domenica 18 marzo 2018

Italiani poco "noir" - 18 marzo 2018


Anche qui il riferimento non è alla politica, cui lascio spazio altrove, ma alle pubblicazioni italiche di prodotti legati al giallo, al poliziesco, al noir, o a come volete si chiami la “letteratura di genere” (orrendo neologismo). Perché se Repubblica giustamente cerca di promuovere scrittura interessanti di autori italiani, questi 4 esempi certo non fanno una grande pubblicità alla tipologia di scrittura. Alcuni sprazzi, ma poco realmente coinvolgente, anche se con punte di passione (leggi Forcellini) che mi hanno sinceramente coinvolto. Visto che sono in polemica con Repubblica, segnalo qui un’altra pessima iniziativa editoriale: con la scusa che sono “noirissimi”, stanno ripubblicando romanzi della collana “Italia Noir” uscite solo due anni fa. Forse hanno fondi di magazzino invenduti, ma è una iniziativa veramente squallida.
Roberto Centazzo “Squadra Speciale minestrina in brodo” Repubblica Italia Noir 13 euro 7,90
[A: 01/09/2016 – I: 20/09/2017 – T: 21/09/2017] - & +
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 205; anno 2016]
Seppur interessante nell'impostazione, la collana Repubblica dedicata al noir italiano è spesso molto ondivaga. Alcune buone uscite ed altre insufficienti o molto insufficienti. Come questo libro di Centazzo, dalle premesse che incuriosivano ma dalla riuscita poco felice. Invero, una prima prova veramente deludente. Certo, qualche sorrisetto d’ironia punteggiato ogni molte pagine, ma una storia poco avvincente, e, a parte alcuni contorni che dirò poi, assolutamente priva di gialli, di polizieschi, di suspense. L'idea di fondo, tra l'altro, sembra tributare un doveroso omaggio alla lontana ai primi vecchietti di Malvaldi. Anche se Centazzo i suoi "pensionati" li fa agire in prima persona, dato che sono ancora nel pieno della forma. Ma dall'idea alla realizzazione purtroppo si perde molto. Innanzi tutto perché Centazzo indulge a lungo nel vezzo di andare su e giù per l'ultimo mese di lavoro e per il primo mese da pensionati dei nostri, con un andamento che se fosse stato lineare forse poteva risultare più avvincente. Forse ci si doveva ricordare più cose, mentre il vezzo di andare su e giù permette di avvicinare due avvenimenti lontani nel tempo, ma vicini come intenzioni ed effetti, così che il lettore non deve neanche fare un piccolo sforzo con i suoi pochi neuroni. I ricordi a lungo termine, invece, sono corretti, che riusciamo a vedere alcune azioni dei nostri all'inizio delle loro carriere. Quando, ad esempio, da bravi poliziotti alle prime armi agivano come servizio d'ordine alle manifestazioni. Interessante infatti quell'inserto sulle manifestazioni alla Scala con conseguenti problemi verso pistole sparite e ritrovate. Ma questi voli servono solo a dare un contorno maggiore ai pensionandi/pensionati. Che nel momento fatidico, invece di prendere una sedia e mettersi a guardare i lavori stradali come facemmo ridicolmente io e Anto, decidono che non è il caso di mettere al chiodo le proprie abilità. Inscenando una squadra investigativa, che possiede l’unico elemento ironico riuscito: i nomi in codice. Kukident quello dalla dentiera traballante, Maalox quello dalla difficile digestione e Semolino quello accudito dalla sua bella con le minestrine da anziano. L'altro elemento che fa scendere verso il basso il gradimento del libro, come dicevo, è poi la quasi totale mancanza di suspense. I nostri tre vanno in pensione, si aggirano senza saper bene cosa fare, finché la morte di un migrante noto a Semolino scatena nei nostri tre la voglia di riprendere le indagini. Di prendere vecchie scartoffie che non avevano portato a compimento durante il servizio attivo, per tutta una serie di motivi (ma noi ci domandiamo perché non lo hanno fatto, perché la polizia sembra essere sempre in difetto). Mentre svolgono le indagini sulla morte di Mohammed, veniamo edotti anche sulle storie personali dei tre. Kukident vedovo con figlia e cane. Maalox secco e sportivo. Semolino con una storia con Jasmine, prostituta o ex. Mohammed è un migrante cui i caramba sequestrano la merce, che non ha pagato, quindi per monito, viene prontamente ucciso. Da vecchie indagini Semolino ha un punto d'aggancio su dove i “vu cumprà” si riforniscono. I tre preparano un appostamento, vedono, seguono, scoprono. Nell’appostamento Semolino conosce anche Marika, un trans che ora ha definitivamente cambiato sesso. Seguono una macchina, scoprono degli altarini, capiscono che di mezzo c’è anche qualche “pezzo grosso”. Tanto che, nascostamente, fanno anche intervenire l’unico poliziotto ufficiale che li copriva. E che, come ovvio, si prenderà il merito della soluzione del caso. Rimanendo poi loro tre, a futura memoria per altre imprese. Kukident con la figlia che tenta di farlo stare a riposo tanto da regalargli un cane. Maalox che continua ad andare a piedi così rimane in forma. E Semolino che probabilmente avrà una storia anche con Marika, mentre penso che solo in altre storie (che non credo leggerò) risolverà i suoi rapporti con Jasmine. Centazzo tenta di mettere molta carne al fuoco: migranti senza lavoro, approfittatori senza scrupoli, sesso a pagamento, identità sessuale, lavoro e post-lavoro, inerzia del pensionato abituato da sempre ad un certo tipo di vita che, una volta privatone, non sa più che fare. Non certo come noi, che abbiamo ben presente cosa fare, ora che abbiamo tempo e spazio a disposizione. Con un filo di razzismo subliminale, ed anche qualche colpo a botti che non mi suonano poi tanto bene. In sintesi finale, una lettura da scordare presto.
