Due posti che amo e che mi
affascinano. Due autori che li esemplificano, primi inter pares. Ian Rankin con
il suo poliziotto Rebus e Håkan Nesser con i suoi poliziotti che si stringono
attorno al Commissario Van Veeteren. Con un gradimento pro-libro, che supera
sempre la media. E non sarà certo un caso!
Ian Rankin “Dietro la nebbia” TEA euro 12
[A: 01/11/2015– I: 12/03/2017 – T: 16/03/2017] - &&&
e ½
[tit. or.: Set in Darkness; ling. or.: inglese; pagine: 483;
anno 2000]
Dopo
tanto girovagare torno alle pagine del simpatico scrittore scozzese. Purtroppo
la casa editrice italiana, altrimenti di buone uscite, continua a saltabeccare
tra tutti i libri di Rankin, facendo uscire questo undicesimo volume delle
storie di John Rebus, dopo aver già pubblicato il 17esimo e supposto ultimo
volume delle sue avventure (quello per intenderci in cui va finalmente in
pensione). Quindi, questa ripresa ci consente di tornare in media res, quando
il nostro è ancora al centro dell’azione con le sue capacità deduttive, con il
suo supposto carisma, con la sua solita passione del bere, anche se
altalenante, e le piccole scivolate verso piaceri privati, a volte poco consoni
all’attività investigativa (come quando va a letto con una possibile indagata,
ma lui è sicuro che non lo sia). L’altra caratteristica, oltre ai tratti
descrittivi della bellissima città di Edimburgo ed alle avventure scozzesi (ora
ben tornate alla ribalta), è la presenza di un alto numero di personaggi,
primari e comprimari, che può far perdere la testa ad un lettore poco
introdotto a questa sua caratteristica. Nella parte cittadina, seguiamo a lungo
il nostro ed i suoi accoliti non solo nei vari pub, ma anche nelle diverse
zone, tra città vecchia e nuova, tra Holyrood Park e i Meadows, tra il castello
ed il “Royal Mile” che conduce al Parlamento scozzese. Dove tutto prende
l’avvio, al ritrovamento di un cadavere, murato nelle cantine e vecchio di
almeno venti anni. L’azione si svolge infatti nel 1999, quando devono essere
fatti i lavori alla sede parlamentare, in seguito al referendum del ’97 che
aveva istituito il parlamento indipendente. Cosa che non era riuscita il
referendum precedente, svoltosi nel ’79. Anno in cui l’edilizia cominciò ad
aver il primo boom, a seguito di tutte le speculazioni edilizie possibili e
prevedibili a seguito dell’arrivo di schiere di politicanti. A ritroso
ricostruiamo che, coeva del cadavere, è la scomparsa di due trafficanti ai
limiti della legge, Freddy ed Alasdair. Di cui il secondo membro di una delle
famiglie notabili scozzesi. A ruota del ritrovamento, poi, avviene uno strano
suicidio di un barbone, e la morte di uno dei fratelli di Alasdair, Roddy.
Tutto ciò genera il gran numero di persone coinvolte nelle tre inchieste:
quella sullo scheletro, che segue l’ispettrice Eillen (per poco tempo, nelle
puntate precedente, quasi il secondo di John, ora però in secondo piano),
quella sul suicidio, che segue la da poco entrata Siobhan (che prenderà un suo
posto autonomo di John da qui fino alla fine della serie) e quella di Roddy che
segue in prima persona John, anche se formalmente agli ordini di un ispettore
rampante, Derek. Prima che John abbia le intuizioni giuste per ricollegare le
tre morti, seguiamo anche filoni collaterali. Vediamo Derek cercare di abbordare
senza successo Siobhan, fino a diventare quasi uno stalker (Derek ha ovviamente
problemi) e venir emarginato giustamente. Anche se questa micro-storia
introduce alcuni capitoli su degli stupri perpetrati a giovani ragazze, di cui
seguiamo lo sviluppo e la cruenta fine, ma è una storia laterale, quasi che
serva solo a darci il colore della Scozia e delle sue disavventure. Perché la
storia centrale è quella di palazzinari e tangenti. C’era il boss locale,
Cullen (ora in “vacanza” in Spagna) che cerca di arraffare il più possibile,
mettendo il nipote Barry nelle imprese nascenti ed usando Freddy ed Alasdair
come presta nomi. Peccato che i due gli rubino i soldi, e, fortuitamente,
uccidano il sicario mandato a farli ragionare. In seguito a ciò, Barry mura il
cadavere nel palazzo in costruzione, Alasdair fugge nei Caraibi facendosi una
nuova vita. Freddy rimane con i soldi ma è un timido (mi sa che anche
innamorato di Alasdair e soffra la sua fuga). Fatto sta che rimane lì a fare il
barbone, e quando scoprono il cadavere non regge alla tensione e si butta giù
dal ponte. Ma sono tutte storie che solo il nostro John, cogliendo rivoli qua e
là, riesce a ricucire. Scavando nelle memorie. Aiutato anche dalla comparsa del
boss che aveva scalzato Cullen, il famigerato Big Cafferty (che sarà avversario
di John fino all’ultima puntata). Che ha il dente avvelenato con Cullen, e
visto che non può colpirlo, tenta di mettere in mezzo il nipote Barry, che
invece è rimasto ed ha fatto fortuna (per sé o per lo zio, non sappiamo bene).
Una volta scoperti i magheggi dietro due morti rimane la terza, quella di
Roddy, che verrà risolta ma non vi dico né come né perché Roddy è morto. Nel
tentativo di scoprirlo vengono fuori tanti altri nomi che si perde il conto, e
Derek rischia anche di fare una brutta fine. Rebus però, nonostante le piccole
trasgressioni sessuo-alcooliche, è sul pezzo e uscirà non dico trionfante, ma
quanto meno con qualche punto in più al suo attivo. Ripeto, una storia
complicata ma anche ben congeniata, tutta giocata sulla falsariga di seguire
gli andamenti politici dell’indipendenza scozzese. Già all’ordine del giorno
nel ’79, ed ora, in tempi di Brexit, sempre più presente (anche se il libro è
di quasi venti anni fa). Buone e gradevoli, comunque le atmosfere scozzesi di
cui narravo. Rankin è un signor autore, forse troppo monotematico su John
Rebus, ma che ben utilizza il mezzo poliziesco pe darci un affresco
dell’evoluzione della Scozia durante gli anni. Interessante e comunque, e
continuerò a seguirlo. Anche perché presenta sempre una buona dose di cenni
musicali che hanno fatto la storia (anche) dei miei anni.
“Stava dicendo che il passato era un luogo
diverso, al quale non si poteva veramente tornare. Col suo aspetto
apparentemente identico … l’aveva ingannato: a cambiare era stato lui, e questo
faceva la differenza.” (206)
“La vita è dura, e poi muori.” (470)
Ian Rankin “Corpi nella nebbia” TEA euro 11
[A: 07/05/2015– I:
01/07/2017 – T: 04/07/2017] - &&& +
[tit. or.: Standing in Another’s Man’s Grave; ling. or.: inglese; pagine: 387; anno 2012]
Come
molti sanno, lo scrittore scozzese rimane uno dei miei preferiti. Unito alla
“banda” di suoi sodali, per me costituita da Alexander McCall Smith e JK
Rowling. Pur nella complicazione della ricerca di vecchi episodi e ristampe,
avevo seguito e descritto il corpus centrale delle avventure del suo
personaggio, l’ispettore John Rebus, dalle prime indagini (Cerchi e croci – “Knots
and Crosses” del 1987) alla sua andata in pensione (Partitura finale – “Exit
Music” del 2007). A quel punto Ian scrive un paio di romanzi in cui fa
diventare protagonista un nuovo poliziotto, Malcom Fox. Poi esce questo libro,
che viene presentato come 18^ inchiesta di Rebus e 3^ inchiesta di Fox. Ora, se
capissi perché viene indicata “anche” indagine di Malcom Fox, farei qualche
salto di gioia. Che il buon (e molto antipatico) Malcom l’unica cosa che fa
nelle poche pagine cui compare, è cercare di far cacciare John anche dal suo
posto di quasi rientro nelle file poliziesche. Non che sia rientrato in
servizio, ma fa una specie di consulente aggiunto ad una unità di “Casi
Sepolti”, luogo in cui spesso vengono ibernati i personaggi che danno fastidio
(vedi il Bosch di Connelly tanto per citarne uno). Invece questa è dall’inizio
alla fine un’indagine di Rebus, tuttalpiù considerabile come supporto l’apporto
della sua ex-aiutante ed ora poliziotta libera di far carriera, Siobhan Clarke.
