morte, avvenuta in Pannonia il 16 marzo 453 (casualmente 1500 anni prima della morte di Stalin), quanto quello dell’ubicazione della sua tomba. Poiché nei romanzi “alla Cussler” ci devono essere buoni e cattivi, ed essendo i primi nella fattispecie i nostri eroi, i coniugi Fargo, il ruolo del cattivo viene assunto da un malavitoso ungherese, che si ritiene discendente diretto di Attila. Che vuole quindi ritrovare i resti dell’antenato sia per rinfocolare la leggenda sulle sue origini, sia, più prosaicamente, per beneficiare del ricco tesoro contenuto. E se quindi da un lato assistiamo alla lotta senza esclusione di colpi tra i nostri e Arpad il cattivo, spesso coadiuvati da suoi sodali in loschi affari per molta parte dell’Europa, compresa una lunga lotta con un russo malvagio e senza scrupoli. Con tanto di rapimenti, fughe rocambolesche, inseguimenti, ed altre appendici avventurose che qui tralascio. Dall’altro, in modo più interessante, seguiamo le scoperte dei coniugi Fargo (aiutati dalla maga dei computer Selma nonché dall’esperto della materia, il professor Albrecht). Scoperte che iniziano proprio in Ungheria, anzi in Pannonia, ultimo luogo conosciuto calpestato dal Flagello di Dio. E qui, in effetti, scoprono una tomba che, per reperti e datazioni, si può far risalire al tempo della morte di Attila. Ma non vi sono i tesori sperati, bensì un indovinello, che costringe i nostri a ripercorrere la vita e le vicende del condottiero Unno. Trovano un’iscrizione che fa iniziare la caccia al tesoro: Attila dice di aver sepolto indizi a ritroso in cinque sepolture, e solo nell’ultima alla fine si troverà quanto si sta cercando. Il primo indizio li deve portare nel luogo di uno dei grandi momenti della vita di Attila. I nostri così volano in Italia, tra Verona, Brescia e Mantova, laddove nel 452 Leone I incontrò e fermò Attila che stava scendendo verso Roma per sottoporla ad un nuovo saccheggio. Seconda tomba e secondo indizio: andate laddove fui fermato nella mia grande avanzata di conquista. Eccoci allora ad accorrere nel luogo della battaglia dei Campi Catalaunici, del 451, laddove i romani capeggiati da Ezio con l’aiuto dei Visigoti, fermarono le conquiste di Attila. Per gli amanti della storia, si ricorda che, se Attila avesse sfondato il fronte, la storia avrebbe avuto un diverso corso, e l’Europa come la conosciamo ora forse sarebbe diversa. I campi suddetti si trovano comunque in Francia a Châlons-en-Champagne sul fiume Marna. Una nuova tomba viene trovata con un messaggio che fa riferimento alla morte del fratello Bleda, avvenuta nel 445 in Romania, in quella città che ora si chiama Alba Iulia. Che poi non sappiamo se fu morte naturale, o forse, come Cussler suggerisce, fu proprio Attila a far fuori il fratello per regnare da solo. Ma è ovvio che non ci si ferma qui, e nella tomba di Bleda, si fa riferimento al padre di Attila, Mundzuk. Che muore a Talas nel Kazakistan nel 434. I nostri intrepidi coniugi, scansando mille pericoli, arrivano fin quaggiù, in questa caccia al tesoro a ritroso nel tempo (avrete senz’altro notato che ogni tomba è più antica della precedente). Qui c’è l’ultimo messaggio che fa riferimento anch’essa ad una leggenda, con forse qualche punto di novità. Perché pare che Attila fanciullo fosse stato inviato a Roma come pegno per le alleanze degli Unni con l’Impero Romano. Facendola breve, e tagliando rami secchi, i nostri scopriranno l’ultima dimora del grande sovrano nelle Catacombe di Domitilla proprio a Roma. Dopo aver trovato tutti i tesori possibili, ed averli consegnati alle autorità locali, dato che sempre dal cattivo Arpad sono inseguiti, vi sarà un lungo scontro finale nella residenza californiano dei