giovedì 2 novembre 2017

Scozia vs. Svezia - 01 novembre 2017

Due posti che amo e che mi affascinano. Due autori che li esemplificano, primi inter pares. Ian Rankin con il suo poliziotto Rebus e Håkan Nesser con i suoi poliziotti che si stringono attorno al Commissario Van Veeteren. Con un gradimento pro-libro, che supera sempre la media. E non sarà certo un caso!
Ian Rankin “Dietro la nebbia” TEA euro 12
[A: 01/11/2015– I: 12/03/2017 – T: 16/03/2017] - &&& e ½  
[tit. or.: Set in Darkness; ling. or.: inglese; pagine: 483; anno 2000]
Dopo tanto girovagare torno alle pagine del simpatico scrittore scozzese. Purtroppo la casa editrice italiana, altrimenti di buone uscite, continua a saltabeccare tra tutti i libri di Rankin, facendo uscire questo undicesimo volume delle storie di John Rebus, dopo aver già pubblicato il 17esimo e supposto ultimo volume delle sue avventure (quello per intenderci in cui va finalmente in pensione). Quindi, questa ripresa ci consente di tornare in media res, quando il nostro è ancora al centro dell’azione con le sue capacità deduttive, con il suo supposto carisma, con la sua solita passione del bere, anche se altalenante, e le piccole scivolate verso piaceri privati, a volte poco consoni all’attività investigativa (come quando va a letto con una possibile indagata, ma lui è sicuro che non lo sia). L’altra caratteristica, oltre ai tratti descrittivi della bellissima città di Edimburgo ed alle avventure scozzesi (ora ben tornate alla ribalta), è la presenza di un alto numero di personaggi, primari e comprimari, che può far perdere la testa ad un lettore poco introdotto a questa sua caratteristica. Nella parte cittadina, seguiamo a lungo il nostro ed i suoi accoliti non solo nei vari pub, ma anche nelle diverse zone, tra città vecchia e nuova, tra Holyrood Park e i Meadows, tra il castello ed il “Royal Mile” che conduce al Parlamento scozzese. Dove tutto prende l’avvio, al ritrovamento di un cadavere, murato nelle cantine e vecchio di almeno venti anni. L’azione si svolge infatti nel 1999, quando devono essere fatti i lavori alla sede parlamentare, in seguito al referendum del ’97 che aveva istituito il parlamento indipendente. Cosa che non era riuscita il referendum precedente, svoltosi nel ’79. Anno in cui l’edilizia cominciò ad aver il primo boom, a seguito di tutte le speculazioni edilizie possibili e prevedibili a seguito dell’arrivo di schiere di politicanti. A ritroso ricostruiamo che, coeva del cadavere, è la scomparsa di due trafficanti ai limiti della legge, Freddy ed Alasdair. Di cui il secondo membro di una delle famiglie notabili scozzesi. A ruota del ritrovamento, poi, avviene uno strano suicidio di un barbone, e la morte di uno dei fratelli di Alasdair, Roddy. Tutto ciò genera il gran numero di persone coinvolte nelle tre inchieste: quella sullo scheletro, che segue l’ispettrice Eillen (per poco tempo, nelle puntate precedente, quasi il secondo di John, ora però in secondo piano), quella sul suicidio, che segue la da poco entrata Siobhan (che prenderà un suo posto autonomo di John da qui fino alla fine della serie) e quella di Roddy che segue in prima persona John, anche se formalmente agli ordini di un ispettore rampante, Derek. Prima che John abbia le intuizioni giuste per ricollegare le tre morti, seguiamo anche filoni collaterali. Vediamo Derek cercare di abbordare senza successo Siobhan, fino a diventare quasi uno stalker (Derek ha ovviamente problemi) e venir emarginato giustamente. Anche se questa micro-storia introduce alcuni capitoli su degli stupri perpetrati a giovani ragazze, di cui seguiamo lo sviluppo e la cruenta fine, ma è una storia laterale, quasi che serva solo a darci il colore della Scozia e delle sue disavventure. Perché la storia centrale è quella di palazzinari e tangenti. C’era il boss locale, Cullen (ora in “vacanza” in Spagna) che cerca di arraffare il più possibile, mettendo il nipote Barry nelle imprese nascenti ed usando Freddy ed Alasdair come presta nomi. Peccato che i due gli rubino i soldi, e, fortuitamente, uccidano il sicario mandato a farli ragionare. In seguito a ciò, Barry mura il cadavere nel palazzo in costruzione, Alasdair fugge nei Caraibi facendosi una nuova vita. Freddy rimane con i soldi ma è un timido (mi sa che anche innamorato di Alasdair e soffra la sua fuga). Fatto sta che rimane lì a fare il barbone, e quando scoprono il cadavere non regge alla tensione e si butta giù dal ponte. Ma sono tutte storie che solo il nostro John, cogliendo rivoli qua e là, riesce a ricucire. Scavando nelle memorie. Aiutato anche dalla comparsa del boss che aveva scalzato Cullen, il famigerato Big Cafferty (che sarà avversario di John fino all’ultima puntata). Che ha il dente avvelenato con Cullen, e visto che non può colpirlo, tenta di mettere in mezzo il nipote Barry, che invece è rimasto ed ha fatto fortuna (per sé o per lo zio, non sappiamo bene). Una volta scoperti i magheggi dietro due morti rimane la terza, quella di Roddy, che verrà risolta ma non vi dico né come né perché Roddy è morto. Nel tentativo di scoprirlo vengono fuori tanti altri nomi che si perde il conto, e Derek rischia anche di fare una brutta fine. Rebus però, nonostante le piccole trasgressioni sessuo-alcooliche, è sul pezzo e uscirà non dico trionfante, ma quanto meno con qualche punto in più al suo attivo. Ripeto, una storia complicata ma anche ben congeniata, tutta giocata sulla falsariga di seguire gli andamenti politici dell’indipendenza scozzese. Già all’ordine del giorno nel ’79, ed ora, in tempi di Brexit, sempre più presente (anche se il libro è di quasi venti anni fa). Buone e gradevoli, comunque le atmosfere scozzesi di cui narravo. Rankin è un signor autore, forse troppo monotematico su John Rebus, ma che ben utilizza il mezzo poliziesco pe darci un affresco dell’evoluzione della Scozia durante gli anni. Interessante e comunque, e continuerò a seguirlo. Anche perché presenta sempre una buona dose di cenni musicali che hanno fatto la storia (anche) dei miei anni.
“Stava dicendo che il passato era un luogo diverso, al quale non si poteva veramente tornare. Col suo aspetto apparentemente identico … l’aveva ingannato: a cambiare era stato lui, e questo faceva la differenza.” (206)
“La vita è dura, e poi muori.” (470)
Ian Rankin “Corpi nella nebbia” TEA euro 11
[A: 07/05/2015– I: 01/07/2017 – T: 04/07/2017] - &&& +  
[tit. or.: Standing in Another’s Man’s Grave; ling. or.: inglese; pagine: 387; anno 2012]
Come molti sanno, lo scrittore scozzese rimane uno dei miei preferiti. Unito alla “banda” di suoi sodali, per me costituita da Alexander McCall Smith e JK Rowling. Pur nella complicazione della ricerca di vecchi episodi e ristampe, avevo seguito e descritto il corpus centrale delle avventure del suo personaggio, l’ispettore John Rebus, dalle prime indagini (Cerchi e croci – “Knots and Crosses” del 1987) alla sua andata in pensione (Partitura finale – “Exit Music” del 2007). A quel punto Ian scrive un paio di romanzi in cui fa diventare protagonista un nuovo poliziotto, Malcom Fox. Poi esce questo libro, che viene presentato come 18^ inchiesta di Rebus e 3^ inchiesta di Fox. Ora, se capissi perché viene indicata “anche” indagine di Malcom Fox, farei qualche salto di gioia. Che il buon (e molto antipatico) Malcom l’unica cosa che fa nelle poche pagine cui compare, è cercare di far cacciare John anche dal suo posto di quasi rientro nelle file poliziesche. Non che sia rientrato in servizio, ma fa una specie di consulente aggiunto ad una unità di “Casi Sepolti”, luogo in cui spesso vengono ibernati i personaggi che danno fastidio (vedi il Bosch di Connelly tanto per citarne uno). Invece questa è dall’inizio alla fine un’indagine di Rebus, tuttalpiù considerabile come supporto l’apporto della sua ex-aiutante ed ora poliziotta libera di far carriera, Siobhan Clarke. Come