Come detto Rebus è in pensione, sta nelle polverose sezioni dei “Casi Sepolti”,
quando viene coinvolto da tale Nina che da dieci anni non si rassegna alla
scomparsa della figlia. Scomparsa che John collega ad altre possibili
sparizioni, che sono altrettanto misteriose ed altrettanto irrisolte. Sarà lui
tuttavia a trovare un primo collegamento, scoprendo una foto mandata dal
cellulare dell’ultima vittima ad un numero casuale della rubrica. Scoperta che
fa sì che John ritorni sulla breccia, riprenda in mano i casi delle scomparse
insieme a Siobhan. Cominciando una lunga e dolorosa indagine. Anche perché mai
i poliziotti scordano il suo essere sempre sul limitare della legge, le sue
frequentazioni con personaggi ambigui. Qualcuno (Malcom?) pensa che questo lo
porti ad essere confidente dei mafiosi scozzesi. Noi sappiamo che è così che
vive Rebus, solitario e sbevazzatore. Anche se ha ridotto di molto l’alcool.
Non così le sigarette. Ma dalla foto, con pazienza e costanza, risale alle foto
che, senza che qualcuno se ne era accorto, anche le altre vittime avevano
spedito da cellulari morti. E con la stessa pazienza scopre possibili luoghi
dove sono state scattate le foto. Aiutato da un cane da cadaveri, scopre quindi
il luogo dove l’assassino seppellisce le vittime. Non la figlia di Nina, che ha
già ritrovato, e che ha semplicemente, ma non vi dico per quale motivo, deciso
di sparire senza lasciar traccia per la sua famiglia. L’input di Nina ha smosso
una piccola valanga, che Rebus maneggia con difficoltà, ma che alla fine lo
porta sulla traccia giusta. Si troverà l’assassino, e si scopriranno altarini
strani che mettono molto in cattiva luce anche i “Cold Case” cui Rebus
lavorava. O almeno la struttura della sezione. Alla fine è tutta una questione
di atmosfere. Di pub in cui si beve e si discute e si gioca a freccette. Di
favori dati e ricevuti. Tra l’altro, non riuscendo a trovare prove concrete
anche se sa chi è l’assassino, Rebus si inventa uno stratagemma in cui lo pone
in una situazione non di “win – win”, ma di “lost – lost”. Può perdere in due
diverse maniere, deve solo scegliere in quale modo la sconfitta possa essere
meno “pesante” per lui. Tuttavia la Sezione crimini irrisolti verrà sciolta,
Malcom Fox cesserà di mettere il naso nelle vicende private di Rebus, il quale
comunque, chiederà un reintegro parziale nelle file della polizia di Edimburgo.
Richiesta che sapremo solo nei prossimi libri se andrà a buon fine e come.
Ritengo al solito Rankin uno scrittore che mi sa trasportare nella sua Scozia,
pari solo a McCall Smith, anche se su due registri diversi (uno tragico,
l’altro leggero). Un altro libro che si legge con piacere e serenità, anche se
è sempre bene corredarlo con le mie precisazioni sui contorni precedenti, che
alla fine solo così, almeno io sono contento della lettura che faccio.
“Non era mai stato uno a cui piaceva tornare
sui propri passi.” (170)
“Non ho ancora trovato quello che sto
cercando.” (208)
Håkan Nesser “Il caso G” TEA euro 12
[A: 01/11/2016 – I: 04/07/2017 – T: 06/07/2017] - &&&
e ¾
[tit. or.: Fallet G; ling. or.: svedese; pagine: 429;
anno 2003]
Era un discreto numero di mesi
che non mi ricapitava in mano una trama dello svedese Nesser, soprattutto in
questa che possiamo considerare l’ultimo episodio della serie del commissario
Van Veeteren. Per tutta una serie di motivi che non sto qui ad elencare, ma in
particolar modo perché in questi ultimi 14 anni, Nesser ha scritto di tutto,
compresi 5 libri sull’ispettore Barbarotti, ma neanche più una riga su Van
Veeteren & co. Inoltre, il libro rappresenta quasi una summa delle indagini
e della vita del commissario, anche se ormai è a buon diritto da considerare
ex, visto che dal settimo libro della serie si è dimesso dalla polizia ed ha
aperto una libreria antiquaria. Una summa perché il libro è ben diviso, anche
se non equamente, in due parti, in cui seguiamo l’inizio, lo svolgimento e la
fine del famigerato “caso G”. In tutti i romanzi di questa serie, ad un certo
punto, Van Veeteren si rammaricava dell’unico caso che non fosse riuscito a
risolvere, “il caso G”. Di cui non si parla molto, si accenna, quasi si omette
a volte. Ora che Nesser ha deciso di mettere un punto fermo (come pochi
scrittori del mestiere sanno e riescono a fare), il caso ci viene descritto in
tutta la sua ampiezza, complicazione e implicazioni. Abbiamo quindi due parti
ben distinte, stilisticamente e temporalmente. Nella prima siamo nel 1987, ed
assistiamo alla nascita del “caso G”. Che poi sta per Jaan G. Hennan, lo strano
personaggio che fin dall’infanzia tormenta il nostro commissario. Compagni di
scuola, Jaan era un “capo” ed un capo violento. Che riesce a coinvolgere anche
il nostro in uno scherzo crudele che porterà alla morte un loro compagno di
scuola. Non solo, ma Jaan riuscirà a togliere a VV (come è meglio indicare il
commissario dal cognome così lungo e dal nome ignoto) la prima donna con cui si
era messo. Solo alcuni anni prima Jaan fa un passo falso e l’allora poliziotto
Maarten riesce ad incastrarlo per droga ed a farlo condannare ad un paio d’anni
di galera. Ma ora è tornato, proprio a Maardam, sposato con la bella Barbara.
Questa chiede a Maarten, ora investigatore privato, di pedinare il marito senza
spiegarne il motivo. Cosa che Maarten fa, lasciandosi anche coinvolgere da Jaan
in una colossale bevuta. Peccato che al ritorno a casa, Jaan trovi Barbara
smarmellata sulla piscina, come se avesse fatto un salto dal trampolino di 10
metri. Peccato che la piscina era senz’acqua! Comincia qui l’indagine di VV, i
suoi controlli, le sue reminiscenze, gli interrogatori con Jaan, che sono
senz’altro la parte migliore dello scritto. VV è convinto della colpevolezza di
Jaan, ma questi ha un alibi inattaccabile: durante il tempo della morte di
Barbara era proprio con Maarten. I sospetti poi si fanno più serrati alla
scoperta di una cospicua assicurazione sulla vita che Jaan riscuoterà per la
morte di Barbara. Si va avanti così, fino al processo che, come sospettiamo,
manda Jaan assolto. Facciamo adesso un salto di 15 anni, ci spostiamo al 2002.
VV ha lasciato la polizia, e gestisce una libreria. Ma viene coinvolto dai suoi
ex colleghi quando si presenta la figlia di Maarten denunciandone la scomparsa.
E VV non potrà che rientrare in gioco, visto che l’unica traccia che Maarten
lascia è un biglietto chiaramente indicante il “caso G”. Con un lavoro paziente
e certosino, analizzando le scarse prove esistenti, VV risale all’ultima città
in cui è stato visto Maarten. Che guarda caso era anche il teatro di una delle
più tristi storie di VV, quella della morte del figlio Erik. VV ritrova anche
il suo sodale pensionato Bausen. E con lui risale ad altri punti, fino a
trovare (purtroppo) il corpo di Maarten, ma anche (per fortuna) il nuovo
travestimento di Jaan, anche qui sposato con una apparentemente ricca signora.
A questo punto però c’è qualche granello che si insinua negli ingranaggi, dove
pare che Jaan e signora siano insieme da quasi 12 anni. Un record per un
pluriomicida come Jaan (dimenticavo, tra la galera e Barbara, era morta
un’altra signora Hennan). VV ed i suoi provano a mettere pressione sulla
coppia. Anche perché VV è sempre ossessionato dalla non soluzione del
precedente caso. Ma alla fine, anche questo si scioglierà: è la coppia quella
fatale, una sorta di Bonnie e Clyde del matrimonio. Dove avevano pescato una
prostituta sosia della signora Hennan, e fatto in modo di ucciderla con una
modalità che difficilmente avrebbe fatto risalire a loro. VV ha finalmente
l’ultima chiave del puzzle della sua vita in mano. Ma qualcuno uccide Jaan. Ed
un colpo di pistola potrebbe porre fine anche alla vita di VV. non vi delucido
sulle battute finali della serie. Ma finalmente, il caso G è risolto. E VV
viene chiuso, almeno come serie poliziesca. Un bel modo di terminare una serie
quando si è arrivato ad un punto dove si rischia la ripetizione. Certo,
potrebbe succedere qualcosa sempre nella vita e nella scrittura di Nesser,
perché solo i buoni scrittori sono capaci di chiudere e riaprire storie. Queste
di VV mi hanno introdotto anni fa nel mondo Scandinavo, portandomi poi ad
esplorarne meglio gli scritti e le località. Grazie Håkan.