Fargo. Vi lascio immaginare come andrà a finire. Insomma, alla fine è risultato più divertente di quanto poteva essere all’inizio. Soprattutto perché mi ha permesso di seguire e ricostruire la storia di Attila, cui avevo sempre pensato di dedicare qualche minuto del mio tempo. Come detto, più che un libro, una guida turistica. Che le parti di lotta ed avventurose mi hanno lasciato non dico freddo, ma gelido (cosa che potrebbe esser un bene in questo torrido luglio romano). Due ultime chicche per finire. Il nome del padre di Attila, che significa “portafortuna”, non solo è citato nell’inno ungherese come uno dei padri della patria magiara, ma è anche la radice di un cognome slavo molto diffuso (Mandzukic, per chi si intende di bianco e nero). Infine, Sam e Remi, quando sono nel Nord Italia, decidono di andare ad un ristorante di Mantova, che si chiama “Ochina bianca”, che ho visitato anche io nei brevi soggiorni mantovani. Un solo dubbio: è vero che ordinano un tipico dolce mantovano, chiamandolo “Torta Sabbiosa”, ed è vero che esiste ed è una specie di pan di spagna. Io, nei panni dello scrittore, avrei però optato per l’altro dolce tipico della zona, la famosa Sbrisolona (una torta friabile alle mandorle). Quindi, romanzo poca cosa, contorno storico interessante.
Clive Cussler & Jack Du Brul “Miraggio” TEA euro 9,90 (in realtà, scontato a 4,95 euro)
[A: 01/12/2015 – I: 10/07/2017 – T: 12/07/2017] - && --  
[tit. or.: Mirage; ling. or.: inglese; pagine: 406; anno 2013]
Eccoci allora alla nona avventura degli “Oregon file”, la sotto serie del grande Cussler, dove la fa da padrone il capitano Juan Cabrillo e la sua superattrezzata nave, la Oregon. Come i miei affezionai lettori sanno, Cussler ha ormai in cantiere ben 5 storie seriali, dalla storica di Dirk Pitt, alla prima sotto serie, i “Numa file” di Kurt Austin, dalle storie della nave Oregon e del suo capitano Cabrillo alle vicende dei coniugi Fargo, per terminare con le avventure del detective solitario Isaac Bells. Lasciando a parte quest’ultima, che ha un suo andamento proprio, le altre andrebbero analizzate a coppie. Ed in questo confronto, le avventure di Sam e Remi Fargo prendono consistenza e risalgono dopo un inizio poco convincente, le avventure del comandante Cabrillo e della sua Oregon stanno invece scendendo, anche perché sempre più legate alle guerre americane, all’atteggiamento della CIA ed altre guerresche imprese. Come questo “Miraggio”, che ha un solo merito indubbio, di cui parlerò più avanti, ma che per il resto è un susseguirsi di avvenimenti improbabili e di vicende molto guerrieri, quasi che Cussler pensasse di seguire Wilbur Smith sulle onde dell’ultimo impresentabile personaggio di quest’ultimo. Le premesse della storia, al solito, hanno radici nel passato, questa volta abbastanza prossimo. Prima, al largo del Delaware, il 1 agosto 1902, il mercantile Mohican viene per mezz’ora circondato da effetti magnetici inspiegabili, trovandosi ai margini di una luminosità color cobalto che pare rendere di ghiaccio il mare intorno alla nave. Svanita la luce, la nave riprende la rotta, mentre un battello con cinque uomini sembra scomparso. Quando si torna invece al presente, vediamo prima il nostro Juan che, con la solita sua audacia, libera da una super-protetta base siberiano il suo amico Jurij Borodin, lì incarcerato per la sua inimicizia con l’astro nascente della marina russa, l’ammiraglio Kenin (guarda caso amico di Putin). La fuga riesce ma Jurij muore, non prima di aver detto una parola chiave che servirà da grimaldello al romanzo “Tesla”. Questo è l’indubbio elemento positivo di cui parlavo. Tutto il romanzo, infatti, è un dovuto e doveroso omaggio allo scienziato serbo (o forse croato), naturalizzato americano, ed alle sue invenzioni. O meglio alle sue visioni profetiche. Che non solo Tesla è stato l’inventore e propugnatore dell’uso della corrente alternata, ma anche di molte altre cose (piccole e grandi) legate all’elettromagnetismo: il motore a corrente alternata, la bobina a doppia spira, diversi strumenti che utilizzano campi magnetici rotanti, strumenti fondamentali di sistemi per la comunicazione senza fili (antecedenti all'invenzione della radio), oscillatori a radio frequenza, apparecchi per l'amplificazione di onde stazionarie, apparecchi a raggi x, e via discorrendo, fino ad alcune applicazioni che permettono la costruzione di aerei a decollo verticale (VTOL). Ma Tesla era anche un grande visionario, oltre ad essere ossessivo-compulsivo. Era legato inspiegabilmente al numero 3 (tanto che visse gli ultimi anni della sua vita al New Yorker Hotel, nella stanza n°3327, al 33° piano, tutti numeri divisibili per 3, appunto). Inoltre pensava, con i suoi esperimenti sulla corrente, di poter realizzare l’arma finale, che permettesse di porre fine a tutte le guerre. Un prototipo era stato messo appunto proprio su quel battello scomparso nel 1902. Un nuovo esperimento venne messo in atto dieci mesi dopo la sua morte, a Filadelfia, con quella che viene ritenuta una delle più grandi bufale della storia americana (ma questa è una storia diversa che meriterebbe essere seguita in diversi e più autorevoli contesti; basti accennare che si trattava di un teletrasporto di una nave da Filadelfia a Norfolk e ritorno, cosa che, secondo alcuni presenti, avvenne per 4 secondi, e che secondo molti altri è solo una grande presa in giro). Fatto sta che, partendo da Tesla, e da appunti che manteneva la vedova di Jurij, Juan risale al lago d’Aral e ritrova il battello, il Lady Marguerite. Ovviamente è coinvolto in azioni guerresche, che Kenin ed accoliti fanno di tutto sia per fermarlo, che per distruggere tutte le prove eventualmente risalenti agli esperimenti di Tesla. Perché Kenin è convinto della bontà delle teorie di Tesla, fa di tutto per costruire questa nuova arma. Che una volta approntata sarà messa all’asta, e che se dovesse cadere in mani sbagliate potrebbe essere pericolosa per gli interessi degli Stati Uniti. Per risolvere tutti i misteri, svelando alcuni file segreti dei servizi americani, Juan ed i suoi si trovano alle prese con un sommergibile usato da Tesla nei suoi esperimenti e forse coinvolto nella bufala di cui sopra. Qui si svolge la battaglia finale, con Kenin ed i suoi che cercano di utilizzare l’energia pensata da Tesla per la trasmissione elettrica senza fili come campo protettivo, creando quindi per i potenziali avversari un effetto “miraggio”, per colpire qualcosa che è altrove, e che risponde al fuoco invece direttamente. Tralascio molte parti quasi inutili, sorvolo sul fatto che si i russi sono un po’ cattivi, ma i cinesi, per Cussler (e per Trump) lo sono di più. Riconosco la buona idea di affrontare un campo magnetico strambo in modo perpendicolare, cosa che offre minor resistenza e permette a Cabrillo di “uscire vincitor”. Nonché di terminare con un possibile appuntamento con una bella signorina. Ma tutto il libro rimane al di sotto della normale capacità di presa dei libri di Cussler, riscattato, come detto, solo dagli accenni agli esperimenti di Tesla. Un ultimo accenno trasversale, sarà il grande espero navale Pelmutter (quello amico di Dirk Pitt) che svelerà come abbai poi fatto il “Lady Marguerite” a finire sul lago Aral. Come sottoprodotto “culturale” infine, il dramma del lago azero-uzbeko cui si accenna nel libro è vero e reale. Tanto che mi viene quasi voglia di andarlo a vedere.