Paolo Forcellini “La tela del Doge” Repubblica Italia Noir 15 euro 7,90
[A: 20/09/2016 – I: 02/10/2017 – T: 03/10/2017] - && -
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 237; anno 2016]
Non conosco direttamente Forcellini, ma è amico di un mio amico, e questo predispone in ogni caso ad una lettura più accurata. Mai benevola, ma attenta. Il libro è inoltre inserito nella collana ben degna del Noir in giro per l’Italia, altra cosa che solletica il mio buon umore. Fatte queste premesse, devo dire che la scrittura è piacevole (d’altra parte un giornalista come Forcellini deve saper usare le parole) ed anche piena di piccoli spunti gradevoli, soprattutto per una persona come me sempre attenta ai marginalia delle città. E Venezia di tali spunti ne offre un numero praticamente infinito, come tutte le grandi città cariche di storia (penso alle mie amate Roma e Parigi). Così non dispiacciono queste piccole divagazioni sui campi, sui canali, sulle isolette, e sulla storia grande e piccola di un suolo amato. In particolare se, come la vicenda narrata, si inserisce nel periodo di Carnevale, un periodo amato – odiato dai locali e dai turisti. Ricorderò sempre, la mia giovinezza veneziana, ed il carnevale accanto ad un attempato signore, vestito di tutto punto, con un bel cappotto di cammello e … uno scolapasta a mo’ di cappello. La storia in sé, invece (ed è il motivo dei pochi libri di gradimento) non si eleva molto e rimane piattina e scontata. Anche perché, nel corso narrativo, pochi sono i momenti in cui ci si domanda seriamente cosa stia succedendo, perché Nene è morto, e come, ed altre giallistiche interpretazioni. Scorre tutto discretamente, ma Forcellini ci fornisce su di un piatto fin troppo facile motivazioni, soluzioni, antefatti ed epiloghi conseguenti. Anche i personaggi non riescono ad essere tipicizzati più di tanto. O forse, sono eponimi di personaggi che conosciamo da tante e tante letture, da tanti e tanti anni di vita, che poco ci sorprendono. Abbiamo così il commissario Marco Manente, bravo, indagatore, conoscitore della sua Venezia, ma anche amante del buon vino e delle belle donne. Il suo vice, Santamaria, che viene dal Sud, ed ingaggi divertenti duetti verbali con il commissario, un po’ giocando sulla rivalità territoriale, un po’ sulle conoscenze storiche della nostra Italia. Dall’altra parte, gli attori della vicenda. Nene, giovane sfaccendato, poco incline al lavoro e molto alla coca, abbastanza sciupafemmine, ma con anche qualche frequentazione dei tempi liceali della buona borghesia veneziana. La sua donna attuale, Debora (senza l’H per fortuna), bigliettaia di cinema che arrotonda il salario con qualche prestazione extra. La sua amante Ludovica, attratta dallo stallone, ma portata ben presto a dimenticarlo. Galileo detto “Canocial” perché non ci vede ad un passo, gigante buono ma senza arte né parte, un po’ succube di Nene, ed un po’ incapace di fare altro che un po’ di falegnameria (imparata in riformatorio). Aldo detto “Ciosoto”, perché si dice venga da Chioggia, un vero malavitoso di stampo d’antan, che faceva anche parte della Mala del Brenta, da cui eredita i modi spicci, ma abbastanza oculato da non essere mai stato in carcere. I tre vengono ingaggiati per il furto di un Carpaccio, in un museo dove il committente sa come non far scattare i sistemi di allarme. Peccato che il guardiano notturno si metta di traverso, ed il Ciosoto pensa bene di freddarlo. Peccato anche che una settimana dopo anche Nene viene ucciso a bruciapelo, guarda caso con una pistola dello stesso calibro di quella usata nella rapina. Manente ed i suoi tentano di risolvere questo caso, non trovando appigli. Solo collegando i due casi, e quindi escludendo motivi di gelosia (dopo una notte sregolata del commissario con Debora che porterà momenti ilari in commissariato), la Questura farà passi in avanti. Che diventeranno decisivi quando Galileo capisce di essere lui il prossimo bersaglio. Spinto dal nuovo amore verso la svizzera Helga (ah, gli svizzeri) si fa furbo, rovescia le trame, fornendo a Manente una solida pista verso Aldo ed il committente, prima di riparare, felicemente anche se non facilmente, in Svizzera, dove farà perdere le sue tracce. La parte migliore, anche se forse un po’ troppo orientata (e scarsamente verosimile nell’Italia di oggi), vede tutte le piste convergere verso il Ciosoto ed il famigerato committente misterioso. Manente avrà modo di sfoderare le sue arti poliziesche per dipanare l’ultima matassa in barba a tutti. Con un epilogo quasi rosa tanto per permettere all’autore di agganciarsi ad un secondo possibile episodio. Insomma, la scrittura scorre, ma non avvince il giallo. Anche per quelle, comprensibili ma improbabili cadute verso un Paese che tutti vorremmo fosse il nostro, ma che, sinceramente non lo è ancora. Però Forcellini non mi è dispiaciuto per la passione che si sente trapelare tra le righe.