“Santo Dio, pensò. Ho sessantacinque anni e
sono innamorato come un adolescente.” (235)
“Non mentire a te stesso sulle tue vere
motivazioni, farà pure male, ma se vuoi arrivare da qualche parte non hai altra
scelta!” (377)
Håkan Nesser “Confessioni di una squartatrice” TEA euro 10 (in realtà,
scontato a 8,50 euro)
[A: 25/03/2016 – I: 07/07/2017 – T: 09/07/2017] - &&&
e ¾
[tit. or.: Styckerskan från
Lilla Burma; ling. or.: svedese; pagine: 361; anno 2012]
Passiamo
nel giro di poche ore di lettura dall’ultimo capitolo di VV (almeno così sembra
acclarato), all’ultimo di Barbarotti, l’altro commissario di Nesser. Anche qui,
direi più immaginato che dichiarato, visto che da 5 anni l’autore non scrive
neanche di questo suo secondo personaggio. Ribadendo, come incipit
propiziatorio, che Nesser mi sembra essere risalito sulle sue ceneri,
continuando a sfornare, nel corso degli anni, dei romanzi con una propria
logica, vediamo cosa ci propone oggi. Cominciando dal solito peana delle
traduzioni, soprattutto dei titoli. Vedi un libro che si intitola
“Confessioni…” e subito il tuo immaginario parte verso una ben precisa
struttura di libri. Qualcuno che commette uno sgarro (uno sgarbo, un delitto,
vero o immaginato) e che scrive per descriverne la genesi, e motivazioni.
Magari anche per confutarne una versione acclarata. Invece, il titolo era “La
squartatrice di Lilla Burma” (Lilla Burma significa in svedese ‘Piccola
Birmania’, ma non per un riferimento alla bellissima nazione asiatica se non
per la coevità con cui questi terreni agricoli furono costruiti rispetto a quel
“ponte sul fiume Kwai” di rimembranze che mi riportano ad Alec Guinness; ma qui
si divaga). Perché, benché sia Gunnar Barbarotti, il commissario italo-svedese,
il motore dell’azione, la parte gialla si muove intorno a Ellen, la cui storia
seguiamo molto anche attraverso il suo diario (quello che l’italian marketing
vuol far passare per “Confessioni”). E ben complicata è la storia di Ellen.
Ragazza non bella e neanche decisissima, frequenta un anno la locale scuola,
vendo un flirt con il coetaneo Adrian, per poi allontanarsene subito per
problemi familiari, e ritrovarsi sposata con Harry, padrone di Lilla Burma, e
con un figlio apparentemente quasi autistico. Solo che Billy, il figlio, ha un
terrore folle del padre, che lo picchia sovente, tanto da non parlare e
chiudersi nel proprio mondo. Harry picchia sovente anche Ellen, che non riesce
a reagire. L’ansia per la situazione monta di riga in riga, fino alla scomparsa
di Harry. In un momento topico: il cugino del podere vicino è diventato
l’amante di Ellen, e lì nelle “Grande Burma” stanno costruendo una piscina.
Dopo mesi di vane ricerche, Harry viene ritrovato fatto a pezzi in diversi
sacchi sparsi per la campagna. Ellen si autoaccusa dell’omicidio e, nonostante
le attenuanti sui maltrattamenti, farà 14 anni di carcere. Dopo di che
riprenderà una vita quasi normale, anche se non vedrà più il figlio Billy, che,
benché introverso, ha imparato a parlare, si è sposato con Juliana con la quale
ha una figlia. Ritrova Adrian, con il quale va a convivere. Sino a quando, 5
anni prima dell’inizio del nostro romanzo, anche Adrian scompare
misteriosamente. Ma questa volta non viene ritrovato. Tutta questa storia
gialla si intreccia con la “vera” trama che interessa a Nesser. Nella prima
pagina del libro, Gunnar si sveglia nel suo letto, allunga una mano e sente che
la moglie Marianne è morta nel sonno per un aneurisma. Questo è il dramma che
segue l’autore. Che segue Barbarotti. Che seguiamo noi, con un misto di alti e
bassi. Che il nostro è profondamente innamorata della sua Marianne, non riesce
a comprendere la prova cui viene sottoposto, e si trova anche a gestire i loro
cinque figli (nessuno in comune, due del precedente matrimonio di Marianne, e
tre del precedente matrimonio di Gunnar). Con qualche passaggio non dico
ingenuo, che sarebbe una inutile cattiveria, ma che mi lascia perplesso (sia
Gunnar che Ellen sentono delle voci con le quali comunicano e con le quali fanno
il conto delle loro azioni). Saranno un complesso di circostanze che
aiuteranno, anche se lentamente, il nostro ad uscire dal dolore, o almeno a
gestirlo. Sicuramente i figli. Con molto tatto, le discussioni con lo psicologo
terapeuta del dolore. In modo traverso, il sempre miglior rapporto con la
collega Eva. Anch’essa colpita da un dolore, seppur diverso: un divorzio
traumatico ed un turbolento rapporto con l’ex-marito e la sua nuova moglie.
Nonché, e questo ce lo si aspettava avendo conosciuto Marianne nei libri
precedenti, proprio dalla stessa moglie morta. Che gli fa recapitare una
lettera, consegnata alla di lei sorella, che dovrà ricevere solo dopo la sua
morte. Ultimo elemento che consente agli ingranaggi del commissario di tornare
con la testa fuori dall’acqua, è proprio il riprendere le indagini. Dove il suo
capo, il misterioso, intelligente e contorto Asunander lo coinvolge proprio nel
caso della scomparsa di Adrian. Risalendo a tutti i misteri irrisolti di cinque
anni prima, pur con molta fatica, riesce a trovare i collegamenti tra i due
casi. Nesser ci fa vedere a lungo quanto “femminicidio” possa essere presente
in una nazione apparentemente avanzata sul piano delle libertà formali. E dopo
una lunga cavalcata, capiremo perché Asunander ha voluto riaprire i casi,
capiremo quali sono le reali colpo di Ellen, di Billy, di Adrian, e di altri
personaggi che non cito, sia per brevità sia per non togliervi il piacere della
lettura. Con una trama che, contento io personalmente, finisce con barlumi di speranza.
Non sono certo un patito del lieto fine sempre e comunque, ma a volte sono più
contento di leggere un finale di possibilità, che uno di cupa mestizia. Nesser
è comunque uno scrittore abbastanza complesso, non a caso ex-insegnante di
lettere in un liceo svedese, pieno di riferimenti alti, di mascheramenti, di
citazioni bibliche e cabalistiche. Ma anche di giochi nascosti, come quello che
vedo a pagina 37, dove la voce che parla ad Ellen la convince di confessare uno
sgarbo da lei fatto durante le ore scolastiche a tale Annika Bengtsson. E
allora? Se foste lettori che si segnano tutto, avreste scoperto che il nome
citato non è altro che quello della protagonista dei libri gialli di un’altra
grande svedese, Liza Marklund. Ma qui si esce dal seminato. Tronando alla
trama, mi ha abbastanza convinto la parte “gialla”. Mi ha coinvolto la parte in
cui si parla dei maltrattamenti sulle donne, e sui loro tentativi, spesso
frustrati purtroppo, di ribellione. Mi sta lasciando pensoso tutto il discorso
sulla morte di persone care, in questo 2017 che già troppo a chiesto ai nostri
fragili nervi. Tuttavia, non è stato un pensare inutile, anche se forse, ora,
esula da queste righe.
Come
tutte le letture infrasettimanali, i miei lettori sanno che si dedica un
piccolo spazio al recupero di terapie passate dagli eventi o riprese da nuove
letture. Quattro terapia che vanno dalle cure per rimediare all’adolescenza ai
palliativi per superare traumi da adozione, da depressione e da mancanza di
entusiasmo.
Inoltre,
circolarmente andando di Vico in Vico, finisce una trama con un accenno che
torna, purtroppo, d’attualità quando la condivido. Un abbraccio a Cristina, e
lei sa perché. Ed un pensiero di conforto per la mia sfortunata mamma che ha
deciso bene, questa volta di fratturarsi l’omero. Per il resto, tutto
nipponicamente bene.
CURARSI CON I LIBRI di
Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
PRIMO NOVEMBRE
Come già detto, a volte prendo
qualche festa non domenicale per recuperare libri. Che come in questo caso sono
sia di cure già descritte, che di cure “saltate”.
RECUPERO DI LIBRI LETTI PER CURE GIÀ DESCRITTE
ADOLESCENTI, ESSERE
Gli ormoni impazzano. Peli
spuntano dove prima era tutto liscio …
Ecco allora una cura omeopatica
I DIECI
MIGLIORI ROMANZI PER ADOLESCENTI
Italo
Calvino “Il sentiero dei
nidi di ragno”
Paolo
Giordano “La solitudine dei
numeri primi”
Elsa
Morante “L'isola di
Arturo”
Robert
Musil “I turbamenti del
giovane Törless”
Raymond Queneau “Il diario intimo di Sally Mara”
Joào
Guimaraes Rosa “Miguilim”
J.