Essendo la seconda trama d’ottobre abbiamo anche un giro di trame dedicate, dalle terapeute del libro, a chi è colmo di anni e d’avventure.
Come aveva ben previsto Alessandra, la luna piena mi ha portato anche al rango di prozio (nome dal sapore antico, ma di divertente scansione). Diamo quindi benvenuto a Filippo, mentre il prozio cerca di incastrare le proprie giornate con i futuri viaggi. 
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
OTTOBRE 2017
Allora, visto che ottobre è anche il mese genetliaco di mia madre, dedichiamo questa “cura” per novantenni soprattutto a lei

NOVANT’ANNI, AVERE

I dieci migliori romanzi per novantenni
Heinrich Böll                  Opinioni di un clown
Lewis Carroll                 Alice oltre lo specchio
Charles Dickens             Casa desolata
Ernest Hemingway         Il vecchio e il mare
Milan Kundera               Il libro del riso e dell’oblio
Primo Levi                    Il sistema periodico
Gabriel Garcia Marquez   L’autunno del patriarca
Salvatore Satta             Il giorno del giudizio
Mario Soldati                 America primo amore
P. G. Wodhouse             La stagione degli amori

Bugiardino

Senza per ora entrare nel merito degli anni, di questa decine ne ho letti nel temo ben sei. Ma tre sono ben lontani nel tempo. Non parlo di Carroll, ancora dei tempi adolescenziali. Ma anche dei miei trent’anni con un Hemingway che non mi piacque (forse lo dovrei riprendere ora che ne capisco meglio la scrittura, e che sono anche andato a Cuba) ed un clown che invece tenne per molto tempo il posto privilegiato tra i miei preferiti. Qui allora parlerò di Kundera (molto ondivago), di Gabo (che non mi è piaciuto per nulla) e di un bellissimo, al contrario, Salvatore Satta.
Milan Kundera “Il libro del riso e dell’oblio” Adelphi euro 10 (in realtà, scontato a 7,50 euro)
[trama pubblicata il 6 luglio 2014]
Quanti anni erano che non prendevo in mano un libro dell’esule famoso? Tra una cosa e l’altra, dopo “L’insostenibile” (letto per arboriana memoria e mediamente gradito), avevo negli anni Ottanta e Novanta provato a leggerne. Ricordo di averne iniziati almeno due, e di uno (“Il valzer degli addii”) ricordo anche di essermene stufato dopo poche decine di pagine. Ora, col senno della maturità e con la volontà di recupero, spinto anche da altre letture omologhe e marginali, ho preso, letto, e mal digerito questo quasi quarantenne libro. Non dico romanzo, che Kundera scrive affastellato, qui come spesso altrove. Ci sono pensieri, trame che tracciano solchi di racconti, unioni e disgiunzioni. Quasi a suggellare quello che in quarta di copertina ci si ostina a chiamare “variazioni”, per riprendere uno dei tanti fili del narrare. Quel bel pezzo del rapporto con il padre ormai malato e quasi incapace di parlare, e la sua ostinazione di studio sulle variazioni di un pezzo di Beethoven. E non dico che, probabilmente, inserito nel suo contesto storico, il testo non abbia una sua valenza. Come non calarsi nello spirito del ’76, e pensare ai cechi (o meglio, ai Boemi), al loro modo di vivere in una terra occupata, alle ribellioni ed agli ostracismi. Ricordo che fu l’anno di uno dei più tristi fine d’anno da me passati, proprio in quel di Praga, a casa dell’allora amico lettore di italiano, con i miei sodali dell’epoca e con la mia allora fidanzata. Ricordi di un paese bello, ma di tristezza immensa, con un’unica girandola luminosa a segnalare il nuovo anno. E con un dolce fatto di latte cagliato, zucchero e qualche fragola in pezzi. Ecco se mi calo nel mio io d’allora, capisco meglio e bene lo scritto di Milan, la sua rabbia verso il russo oppressore, la