detto Rebus è in pensione, sta nelle polverose sezioni dei “Casi Sepolti”, quando viene coinvolto da tale Nina che da dieci anni non si rassegna alla scomparsa della figlia. Scomparsa che John collega ad altre possibili sparizioni, che sono altrettanto misteriose ed altrettanto irrisolte. Sarà lui tuttavia a trovare un primo collegamento, scoprendo una foto mandata dal cellulare dell’ultima vittima ad un numero casuale della rubrica. Scoperta che fa sì che John ritorni sulla breccia, riprenda in mano i casi delle scomparse insieme a Siobhan. Cominciando una lunga e dolorosa indagine. Anche perché mai i poliziotti scordano il suo essere sempre sul limitare della legge, le sue frequentazioni con personaggi ambigui. Qualcuno (Malcom?) pensa che questo lo porti ad essere confidente dei mafiosi scozzesi. Noi sappiamo che è così che vive Rebus, solitario e sbevazzatore. Anche se ha ridotto di molto l’alcool. Non così le sigarette. Ma dalla foto, con pazienza e costanza, risale alle foto che, senza che qualcuno se ne era accorto, anche le altre vittime avevano spedito da cellulari morti. E con la stessa pazienza scopre possibili luoghi dove sono state scattate le foto. Aiutato da un cane da cadaveri, scopre quindi il luogo dove l’assassino seppellisce le vittime. Non la figlia di Nina, che ha già ritrovato, e che ha semplicemente, ma non vi dico per quale motivo, deciso di sparire senza lasciar traccia per la sua famiglia. L’input di Nina ha smosso una piccola valanga, che Rebus maneggia con difficoltà, ma che alla fine lo porta sulla traccia giusta. Si troverà l’assassino, e si scopriranno altarini strani che mettono molto in cattiva luce anche i “Cold Case” cui Rebus lavorava. O almeno la struttura della sezione. Alla fine è tutta una questione di atmosfere. Di pub in cui si beve e si discute e si gioca a freccette. Di favori dati e ricevuti. Tra l’altro, non riuscendo a trovare prove concrete anche se sa chi è l’assassino, Rebus si inventa uno stratagemma in cui lo pone in una situazione non di “win – win”, ma di “lost – lost”. Può perdere in due diverse maniere, deve solo scegliere in quale modo la sconfitta possa essere meno “pesante” per lui. Tuttavia la Sezione crimini irrisolti verrà sciolta, Malcom Fox cesserà di mettere il naso nelle vicende private di Rebus, il quale comunque, chiederà un reintegro parziale nelle file della polizia di Edimburgo. Richiesta che sapremo solo nei prossimi libri se andrà a buon fine e come. Ritengo al solito Rankin uno scrittore che mi sa trasportare nella sua Scozia, pari solo a McCall Smith, anche se su due registri diversi (uno tragico, l’altro leggero). Un altro libro che si legge con piacere e serenità, anche se è sempre bene corredarlo con le mie precisazioni sui contorni precedenti, che alla fine solo così, almeno io sono contento della lettura che faccio.
“Non era mai stato uno a cui piaceva tornare sui propri passi.” (170)
“Non ho ancora trovato quello che sto cercando.” (208)
Håkan Nesser “Il caso G” TEA euro 12
[A: 01/11/2016 – I: 04/07/2017 – T: 06/07/2017] - &&& e ¾    
[tit. or.: Fallet G; ling. or.: svedese; pagine: 429; anno 2003]
Era un discreto numero di mesi che non mi ricapitava in mano una trama dello svedese Nesser, soprattutto in questa che possiamo considerare l’ultimo episodio della serie del commissario Van Veeteren. Per tutta una serie di motivi che non sto qui ad elencare, ma in particolar modo perché in questi ultimi 14 anni, Nesser ha scritto di tutto, compresi 5 libri sull’ispettore Barbarotti, ma neanche più una riga su Van Veeteren & co. Inoltre, il libro rappresenta quasi una summa delle indagini e della vita del commissario, anche se ormai è a buon diritto da considerare ex, visto che dal settimo libro della serie si è dimesso dalla polizia ed ha aperto una libreria antiquaria. Una summa perché il libro è ben diviso, anche se non equamente, in due parti, in cui seguiamo l’inizio, lo svolgimento e la fine del famigerato “caso G”. In tutti i romanzi di questa serie, ad un certo punto, Van Veeteren si rammaricava dell’unico caso che non fosse riuscito a risolvere, “il caso G”. Di cui non si parla molto, si accenna, quasi si omette a volte. Ora che Nesser ha deciso di mettere un punto fermo (come pochi scrittori del mestiere sanno e riescono a fare), il caso ci viene descritto in tutta la sua ampiezza, complicazione e implicazioni. Abbiamo quindi due parti ben distinte, stilisticamente e temporalmente. Nella prima siamo nel 1987, ed assistiamo alla nascita del “caso G”. Che poi sta per Jaan G. Hennan, lo strano personaggio che fin dall’infanzia tormenta il nostro commissario. Compagni di scuola, Jaan era un “capo” ed un capo violento. Che riesce a coinvolgere anche il nostro in uno scherzo crudele che porterà alla morte un loro compagno di scuola. Non solo, ma Jaan riuscirà a togliere a VV (come è meglio indicare il commissario dal cognome così lungo e dal nome ignoto) la prima donna con cui si era messo. Solo alcuni anni prima Jaan fa un passo falso e l’allora poliziotto Maarten riesce ad incastrarlo per droga ed a farlo condannare ad un paio d’anni di galera. Ma ora è tornato, proprio a Maardam, sposato con la bella Barbara. Questa chiede a Maarten, ora investigatore privato, di pedinare il marito senza spiegarne il motivo. Cosa che Maarten fa, lasciandosi anche coinvolgere da Jaan in una colossale bevuta. Peccato che al ritorno a casa, Jaan trovi Barbara smarmellata sulla piscina, come se avesse fatto un salto dal trampolino di 10 metri. Peccato che la piscina era senz’acqua! Comincia qui l’indagine di VV, i suoi controlli, le sue reminiscenze, gli interrogatori con Jaan, che sono senz’altro la parte migliore dello scritto. VV è convinto della colpevolezza di Jaan, ma questi ha un alibi inattaccabile: durante il tempo della morte di Barbara era proprio con Maarten. I sospetti poi si fanno più serrati alla scoperta di una cospicua assicurazione sulla vita che Jaan riscuoterà per la morte di Barbara. Si va avanti così, fino al processo che, come sospettiamo, manda Jaan assolto. Facciamo adesso un salto di 15 anni, ci spostiamo al 2002. VV ha lasciato la polizia, e gestisce una libreria. Ma viene coinvolto dai suoi ex colleghi quando si presenta la figlia di Maarten denunciandone la scomparsa. E VV non potrà che rientrare in gioco, visto che l’unica traccia che Maarten lascia è un biglietto chiaramente indicante il “caso G”. Con un lavoro paziente e certosino, analizzando le scarse prove esistenti, VV risale all’ultima città in cui è stato visto Maarten. Che guarda caso era anche il teatro di una delle più tristi storie di VV, quella della morte del figlio Erik. VV ritrova anche il suo sodale pensionato Bausen. E con lui risale ad altri punti, fino a trovare (purtroppo) il corpo di Maarten, ma anche (per fortuna) il nuovo travestimento di Jaan, anche qui sposato con una apparentemente ricca signora. A questo punto però c’è qualche granello che si insinua negli ingranaggi, dove pare che Jaan e signora siano insieme da quasi 12 anni. Un record per un pluriomicida come Jaan (dimenticavo, tra la galera e Barbara, era morta un’altra signora Hennan). VV ed i suoi provano a mettere pressione sulla coppia. Anche perché VV è sempre ossessionato dalla non soluzione del precedente caso. Ma alla fine, anche questo si scioglierà: è la coppia quella fatale, una sorta di Bonnie e Clyde del matrimonio. Dove avevano pescato una prostituta sosia della signora Hennan, e fatto in modo di ucciderla con una modalità che difficilmente avrebbe fatto risalire a loro. VV ha finalmente l’ultima chiave del puzzle della sua vita in mano. Ma qualcuno uccide Jaan. Ed un colpo di pistola potrebbe porre fine anche alla vita di VV. non vi delucido sulle battute finali della serie. Ma finalmente, il caso G è risolto. E VV viene chiuso, almeno come serie poliziesca. Un bel modo di terminare una serie quando si è arrivato ad un punto dove si rischia la ripetizione. Certo, potrebbe succedere qualcosa sempre nella vita e nella scrittura di Nesser, perché solo i buoni scrittori sono capaci di chiudere e riaprire storie. Queste di VV mi hanno introdotto anni fa nel mondo Scandinavo, portandomi poi ad esplorarne meglio gli scritti e le località. Grazie Håkan.