“In ricordo dell’antica usanza di mescere … [vino] ai piedi del campanile di San Marco, utilizzando la sua grande ombra per tenere la bevanda e gli avventori al fresco. Per questo nella Serenissima un bicchiere di vino viene comunemente chiamato ‘un’ombra’” (10) [per esemplificare gli inserti gradevoli dell’autore]
Mariolina Venezia “Come piante tra i sassi” Repubblica Italia Noir 14 euro 7,90
[A: 30/08/2016 – I: 23/11/2017 – T: 24/11/2017] - && +
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 250; anno 2009]
Non ho letto il primo celebrato libro di Mariolina Venezia (quando vinse il Campiello nel 2007 con “Mille anni che sono qui”), quindi per me è una scoperta come scrittrice, come scrittura, e come ambientazione. Complessivamente una prova discreta, che, sebbene inserita ed inseribile nelle scritture “Noir” ha anche qualcosa in più, con un tentativo di scrivere di una città e di una regione non molto al centro delle cronache italiane. E tuttavia anche qualcosa in meno, che non riesce mai realmente a decollare, rimanendo di un libro di buona lettura, con qualche spunto, ma non particolarmente riuscito. Possiamo farne una lettura su due canali ben distinti. Se lo guardiamo come libro “giallo” ha alcune caratteristiche fondanti di una possibile scrittura seriale: un’investigatrice simpatica, anzi più che investigatrice, Immacolata Tataranni detta Imma è sostituto procuratore, addetta alle indagini. Ben costruita, come personaggio: bassina, rotondetta, self-made woman venuta su dalla gavetta, costruitasi con “sangue, sudore e lacrime” come direbbe Churchill. Con una memoria elefantiaca che l’aiuta là dove non arriva l’intelligenza, ed una propensione alle relazioni sociali pari a quelle dell’aglio (immagine rubata ma che mi piace molto). Comunque con ben in mente dove sia il bene e dove sia il male, chi siano (o possano essere) i cattivi e gli approfittatori. Ha un marito non molto presente, ed una figlia dalle turbe adolescenziali (o pre). È aiutata nelle indagini dall’appuntato Caligiuri, verso il quale ha trasporti non proprio da capo (quasi che potesse nascere un legame, tale che in una serie darebbe adito a puntate su puntate). Anche perché Caligiuri non solo è simpatico, ma anche ben presente nello scoprire possibili connessioni malavitose ed altre cose “da poliziotto”. Lo possiamo però anche vedere come un nuovo spaccato della vita del Sud, in particolare in una regione non particolarmente baciata dalla fortuna delle lettere e delle vicende italiche. Da quel lontano Cristo che si fermò ad Eboli, poco ci viene dalla Basilicata letteraria, anche se potrebbe essere una mia mancanza (che a parte la scrittrice presente, ho in mente solo Gaetano Cappelli e Rocco Scotellaro come altri esponenti della moderna regione). E lo scritto di Mariolina potrebbe (può) essere visto come un tentativo di darci uno spaccato di quelle terre, da un punto di vista non tradizionale. Così certo possiamo vedere e gustarci un ritorno a Matera, città che amo con la sua irresistibile alterità, ai suoi “Sassi” ed alla campagna intorno. Ma anche ai personaggi, che, nel bene e nel male, popolano quella terra (ma anche il resto d’Italia). Gli arricchiti, i potenti che evadono il fisco, che rubano reperti archeologici. La piccola borghesia lucana, con tutti i rapporti di connivenza e di copertura che si istaurano. E poi i contadini, i personaggi legati alla terra, che da quella traggono idee e sostegni. Gli immigrati, sia poveri che raccolgono pomodori, sia più “agiati” come le badanti, generalmente ucraine, generalmente capaci di emanciparsi, o di aiutare gli ugualmente poveri locali. Per finire con “i reduci del ‘68”, quelli che hanno fatto cortei e rivoluzioni, che hanno rifiutato il posto fisso per non cadere trappola di orari, capi e capetti. Che dipingevano murales in campagna, che mettevano su comuni vissute come se fossero l’ultima spiaggia. Questi due mondi si intrecciano in seguito alla morte (omicidio) di Nunzio, seguendo le orme del quale Imma scoperchia la Basilicata del malaffare, con i raggiri legati allo smaltimento di rifiuti tossici. Indagini che la portano a scoprire illeciti di ogni tipo: trafugamento di beni archeologici, smaltimento abusivo di rifiuti tossici, connivenze e complicità nelle alte sfere, tanto che, quando le indagini del sostituto sembrano essere arrivate alla scoperta della verità, le vengono sottratte dal superiore. C’è anche un’adolescente incinta, nonché una soluzione, almeno della morte di Nunzio, che di certo non ci si aspetta. Ma, come ormai chiaro, il giallo è (anche) un pretesto narrativo per descrivere il paesaggio delle campagne lucane, le tradizioni, i canti popolari, le masserie abbandonate. Una visione che Venezia contrappone alla descrizione dei giovani tecnologici, con abiti firmati e abitudini borghesi (l’odioso aperi-dinner!). con una piccola trama ironica, che attraversa tutto il libro nel tentativo di Imma di prendere in castagna l’impiegata del comune Maria, nonché moglie del prefetto, che si fa timbrare il cartellino per andare a far shopping nelle boutique del centro. Si vede che, benché non in modo lineare, la scrittrice tenta di darci un flash composito di questa terra, che lei (ma anche noi) profondamente ama. Purtroppo non un libro compiuto, anche se poi seguito da un secondo (“Maltempo”) che però non leggerò (almeno per ora).