rovina del paese, la storia della ragazza che, per aiutarlo, verrà bandita anche lei. Ed anche il muoversi per il paese seguiti da macchine della polizia segreta. Nascondere lettere compromettenti. Cercare lettere d’amore perdute. Ma questa comprensione non riscatta il testo generale. Perché un testo che suoni le mie corde, deve anche rimanere vive al di là degli anni che passano. E questo non sopravvive, in me, allo scorrere del tempo. Non mi dà nessuna sensazione la lunga digressione sulle vicende di Tamina, del suo amore perduto, dell’isola dei bambini, ed altre metafore che probabilmente non colgo. Non mi coinvolge Mirek ed il suo strano ex-rapporto con Zedna la brutta. Poco mi sembra cogliere nelle vicende del riso legato alla possibile rappresentazione dei “Rinoceronti” di Ionesco (e ricordo ai deboli di memoria, che Ionesco insieme a Borges è stato una delle punte del mio amore giovanile verso la scrittura, che ancora persiste immutato verso di loro). E tutta quella digressione sul rammarico (che questa dovrebbe essere la traduzione di “litost”), con il rapporto tra lo studente e la bella (ma campagnola) Krystina, con lo spaesamento tra la vita in campagna e quella in città, con gli scrittori, le loro idee sulla poesia e sulla vita. Una parte di una pallosità unica, con qualche sprazzo laddove si tenta dell’ironia. Ma subito annegato nel rammarico generale di un qualcosa di incompiuto. Salviamo soltanto quell’accenno all’oblio. Sì, il fatto che qualcuno ha scritto di un tempo altro, che ha ricordato Gottwald e le epurazioni, l’agosto del ’68 ed i carri armati russi, i tristi anni settanta, questo ha un suo senso. Quello di non lasciar cadere quei tempi nell’oblio. Mentre leggo le parole di Kundera rivolte a quegli anni, tornano come bolle le memorie di quei tempi. Non erano nel mio oblio personale, che ora riesco a ripercorrerle in tutti e dieci quegli anni giovanili. Ma forse nell’oblio collettivo sì. Ed allora, senza nessun ricordo del riso, e con la consapevolezza che l’io di allora è sempre l’io mio attuale (con qualche ruga in più e qualche slancio in meno), lasciamo che la memoria ripercorra i tempi e ce li restituisca. Sperando in lettura coeve ma più coinvolgenti.
“Stava con una donna brutta perché non aveva abbastanza coraggio per andare con quelle belle.” (25)
“Il romanzo è frutto dell’umana illusione di poter comprendere il prossimo.” (115)
“Quel che attirò Tamina furono le sue domande. Non per il loro contenuto, ma per il semplice fatto che egli le ponesse. Mio Dio, era talmente tanto tempo che nessuno le domandava niente! … Solo suo marito le faceva incessantemente delle domande, perché l’amore è un continuo interrogare.” (198)
Gabriel Garcia Marquez “L’autunno del patriarca” Mondadori euro 9 (in realtà, scontato a 6,75 euro)
[trama pubblicata il 4 dicembre 2016]
Sarà pure consigliato dalle libropeute di cui (abbastanza) mi fido, e sarà inoltre stato scritto da un Gabbo appena uscito da un trip super-vincente come quello di “Cento anni”, e sarà che il nostro grande colombiano ha impiegato anni e anni per scriverlo, insomma sarà quel che sarà stato, ma devo dirlo subito (e lo avrete anche capito dal voto): non mi è piaciuto. Ho trovato difficile la lettura, poco coinvolgente, un lungo pamphlet contro il potere e le sue degenerazioni, trasfigurato nella lingua come solo Gabbo sapeva fare. Ma non ce la posso fare a sostenere con piacere dei periodi così lunghi senza punti che Marcel Proust si sta ancora rivoltando nella tomba cercando di leggere questo scritto, senza però riuscire a trovarne piacere. Come purtroppo è successo a me. Di certo è un libro complesso, di