“Santo Dio, pensò. Ho sessantacinque anni e sono innamorato come un adolescente.” (235)
“Non mentire a te stesso sulle tue vere motivazioni, farà pure male, ma se vuoi arrivare da qualche parte non hai altra scelta!” (377)
Håkan Nesser “Confessioni di una squartatrice” TEA euro 10 (in realtà, scontato a 8,50 euro)
[A: 25/03/2016 – I: 07/07/2017 – T: 09/07/2017] - &&& e ¾    
[tit. or.: Styckerskan från Lilla Burma; ling. or.: svedese; pagine: 361; anno 2012]
Passiamo nel giro di poche ore di lettura dall’ultimo capitolo di VV (almeno così sembra acclarato), all’ultimo di Barbarotti, l’altro commissario di Nesser. Anche qui, direi più immaginato che dichiarato, visto che da 5 anni l’autore non scrive neanche di questo suo secondo personaggio. Ribadendo, come incipit propiziatorio, che Nesser mi sembra essere risalito sulle sue ceneri, continuando a sfornare, nel corso degli anni, dei romanzi con una propria logica, vediamo cosa ci propone oggi. Cominciando dal solito peana delle traduzioni, soprattutto dei titoli. Vedi un libro che si intitola “Confessioni…” e subito il tuo immaginario parte verso una ben precisa struttura di libri. Qualcuno che commette uno sgarro (uno sgarbo, un delitto, vero o immaginato) e che scrive per descriverne la genesi, e motivazioni. Magari anche per confutarne una versione acclarata. Invece, il titolo era “La squartatrice di Lilla Burma” (Lilla Burma significa in svedese ‘Piccola Birmania’, ma non per un riferimento alla bellissima nazione asiatica se non per la coevità con cui questi terreni agricoli furono costruiti rispetto a quel “ponte sul fiume Kwai” di rimembranze che mi riportano ad Alec Guinness; ma qui si divaga). Perché, benché sia Gunnar Barbarotti, il commissario italo-svedese, il motore dell’azione, la parte gialla si muove intorno a Ellen, la cui storia seguiamo molto anche attraverso il suo diario (quello che l’italian marketing vuol far passare per “Confessioni”). E ben complicata è la storia di Ellen. Ragazza non bella e neanche decisissima, frequenta un anno la locale scuola, vendo un flirt con il coetaneo Adrian, per poi allontanarsene subito per problemi familiari, e ritrovarsi sposata con Harry, padrone di Lilla Burma, e con un figlio apparentemente quasi autistico. Solo che Billy, il figlio, ha un terrore folle del padre, che lo picchia sovente, tanto da non parlare e chiudersi nel proprio mondo. Harry picchia sovente anche Ellen, che non riesce a reagire. L’ansia per la situazione monta di riga in riga, fino alla scomparsa di Harry. In un momento topico: il cugino del podere vicino è diventato l’amante di Ellen, e lì nelle “Grande Burma” stanno costruendo una piscina. Dopo mesi di vane ricerche, Harry viene ritrovato fatto a pezzi in diversi sacchi sparsi per la campagna. Ellen si autoaccusa dell’omicidio e, nonostante le attenuanti sui maltrattamenti, farà 14 anni di carcere. Dopo di che riprenderà una vita quasi normale, anche se non vedrà più il figlio Billy, che, benché introverso, ha imparato a parlare, si è sposato con Juliana con la quale ha una figlia. Ritrova Adrian, con il quale va a convivere. Sino a quando, 5 anni prima dell’inizio del nostro romanzo, anche Adrian scompare misteriosamente. Ma questa volta non viene ritrovato. Tutta questa storia gialla si intreccia con la “vera” trama che interessa a Nesser. Nella prima pagina del libro, Gunnar si sveglia nel suo letto, allunga una mano e sente che la moglie Marianne è morta nel sonno per un aneurisma. Questo è il dramma che segue l’autore. Che segue Barbarotti. Che seguiamo noi, con un misto di alti e bassi. Che il nostro è profondamente innamorata della sua Marianne, non riesce a comprendere la prova cui viene sottoposto, e si trova anche a gestire i loro cinque figli (nessuno in comune, due del precedente matrimonio di Marianne, e tre del precedente matrimonio di Gunnar). Con qualche passaggio non dico ingenuo, che sarebbe una inutile cattiveria, ma che mi lascia perplesso (sia Gunnar che Ellen sentono delle voci con le quali comunicano e con le quali fanno il conto delle loro azioni). Saranno un complesso di circostanze che aiuteranno, anche se lentamente, il nostro ad uscire dal dolore, o almeno a gestirlo. Sicuramente i figli. Con molto tatto, le discussioni con lo psicologo terapeuta del dolore. In modo traverso, il sempre miglior rapporto con la collega Eva. Anch’essa colpita da un dolore, seppur diverso: un divorzio traumatico ed un turbolento rapporto con l’ex-marito e la sua nuova moglie. Nonché, e questo ce lo si aspettava avendo conosciuto Marianne nei libri precedenti, proprio dalla stessa moglie morta. Che gli fa recapitare una lettera, consegnata alla di lei sorella, che dovrà ricevere solo dopo la sua morte. Ultimo elemento che consente agli ingranaggi del commissario di tornare con la testa fuori dall’acqua, è proprio il riprendere le indagini. Dove il suo capo, il misterioso, intelligente e contorto Asunander lo coinvolge proprio nel caso della scomparsa di Adrian. Risalendo a tutti i misteri irrisolti di cinque anni prima, pur con molta fatica, riesce a trovare i collegamenti tra i due casi. Nesser ci fa vedere a lungo quanto “femminicidio” possa essere presente in una nazione apparentemente avanzata sul piano delle libertà formali. E dopo una lunga cavalcata, capiremo perché Asunander ha voluto riaprire i casi, capiremo quali sono le reali colpo di Ellen, di Billy, di Adrian, e di altri personaggi che non cito, sia per brevità sia per non togliervi il piacere della lettura. Con una trama che, contento io personalmente, finisce con barlumi di speranza. Non sono certo un patito del lieto fine sempre e comunque, ma a volte sono più contento di leggere un finale di possibilità, che uno di cupa mestizia. Nesser è comunque uno scrittore abbastanza complesso, non a caso ex-insegnante di lettere in un liceo svedese, pieno di riferimenti alti, di mascheramenti, di citazioni bibliche e cabalistiche. Ma anche di giochi nascosti, come quello che vedo a pagina 37, dove la voce che parla ad Ellen la convince di confessare uno sgarbo da lei fatto durante le ore scolastiche a tale Annika Bengtsson. E allora? Se foste lettori che si segnano tutto, avreste scoperto che il nome citato non è altro che quello della protagonista dei libri gialli di un’altra grande svedese, Liza Marklund. Ma qui si esce dal seminato. Tronando alla trama, mi ha abbastanza convinto la parte “gialla”. Mi ha coinvolto la parte in cui si parla dei maltrattamenti sulle donne, e sui loro tentativi, spesso frustrati purtroppo, di ribellione. Mi sta lasciando pensoso tutto il discorso sulla morte di persone care, in questo 2017 che già troppo a chiesto ai nostri fragili nervi. Tuttavia, non è stato un pensare inutile, anche se forse, ora, esula da queste righe.
Come tutte le letture infrasettimanali, i miei lettori sanno che si dedica un piccolo spazio al recupero di terapie passate dagli eventi o riprese da nuove letture. Quattro terapia che vanno dalle cure per rimediare all’adolescenza ai palliativi per superare traumi da adozione, da depressione e da mancanza di entusiasmo.
Inoltre, circolarmente andando di Vico in Vico, finisce una trama con un accenno che torna, purtroppo, d’attualità quando la condivido. Un abbraccio a Cristina, e lei sa perché. Ed un pensiero di conforto per la mia sfortunata mamma che ha deciso bene, questa volta di fratturarsi l’omero. Per il resto, tutto nipponicamente bene.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