 “Se non sai chi eri come fai a sapere chi sei? … E a distinguere i nemici dagli amici?” (135)
Carlo Flamigni “Un tranquillo paese di Romagna” Repubblica Italia Noir 20 euro 7,90
[A: 11/10/2016 – I: 19/01/2018 – T: 20/01/2018] - && --
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 172; anno 2008]
Peccato! Dopo un inizio promettente, lo scritto del dottore in pensione Carlo Flamigni si è andato spegnendo, e incupendo in una trama abbastanza scontata, seppur con un piccolo sussulto finale. Flamigni è romagnolo, e si sente nello scritto quando usa i toni sanguigni per descrivere la sua terra, i suoi abitanti, le manie, le partite a “maraffone” (un gioco di carte romagnolo che si spiega quando lo si chiama con il nome italiano “tresette con taglio”). Flamigni, da medico, si è sempre occupato (anche) di bioetica, di contraccezione ed altre nobili cause, ed anche qui se ne hanno nello scritto alcuni sentimenti (seppur lontani e velati). Tuttavia, quando entriamo nel vivo dell’azione poliziesca o investigativa, il passo cede, la mano si arresta un poco, e si perdono molti dei punti accumulati. Dicevo, la parte migliore è l’avvio, quando ci presenta la compagine al centro dell’azione e dell’investigazione. La famiglia (allargata) Casadei (e già il cognome è un bel salto in Romagna). C’è il padre, Primo, detto “Terzo” perché non aveva mai brillato gran che nello studio e nella giovinezza, trovando solo in tarda età (avvicinandosi alla cinquantina, credo) uno sbocco alle sue capacità neuroniche nello scrivere e nel ragionare, soprattutto con il suo amico poliziotto (di cui sotto). C’è la madre, Maria, nome italiano ma lei è cinese, ed è entrata nella vita di Primo in qualche storia precedente, ma a pieno titolo. Perché parla solo cinese e romagnolo, e non italiano. Ci sono le gemelle (quasi cinque anni, credo) Berenice e Beatrice. C’è l’ottantenne, che aiutò e rimase legato a Primo, tanto da entrarne a far parte del giro, di cui non sabbiamo il nome, ma che, conoscendo tutti i detti romagnoli (ed anche qualcuno in più) viene chiamato Proverbio. Infine c’è il ventenne di fisico ma molto più indietro di intelletto, Pavolone, un gigante rabelaisiano diventato factotum e guardia spalle della famiglia Casadei. Come accennato, c’è anche il poliziotto amico, che, venendo da una famiglia di melomani, è stato chiamato dai genitori Macbetto (terribile! anche se potrebbe essere un omaggio al grande Giovanni Testori). Passabile anche l’introduzione della gente del paese dove Primo & soci vanno a passar l’estate per curare una gemella malata. Dove incontriamo il maestro di scuola, giovane molto preparato, ma un po’ sfuggente, il veterinario che, si dice, sia uso a piccoli traffici utilizzando gli animali di compagnia, il medico, preparato di certo, ma che ha in odio i bambini per un non sanato astio con l’ex-moglie, il gestore della sola locanda del luogo, che cerca di arrotondare gli incassi provando a ricattare le coppie irregolari che frequentano il suo albergo, il prete, colto, preparato, dai bei sermoni, ma cupo e roso da qualcosa che la gente di paese non riesce a sapere, il pittore, che gira per la campagna, baldo e spavaldo, a ritrarre luoghi e persone, quasi a mo’ di moderno macchiaiolo. Ciò detto, quando si incomincia a fare sul serio, quando il dramma irrompe sulla scena, tutta questa introduzione, che sembrava volgere al leggero, se non al faceto, si tramuta in dramma. Viene barbaramente uccisa una bambina coeva delle gemelle. Poi viene tentato anche il rapimento di Beatrice. Viene altrettanto malamente ucciso un bambino di dieci anni, mago dei videogiochi. Insomma, si entra a pieno titolo nell’ordalia di una pedofilia annunciata. Ma di certo strana, come rilevano Macbetto e Primo. Che non si ha serialità, anzi c’è molta casualità. E noi che abbiamo letto di molto sappiamo che un serial killer casuale è introvabile. Tuttavia Primo non demorde, e mentre si addentra nella ricostruzione della storia del nonno (gradevole ma che è fuori contesto), entrando in contatto con gestori di archivi comunali, professori in pensione, nonché gente della curia, scopre qualche altarino poco simpatico. Il prete pare abbia abusato di due ragazzi quando era insegnante. Roso dal rimorso, viene messo a “bastone corto” dal vescovo e spedito in campagna ad espiare. Sappiamo poi che uno dei due è proprio il maestro, che però non sembra dedito a pratiche “illecite”, anzi si confessa e si comunica tutte le settimane. Si scopre inoltre che il pittore è fratellastro del secondo ragazzo (morto anni addietro per overdose). Quando poi viene trovato ucciso il veterinario ed anche il pittore trova la morte, Primo capisce più connessioni di quante ne abbiamo capite noi. Ed il tutto si avvia verso una fine altrettanto e discretamente truculenta. Tra confessioni, contorcimenti e pentimenti tardivi. Tutto però cupo e non più solare come l’inizio. Una prova di basso profilo, che sarebbe stata più interessante se avesse mantenuto il profilo farsesco. Non regge tensioni “nere”, non riesce a costruire atmosfere cupe. Certo, alla fine sapremo tutto, ma non ne saremo particolarmente coinvolti. Flamigni ha questa scrittura double face, che regge bene il lato ironico, ma decade nel lato “noir”, ed è un peccato. Che alla fine se c’è l’intento di colpire il clero deviato (come detto in una trama su Simoni, ci vuole altro per parlarne, non certo un giallo di poco peso), il risultato è poco felice e poco convincente. Poiché questo meriterebbe altre parole, io mi fermo qui.