D. Salinger “Il giovane
Holden”
Robert
Louis Stevenson “L'isola del tesoro”
Boris
Vian “La schiuma dei
giorni”
Alice
Walker “Il colore viola”
RECUPERO DI LIBRI LETTI PER CURE PASSATE
ADOZIONE
Ann
Patchett “Corri”
Nei
Gaiman “Il figlio del
cimitero”
Ed
in aggiunta:
Frances H. Burnett “Il giardino segreto”
Rudyard
Kipling “Il libro della
giungla”
Emily
Bronte “Cime tempestose”
T.
H. White “Re in eterno”
La
letteratura per l’infanzia è piena di bambini adottati. Mary Lennox, ne “Il
giardino segreto”, è una bambina viziata che impara ad amare in un nuovo,
gelido clima; Mowgli, ne “Il libro della giungla”, viene allevato dai lupi;
Tarzan, nei romanzi di Edgar Rice Burroughs, dalle scimmie. Un alone romantico
sembra circondare questi trovatelli - e a ben guardare a chi, da bambino, non è
capitato di litigare coi propri genitori e immaginare di essere figlio altrui?
I bambini adottati si sono fatti strada anche nella letteratura per adulti: per
esempio Heathcliff, in “Cime tempestose”, che sconvolge il delicato equilibrio della
propria famiglia adottiva; “Wart”, in Re in eterno di T. H. White, uno dei rari
casi di bambini adottati di successo in questo elenco - scopriremo infatti che
si tratta di Artù, re di Camelot.
In
realtà, l’adozione è meno romantica e può essere una faccenda complicata per
tutti gli interessati - per i genitori naturali che decidono di rinunciare al
loro bambino; per i bambini che scoprono la verità in modo tutt’altro che
ideale; per i bambini che incolpano i genitori adottivi della propria
confusione, e che possono mettersi in cerca dei genitori naturali solo per
restare delusi; infine, per i genitori adottivi che devono decidere quando dire
ai propri figli che sono «speciali» e non consanguinei. L’intera questione è
irta di insidie - ma anche piena di amore, e può significare la fine della
sofferenza per chi non ha figli - e a tutti quelli che ne sono coinvolti
farebbe bene esplorarne la complessità con chi ci è già passato.
Uno
dei più belli tra i romanzi recenti con bambini adottati è “Corri”, di Ann
Patchett. Doyle, ex sindaco di Boston, bianco, ha tre figli: Sullivan, Teddy e
Tip – uno è bianco coi capelli rossi, due sono neri, atletici e molto alti. Sua
moglie Bernadette, dai capelli rosso fuoco e madre di Sullivan, è morta. La
madre biologica di Teddy e Tip è la «spia che venne dal freddo» - ha guardato i
figli crescere da lontano, consapevole dei loro successi e dei loro fallimenti,
delle loro amicizie e rivalità, come un angelo custode.
Quando
Kenya, undici anni - la ragazzina che corre del titolo - viene a vivere
inaspettatamente in casa Doyle, le complesse dinamiche famigliari cominciano a
prendere nuove direzioni. Teddy e Tip sembrano destinati ad avere successo,
come scienziato e futuro sacerdote, ma Doyle avrebbe voluto che seguissero il
suo esempio in politica. Il fratello maggiore, Sullivan, ha passato un po’ di
tempo in Africa per cercare di contribuire alla lotta contro l’AIDS, oltre che
per fuggire al passato e a un terribile incidente. Con i nuovi problemi posti
dalla presenza di Kenya le storie delle diverse origini dei fratelli salgono
gradualmente in superficie - ed è il suo semplice, ma irresistibile bisogno di
correre, splendidamente descritto da Patchett («era una forza sovrumana, fuori
dalle norme fondamentali della natura. La gravità, con lei, non funzionava»), a
riunirli tutti. Il messaggio complessivo del romanzo è chiaro, e trasmesso
senza sentimentalismi: il sangue è importante, ma l’amore lo è ancora di più.
La
conferma del fatto che anche i genitori meno convenzionali possono fare un buon
lavoro adottando un bambino arriva dalle pagine de “Il figlio del cimitero” di
Neil Gaiman. Un ragazzino, una sera, va in giro in esplorazione e così riesce a
evitare la morte per mano di «Jack del Mazzo», che uccide il resto della sua
famiglia. Finito in un vicino cimitero, viene adottato da una coppia di
fantasmi. Il signore e la signora Owens, ora defunti, in vita non avevano avuto
figli e accolgono con gioia quella inattesa occasione per diventare genitori.
Il bambino si chiama «Nobody», ma per tutti è «Bod». Durante la sua eccentrica
infanzia, Bod sviluppa poteri speciali come «svanire, infestare certi luoghi,
entrare nei sogni altrui» - che in seguito si riveleranno molto utili.
Gli
spettrali genitori di Bod fanno un ottimo lavoro. «Sei vivo, Bod. Questo
significa che hai un potenziale infinito. Puoi fare qualunque cosa, costruire
qualunque cosa, sognare qualunque cosa. Se potrai cambiare il mondo, il mondo
cambierà». La loro saggezza di defunti spinge Bod a vivere la propria vita al
massimo, malgrado la tragedia dei suoi primi anni, e lui sicuramente ci riesce.
L’adozione
non è mai una cosa semplice. È essenziale che tutti siano onesti, perché ognuno
possa accettare chi e quali rapporti lo legano agli altri. Qualunque ruolo interpretiate,
questi romanzi vi mostreranno che non siete soli. Leggeteli, e poi passateli ai
vostri famigliari - comunque sia formata la vostra famiglia. Incoraggiateli a
dare voce ai propri sentimenti.
DEPRESSIONE
Milan
Kundera “L'insostenibile
leggerezza dell'essere”
Sylvia Plath “La campana di vetro”
Giuseppe
Berto “Il male oscuro”
Carmelo
Samonà “Fratelli”
La
depressione è una scala graduata. Nel migliore dei casi, come capita ogni tanto
alla maggior parte di noi, significa una giornata o un periodo in cui non va
bene niente, ci sembra di non avere amici, e ci sentiamo prigionieri della
malinconia (v. Fallito, sentirsi un; Messo da parte, sentirsi; Tristezza;
Malumore; Inutilità, senso di). In momenti del genere abbiamo bisogno di un
romanzo che sposti la nostra percezione del mondo, ricordandoci che può essere
anche un luogo dove splende il sole e tutti sono allegri. Vedi la nostra lista dei
migliori romanzi per tirarsi su, per scegliere una lettura positiva che apra la
finestra e faccia entrare una ventata di aria fresca.
Nel
peggiore dei casi, tuttavia, c'è un'enorme nuvola nera che scende su di noi
senza preavviso, senza una ragione particolare, e senza via d’uscita. Questa è
la depressione clinica, una grave forma di malattia mentale che è difficile da
trattare e soggetta a ricadute. Se siete abbastanza sfortunati da essere
inclini a questo tipo di depressione, è improbabile che sia sufficiente una
lettura leggera e ariosa per tirarvi su. Un romanzo del genere potrebbe anzi
farvi sentire peggio - in colpa perché non riuscite a ricavarci nemmeno una
risatina, irritati da tutto ciò che vi sembra ingenuo nel suo ottimismo, e
finirete per odiarvi ancora di più. Può sembrare una contraddizione, ma in
questi momenti un romanzo che dice le cose come stanno - con personaggi che si
sentono altrettanto depressi di voi, o con una visione del mondo senza
compromessi nella sua negatività - può colpire nel segno, incoraggiarvi a
essere più gentili con voi stessi, offrirvi sostegno in maniera più
appropriata; un romanzo che possa accompagnarvi nello spazio oscuro della
vostra malinconia, identificarlo, analizzarlo, finché non vi renderete conto
che anche altri ci sono passati, e che dopo tutto non siete così diversi e
nemmeno così terribilmente
Il
tormento e gli incubi di Tereza nel romanzo “L’insostenibile leggerezza
dell’essere” di Milán Kundera hanno proprio queste caratteristiche. Il
malessere di Tereza e provocato dal suo amante, Tomás, donnaiolo incallito;
dopo essersi chiamato fuori da un matrimonio fallito e aver abbandonato un
figlio piccolo, Tomás ha scelto te vita dello scapolo e del libertino. Fin
dall’inizio, tuttavia, Tereza è ritratta come una persona maltrattata dalla
vita- te pesantezza contro te leggerezza di Tomás e della sua amante Sabina.