PRIMO NOVEMBRE
Come già detto, a volte prendo qualche festa non domenicale per recuperare libri. Che come in questo caso sono sia di cure già descritte, che di cure “saltate”.

RECUPERO DI LIBRI LETTI PER CURE GIÀ DESCRITTE

ADOLESCENTI, ESSERE

Gli ormoni impazzano. Peli spuntano dove prima era tutto liscio …
Ecco allora una cura omeopatica
I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER ADOLESCENTI
Italo Calvino                  “Il sentiero dei nidi di ragno”
Paolo Giordano               “La solitudine dei numeri primi”
Elsa Morante                  “L'isola di Arturo”
Robert Musil                   “I turbamenti del giovane Törless”
Raymond Queneau         “Il diario intimo di Sally Mara”
Joào Guimaraes Rosa      “Miguilim”
J. D. Salinger                 “Il giovane Holden”
Robert Louis Stevenson   “L'isola del tesoro”
Boris Vian                      “La schiuma dei giorni”
Alice Walker                  “Il colore viola”

RECUPERO DI LIBRI LETTI PER CURE PASSATE

ADOZIONE

Ann Patchett                  “Corri”
Nei Gaiman                    “Il figlio del cimitero”
Ed in aggiunta:
Frances H. Burnett        “Il giardino segreto”
Rudyard Kipling              “Il libro della giungla”
Emily Bronte                  “Cime tempestose”
T. H. White                    “Re in eterno”
La letteratura per l’infanzia è piena di bambini adottati. Mary Lennox, ne “Il giardino segreto”, è una bambina viziata che impara ad amare in un nuovo, gelido clima; Mowgli, ne “Il libro della giungla”, viene allevato dai lupi; Tarzan, nei romanzi di Edgar Rice Burroughs, dalle scimmie. Un alone romantico sembra circondare questi trovatelli - e a ben guardare a chi, da bambino, non è capitato di litigare coi propri genitori e immaginare di essere figlio altrui? I bambini adottati si sono fatti strada anche nella letteratura per adulti: per esempio Heathcliff, in “Cime tempestose”, che sconvolge il delicato equilibrio della propria famiglia adottiva; “Wart”, in Re in eterno di T. H. White, uno dei rari casi di bambini adottati di successo in questo elenco - scopriremo infatti che si tratta di Artù, re di Camelot.
In realtà, l’adozione è meno romantica e può essere una faccenda complicata per tutti gli interessati - per i genitori naturali che decidono di rinunciare al loro bambino; per i bambini che scoprono la verità in modo tutt’altro che ideale; per i bambini che incolpano i genitori adottivi della propria confusione, e che possono mettersi in cerca dei genitori naturali solo per restare delusi; infine, per i genitori adottivi che devono decidere quando dire ai propri figli che sono «speciali» e non consanguinei. L’intera questione è irta di insidie - ma anche piena di amore, e può significare la fine della sofferenza per chi non ha figli - e a tutti quelli che ne sono coinvolti farebbe bene esplorarne la complessità con chi ci è già passato.
Uno dei più belli tra i romanzi recenti con bambini adottati è “Corri”, di Ann Patchett. Doyle, ex sindaco di Boston, bianco, ha tre figli: Sullivan, Teddy e Tip – uno è bianco coi capelli rossi, due sono neri, atletici e molto alti. Sua moglie Bernadette, dai capelli rosso fuoco e madre di Sullivan, è morta. La madre biologica di Teddy e Tip è la «spia che venne dal freddo» - ha guardato i figli crescere da lontano, consapevole dei loro successi e dei loro fallimenti, delle loro amicizie e rivalità, come un angelo custode.
Quando Kenya, undici anni - la ragazzina che corre del titolo - viene a vivere inaspettatamente in casa Doyle, le complesse dinamiche famigliari cominciano a prendere nuove direzioni. Teddy e Tip sembrano destinati ad avere successo, come scienziato e futuro sacerdote, ma Doyle avrebbe voluto che seguissero il suo esempio in politica. Il fratello maggiore, Sullivan, ha passato un po’ di tempo in Africa per cercare di contribuire alla lotta contro l’AIDS, oltre che per fuggire al passato e a un terribile incidente. Con i nuovi problemi posti dalla presenza di Kenya le storie delle diverse origini dei fratelli salgono gradualmente in superficie - ed è il suo semplice, ma irresistibile bisogno di correre, splendidamente descritto da Patchett («era una forza sovrumana, fuori dalle norme fondamentali della natura. La gravità, con lei, non funzionava»), a riunirli tutti. Il messaggio complessivo del romanzo è chiaro, e trasmesso senza sentimentalismi: il sangue è importante, ma l’amore lo è ancora di più.
La conferma del fatto che anche i genitori meno convenzionali possono fare un buon lavoro adottando un bambino arriva dalle pagine de “Il figlio del cimitero” di Neil Gaiman. Un ragazzino, una sera, va in giro in esplorazione e così riesce a evitare la morte per mano di «Jack del Mazzo», che uccide il resto della sua famiglia. Finito in un vicino cimitero, viene adottato da una coppia di fantasmi. Il signore e la signora Owens, ora defunti, in vita non avevano avuto figli e accolgono con gioia quella inattesa occasione per diventare genitori. Il bambino si chiama «Nobody», ma per tutti è «Bod». Durante la sua eccentrica infanzia, Bod sviluppa poteri speciali come «svanire, infestare certi luoghi, entrare nei sogni altrui» - che in seguito si riveleranno molto utili.
Gli spettrali genitori di Bod fanno un ottimo lavoro. «Sei vivo, Bod. Questo significa che hai un potenziale infinito. Puoi fare qualunque cosa, costruire qualunque cosa, sognare qualunque cosa. Se potrai cambiare il mondo, il mondo cambierà». La loro saggezza di defunti spinge Bod a vivere la propria vita al massimo, malgrado la tragedia dei suoi primi anni, e lui sicuramente ci riesce.
L’adozione non è mai una cosa semplice. È essenziale che tutti siano onesti, perché ognuno possa accettare chi e quali rapporti lo legano agli altri. Qualunque ruolo interpretiate, questi romanzi vi mostreranno che non siete soli. Leggeteli, e poi passateli ai vostri famigliari - comunque sia formata la vostra famiglia. Incoraggiateli a dare voce ai propri sentimenti.