certo è un libro che è frullato nella testa dell’autore per anni ed anni. Ne parla alla moglie nel ’58, inizia a scriverne nel ’68, lo termina solo nel ’75. Diciassette anni, amici miei, non è certo poco. Per una serie di scelte personali poi Gabbo decide di farne un libro diverso dai precedenti, risultando in una specie di flusso di coscienza, joyciano di impianto con “lunghissimi periodi pieni di subordinate che compongono anacoluti interminabili”, mescolando inoltre persone di riferimento, passando da punti di vista differenti, anche all’interno della stessa frase. Alla fine, i critici che sanno ben parlare, lo descrivono come un libro barocco, e forse lo è, e proprio come il barocco per questo risulta distante dal mio sentire. Posso guardare un’architettura barocca, anche con piacere, ma non sono mai riuscito ad amarne uno. Il nostro narratore, in questo lungo canto di morto di questo fittizio dittatore caraibico (che mescola in sé tratti dei peggiori dittatori sudamericani: da Marcos Pérez Jiménez venezuelano, a Rafael Trujillo della Repubblica Domenicana, da Fulgencio Batista cubano a Anastasio Somoza García del Nicaragua) ce ne prospetta tutte le venature e le sfaccettature, l’ipocondria, la mania di persecuzione, la ricerca del piacere sessuale ad ogni costo (in alcune parti sembra leggere con venticinque anni di anticipo alcune vicende italiane), la repressione, la venerazione verso la madre (e non mi ripeto). Insomma di tutto, di più. Faccio un solo esempio, del parossismo dittatoriale. Periodicamente (ogni mese, ogni settimana, non si capisce) avviene l’estrazione della lotteria. Tre bambini estraggono tre palle numerate da tre sacchetti. Ovviamente, le palle sono state tenute giorni in frigorifero così da essere più fredde delle altre. Ovviamente, il numero è quello del biglietto del presidente. Ovviamente i bambini vengono sequestrati per non far rivelare l’imbroglio. Ovviamente, ad un certo punto, i bambini sono talmente tanti che non si gestisce più la situazione. Vengono messi su macchine di spostamento (treni, aerei, navi) e fatti saltare in aria. L’unico (poco) respiro al testo viene dato dalla suddivisione in sei capitoli, anche se non numerati, dedicati ognuno ad uno degli aspetti della vita del dittatore. Anche se ogni capitolo si apre con la descrizione delle scene del palazzo che si presentano a coloro che, a causa di un lungo silenzio, si accorgono che il dittatore è morto. Poi ogni pezzo di storia va per la sua strada. Nel primo si narra del sosia del dittatore Patricio Aragonés, che lo sostituisce in pubblico e che morirà anche al suo posto, così da permettergli di inscenare la scena di un funerale che dovranno essere replicata alla sua vera morte. Nel secondo si narra della sua passione senile per la bellissima Manuela Sánchez, in onore della quale riuscirà ad organizzare un’eclisse di sole, durante il cui tempo oscuro Manuela riesce a fuggire, lasciando in pianti e rimpianti il dittatore. Nel terzo si gustano le vicende del generale Rodrigo de Aguilar, suo maggior secondo, quello letterato, che il nostro dittatore, sorto al potere dopo un colpo di stato, non sapeva leggere (glielo insegnerà Leticia) ed era solo dotato del fiuto per il potere. Mentre tutto veniva fatto e disfatto da Rodrigo, che ovviamente ad un certo punto complotterà contro il dittatore, e questi lo farà servire cotto a mo’ di porchetta ad un pranzo di palazzo. Nel quarto c’è il lungo panegirico per le gesta e l’amore della madre, Benedición Alvarado, umile popolana che non capirà mai né il potere né i soldi che ha, continuando a (fingere di) campare vendendo uccelli dipinti al mercato. Questo