Perché Kundera divide le persone in due fazioni: quelli che capiscono che te
vita e priva di senso, e quindi ne sfiorano appena te superficie, e vivono nel
momento e per il momento, e quelli che non riescono a sopportare l’idea che
l’esistenza debba andare e venire casualmente e insistono nel cercare un
significato in ogni cosa. Quando incontra Tomás, Tereza sa ai non avere altra
scelta se non amarlo per sempre; quando lo raggiunge a Praga per rivederlo, con
tutto ciò che possiede chiuso in una valigia, porta con sé anche una copia di
Anna Karenina - un romanzo che forse riassume più di ogni altro te sofferenza
che arriva con la perdita di significato delle cose. Per quanto te ami, Tomas sa
che lei sarà una presenza pesante nella sua vita. Spinta sull’orlo della follia
dal rifiuto di Tomás di rinunciare alle altre donne, Tereza si rimprovera per
questa sua debolezza, per il suo desiderio che Tomás cambi. Toccato il fondo,
cercherà di morire di overdose. Ogni volta che vi sembrerà di essere caduti
così in basso che nessun altro possa arrivare fino a voi, prendete questo
romanzo e lasciate che sia Tereza a tenervi compagnia, laggiù.
Anche
lei vuole vivere e superare la propria tristezza - e alla fine troverà il modo
per farlo.
Una
quantità sproporzionata di scrittori soffrono di depressione. Alcuni dicono che
le persone creative sono più vulnerabili, altri che scrivere della propria
malattia ha un effetto catartico. Richard Yates, uno scrittore americano,
passava ore a guardare il muro, in stato catatonico. Anche Ernest Hemingway
soffriva di crisi depressive, sempre più gravi, e beveva molto (se anche voi
sceglierete questa via di fuga, v. Alcolismo). Alla fine perse la sua battaglia
contro la depressione, come successe a Virginia Woolf e a Sylvia Plath, ma non
senza lasciarsi alle spalle il dono inestimabile della propria esperienza.
Questo dono - romanzi e racconti sull’esperienza della malattia mentale - è a vostra
disposizione, perché ne ricaviate il conforto che questi scrittori non sono
riusciti a trovare.
Plath
soffriva di un disturbo bipolare, c nel suo intenso romanzo autobiografico La
campana di vetro documenta, seguendo la giovane Esther Greenwood, gli incredibili
sbalzi d’umore che la riempivano di felicità un momento, con i «polmoni gonfi»
nello slancio di gioia del sentirsi vivi, e incapace di qualsiasi reazione
emotiva - «vuota e immobile come un bambino morto» - il momento successivo. La
voce di Esther è un grande conforto per i depressi: ciò che rende così
leggibile questo romanzo è la leggerezza della prosa di Plath, e il modo in cui
anche nei suoi brani più inquietanti l’umanità e il giovanile entusiasmo di
Esther riescono a risplendere. Ricordatevene, quando vi sembrerà impossibile
tornare a essere felici - o anche semplicemente «normali». Altri sapranno
vedere il potenziale di leggerezza che avete dentro, anche quando voi non ci
riuscirete.
Altro
medicamento per chi è preda dell’umor nero è la lettura a voce alta de II male
oscuro di Giuseppe Berto. Apritelo sopra un leggio e cominciate a leggerlo in
piedi, al centro del vostro salotto o della vostra cucina. Il romanzo è
costruito come un lungo, fluviale monologo interiore. Racconta la fuga del protagonista
dai suoi sensi di colpa, dall’ingombrante ombra di un padre, dalle intemperie
degli uomini e da quelle delle donne. Viaggerete con lui deponendo pagina dopo
pagina i vostri abiti quotidiani intrisi di tristezza su una sedia per vestire
gli stracci di un anacoreta. Arriverete fino alla costa della Calabria e da lì
osserverete le luci della Sicilia accendersi dall’altro lato del mare, e anche
se vi fermerete sul limite di quel guado vi resterà almeno la consolazione che
ci possano essere delle stelle meno fredde di quelle sotto le quali avete
vissuto ad aspettarvi da qualche parte.
Poi
ci sono depressioni che non hanno un nome. Sono delimitazioni di territorio,
danze teatrali. Come nel caso in cui due fratelli vivano insieme, e uno sia
sano e l’altro no. E quello sano si prepari alla partenza senza mai partire. E
quello malato spicchi grandi salti, girando a vortice su sé stesso. E l’intera
casa sia una carta geografica di Grandi e Piccoli Viaggi. Perché il confine non
è sempre così ben definito, e lascia dubbi, e sospetti. Dov’è la linea che
separa i regolari dagli irregolari, in quale punto è interrotta, spezzata? E
questa terra ibrida, questo continuo gioco di specchi, che descrive Carmelo
Samonà nel suo primo romanzo. Godetevi ogni parola, ogni frase di questo libro,
ogni suo respiro. Ci si muove tra falsi indizi, inciampi, un codice di messaggi
rapidi o restii. E colloqui invisibili. Tabelle del Tempo. Tutto avviene nel
labirinto senza uscita di una stanza, tra balbettamenti e sussulti, ma con una
grande tensione fantastica, come se quella stanza fosse un’isola nell’oceano,
un’isola nella quale si possa anche imparare ad essere fratelli nella malattia
e nel silenzio.
Rassicuratevi,
quindi, pensando che questi personaggi - e gli autori che li hanno creati -
sanno cosa vuol dire vivere con la depressione; e se la loro esperienza non
coincide con la vostra, provate con un altro libro nella nostra lista dei
migliori romanzi per chi è molto triste. Magari non riuscirete a vedere uno
squarcio di cielo tra le nuvole, ma la consapevolezza di non essere i primi a
restare smarriti sotto quella cappa grigia vi sosterrà mente aspettate che si
apra.
ENTUSIASMO, MANCANZA DI
E. L. Doctorow “Ragtime”
La
mancanza di entusiasmo è un disturbo notoriamente difficile da diagnosticare.
Facilmente confusa con la noia (che in realtà è un deficit dell’immaginazione)
e con l’apatia (che si manifesta come indolenza fisica ma ha anche una causa
mentale), la mancanza di entusiasmo può manifestarsi, a un occhio inesperto,
semplicemente come il sintomo di una personalità noiosa. Se non viene curata,
può rovinarvi la vita - e non solo la vostra. Vivere senza entusiasmo significa
vivere senza voglia di fare nuove esperienze, e così perdere il sale, il succo,
quel qualcosa che rende la vita emozionante. Significa vivere mortificando i
sensi, in modo piatto, senza risvegliare le passioni né stimolare la curiosità,
e in questo deprimere al massimo tutti quelli che vi circondano - e,
francamente, anche noi. Fateci un favore, a tutti quanti. Leggete questo
romanzo e svegliatevi.
Ragtime
è ambientato all’alba del xx secolo in America - un momento in cui la nazione
intera era in preda a un’euforia di agitazione, invenzione e cambiamento. I
binari della ferrovia attraversavano scintillanti tutto il paese. Lunghe
colonne di Ford modello T uscivano dalle catene di montaggio. Edifici alti
venticinque piani spingevano le persone più vicine alle nuvole, e gli aerei le
portavano via. Il telefono e la stampa ridefinivano il modo di comunicare. Il
cielo era un tripudio di razzi e petardi. Nelle case della gente comune, la
polvere per starnutire e le rose di plastica che spruzzavano acqua
solleticavano il naso e facevano ridere.
In
mezzo a tutto questo si svolge la storia di una famiglia benestante di New
Rochelle, nello stato di Newark. Il figlio (che conosciamo semplicemente come
«il piccolo») sta fissando un moscone da dietro a una zanzariera il giorno in
cui l’auto di Harry Houdini si rompe fuori da casa sua e il mago viene invitato
a prendere il tè. Poco dopo, la Madre scopre un bambino nero in giardino e lo
prende con sé - infrangendo, in questo modo il primo di vari tabù culturali e
di genere. Quando il Padre torna da una spedizione nell’Artico e la trova a gestire
la sua fabbrica di fuochi d’artificio, l’uomo si strania sempre di più dalla
vita dei suoi cari e la famiglia comincia a sfaldarsi.
Alternando
vivaci primi piani ad ampi panorami e facendo incontrare personaggi reali e
immaginari alle intersezioni di una vasta e complessa ragnatela, E. L. Doctorow
introduce nel romanzo - e nel lettore - il senso di un grande entusiasmo.
Mentre gli immigrati dall’Italia e dall’Europa orientale, come Tateh e la sua
bella figlia, si riversano negli squallidi caseggiati del Lower East Side, il
finanziere J. P. Morgan stabilisce nuovi standard di ricchezza e potere e
Houdini sfida la morte con gesta sempre più terrificanti, Freud mette l’America
sul divano e lo zio del ragazzo, conosciuto come il Fratello Minore della
Madre, perseguita il primo sex Symbol del paese, Evelyn Nesbit.
Nel
leggere, fate attenzione a come la Madre e il bambino dicono «sì» al progresso
e al cambiamento. Guardate come il Padre, al contrario, dice «no», rifiutando
di accettare il suo tempo. Come Tateh, lasciate che il ritmo concitato delle
sorprendenti frasi di Doctorow vi allontani da quello che conoscete e che sta
segnando il passo. Salite sul treno di una nuova vita e portate con voi la curiosità
del ragazzo per le ultime invenzioni. Condividete la gioia del Nonno all’arrivo
della primavera (ma fate attenzione, se avete più di settant’anni, a non
scivolare e fratturarvi il bacino, come fa lui quando accenna un passo di
danza). Cercate di trovarvi in un luogo dove le cose stanno davvero cambiando,
e vi sentirete di nuovo pieni di entusiasmo.