DEPRESSIONE

Milan Kundera                “L'insostenibile leggerezza dell'essere”
Sylvia Plath                      “La campana di vetro”
Giuseppe Berto              “Il male oscuro”
Carmelo Samonà            “Fratelli”
La depressione è una scala graduata. Nel migliore dei casi, come capita ogni tanto alla maggior parte di noi, significa una giornata o un periodo in cui non va bene niente, ci sembra di non avere amici, e ci sentiamo prigionieri della malinconia (v. Fallito, sentirsi un; Messo da parte, sentirsi; Tristezza; Malumore; Inutilità, senso di). In momenti del genere abbiamo bisogno di un romanzo che sposti la nostra percezione del mondo, ricordandoci che può essere anche un luogo dove splende il sole e tutti sono allegri. Vedi la nostra lista dei migliori romanzi per tirarsi su, per scegliere una lettura positiva che apra la finestra e faccia entrare una ventata di aria fresca.
Nel peggiore dei casi, tuttavia, c'è un'enorme nuvola nera che scende su di noi senza preavviso, senza una ragione particolare, e senza via d’uscita. Questa è la depressione clinica, una grave forma di malattia mentale che è difficile da trattare e soggetta a ricadute. Se siete abbastanza sfortunati da essere inclini a questo tipo di depressione, è improbabile che sia sufficiente una lettura leggera e ariosa per tirarvi su. Un romanzo del genere potrebbe anzi farvi sentire peggio - in colpa perché non riuscite a ricavarci nemmeno una risatina, irritati da tutto ciò che vi sembra ingenuo nel suo ottimismo, e finirete per odiarvi ancora di più. Può sembrare una contraddizione, ma in questi momenti un romanzo che dice le cose come stanno - con personaggi che si sentono altrettanto depressi di voi, o con una visione del mondo senza compromessi nella sua negatività - può colpire nel segno, incoraggiarvi a essere più gentili con voi stessi, offrirvi sostegno in maniera più appropriata; un romanzo che possa accompagnarvi nello spazio oscuro della vostra malinconia, identificarlo, analizzarlo, finché non vi renderete conto che anche altri ci sono passati, e che dopo tutto non siete così diversi e nemmeno così terribilmente
Il tormento e gli incubi di Tereza nel romanzo “L’insostenibile leggerezza dell’essere” di Milán Kundera hanno proprio queste caratteristiche. Il malessere di Tereza e provocato dal suo amante, Tomás, donnaiolo incallito; dopo essersi chiamato fuori da un matrimonio fallito e aver abbandonato un figlio piccolo, Tomás ha scelto te vita dello scapolo e del libertino. Fin dall’inizio, tuttavia, Tereza è ritratta come una persona maltrattata dalla vita- te pesantezza contro te leggerezza di Tomás e della sua amante Sabina. Perché Kundera divide le persone in due fazioni: quelli che capiscono che te vita e priva di senso, e quindi ne sfiorano appena te superficie, e vivono nel momento e per il momento, e quelli che non riescono a sopportare l’idea che l’esistenza debba andare e venire casualmente e insistono nel cercare un significato in ogni cosa. Quando incontra Tomás, Tereza sa ai non avere altra scelta se non amarlo per sempre; quando lo raggiunge a Praga per rivederlo, con tutto ciò che possiede chiuso in una valigia, porta con sé anche una copia di Anna Karenina - un romanzo che forse riassume più di ogni altro te sofferenza che arriva con la perdita di significato delle cose. Per quanto te ami, Tomas sa che lei sarà una presenza pesante nella sua vita. Spinta sull’orlo della follia dal rifiuto di Tomás di rinunciare alle altre donne, Tereza si rimprovera per questa sua debolezza, per il suo desiderio che Tomás cambi. Toccato il fondo, cercherà di morire di overdose. Ogni volta che vi sembrerà di essere caduti così in basso che nessun altro possa arrivare fino a voi, prendete questo romanzo e lasciate che sia Tereza a tenervi compagnia, laggiù.
Anche lei vuole vivere e superare la propria tristezza - e alla fine troverà il modo per farlo.
Una quantità sproporzionata di scrittori soffrono di depressione. Alcuni dicono che le persone creative sono più vulnerabili, altri che scrivere della propria malattia ha un effetto catartico. Richard Yates, uno scrittore americano, passava ore a guardare il muro, in stato catatonico. Anche Ernest Hemingway soffriva di crisi depressive, sempre più gravi, e beveva molto (se anche voi sceglierete questa via di fuga, v. Alcolismo). Alla fine perse la sua battaglia contro la depressione, come successe a Virginia Woolf e a Sylvia Plath, ma non senza lasciarsi alle spalle il dono inestimabile della propria esperienza. Questo dono - romanzi e racconti sull’esperienza della malattia mentale - è a vostra disposizione, perché ne ricaviate il conforto che questi scrittori non sono riusciti a trovare.
Plath soffriva di un disturbo bipolare, c nel suo intenso romanzo autobiografico La campana di vetro documenta, seguendo la giovane Esther Greenwood, gli incredibili sbalzi d’umore che la riempivano di felicità un momento, con i «polmoni gonfi» nello slancio di gioia del sentirsi vivi, e incapace di qualsiasi reazione emotiva - «vuota e immobile come un bambino morto» - il momento successivo. La voce di Esther è un grande conforto per i depressi: ciò che rende così leggibile questo romanzo è la leggerezza della prosa di Plath, e il modo in cui anche nei suoi brani più inquietanti l’umanità e il giovanile entusiasmo di Esther riescono a risplendere. Ricordatevene, quando vi sembrerà impossibile tornare a essere felici - o anche semplicemente «normali». Altri sapranno vedere il potenziale di leggerezza che avete dentro, anche quando voi non ci riuscirete.
Altro medicamento per chi è preda dell’umor nero è la lettura a voce alta de II male oscuro di Giuseppe Berto. Apritelo sopra un leggio e cominciate a leggerlo in piedi, al centro del vostro salotto o della vostra cucina. Il romanzo è costruito come un lungo, fluviale monologo interiore. Racconta la fuga del protagonista dai suoi sensi di colpa, dall’ingombrante ombra di un padre, dalle intemperie degli uomini e da quelle delle donne. Viaggerete con lui deponendo pagina dopo pagina i vostri abiti quotidiani intrisi di tristezza su una sedia per vestire gli stracci di un anacoreta. Arriverete fino alla costa della Calabria e da lì osserverete le luci della Sicilia accendersi dall’altro lato del mare, e anche se vi fermerete sul limite di quel guado vi resterà almeno la consolazione che ci possano essere delle stelle meno fredde di quelle sotto le quali avete vissuto ad aspettarvi da qualche parte.
Poi ci sono depressioni che non hanno un nome. Sono delimitazioni di territorio, danze teatrali. Come nel caso in cui due fratelli vivano insieme, e uno sia sano e l’altro no. E quello sano si prepari alla partenza senza mai partire. E quello malato spicchi grandi salti, girando a vortice su sé stesso. E l’intera casa sia una carta geografica di Grandi e Piccoli Viaggi. Perché il confine non è sempre così ben definito, e lascia dubbi, e sospetti. Dov’è la linea che separa i regolari dagli irregolari, in quale punto è interrotta, spezzata? E questa terra ibrida, questo continuo gioco di specchi, che descrive Carmelo Samonà nel suo primo romanzo. Godetevi ogni parola, ogni frase di questo libro, ogni suo respiro. Ci si muove tra falsi indizi, inciampi, un codice di messaggi rapidi o restii. E colloqui invisibili. Tabelle del Tempo. Tutto avviene nel labirinto senza uscita di una stanza, tra balbettamenti e sussulti, ma con una grande tensione fantastica, come se quella stanza fosse un’isola nell’oceano, un’isola nella quale si possa anche imparare ad essere fratelli nella malattia e nel silenzio.
Rassicuratevi, quindi, pensando che questi personaggi - e gli autori che li hanno creati - sanno cosa vuol dire vivere con la depressione; e se la loro esperienza non coincide con la vostra, provate con un altro libro nella nostra lista dei migliori romanzi per chi è molto triste. Magari non riuscirete a vedere uno squarcio di cielo tra le nuvole, ma la consapevolezza di non essere i primi a restare smarriti sotto quella cappa grigia vi sosterrà mente aspettate che si apra.

ENTUSIASMO, MANCANZA DI

E. L. Doctorow                “Ragtime”
La mancanza di entusiasmo è un disturbo notoriamente difficile da diagnosticare. Facilmente confusa con la noia (che in realtà è un deficit dell’immaginazione) e con l’apatia (che si manifesta come indolenza fisica ma ha anche una causa mentale), la mancanza di entusiasmo può manifestarsi, a un occhio inesperto, semplicemente come il sintomo di una personalità noiosa. Se non viene curata, può rovinarvi la vita - e non solo la vostra. Vivere senza entusiasmo significa vivere senza voglia di fare nuove esperienze, e così perdere il sale, il succo, quel qualcosa che rende la vita emozionante. Significa vivere mortificando i sensi, in modo piatto, senza risvegliare le passioni né stimolare la curiosità, e in questo deprimere al massimo tutti quelli che vi circondano - e, francamente, anche noi. Fateci un favore, a tutti quanti. Leggete questo romanzo e svegliatevi.
Ragtime è ambientato all’alba del xx secolo in America - un momento in cui la nazione intera era in preda a un’euforia di agitazione, invenzione e cambiamento. I binari della ferrovia attraversavano scintillanti tutto il paese. Lunghe colonne di Ford modello T uscivano dalle catene di montaggio. Edifici alti venticinque piani spingevano le persone più vicine alle nuvole, e gli aerei le portavano via. Il telefono e la stampa ridefinivano il modo di comunicare. Il cielo era un tripudio di razzi e petardi. Nelle case della gente comune, la polvere per starnutire e le rose di plastica che spruzzavano acqua solleticavano il naso e facevano ridere.
In mezzo a tutto questo si svolge la storia di una famiglia benestante di New Rochelle, nello stato di Newark. Il figlio (che conosciamo semplicemente come «il piccolo») sta fissando un moscone da dietro a una zanzariera il giorno in cui l’auto di Harry Houdini si rompe fuori da casa sua e il mago viene invitato a prendere il tè. Poco dopo, la Madre scopre un bambino nero in giardino e lo prende con sé - infrangendo, in questo modo il primo di vari tabù culturali e di genere. Quando il Padre torna da una spedizione nell’Artico e la trova a gestire la sua fabbrica di fuochi d’artificio, l’uomo si strania sempre di più dalla vita dei suoi cari e la famiglia comincia a sfaldarsi.
Alternando vivaci primi piani ad ampi panorami e facendo incontrare personaggi reali e immaginari alle intersezioni di una vasta e complessa ragnatela, E. L. Doctorow introduce nel romanzo - e nel lettore - il senso di un grande entusiasmo. Mentre gli immigrati dall’Italia e dall’Europa orientale, come Tateh e la sua bella figlia, si riversano negli squallidi caseggiati del Lower East Side, il finanziere J. P. Morgan stabilisce nuovi standard di ricchezza e potere e Houdini sfida la morte con gesta sempre più terrificanti, Freud mette l’America sul divano e lo zio del ragazzo, conosciuto come il Fratello Minore della Madre, perseguita il primo sex Symbol del paese, Evelyn Nesbit.
Nel leggere, fate attenzione a come la Madre e il bambino dicono «sì» al progresso e al cambiamento. Guardate come il Padre, al contrario, dice «no», rifiutando di accettare il suo tempo. Come Tateh, lasciate che il ritmo concitato delle sorprendenti frasi di Doctorow vi allontani da quello che conoscete e che sta segnando il passo. Salite sul treno di una nuova vita e portate con voi la curiosità del ragazzo per le ultime invenzioni. Condividete la gioia del Nonno all’arrivo della primavera (ma fate attenzione, se avete più di settant’anni, a non scivolare e fratturarvi il bacino, come fa lui quando accenna un passo di danza). Cercate di trovarvi in un luogo dove le cose stanno davvero cambiando, e vi sentirete di nuovo pieni di entusiasmo.