Terza trama, e quindi cerchiamo di renderci felici, magari leggendo accanto ad un camino (ma solo nel fine settimana), la grande saga di Margaret Mitchell, come cerco di illustrare in allegato.
Per il resto, si sta alla ricerca di un buon passo di ricostruzione di case, alloggi, ed altre situazioni, che ognuno sa, anche se difficilmente pratica, la manutenzione essere una delle cose più difficili da perseguire, anche per chi è molto zen. Sperando di avervi confuso le idee, vi risollevo il morale con molti abbracci.

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni

MARZO 2018
Facciamo un salto con tripla capriola all’indietro: si torna alla guerra civile americana, all’infanzia della TV in bianco e nero ed al superbo e lunghissimo volume “with the wind”.

TERAPIE D’AMORE (IX)

VIA COL VENTO di MARGARET MITCHELL (1936)

Pillole di trama       
Tutti conoscono, almeno per grandi linee, la trama di “Via col vento”, anche chi non ha letto il romanzo. Tutti, infatti, hanno visto il film. Se non lo avete fatto, siete davvero un caso patologico da curare oltre che da studiare. Detto questo, mi limito a dire che il libro è un incredibile affresco storico e melodrammatico che racconta, in oltre mille pagine, le vicende sentimentali di Rossella O’Hara sullo sfondo della guerra di secessione.
Supposta-saggezza
Se vi piacciono le lunghe e appassionanti epopee dove amore, guerra, lacrime e sangue si amalgamano in un appetitoso polpettone cotto a puntino e condito alla perfezione, adorerete il romanzo di Margaret Mitchell che più o meno tutti (tranne i casi patologici di cui sopra) abbiamo assaggiato, gustato e quasi sicuramente riassaggiato più e più volte nella sua gustosissima variante “pizza” ovvero in pellicola, nella versione cinematografica. Fedelissimo al libro, il film è entrato nell’immaginario collettivo in maniera indelebile così che leggendo il romanzo Rossella ha il volto di Vivien Leigh e Rhett quello di Clark Gable; per tutti Tara e Atlanta sono quelle ricostruite negli Studios di Hollywood e voltando le pagine si ha quasi l’impressione di sentire nella testa le note della celeberrima colonna sonora. Goffredo Parise ha definito il romanzo «una specie di “Guerra e pace”, o meglio di “Gattopardo” ma americano». Se avete quindi il timore che il polpettone sentimentale della Mitchell vi si piazzi sullo stomaco con la sua considerevole mole non temete, perché è un incredibile racconto spettacolare all’americana. E gli americani sanno bene cosa sia lo spettacolo, l’entertainment, ne conoscono i meccanismi di fascinazione e li applicano in ogni campo, dal cinema alla letteratura passando per la cucina. Margaret Mitchell intrattiene i lettori con un tourbillon grandioso di feste, balli, città in fiamme, bombardamenti, ospedali che pullulano di soldati sanguinanti, tramonti infuocati, fughe, baci appassionati, litigi impetuosi, illusioni d’amore, amori travagliati, amori non corrisposti, amori d’interesse. Parte del successo del romanzo, unico dell’autrice e vincitore del Pulitzer, è garantita soprattutto dall’incisività dei personaggi. La vera forza di “Via col vento”, diciamolo francamente, è la sua protagonista, senza dubbio uno dei personaggi più forti e originali della letteratura. Antieroina per eccellenza e lontana dal prototipo della protagonista femminile da romanzo d’amore, Rossella è un vortice di difetti: capricciosa, viziata, vanitosa, incostante, presuntuosa, furba e calcolatrice. Senza contare che, da brava sudista, è a favore della schiavitù. Vi farà saltare i nervi, metterà a dura prova la vostra pazienza, la troverete insopportabile. Ma Rossella è anche un fuoco di energia, fascino e forza d’animo, è moderna e volitiva nel suo rifiuto di essere sottomessa a un uomo, tenace e coraggiosa nel voler difendere a tutti i costi le sue radici, e riesce a conquistare anche il lettore più infastidito e glaciale, inchiodandolo al libro fino all’ultima pagina. Come i personaggi del romanzo, tutti subiamo il suo fascino e tutti ne siamo schiavi. Possiamo tentare una timida ribellione ma poi dobbiamo arrenderci perché Rossella è più forte.