capitolo contiene anche il lungo tema della rottura dei rapporti tra il dittatore ed il Vaticano, quando tenta di convincere il papa a canonizzare la madre. Tematica che si riallaccia nel capitolo seguente perché la cacciata delle suore permette al dittatore di vederne una, nuda, e di invaghirsene tanto da rapirla. È Leticia Nazareno, che prima resisterà al dittatore, poi ne diventerà la moglie legittima, gli darà un erede, farà di tutto per far tornare i papisti nell’isola, fino a morire (non si sa se per colpa dei nemici o degli amici del dittatore) sbranati lei ed il figlio, da una muta di cani. A questo episodio si collega l’ultimo capitolo, con le tremende repressioni, uccisioni e torture guidate da José Ignacio Saenz de la Barra, che fanno piombare il paese in un clima di terrore. Ed ovviamente di povertà, tanto che il dittatore dovrà vendere tutto, anche il mare, agli americani. Per poi trovare in Ignacio il capro espiatorio su cui far convergere l’ira dei cittadini, invece che verso di lui. Così che alla fine, come pochi dittatori (ed a mia memoria solo Francisco Franco in quelli dell’area ispanica) muore nel proprio giaciglio. Tuttavia, questa difficile ed anche compendiosa ricostruzione è merito di letture trasversali, ricostruzioni mentali del vostro tramatore, nonché della bellissima e difficilissima introduzione al libro di Cesare Segre. Al quale rendiamo omaggio, come rendiamo omaggio alla fatica del bravissimo spagnolista Enrico Cicogna per una traduzione che non esito a pensare di grande difficoltà. Ma ripeto, non è un libro che mi è piaciuto, non è un libro che consiglierei di leggere a cuor leggero. Certo, è un libro importante, e si può capire come l’autore sia degno di aver vinto il Nobel. Tuttavia, se oltre la testa i libri devono nutrire la pancia, questo fallisce il suo scopo. À la proxima, Gabbo!
Salvatore Satta “Il giorno del giudizio” Adelphi euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[trama pubblicata il 4 gennaio 2016]
È davvero un libro valido per tenere compagnia ai novantenni, come dice qualche signorina maligna? Credo proprio di no. Certo, è un libro di difficile lettura, perché nulla concede al pubblico, nulla concede all’applauso facile. Forse perché rimasto tanti (troppi?) anni nel cassetto del grande giurista sardo Salvatore Satta, da cui ne uscì solo postumo. Ed essendo un libro privato, per questo non concede, ma è dolente, diretto, debordante di ricordi, e molto altro ancora. Probabilmente, almeno nelle mie personali corde di lettore, manca qualcosa che ne chiuda le tante parentesi aperte, invece di scorrere via, e poi ad un certo punto, purtroppo finire. Non è comunque facile tracciarne una trama, un percorso, che il libro alla fine è forse un trionfo di ricordi, ed una laude ad una città che non è sia molto ricorrente nei ricordi collettivi. certo, tutti (molti?) sanno che Nuoro è la città natale di Grazia Deledda. E Deledda ebbe il Nobel per la Letteratura nel 1926. Ma quella che ci porta alla luce Satta con il suo scavare nei ricordi e nelle pietre, una ad una, della città, è la Nuoro città, la Nuoro campagna, la Nuoro lontana dall’Italia eppur così vicina. Seguendo, bene o male, la storia di Don Sebastiano Sanna Carboni e della sua famiglia. Don Sebastiano il notaio, che, in quanto notaio, ha beni al sole, e, onestissimo ed integerrimo, continua ad accumularne se e solo quando può e come può. Senza mai barare (tanto che per un debito di gioco, non intacca i soldi di casa, ma lavora di notte come amanuense). Don Sebastiano che, trentenne, decide di metter su famiglia sposando Donna Vincenza, la figlia di un piemontese