Bugiardino

Adolescenti, Essere

Ho parlato di questa “malattia” nella mia prima cura libropeutica nel gennaio del 2014. Ora che i sei su 10 libri, sono diventati sette, aggiungiamo questo potente anche se datato Queneau.
Raymond Queneau “Il diario intimo di Sally Mara” Feltrinelli euro 7 (in realtà, scontato a 5,95 euro)
[libro letto il 1 giugno 2017 e non ancora pubblicato]
Penso che pochi non sappiano la mia passione per Queneau, che ritengo sia il Draghi della mia personale BCE (che ovviamente non sta per la famosa banca, ma per le stelle del mio firmamento letterario: Borges, Calvino, Eco). Ho (quasi) la sua opera omnia e (quasi) tutta in francese. Mi mancava, ed ero dubbioso sul da farsi, le opere che uscirono a suo tempo con lo pseudonimo di Sally Mara (“Troppo buoni con le donne” e “Diario intino”). Ora, approfittando della spinta delle mie libropeute, che consigliano questo libro agli adolescenti, e facendo tesoro degli spazi di riposo ritagliati durante il recente viaggio in Israele, ecco che riesco a leggere il secondo testo, nella versione feltrinelliana di Leonella Orati Caruso, derivante non dal primo testo (che fu appunto le “Journal Intime”) ma dalla sua riproposizione quando Queneau rivelo di esserne l’autore (e che uscì appunto con il titolo “Le opere complete di Sally Mara”). Devo anche confessare che il testo, anche se ottimamente reso, non potrà avere l’impatto della lingua originale. Proprio per l’impianto generale che l’autore ne ha dato: è un diario scritto in francese da una persona (fittizia) irlandese. Queneau si diverte allora a rendere tutto il gioco attraverso un uso quasi da “traduttore automatico”, utilizzando modi di dire e perifrasi che rendono il testo umoristico, ma solo, per l’appunto, apprezzandone gli sforzi di scrittura. Che il testo in sé, preso senza queste costrizioni testuali, è banalmente percorribile. Il diario di una ragazza, Sally, ingenua, irlandese e cattolica. Che vive in una famiglia strampalata, con una madre leggermente fuori di testa, sempre in attesa del marito uscito un giorno per comperare dei fiammiferi e non ancora tornato, il marito che si divertiva a sculacciare le due figlie, Sally, che ne soffriva, e Mary, cui sembrava piacere, ed il cui unico intento era vincere un concorso alle poste, ed un fratello, dedito solo ad alcool e sesso. Sally ha seguito i corsi poco ortodossi di francese del suo maestro, ora tornato in Francia. Sally che vuole scrivere un romanzo in gaelico, di cui ha deciso il titolo (“Le donne sono sempre troppo buone con gli uomini”) e che noi sappiamo che, come Sally Mara, ha già pubblicato (anche se con il titolo “Troppo buoni con le donne”). Gaelico che conosce poco, per cui va a lezione da un bardo dove conosce la di lui moglie, capace solo di fare piccole statuine con organi sessuali abnormi, ed un giovane timido che non riesce mai ad avere un approccio fruttifero verso Sally, anche se ne intuiamo il lato romantico-timido. In questa assurda “Educazione sentimentale” al contrario, Sally attraversa situazioni paradossali (tocca membra maschili senza riconoscerle, abbraccia statue semi-nude del museo locale, partecipa a sedute spiritiche, ha un primo rapporto sessuale con una cameriera, impara a ballare per partecipare a balli settimanali, dove, finalmente, conosce quello che il fratello voleva farle sapere fin dalle prime pagine, ed altro ancora). Letto superficialmente potrebbe addirittura sembrare un libretto licenzioso e libertino, anche se l’intento dell’autore è invece quello di smascherare proprio queste licenziosità. Dimostrare cioè che la sconcezza non è nelle parole in sé (dove per l’appunto ve ne sono nel libro, ma la dose che normalmente si incontra nella vita quotidiana), quanto dalla combinazione che noi diamo a quelle parole. L’uso di parole normali, mal utilizzate dal traballante francese di Sally, portano ad una loro combinazione che crea allusioni nella testa del lettore, e sono queste a generare la sconcezza e la licenziosità. Un tramatore più abile di me avrebbe anche riportato nomi, situazioni ed altri momenti del testo. Ma ne andrebbe la freschezza di chi, come voi, potrebbe leggerlo senza condizionamenti. Potrebbe leggere di irlandesi che bevono litri su litri di “uischi”, che mangiano “aringhe allo zenzero” ed altro ancora. Io mi soffermo su un punto ironicamente superficiale, che però tocca le mie corde umoristiche. Sally si descrive come una giovane donna portata all’atletica, che corre i 100 metri in 10”2, salta in alto 1,71 e lancia il peso a 14,38 metri. Dov’è l’ironia? L’autore scrive nella fine degli anni Quaranta, dove i record mondiali sono rispettivamente proprio di 14,38 nel peso detenuto dalla tedesca Gisela Mauermayer, di 1,71 nell’alto e di 11”5 nei cento metri, detenuti entrambi dall’olandese Fanny Blankers-Koen (la famosa atleta chiamata “la mamma volante”, che vinse 4 ori olimpici a Londra, avendo trent’anni e due figli). A me, lo sapete, queste chicche mandano in visibilio, come le altre prove “costrittive” di Queneau e dei suoi amici (penso a “Esercizi di stile” dello stesso Queneau o a “La disparizione” di Perec). Per finire, il record attuale (2017) dei cento metri piani è stato stabilito ad Indianapolis, nel 1988, da Florence Griffith-Joyner con … 10”45. Ma queste sono le mie di risate ed ironie, ed il libro è scorso via con tranquillità. Anche se di Queneau molto altro e meglio ho letto. Pur tuttavia, l’amore è sempre amore.