Chi non conosce, anche grazie al film, la celebre frase: «Dopotutto domani è un altro giorno»? Basta questa battuta perché l’insopportabile e opportunista Rossella si trasformi nella paladina di tutti i cuori calpestati dalla vita, interprete di una variante più individualista del «yes we can», ovvero «yes I can», posso farcela perché «dopotutto domani è un altro giorno». Non c’è l’happy ending per Rossella (anche se siamo certi che farà di tutto per rialzarsi e riprendersi il suo Rhett e, conoscendola, ci riuscirà) ma il suo esempio e la sua forza di carattere sono in grado di rendere happy il lettore.
Posologia
“Via col vento” è un rimedio idoneo ad affrontare situazioni di convalescenza di varia natura, tutte quelle in cui si è inchiodati a casa, annoiati e pure un po’ capricciosi proprio come Rossella. Trasportati da un vento impetuoso di passione, storia, amore e guerra, s’inganna il tempo evitando anche di sfinire chi ci sta intorno con la nostra sofferenza e i nostri acciacchi. D’altra parte Margaret Mitchell ha scritto il libro durante una lunga convalescenza, quindi tutto torna. Oltre a essere un ricostituente che favorisce il recupero emotivo dopo brutte relazioni amorose che stendono peggio dell’influenza, malanni sentimentali e altre calamità naturali che la vita tiene sempre da parte per spezzarci le gambe e il cuore, consente anche di reintegrare al bisogno la quota fisiologica di forza d’animo. La ferrea e testarda volontà di Rossella aiuta l’organismo a rispondere alla sensazione di debolezza con il recupero delle energie necessarie per combattere eventuali avversità. Se in amore la sua cocciutaggine diventa il capriccio ottuso di inseguire un uomo, Ashley, che non la ama (o ha paura di amarla), nella vita pratica diventa quella marcia in più che le permette di affrontare guerra, epidemie, incendi, lutti, perdite e dispiaceri di ogni genere.
Proprio in virtù dell’ostinazione della protagonista, il romanzo è un valido aiuto per chi ha la tendenza a fissarsi inseguendo un’idea d’amore irrealizzabile che alla lunga diventa puntiglio, ovvero per chi non si arrende all’amore non corrisposto. Rossella si impunta nella convinzione che Ashley sia l’uomo della sua vita e passa anni a inseguirlo, braccarlo e bramarlo senza rinunciare a lui neanche quando sposa l’adorabile, dolce e paziente Melania. Conquistarlo diventa una questione di principio a cui non vuole rinunciare (nel frattempo cede alla corte di altri uomini perché è una romanticissima opportunista innamorata della sua terra che deve salvare a tutti i costi), e non si accorge neanche che, tutto sommato, Ashley è piuttosto scialbo, debole e pure un po’ codardo. Se Rossella fosse più lucida, vedrebbe chiaramente che non regge minimamente il confronto con Rhett: uno è il bravo ragazzo, noioso e insipido anche se dotato di buon senso, e l’altro è l’irresistibile canaglia capace di sbattere la porta in faccia all’amore pur di mantenere la dignità. Rhett è strafottente, meschino, anticonformista ma anche coraggioso, sincero, ironico e sorprendente. La noia non sa neanche cosa sia. Obiettivamente, a livello di fascino e carisma non c’è lotta. Anche nel film: vogliamo mettere i tristi capelli biondi e ondulati di Leslie Howard contro i baffetti insolenti e malandrini di Clark Cable? Rossella pecca di vanità: vuole l’unico uomo che non può avere e tira troppo la corda facendo scappare quello della sua vita. Quindi, per ritrovare lucidità mentale e disintossicarsi dalle utopie amorose, si suggerisce la somministrazione di “Via col vento” prima che sia troppo tardi e qualcuno, magari quello giusto, vi abbandoni nonostante le suppliche e gli occhi dolci. Nel caso in cui fosse troppo tardi, il vostro Rhett se ne fosse già andato e voi vi ritrovaste avvolte nel piumone con il cuore in fiamme a piangere sui vostri errori, la cura a base del romanzo della Mitchell è perfetta per rimettervi in piedi e ripartire. Magari il giorno dopo.
Infine, l’incipit del romanzo è un valido antidoto per stroncare quel pregiudizio femminile che provoca repentini e ripetuti cali d’autostima, ovvero l’idea che la bellezza sia tutto per conquistare un uomo: «Rossella O’Hara non era una bellezza ma raramente gli uomini se ne accorgevano quando [...] ne subivano il fascino». Se Rossella, che non è una bellezza, è antipatica e piena di difetti, riesce a far cadere ai suoi piedi tutti gli uomini che incontra, allora c’è speranza per tutte. Va bene, non riesce a conquistare l’unico uomo che desidera, ma Ashley è l’eccezione alla regola. Per una sensazione di sollievo, spalmare il concetto sui lividi dell’autostima fino al totale assorbimento.