Bugiardino
Adolescenti, Essere
Ho parlato di questa “malattia”
nella mia prima cura libropeutica nel gennaio del 2014. Ora che i sei su 10
libri, sono diventati sette, aggiungiamo questo potente anche se datato
Queneau.
Raymond Queneau “Il diario intimo di Sally Mara” Feltrinelli euro 7 (in
realtà, scontato a 5,95 euro)
[libro letto il 1 giugno 2017
e non ancora pubblicato]
Penso
che pochi non sappiano la mia passione per Queneau, che ritengo sia il Draghi
della mia personale BCE (che ovviamente non sta per la famosa banca, ma per le
stelle del mio firmamento letterario: Borges, Calvino, Eco). Ho (quasi) la sua
opera omnia e (quasi) tutta in francese. Mi mancava, ed ero dubbioso sul da
farsi, le opere che uscirono a suo tempo con lo pseudonimo di Sally Mara
(“Troppo buoni con le donne” e “Diario intino”). Ora, approfittando della
spinta delle mie libropeute, che consigliano questo libro agli adolescenti, e
facendo tesoro degli spazi di riposo ritagliati durante il recente viaggio in
Israele, ecco che riesco a leggere il secondo testo, nella versione
feltrinelliana di Leonella Orati Caruso, derivante non dal primo testo (che fu
appunto le “Journal Intime”) ma dalla sua riproposizione quando Queneau rivelo
di esserne l’autore (e che uscì appunto con il titolo “Le opere complete di
Sally Mara”). Devo anche confessare che il testo, anche se ottimamente reso,
non potrà avere l’impatto della lingua originale. Proprio per l’impianto
generale che l’autore ne ha dato: è un diario scritto in francese da una
persona (fittizia) irlandese. Queneau si diverte allora a rendere tutto il
gioco attraverso un uso quasi da “traduttore automatico”, utilizzando modi di
dire e perifrasi che rendono il testo umoristico, ma solo, per l’appunto,
apprezzandone gli sforzi di scrittura. Che il testo in sé, preso senza queste
costrizioni testuali, è banalmente percorribile. Il diario di una ragazza,
Sally, ingenua, irlandese e cattolica. Che vive in una famiglia strampalata,
con una madre leggermente fuori di testa, sempre in attesa del marito uscito un
giorno per comperare dei fiammiferi e non ancora tornato, il marito che si
divertiva a sculacciare le due figlie, Sally, che ne soffriva, e Mary, cui
sembrava piacere, ed il cui unico intento era vincere un concorso alle poste,
ed un fratello, dedito solo ad alcool e sesso. Sally ha seguito i corsi poco
ortodossi di francese del suo maestro, ora tornato in Francia. Sally che vuole
scrivere un romanzo in gaelico, di cui ha deciso il titolo (“Le donne sono
sempre troppo buone con gli uomini”) e che noi sappiamo che, come Sally Mara,
ha già pubblicato (anche se con il titolo “Troppo buoni con le donne”). Gaelico
che conosce poco, per cui va a lezione da un bardo dove conosce la di lui
moglie, capace solo di fare piccole statuine con organi sessuali abnormi, ed un
giovane timido che non riesce mai ad avere un approccio fruttifero verso Sally,
anche se ne intuiamo il lato romantico-timido. In questa assurda “Educazione
sentimentale” al contrario, Sally attraversa situazioni paradossali (tocca
membra maschili senza riconoscerle, abbraccia statue semi-nude del museo
locale, partecipa a sedute spiritiche, ha un primo rapporto sessuale con una
cameriera, impara a ballare per partecipare a balli settimanali, dove,
finalmente, conosce quello che il fratello voleva farle sapere fin dalle prime
pagine, ed altro ancora). Letto superficialmente potrebbe addirittura sembrare
un libretto licenzioso e libertino, anche se l’intento dell’autore è invece
quello di smascherare proprio queste licenziosità. Dimostrare cioè che la
sconcezza non è nelle parole in sé (dove per l’appunto ve ne sono nel libro, ma
la dose che normalmente si incontra nella vita quotidiana), quanto dalla
combinazione che noi diamo a quelle parole. L’uso di parole normali, mal utilizzate
dal traballante francese di Sally, portano ad una loro combinazione che crea
allusioni nella testa del lettore, e sono queste a generare la sconcezza e la
licenziosità. Un tramatore più abile di me avrebbe anche riportato nomi,
situazioni ed altri momenti del testo. Ma ne andrebbe la freschezza di chi,
come voi, potrebbe leggerlo senza condizionamenti. Potrebbe leggere di
irlandesi che bevono litri su litri di “uischi”, che mangiano “aringhe allo
zenzero” ed altro ancora. Io mi soffermo su un punto ironicamente superficiale,
che però tocca le mie corde umoristiche. Sally si descrive come una giovane
donna portata all’atletica, che corre i 100 metri in 10”2, salta in alto 1,71 e
lancia il peso a 14,38 metri. Dov’è l’ironia? L’autore scrive nella fine degli
anni Quaranta, dove i record mondiali sono rispettivamente proprio di 14,38 nel
peso detenuto dalla tedesca Gisela Mauermayer, di 1,71 nell’alto e di 11”5 nei
cento metri, detenuti entrambi dall’olandese Fanny Blankers-Koen (la famosa
atleta chiamata “la mamma volante”, che vinse 4 ori olimpici a Londra, avendo trent’anni
e due figli). A me, lo sapete, queste chicche mandano in visibilio, come le
altre prove “costrittive” di Queneau e dei suoi amici (penso a “Esercizi di
stile” dello stesso Queneau o a “La disparizione” di Perec). Per finire, il
record attuale (2017) dei cento metri piani è stato stabilito ad Indianapolis,
nel 1988, da Florence Griffith-Joyner con … 10”45. Ma queste sono le mie di
risate ed ironie, ed il libro è scorso via con tranquillità. Anche se di
Queneau molto altro e meglio ho letto. Pur tuttavia, l’amore è sempre amore.
Adozione
Sebbene
molto ci sarebbe da dire sul temo, non avendo ancora messo mano a “Corri” o al “Cimitero”,
mi limiterò a riproporre le impertinenze di Molly la biondina.
Frances Hodgson Burnett “Il giardino segreto” DeAgostini euro 10,90 (in
realtà, scontato a 1,64 euro)
[trama pubblicata il 3
settembre 2017]
Non
poteva mancare di essere letto, prima o poi, questo libro. Pietra miliare dei
libri per l’infanzia, anche se poco diffuso in Italia. Dove, ad esempio,
l’autrice è forse più nota per “Il piccolo Lord”. Sia i libri felici che i
libri curativi ne consigliavano la visione. Ed io sapevo, nelle pieghe della
mia memoria, che ne avevo scorso dei pezzi in qualche edizione “antica” ed ero,
moderatamente, curioso di leggerne. Cosa dire a valle della lettura? Pur avendo
più di 100 anni, se preso nella sua giusta visione filologica ed educativa, è
ben congeniato, e discretamente utile ad un pubblico giovane. Dirò di più: può
essere un’utile lettura anche ad un pubblico adulto che non voglia chiudere gli
occhi alla magia dell’adolescenza (o dell’infanzia) e che può prendere spunto
per rapportarsi alle giovani generazioni in modo comprensivo ed empatico. Certo,
confrontandolo con l’originale, si nota che la versione “per ragazzi” della
DeAgostini qualcosa taglia. Ma rimane la freschezza e lo spirito con cui fu
scritto. Seppur quindi con occhio adulto, non possiamo far meno di seguire la
piccola, viziata e non amata Mary Lennox, dall’India natia sino al veloce
ritorno in patria. Perché nella guarnigione del padre scoppia un’epidemia di
colera, e solo Mary si salva, venendo mandata dallo zio Archibald. Uno zio che
vive in un castello isolato, e che è colpito dal grande dolore della morte
improvvisa della giovane ed amata moglie. Per questo passa la maggior parte del
suo tempo in giro per il mondo, lasciando le cura della giovane Mary ai famigli
della casa. Sarà soprattutto Martha a prendersi cura di Mary, a farle tornare
il sorriso, a narrare delle buone cose di casa sua (povera ma onesta), a
presentarle il fratello ecologo e bucolico Dickon. Le parla inoltre del famoso
giardino segreto, quello curato dalla moglie morta, cui a tutti è vietato
l’accesso. Ovvio che Mary comincia a cercarlo. Ovvio che lo trova, lo apre, se
ne innamora. Condividendolo con Dickon, con le sue piante e i suoi animali. Ma
un nuovo mistero attanaglia i giorni della nostra signorina, che diventa a poco
a poco, un po’ più simpatica. Le grida notturne, che al fine si scopre essere
quelle del cugino Colin. Malato di incerta malattia, poco curato o mal curato.