Adozione

Sebbene molto ci sarebbe da dire sul temo, non avendo ancora messo mano a “Corri” o al “Cimitero”, mi limiterò a riproporre le impertinenze di Molly la biondina.
Frances Hodgson Burnett “Il giardino segreto” DeAgostini euro 10,90 (in realtà, scontato a 1,64 euro)
[trama pubblicata il 3 settembre 2017]
Non poteva mancare di essere letto, prima o poi, questo libro. Pietra miliare dei libri per l’infanzia, anche se poco diffuso in Italia. Dove, ad esempio, l’autrice è forse più nota per “Il piccolo Lord”. Sia i libri felici che i libri curativi ne consigliavano la visione. Ed io sapevo, nelle pieghe della mia memoria, che ne avevo scorso dei pezzi in qualche edizione “antica” ed ero, moderatamente, curioso di leggerne. Cosa dire a valle della lettura? Pur avendo più di 100 anni, se preso nella sua giusta visione filologica ed educativa, è ben congeniato, e discretamente utile ad un pubblico giovane. Dirò di più: può essere un’utile lettura anche ad un pubblico adulto che non voglia chiudere gli occhi alla magia dell’adolescenza (o dell’infanzia) e che può prendere spunto per rapportarsi alle giovani generazioni in modo comprensivo ed empatico. Certo, confrontandolo con l’originale, si nota che la versione “per ragazzi” della DeAgostini qualcosa taglia. Ma rimane la freschezza e lo spirito con cui fu scritto. Seppur quindi con occhio adulto, non possiamo far meno di seguire la piccola, viziata e non amata Mary Lennox, dall’India natia sino al veloce ritorno in patria. Perché nella guarnigione del padre scoppia un’epidemia di colera, e solo Mary si salva, venendo mandata dallo zio Archibald. Uno zio che vive in un castello isolato, e che è colpito dal grande dolore della morte improvvisa della giovane ed amata moglie. Per questo passa la maggior parte del suo tempo in giro per il mondo, lasciando le cura della giovane Mary ai famigli della casa. Sarà soprattutto Martha a prendersi cura di Mary, a farle tornare il sorriso, a narrare delle buone cose di casa sua (povera ma onesta), a presentarle il fratello ecologo e bucolico Dickon. Le parla inoltre del famoso giardino segreto, quello curato dalla moglie morta, cui a tutti è vietato l’accesso. Ovvio che Mary comincia a cercarlo. Ovvio che lo trova, lo apre, se ne innamora. Condividendolo con Dickon, con le sue piante e i suoi animali. Ma un nuovo mistero attanaglia i giorni della nostra signorina, che diventa a poco a poco, un po’ più simpatica. Le grida notturne, che al fine si scopre essere quelle del cugino Colin. Malato di incerta malattia, poco curato o mal curato. Sicuramente poco amato dal padre, che gli rimprovera, anche se non esplicitamente, la morte della moglie. Mary comincia un’azione di coinvolgimento alla vita di Colin. Narrando del giardino, narrando degli animali, narrando di Dickon. Tanto che l’altrettanto viziato Colin decide di seguire le orme della cugina. Uscendo di casa nella sedia a rotelle. Andando in giardino. Cominciando a muovere i primi passi. Sino a che, ignota la malattia, ma sicuramente giovandogli aria aperta e compagnia, anche lui si integra nella cura del giardino e nell’inno alla vita. Tanto che la madre di Martha non si perita di richiamare sir Archibald dai suoi giri lontani. Il vecchio (ma credo che non arrivi ai cinquanta!) torna a casa, scopre le “malefatte” della nipote, ma scopre anche i benefici che ne porta il figlio. Così che, curando le piante si cura anche il cuore. E tutti quanti, alla fine, saranno contenti, e ne usciranno vittoriosi. Quante piccole zeppe di insegnamento in così poche pagine. Certo ingenue, certo senza nessun infingimento, subito lì, dirette. Mary non amata, unica che sopravvive (quindi anche chi sembra poco simpatico è meglio di chi è realmente antipatico). Martha e la sua famiglia (cioè il cuore aperto, il sorriso sulle labbra, il lavoro anche umile non possono che portare serenità). Martha e Dickon (quando l’amicizia travalica ogni confine). Martha e Colin (quando l’empatia vince ogni malattia, vera o presunta). Martha e lo zio Archibald (come non aver paura dei grandi quando si ha una grande idea in testa). La “pedagogica” Frances inzeppa il libro di buoni sentimenti. In particolare, l’ultima grande metafora è il collegamento tra i ragazzi ed il giardino: in entrambi i casi, i buoni semi, oltre ad essere piantati, devono essere difesi e coltivati. Ed il giardino, così come il bambino, potrà al fine crescere e diventare una pianta, un uomo o una donna. Ignorando Freud e tutta la psicologia, il bello (seppur limitato) del libro è proprio in questa immediatezza senza barriere. Un’ultima lancia la spezzerei sulla rivoluzione che all’epoca portò il libro. La convinzione nel mondo occidentale dell’inizio del XX° secolo era che solo la guida, l'insegnamento e la vigilanza costante degli adulti potevano garantire l'educazione di bambini e adolescenti, che l'amicizia tra ragazzi poteva essere pericolosa e andava sempre vigilata dagli adulti e che l'amicizia tra giovani di sesso opposto era molto pericolosa e andava controllata e limitata dagli adulti. Tutte e tre queste posizioni vengono confutate da Frances. Che apre vie nuove che hanno portato a noi. Perché allora non cominciamo anche noi a tracciarne altre? Forse è tutto troppo facile. Ma che dire se si riesce a togliere le barriere, i pensieri, gli attaccamenti a comportamenti troppo ingessati. Per comunicare. Questo, in fondo, è quello che insegna Mary: parlare, chiedere, è sempre meglio che stare zitti. Un NO è sempre meglio di non sapere la risposta. Tanto che spesso, il NO diventa un magico, bellissimo, giurassico SI. Quindi, salvando un po’ di ingenuità, perché non leggerlo ai Tommaso, ai Matteo, e a tutti gli altri?

Depressione

Anche qui abbiamo poco da aggiungere a quanto si dirà con la Plath.
Sylvia Plath “La campana di vetro” Mondadori euro 9,50 (in realtà, scontato a 7,12 euro)
[trama pubblicata il 21 febbraio 2016]
Ci sono coincidenze prevedibili ed altre meno. Avendo una sostanziosa dose di libri (di tutti i generi. sia “classici” che moderni), è abbastanza prevedibile che mi capiti di leggerne su giornali e riviste. L’imprevedibile è leggerne su “Repubblica” in un articolo gustoso di Elena Stancanelli “durante” la mia lettura del libro. Un libro che comincia bianco e grigio e finisce grigio, grigio, quasi buio. Una semi-autobiografia, come scrisse qualcuno meglio conoscitore di me delle lettere inglesi. In cui Sylvia ripercorre e trasmuta il periodo della sua vita dai 19 ai 20 e qualcosa anni. E che comincia quasi come il contemporaneo “Il gruppo” di Mary McCarthy (ed anche qui ci sarebbe da farne alcuni paralleli, e neanche proprio banali). Atmosfera appunto di gruppo, di una serie di post-licenziate da vari college, che si ritrovano a fruire di una borsa di studio a New York nell’ambiente delle riviste di moda. Qui, nei primi nove capitoli (come ci illustra la stringata ma puntuale post-fazione di Claudio Gorlier) c’è la prima fase del romanzo. Quella in cui l’autrice, narrando delle sue presenti difficoltà nel vivere l’ambiente glamour, ci fa andare su e giù nel corso del suo tempo. Dove vediamo i segnali delle sue difficoltà di adattarsi a quel tipo di vita, sottomessa, che si voleva facessero le donne nei primi anni ’50 (e non solo allora, diremmo adesso). Il difficile rapporto con la madre. L’attrazione-odio verso il coetaneo Buddy. La frequentazione con Joan. La scrittrice riesce a farci capire (pur non entrando mai in dettagli esterni, ma sempre in soggettiva; e rimango nella parentesi, che avendo dei disturbi non è facile parlarne come se fossero “fuori da te”; ad esempio quando una persona capisce ed ammette di essere depressa, è il momento che sta guarendo dalla depressione) la sua complessità, che altri diagnosticheranno come “disturbo bipolare”. Gli atteggiamenti maniacali (bellissima la descrizione del pranzo alla moda, e l’indigestione di caviale). L’incapacità di portare a termine i compiti assunti, se non nel breve periodo (scrive piccole recensioni, poi si rifugia nel sogno di poter frequentare un corso di scrittura creativa, solo perché lo desidera, non perché ne abbia le qualità). Con una scivolata da una parte nell’autostima (come poco fa scritto) dall’altra in comportamenti sessuali anomali. Laddove, diciottenne, non accetta di essere vergine mentre Buddy ha avuto un’estate di sesso. Tanto che a poco a poco, lo lascia. E non riesce ad entrare in sintonia con l’ambiente al femminile che frequenta. Né con la “cattiva” Doreen, né con la “buona” Betsy. Tanto che finisce la borsa, e deve tornare dalla madre, senza avere prospettive davanti. Qui inizia la fase dura, la fase in cui, per quattro o cinque capitoli, vediamo come cerchi di suicidarsi, non trovando prospettive alla sua vita. Entrando con tutte le scarpe nella fase depressiva. E vediamo come questi tentativi (alcuni seri, altri al limite del sorriso, benché tragico, come quando pensa di tagliarsi le vene e comincia a provare la lametta sul polpaccio, per poi spaventarsi e fermarsi), siano sempre al limite tra la pratica seria, e l’urlo nella notte: “Sto male, venite ad aiutarmi!”. Tanto che l’ultimo tentativo, lo fa nascondendosi nel lavatoio di casa, sperando (come avverrà) di essere salvata. Così è, e da lì comincia la terza parte, quella degli ospedali psichiatrici. Esperienza che, come sappiamo, anche Sylvia aveva percorso, proprio per un tentativo abortito di suicidio. E che descrive quindi dal di dentro della realtà dei malati mentali. Come tutti i depressi, pur concentrata su di sé, riesce a dipingere con cruda realtà il mondo degli alienati di allora. Con quelle sedute di elettroshock che abbiamo da poco ritrovato nell’altro bel libro di Kesey sul Cuculo. Ospedali dove Sylvia denuncia i cattivi medici (e ce n’erano tanti, e forse ce ne sono ancora). Ma sottolinea anche i buoni e capaci. Ci mostra un momento altro di vita, laddove anche la sua rivale nell’amore di Buddy viene ricoverata. La protagonista fa capire anzi che ci potrebbe essere dell’amor saffico in Joan. Tanto che quando lei finalmente perde la verginità (per pareggiare i conti con Buddy), Joan si uccide. Morte che invece sembra spingere la protagonista ad uscire finalmente dal cerchio in cui si stava rinchiudendo. E come Sylvia, alla fine di quei tre anni tragici, pare ne esca. Qui il romanzo finisce. Ma noi non possiamo non proseguirlo in parallelo proprio con la vita della scrittrice. Con la possibilità di identificare Buddy con il marito di Sylvia, il poeta Ted Hughes. Che proprio poco prima che venga iniziato il romanzo, lascia la poetessa, invaghendosi della comune amica Assia (che Sylvia vorrebbe vedere in Joan). Ed è durante il tormentato periodo delle pratiche di divorzio che viene scritto il romanzo. Che viene pubblicato a gennaio del 1963. Un mese dopo, Sylvia Plath, aprendo il gas del forno, si suicida. E visto che abbiamo parlato di coincidenze all’inizio, mi cade sott’occhio un’ultima casualità. Nel libro Joan-Assia si suicida quando scopre che Esther-Sylvia ha perso la verginità. Nella vita, dopo alcuni anni di tormentati rapporti, Assia si suiciderà anche lei, nell’anniversario del giorno in cui Ted e Sylvia fecero per la prima volta l’amore. Seppur coperto dai grigi di cui si diceva, è un vero buon romanzo, che illustra, con vivida mano, la difficoltà di essere donna e di seguire i propri valori in un mondo dominato dagli uomini, come era (molto) l’America degli anni ’50. Com’è, ancora, purtroppo, buona parte del mondo attuale. Forse in modo diverso. Ma pur sempre ancora così.
“"Se nevrotica vuol dire volere nel medesimo istante due cose che si escludono a vicenda, bene, allora io sono infernalmente nevrotica. Continuerò a volare eternamente avanti e indietro tra l'una e l'altra per il resto dei miei giorni." (82)
“Nota mia: peccato che a pagina 53, traducano Walter the Penniless, uno dei due personaggi che guidò la crociata dei poveri in Terra Santa insieme a Pietro l’Eremita, con un ‘normale’ Gualtiero Senzaveri, invece del più corretto Gualtiero Senza Averi”