Effetti collaterali
Oltre all’insano vagheggiamento d’essere baciate con lo stesso ardente trasporto di Clark Gable, l’effetto collaterale riscontrato più frequentemente è il desiderio di avere una personale Mami, la mitica, prosperosa e sagace tata di Rossella, sempre a disposizione per dispensare coccole e saggi principi come il concetto che «quello che giovanotti dire e quello che pensare essere due cose».
Terapia cinematografica sostitutiva
Se la cura letteraria ha avuto effetto, vi sentite ristabiliti e pronti a rimettervi in piedi per voltare pagina, concedetevi un’ultima serata involtolati nel piumone dello sconforto amoroso per godervi uno dei film più belli della storia del cinema, apoteosi del grande spettacolo hollywoodiano, scommessa vinta dalla testardaggine e dal fiuto del produttore David O. Selznick.
Raramente la versione cinematografica di un romanzo è riuscita a mantenerne intatta la resa narrativa come il film di Victor Fleming. Ritroviamo la stessa atmosfera e i personaggi così come Margaret Mitchell li ha descritti nel suo racconto sentito e appassionato della guerra di secessione. Come il libro, anche il film è una storia d’amore, un affresco storico e un racconto di guerra che, con il suo finale inneggiate alla possibilità di ricostruire un mondo andato in frantumi, fu in grado di infondere coraggio all’indomani dello scoppio della seconda guerra mondiale. Perché un film, come un libro, ha questo potere. Con gli occhi e il cuore confortati e affascinati da uno spettacolo indimenticabile, anche voi vi sentirete davvero pronti a ricominciare da capo per andare “Via col vento” (in poppa).

Commenti

Casualmente, ho parlato di “Via col vento” meno di un mese fa, ma ne riparlo volentieri, perché è un libro che merita di essere letto, anche con calma, come sostengo sopra.
Margaret Mitchell “Via col vento” Mondadori euro 12
[pubblicato il 25 febbraio 2018]
Devo dire che anche un lettore discretamente veloce come il sottoscritto, non può che riservare un congruo lasso di tempo ad un libro che supera le 1000 pagine. Un libro, inoltre, per diversi versi interessante, ben riuscito, e discretamente coinvolgente. Certo, se uno ha visto una mezza dozzina di volte il film (come il sottoscritto) non c’è più di tanto il piacere della scoperta della trama. Ma c’è il piacere della scrittura, che non stanca nonostante la lunghezza. C’è il piacere di scoprire le piccole differenze che ci sono tra film e libro. C’è il piacere di veder scorrere le avventure di Katie Scarlett O'Hara Hamilton Kennedy Butler (o solo Rossella nella versione tradotta) e Rhett K. Butler e degli altri personaggi, avendo in mente Vivian Leigh, Clark Gable, Leslie Howard e Olivia de Havilland (tanto per ricordare i personaggi principali). Perché, come quasi tutti, ho visto il film prima di lanciarmi nella lettura. Quindi le immagini si sovrappongono, lasciando comunque alla fine la sensazione che, pur con due mezzi espressivi diversi, libro e film abbiano raggiunto i loro scopi. Ma qui si parla di scrittura, ed al libro torniamo. Un libro che celebra l’epopea del Sud, poco prima, durante ed un po’ dopo quella grande ferita americana che fu la Guerra Civile del 1860. Si, proprio mentre noi si celebrava l’Unità d’Italia, lì si consumava una ferita che, forse, ha ancora strascichi passati che siano 150 anni. Il libro in realtà è un grande affresco, che tocca varie corde romanzesche e storiche, proprio per dipingere, con gli occhi del Sud, gli avvenimenti e la vita e le persone di quegli anni. Proprio la parte storica, benché tinta di qualche rimpianto di troppo, è quella più curata dall’autrice, che spese lungo tempo in ricerche, e che riporta date e fatti con notevole precisione. Una parte storica che vede certo alcuni lati della medaglia della Georgia. I neri erano funzionali al sistema, fornivano manodopera a basso costo, ed altri dettagli. Non erano solo carne da macello. Ma di converso, non tutte (anzi ben poche) erano le famiglie “alla O’Hara”, che avevano un rapporto non conflittuale (o non molto conflittuale) con la manovalanza. Era il sistema di vita, tale che, per far piacere al suo capoccia nero, Gerald O’Hara (il padre di Rossella) compera dai vicini la schiava che il suo amato Pork aveva messo incinta. Era una vita di feste, di cavalli, di pizzi e merletti femminili. Che avrebbe permesso, a chi voleva, anche di poter fare il “gentiluomo di campagna”. Come avrebbe voluto fare l’esimio Ashley Wilkes, che mai avrebbe voluto fare il soldato. Che sarebbe stato contento di stare in casa a leggere i suoi amati greci. E che, una volta diventato capo-famiglia, avrebbe anche liberato i suoi “schiavi” negri, facendo scegliere loro se e come restare nella casa delle “Dodici Querce”. Una ricerca storica che presenta anche un solo lato degli “yankee”. Loro, come tutti i soldati del tempo, come tutti gli approfittatori di situazioni estreme, sono “brutti, sporchi e cattivi”. E di certo