Sicuramente poco amato dal padre, che gli rimprovera, anche se non
esplicitamente, la morte della moglie. Mary comincia un’azione di
coinvolgimento alla vita di Colin. Narrando del giardino, narrando degli
animali, narrando di Dickon. Tanto che l’altrettanto viziato Colin decide di
seguire le orme della cugina. Uscendo di casa nella sedia a rotelle. Andando in
giardino. Cominciando a muovere i primi passi. Sino a che, ignota la malattia,
ma sicuramente giovandogli aria aperta e compagnia, anche lui si integra nella
cura del giardino e nell’inno alla vita. Tanto che la madre di Martha non si
perita di richiamare sir Archibald dai suoi giri lontani. Il vecchio (ma credo
che non arrivi ai cinquanta!) torna a casa, scopre le “malefatte” della nipote,
ma scopre anche i benefici che ne porta il figlio. Così che, curando le piante
si cura anche il cuore. E tutti quanti, alla fine, saranno contenti, e ne
usciranno vittoriosi. Quante piccole zeppe di insegnamento in così poche
pagine. Certo ingenue, certo senza nessun infingimento, subito lì, dirette.
Mary non amata, unica che sopravvive (quindi anche chi sembra poco simpatico è
meglio di chi è realmente antipatico). Martha e la sua famiglia (cioè il cuore
aperto, il sorriso sulle labbra, il lavoro anche umile non possono che portare
serenità). Martha e Dickon (quando l’amicizia travalica ogni confine). Martha e
Colin (quando l’empatia vince ogni malattia, vera o presunta). Martha e lo zio
Archibald (come non aver paura dei grandi quando si ha una grande idea in
testa). La “pedagogica” Frances inzeppa il libro di buoni sentimenti. In
particolare, l’ultima grande metafora è il collegamento tra i ragazzi ed il
giardino: in entrambi i casi, i buoni semi, oltre ad essere piantati, devono
essere difesi e coltivati. Ed il giardino, così come il bambino, potrà al fine
crescere e diventare una pianta, un uomo o una donna. Ignorando Freud e tutta
la psicologia, il bello (seppur limitato) del libro è proprio in questa
immediatezza senza barriere. Un’ultima lancia la spezzerei sulla rivoluzione
che all’epoca portò il libro. La convinzione nel mondo occidentale dell’inizio
del XX° secolo era che solo la guida, l'insegnamento e la vigilanza costante
degli adulti potevano garantire l'educazione di bambini e adolescenti, che
l'amicizia tra ragazzi poteva essere pericolosa e andava sempre vigilata dagli
adulti e che l'amicizia tra giovani di sesso opposto era molto pericolosa e
andava controllata e limitata dagli adulti. Tutte e tre queste posizioni
vengono confutate da Frances. Che apre vie nuove che hanno portato a noi.
Perché allora non cominciamo anche noi a tracciarne altre? Forse è tutto troppo
facile. Ma che dire se si riesce a togliere le barriere, i pensieri, gli
attaccamenti a comportamenti troppo ingessati. Per comunicare. Questo, in
fondo, è quello che insegna Mary: parlare, chiedere, è sempre meglio che stare
zitti. Un NO è sempre meglio di non sapere la risposta. Tanto che spesso, il NO
diventa un magico, bellissimo, giurassico SI. Quindi, salvando un po’ di
ingenuità, perché non leggerlo ai Tommaso, ai Matteo, e a tutti gli altri?
Depressione
Anche
qui abbiamo poco da aggiungere a quanto si dirà con la Plath.
Sylvia Plath “La campana di vetro” Mondadori euro 9,50 (in realtà,
scontato a 7,12 euro)
[trama pubblicata il 21 febbraio
2016]
Ci
sono coincidenze prevedibili ed altre meno. Avendo una sostanziosa dose di
libri (di tutti i generi. sia “classici” che moderni), è abbastanza prevedibile
che mi capiti di leggerne su giornali e riviste. L’imprevedibile è leggerne su
“Repubblica” in un articolo gustoso di Elena Stancanelli “durante” la mia
lettura del libro. Un libro che comincia bianco e grigio e finisce grigio,
grigio, quasi buio. Una semi-autobiografia, come scrisse qualcuno meglio
conoscitore di me delle lettere inglesi. In cui Sylvia ripercorre e trasmuta il
periodo della sua vita dai 19 ai 20 e qualcosa anni. E che comincia quasi come
il contemporaneo “Il gruppo” di Mary McCarthy (ed anche qui ci sarebbe da farne
alcuni paralleli, e neanche proprio banali). Atmosfera appunto di gruppo, di
una serie di post-licenziate da vari college, che si ritrovano a fruire di una
borsa di studio a New York nell’ambiente delle riviste di moda. Qui, nei primi
nove capitoli (come ci illustra la stringata ma puntuale post-fazione di
Claudio Gorlier) c’è la prima fase del romanzo. Quella in cui l’autrice,
narrando delle sue presenti difficoltà nel vivere l’ambiente glamour, ci fa
andare su e giù nel corso del suo tempo. Dove vediamo i segnali delle sue
difficoltà di adattarsi a quel tipo di vita, sottomessa, che si voleva
facessero le donne nei primi anni ’50 (e non solo allora, diremmo adesso). Il
difficile rapporto con la madre. L’attrazione-odio verso il coetaneo Buddy. La
frequentazione con Joan. La scrittrice riesce a farci capire (pur non entrando mai
in dettagli esterni, ma sempre in soggettiva; e rimango nella parentesi, che
avendo dei disturbi non è facile parlarne come se fossero “fuori da te”; ad
esempio quando una persona capisce ed ammette di essere depressa, è il momento
che sta guarendo dalla depressione) la sua complessità, che altri
diagnosticheranno come “disturbo bipolare”. Gli atteggiamenti maniacali
(bellissima la descrizione del pranzo alla moda, e l’indigestione di caviale).
L’incapacità di portare a termine i compiti assunti, se non nel breve periodo
(scrive piccole recensioni, poi si rifugia nel sogno di poter frequentare un
corso di scrittura creativa, solo perché lo desidera, non perché ne abbia le
qualità). Con una scivolata da una parte nell’autostima (come poco fa scritto)
dall’altra in comportamenti sessuali anomali. Laddove, diciottenne, non accetta
di essere vergine mentre Buddy ha avuto un’estate di sesso. Tanto che a poco a
poco, lo lascia. E non riesce ad entrare in sintonia con l’ambiente al
femminile che frequenta. Né con la “cattiva” Doreen, né con la “buona” Betsy.
Tanto che finisce la borsa, e deve tornare dalla madre, senza avere prospettive
davanti. Qui inizia la fase dura, la fase in cui, per quattro o cinque
capitoli, vediamo come cerchi di suicidarsi, non trovando prospettive alla sua
vita. Entrando con tutte le scarpe nella fase depressiva. E vediamo come questi
tentativi (alcuni seri, altri al limite del sorriso, benché tragico, come
quando pensa di tagliarsi le vene e comincia a provare la lametta sul polpaccio,
per poi spaventarsi e fermarsi), siano sempre al limite tra la pratica seria, e
l’urlo nella notte: “Sto male, venite ad aiutarmi!”. Tanto che l’ultimo
tentativo, lo fa nascondendosi nel lavatoio di casa, sperando (come avverrà) di
essere salvata. Così è, e da lì comincia la terza parte, quella degli ospedali
psichiatrici. Esperienza che, come sappiamo, anche Sylvia aveva percorso,
proprio per un tentativo abortito di suicidio. E che descrive quindi dal di
dentro della realtà dei malati mentali. Come tutti i depressi, pur concentrata
su di sé, riesce a dipingere con cruda realtà il mondo degli alienati di
allora. Con quelle sedute di elettroshock che abbiamo da poco ritrovato
nell’altro bel libro di Kesey sul Cuculo. Ospedali dove Sylvia denuncia i
cattivi medici (e ce n’erano tanti, e forse ce ne sono ancora). Ma sottolinea
anche i buoni e capaci. Ci mostra un momento altro di vita, laddove anche la
sua rivale nell’amore di Buddy viene ricoverata. La protagonista fa capire anzi
che ci potrebbe essere dell’amor saffico in Joan. Tanto che quando lei
finalmente perde la verginità (per pareggiare i conti con Buddy), Joan si
uccide. Morte che invece sembra spingere la protagonista ad uscire finalmente
dal cerchio in cui si stava rinchiudendo. E come Sylvia, alla fine di quei tre
anni tragici, pare ne esca. Qui il romanzo finisce. Ma noi non possiamo non
proseguirlo in parallelo proprio con la vita della scrittrice. Con la
possibilità di identificare Buddy con il marito di Sylvia, il poeta Ted Hughes.