Entusiasmo, mancanza di

Ora mettiamo invece mano al libro di Doctorow, letto successivamente.
E. L. Doctorow “Ragtime” Mondadori euro 13 (in realtà, scontato a 9,75 euro)
[libro letto il 20 aprile 2017 e non ancora pubblicato]
Un altro libro “storico” in molti sensi, che andava letto prima o poi, visto che al tempo non mi incuriosì, così come mi aveva lasciato discretamente freddo la figura di scrittore di Edgar Lawrence Doctorow, noto al pubblico solo con le iniziali (E.L.). Spinta che, oltre per evidenti ragioni culturali, è stata amplificata dalle letture dei miei libri “da comodino”, sulla cura e sulla felicità che danno i testi stampati. L’anomalo Doctorow, tra l’altro, è l’esponente di punta di quella “historical fiction” che tanto successo ha (ha avuto) in America da un certo punto in poi. Anomalo perché ha scritto pochi libri e tutti su questo filone. Una fiction che cominciò con “Il libro di Daniel”, dove romanza la vicenda della condanna a morte dei coniugi Rosenberg. E che ebbe il suo altro punto di grande successo in questa saga dell’America dei primi decenni del secolo. Una saga che, dal punto di vista storico, seguiamo dalla vicenda legata all’omicidio di Stanford White con al centro la figura di Evelyn Nesbit sino all’entrata in guerra degli Stati Uniti nel 1917. La scrittura è molto scorrevole, anche senza punte di vero coinvolgimento, almeno per il mio gusto. Prendendo come filo conduttore una fantomatica famiglia media americana (Papà, Mamma, Figlio e Fratello Minore della Mamma) la segue mentre si intrecciano, a volte molto tangenzialmente, le vicende personali della famiglia con avvenimenti storici. Il contraltare della famiglia media è costituito da due personaggi di verso opposto: l’immigrato est europeo Tateh ed il negro Coalhouse Walker. Ma l’intrecciarsi delle vicende è proprio l’elemento centrale e di punta del romanzo. Alcune sono vicende storiche significative, che danno sia il senso del tempo della narrazione sia dell’evoluzione dell’America nei primi venti anni del secolo scorso. Abbiamo quella di partenza, il famoso, all’epoca, omicidio dell’architetto Stanford White da parte del geloso marito di Evelyn Nesbit. Evelyn era stata amante di White, che però prediligeva ninfette adolescenti, e che la lasciò quando la signorina si avviava ai venti anni. Harry Thaw, marito geloso e violento, uccide l’ex-amante con un colpo di pistola al teatro del Madison Square Garden. Una vicenda che si protrasse per molti anni, con Thaw che si finge pazzo, che sfugge alla condanna a morte, e che poi riesce anche ad uscire di prigione vivo proprio nel 1917 quando finisce il romanzo. Doctorow inzeppa la storia immaginando una breve storia d’amore tra il Fratello Minore della Mamma ed Evelyn. Altro punto forte è la controversa spedizione alla conquista del Polo Nord geografico guidata da Robert E. Peary, che, barando, sembrò averlo raggiunto. Anche qui, le storie si mescolano con la partecipazione di Papà alla spedizione. Poi ci sono i molti spettacoli di escapismo di Harry Houdini, che fanno da contraltare alla crescita del Figlio. E poi le due vicende industriali: la crescita ed il consolidamento dell’impero di John P. Morgan, considerato uno degli uomini più ricchi di ogni tempo, e la nascita dell’impero automobilistico di henry Ford, con la messa in produzione della famosissima Ford T. Gustosa e da leggere la parte relativa all’incontro tra i due grandi uomini. Inciso: Morgan muore nel 1913 nel sonno al Grand Hotel di Roma. Poi ci sono vicende toccate di lato, magari accennate, magari da approfondire. Come la vita e le opere della femminista anarchica Emma Goldman. O. più ironicamente, la visita in America del trio di grandi psicanalisti dell’epoca: Freud, Jung e Ferenczi. Filo conduttore, dicevamo poi, oltre le vicende della famiglia, quella dell’immigrato dell’est, Tateh. Che vive di stenti, che è abile nel ritagliare figurine nel cartone (si immaginano belle silhouette della Nesbit), che non riesce ad integrarsi con le comunità locali, che scaccia la moglie, prostituitasi per trovare i pochi soldi per andare avanti, che fugge ad Atlantic City con la figlia, e che trova il suo spazio con le sue figurine animate quando capisce che si può inserire nella nascente industria cinematografica. Più densa, ma anche più diluita, e forse anche troppo “montata”, la vicenda di Coalhouse Walker. Che Doctorow riprende, aggiornandola, dal racconto “Michael Kohlhaas” di Henrich von Kleist. Walker è un nero che incidentalmente mette incinta la giovane Sarah, che, con il figlio, viene “adottata” dalla madre. Walker è un suonatore di piano, dopo un lungo corteggiamento riesce a convincere Sarah al matrimonio, ma, prima della fatidica data, entra in contrasto con i bianchi. Ovvio il nascere degli attriti razziali. Il locale capo dei pompieri sporca di lordume la bella macchina di Walker, che chiede un risarcimento. Ovvio che la prende in quel posto. Ovvia la sua irritazione, che seguiamo, purtroppo, per pagine e pagine, risultando incisiva dal punto di vista sociologico, ma poco dal punto di vista narrativa. Walker, nonostante la sua ribellione ed alcune vittorie tattiche, non potrà vincere, ed alla fine sarà trucidato davanti alla Biblioteca istituita da J.P. Morgan. I suoi accoliti fuggiranno, tra cui il Fratello Minore della Mamma, che riparerà in Messico per unirsi alla rivoluzione zapatista. Papà avrà invece un tracollo finale, lasciando finalmente libera Mamma, che alla fine troverà il modo di unirsi in un matrimonio felice con l’immigrato ora ricco Tateh. Non ci voleva certo questo libro per dirci che agli inizi del Novecento gli americani erano zoticoni ed immigrati. Neppure ci illumina in modo maggiore sul modo banditesco e ricattatorio con cui le grandi famiglie americane costruirono i loro imperi. Certo, ci fa vedere che, cinquanta anni dopo la Guerra Civile, il razzismo è ancora imperante (e purtroppo lo è ancora). Ci fa capire infine, anche se scritto quaranta anni fa, come sia possibile che una persona poco qualificabile come Trump possa diventare Presidente degli Stati Uniti. Insomma, tenta di essere pungente, ma non lo è fino in fondo (se volete veramente arrabbiarvi leggete le epopee dei nativi americani allora). È correttamente leggibile, ma poco altro di più. Inoltre questa mancanza di nomi nella famiglia che seguiamo per venti anni lascia la storia a qualche passo da noi, senza coinvolgerci. Per finire, è vero che il rag era la musica del tempo, ma a parte alcuni accenni a Scott Joplin da parte di Walker, poco ci viene rimandato.
“[citando Freud] L’America è uno sbaglio, un gigantesco sbaglio.” (38)

Conclusioni

Ho già parlato dell’adolescenza, su cui non ritorno. E trovo ben centrate le linee descrittive del giardino o della campana. Mi lascia perplesso la scelta del libro di Doctorow, che mi risulta invece difficile associare all’entusiasmo (presente o assente).

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