immigrato ai tempi dell’unificazione, ventenne ed inesperta. Donna Vincenza che gli darà 9 figli, sette maschi vivi al tempo del racconto, e due femmine prematuramente morte. Donna Vincenza che governa la casa, ma poco più, come dice la feroce sentenza di Don Sebastiano che riporto in calce. Ed i sette figli che vanno dal maggiore Giovanni, per anni incupito da un amore andato a male, e poi messosi sulla scia paterna una volta questi invecchiato. Poi altri figli mezzani, che non vedono l’ora, e presto lo faranno, di andarsene per altri lidi. Ed infine i tre minori: Lodovico, il cagionevole, che, scapolo e misogino, farà il triste avvocato per tutta la vita, Sebastiano, quello che dovrebbe perpetrare il nome, ma non avrà mai né arte né parte, oscurato dal di poco maggiore Peppino, che morirà di polmonite nella Prima Guerra Mondiale. E mentre seguiamo le vicende per anni ed anni della famiglia Sanna, ne seguiamo l’inserimento nel mondo sardo in generale e nuorese in particolare. Belle, anche se apparentemente disorganiche, tutte le pagine che Satta tira fuori. Dalla nascita della città, quando il vescovo Roich nel secolo XII sposta la diocesi dalla malsana Galtellì sulla costa, verso l’interno più salubre. Laddove la città si sviluppa sui tre assi in contrapposizione: i poveri della Seuna, i malviventi (e bella è la descrizione di come ci si diventa) barbaricini della genia dei Corrales abbarbicati al rione San Pietro, ed i benestanti del Corso. Laddove c’è la grande casa di Don Sebastiano, la farmacia di Don Pasqualino, il caffè Tettamanzi centro e ritrovo di tutto quello che avviene in città. Seguiamo l’alternanza dei preti e dei canonici, dei vescovi, con il munifico Monsignor Dettori in testa, i primi fermenti socialisti che Don Ricciotti tenta di cavalcare, subito imbrigliato dalle gerarchie ecclesiastiche che spingono a deputo Paolo Masala il gran parlatore. La lotta per la terra, la macina del grano, il pane carasau, i formaggi e le olive. Un mondo che svolta il bordo del secolo scorso, e si affaccia sul nuovo. Don Sebastiano che legge la morte lontana di un arciduca ucciso chissà dove, e che porterà alla morte il suo Peppino. Morte che, prima o poi, raggiunge tutti. Il canonico, l’ubriacone Boelle, il fantasioso Paolo Catte, Fileddu, la zia Agostina. E Satta ce li riporta in vita per quel breve tratto che passeggiamo insieme, quando con lui ci si aggira per il cimitero. Che sta dalle parti di San Pietro, così che i poveri hanno l’agio di passare almeno una volta per il Corso, anche se dentro la bara. E attraverso i morti, si arriverà a quel giorno del Giudizio che tutti accomuna in un grande mescolamento. Giorno che Satta anticipa parlando e descrivendo il bene ed il male di molti. Ma lui non ne dà di giudizi. Lui espone, narra, a volte spiega, il più delle volte si macera anche lui nella sofferenza. È un po’ questa mancanza di un filo forte, di un meglio seguire le vicende dei Sanna che mi ha lasciato qualche momento di esitazione. In un libro che, per il resto, ho trovato veramente bello e convincete.
“Tu stai al mondo soltanto perché c’è posto.” (24)
“Riusciva a non far nulla senza essere ozioso e questo gli aveva procurato … fama di saggio.” (87)

Conclusioni

Come avete capito già dalle trame, non credo che i libri proposti siano di valido aiuto ai plurianni portanti. Forse ne gioverebbe a quella età una rilettura. Anche se, seguendo l’iter di mia madre, vedo meglio elementi di distrazione. Magari anche di intrigo ed intreccio, come potrebbero essere gialli ben costruiti alla Christie o alla Simenon. Per una volta, un completo disaccordo.

Nessun commento:

Posta un commento