Che proprio poco prima che venga iniziato il romanzo, lascia la poetessa,
invaghendosi della comune amica Assia (che Sylvia vorrebbe vedere in Joan). Ed
è durante il tormentato periodo delle pratiche di divorzio che viene scritto il
romanzo. Che viene pubblicato a gennaio del 1963. Un mese dopo, Sylvia Plath,
aprendo il gas del forno, si suicida. E visto che abbiamo parlato di
coincidenze all’inizio, mi cade sott’occhio un’ultima casualità. Nel libro
Joan-Assia si suicida quando scopre che Esther-Sylvia ha perso la verginità.
Nella vita, dopo alcuni anni di tormentati rapporti, Assia si suiciderà anche
lei, nell’anniversario del giorno in cui Ted e Sylvia fecero per la prima volta
l’amore. Seppur coperto dai grigi di cui si diceva, è un vero buon romanzo, che
illustra, con vivida mano, la difficoltà di essere donna e di seguire i propri
valori in un mondo dominato dagli uomini, come era (molto) l’America degli anni
’50. Com’è, ancora, purtroppo, buona parte del mondo attuale. Forse in modo
diverso. Ma pur sempre ancora così.
“"Se
nevrotica vuol dire volere nel medesimo istante due cose che si escludono a
vicenda, bene, allora io sono infernalmente nevrotica. Continuerò a volare
eternamente avanti e indietro tra l'una e l'altra per il resto dei miei
giorni." (82)
“Nota mia: peccato che a pagina 53,
traducano Walter the Penniless, uno dei due personaggi che guidò la crociata
dei poveri in Terra Santa insieme a Pietro l’Eremita, con un ‘normale’
Gualtiero Senzaveri, invece del più corretto Gualtiero Senza Averi”
Entusiasmo, mancanza di
Ora
mettiamo invece mano al libro di Doctorow, letto successivamente.
E. L. Doctorow “Ragtime” Mondadori euro 13 (in realtà, scontato a 9,75
euro)
[libro letto il 20 aprile
2017 e non ancora pubblicato]
Un
altro libro “storico” in molti sensi, che andava letto prima o poi, visto che
al tempo non mi incuriosì, così come mi aveva lasciato discretamente freddo la
figura di scrittore di Edgar Lawrence Doctorow, noto al pubblico solo con le
iniziali (E.L.). Spinta che, oltre per evidenti ragioni culturali, è stata
amplificata dalle letture dei miei libri “da comodino”, sulla cura e sulla
felicità che danno i testi stampati. L’anomalo Doctorow, tra l’altro, è
l’esponente di punta di quella “historical fiction” che tanto successo ha (ha
avuto) in America da un certo punto in poi. Anomalo perché ha scritto pochi
libri e tutti su questo filone. Una fiction che cominciò con “Il libro di
Daniel”, dove romanza la vicenda della condanna a morte dei coniugi Rosenberg.
E che ebbe il suo altro punto di grande successo in questa saga dell’America
dei primi decenni del secolo. Una saga che, dal punto di vista storico,
seguiamo dalla vicenda legata all’omicidio di Stanford White con al centro la
figura di Evelyn Nesbit sino all’entrata in guerra degli Stati Uniti nel 1917.
La scrittura è molto scorrevole, anche senza punte di vero coinvolgimento,
almeno per il mio gusto. Prendendo come filo conduttore una fantomatica
famiglia media americana (Papà, Mamma, Figlio e Fratello Minore della Mamma) la
segue mentre si intrecciano, a volte molto tangenzialmente, le vicende
personali della famiglia con avvenimenti storici. Il contraltare della famiglia
media è costituito da due personaggi di verso opposto: l’immigrato est europeo
Tateh ed il negro Coalhouse Walker. Ma l’intrecciarsi delle vicende è proprio
l’elemento centrale e di punta del romanzo. Alcune sono vicende storiche
significative, che danno sia il senso del tempo della narrazione sia
dell’evoluzione dell’America nei primi venti anni del secolo scorso. Abbiamo
quella di partenza, il famoso, all’epoca, omicidio dell’architetto Stanford White
da parte del geloso marito di Evelyn Nesbit. Evelyn era stata amante di White,
che però prediligeva ninfette adolescenti, e che la lasciò quando la signorina
si avviava ai venti anni. Harry Thaw, marito geloso e violento, uccide
l’ex-amante con un colpo di pistola al teatro del Madison Square Garden. Una
vicenda che si protrasse per molti anni, con Thaw che si finge pazzo, che
sfugge alla condanna a morte, e che poi riesce anche ad uscire di prigione vivo
proprio nel 1917 quando finisce il romanzo. Doctorow inzeppa la storia
immaginando una breve storia d’amore tra il Fratello Minore della Mamma ed
Evelyn. Altro punto forte è la controversa spedizione alla conquista del Polo
Nord geografico guidata da Robert E. Peary, che, barando, sembrò averlo
raggiunto. Anche qui, le storie si mescolano con la partecipazione di Papà alla
spedizione. Poi ci sono i molti spettacoli di escapismo di Harry Houdini, che
fanno da contraltare alla crescita del Figlio. E poi le due vicende
industriali: la crescita ed il consolidamento dell’impero di John P. Morgan,
considerato uno degli uomini più ricchi di ogni tempo, e la nascita dell’impero
automobilistico di henry Ford, con la messa in produzione della famosissima
Ford T. Gustosa e da leggere la parte relativa all’incontro tra i due grandi
uomini. Inciso: Morgan muore nel 1913 nel sonno al Grand Hotel di Roma. Poi ci
sono vicende toccate di lato, magari accennate, magari da approfondire. Come la
vita e le opere della femminista anarchica Emma Goldman. O. più ironicamente,
la visita in America del trio di grandi psicanalisti dell’epoca: Freud, Jung e
Ferenczi. Filo conduttore, dicevamo poi, oltre le vicende della famiglia,
quella dell’immigrato dell’est, Tateh. Che vive di stenti, che è abile nel
ritagliare figurine nel cartone (si immaginano belle silhouette della Nesbit),
che non riesce ad integrarsi con le comunità locali, che scaccia la moglie,
prostituitasi per trovare i pochi soldi per andare avanti, che fugge ad
Atlantic City con la figlia, e che trova il suo spazio con le sue figurine
animate quando capisce che si può inserire nella nascente industria
cinematografica. Più densa, ma anche più diluita, e forse anche troppo
“montata”, la vicenda di Coalhouse Walker. Che Doctorow riprende,
aggiornandola, dal racconto “Michael Kohlhaas” di Henrich von Kleist. Walker è
un nero che incidentalmente mette incinta la giovane Sarah, che, con il figlio,
viene “adottata” dalla madre. Walker è un suonatore di piano, dopo un lungo
corteggiamento riesce a convincere Sarah al matrimonio, ma, prima della
fatidica data, entra in contrasto con i bianchi. Ovvio il nascere degli attriti
razziali. Il locale capo dei pompieri sporca di lordume la bella macchina di
Walker, che chiede un risarcimento. Ovvio che la prende in quel posto. Ovvia la
sua irritazione, che seguiamo, purtroppo, per pagine e pagine, risultando
incisiva dal punto di vista sociologico, ma poco dal punto di vista narrativa.
Walker, nonostante la sua ribellione ed alcune vittorie tattiche, non potrà
vincere, ed alla fine sarà trucidato davanti alla Biblioteca istituita da J.P.
Morgan. I suoi accoliti fuggiranno, tra cui il Fratello Minore della Mamma, che
riparerà in Messico per unirsi alla rivoluzione zapatista. Papà avrà invece un
tracollo finale, lasciando finalmente libera Mamma, che alla fine troverà il
modo di unirsi in un matrimonio felice con l’immigrato ora ricco Tateh. Non ci
voleva certo questo libro per dirci che agli inizi del Novecento gli americani
erano zoticoni ed immigrati. Neppure ci illumina in modo maggiore sul modo
banditesco e ricattatorio con cui le grandi famiglie americane costruirono i
loro imperi. Certo, ci fa vedere che, cinquanta anni dopo la Guerra Civile, il
razzismo è ancora imperante (e purtroppo lo è ancora). Ci fa capire infine,
anche se scritto quaranta anni fa, come sia possibile che una persona poco
qualificabile come Trump possa diventare Presidente degli Stati Uniti. Insomma,
tenta di essere pungente, ma non lo è fino in fondo (se volete veramente
arrabbiarvi leggete le epopee dei nativi americani allora). È correttamente
leggibile, ma poco altro di più. Inoltre questa mancanza di nomi nella famiglia
che seguiamo per venti anni lascia la storia a qualche passo da noi, senza
coinvolgerci. Per finire, è vero che il rag era la musica del tempo, ma a parte
alcuni accenni a Scott Joplin da parte di Walker, poco ci viene rimandato.
“[citando Freud] L’America è uno sbaglio, un gigantesco sbaglio.” (38)
Conclusioni
Ho già parlato dell’adolescenza,
su cui non ritorno. E trovo ben centrate le linee descrittive del giardino o
della campana. Mi lascia perplesso la scelta del libro di Doctorow, che mi
risulta invece difficile associare all’entusiasmo (presente o assente).
Nessun commento:
Posta un commento