ce n’erano. Come ovunque. Come anche nei gentiluomini del Sud, che puniscono nottetempo bianchi e neri malvagi. Ma Mitchell lo dice (cosa che non fa il film) che quello era il Ku Klux Klan. E non erano solo buoni vendicatori come Frank Kennedy, ma anche (e tuttora) razzisti e profittatori. Insomma, c’è molto di più di quello che potrebbe mostrare un romanzo (e prima o poi ci si tornerà sopra). Anche perché lo stesso Rhett è un emblema del difficile momento di quelle terre. È un miserabile che sfrutta situazioni favorevoli, che ruba anche (e lo confesserà), ma che ha anche la sua schiettezza, quella che gli fa dire, fin dall’inizio, che il Sud ha tutte le ragioni per perdere una guerra con il Nord. Una su tutte: non ha fabbriche di armi. Seconda su tutte: l’esercito (soprattutto all’inizio) è fatto da gentiluomini e non da soldati di professione (come sono le giacche blu che da tempo combattono per tutto il territorio americano). Secondo tema del libro è quello dei risvolti umani, delle relazioni, delle storie d’amore. Con al centro la nostra Rossella. Che attraversa le mille pagine del romanzo con tre matrimoni e tre figli (uno per matrimonio). E con uno sbaglio di fondo: pensa di amare Ashley e pensa che lui la ami. Per questo sposa Charles (Carlo) Hamilton che muore subito e senza lasciare traccia. Che per trovare soldi per mantenere la fattoria, la mitica Tara, sposa Frank (Franco) Kennedy. Non solo trova soldi, ma anche un suo ruolo, anche se non ben accetto, all’interno della società georgiana post-guerra. Diventa imprenditrice, si fa spavalda. Tanto da subire quasi uno stupro, che porterà i suoi vecchi sodali (i Wilkes, i Kennedy, i Tarleton e tutti gli altri) a cercare di vendicarla uccidendo il bianco cattivo. E quasi cadendo nella trappola delle giacche blu. Da cui vengono salvati proprio dal “malvagio” Rhett. Tutti meno il povero Kennedy che ci lascia le penne. Da qui la tormentata storia d’amore tra Vivian e Clark ha i suoi punti e spunti migliori (spesso espunti nel film, che ci fa perdere tutte le battute pungenti di Rhett). Avrà tutto ciò il suo culmine con la morte della figlia dei due. Diletta Butler (“Bonnie Blue” nell’originale) cade da cavallo come cadde e morì il vecchio Gerald. Una ferita insanabile tra i due. Che diventa rottura alla morte di Melania, l’unico elemento equilibratore di tutta la storia. Morte che fa capire a Rossella che per 950 pagine non aveva capito nulla di Ashley. Morte che nelle ultime meno di 100 pagine cerca di tirare le fila della parte romanzesco-rosa del libro. Che ci serve solo a capire quanto tempo ci vuole per maturare. Ma d’altra parte, se guardiamo le date, il libro comincia che Rossella ha 16 anni e finisce quando ne ha sui 28. Vi ricordate voi, come eravate in quel lasso di tempo? Ce ne vuole di tempo pe capire sé stessi (se mai lo si capirà). Inciso, alla fine del libro, Rhett di anni ne ha 45, cioè 17 più della sua amata. Perché nonostante alla fine si lascino (e lo sappiamo bene, avendo visto il film), sappiamo anche, sebbene il libro lanci luci ed ombre sul loro rapporto, che quello tra Rossella e Rhett è, tutto sommato, amore. Infarcito da incomprensioni, immaturità (di Rossella), presupponenza (di Rhett). Insomma, un libro che è un vero micro cosmo di quasi tutto. Un libro che fa riflettere sulla poca lucidità di chi non capisce (e non accetta) l’evolversi del tempo. Un libro che ci fa pensare quanto sia meglio domandare che aspettare risposte a richieste non fatte. Un libro che mi è piaciuto, che tutti i miei sostegni di cura per la vanità e per la felicità consigliano, e con ragione. Un libro che, pur essendo uguale, è diverso dal film. Dove c’è la lunga storia del viaggio dalla natia Irlanda alle nuove terre di Gerald O’Hara. Dove c’è la storia di Elena la madre di Rossella, e del suo sfortunato amore per il cugino Philippe. C’è la storia di Mammy (quella di “Missrossella…”), di zia Pittypat, di Bella, di Wade ed Ella (i due figli di Rossella che spariscono nel film), di Suele (la sorella di Rossella), della famiglia Tarleton con i quattro maschi che muoiono in guerra, del dr. Meade e del suo ospedale da campo. E di tanti altri personaggi. Soprattutto, nel libro è meglio scolpita nella pietra la figura di Rhett, nel bene e nel male, che sarebbe troppo antipatico da far interpretare a Clark Gable (anche se sempre meglio lui che la prima scelta, che era Erroll Flynn). Quindi, anche se avete visto il film, leggete il libro. E poi leggete “La guerra civile americana” di Roberto Meccarini, per mettere un po’ di puntini sulle “i” opportune. (E non ho citato neanche una volta le due battute leggendarie del libro: “Francamente, me ne infischio” di Rhett e “Dopotutto, domani è un altro giorno!” di Rossella, o, come dall’originale, ““My dear, I don’t give a damn” e “After all, tomorrow is another day”).

Finalino

D’accordo in tutto, il volumone è un compendio di vari modi di trattare l’amore, andando tutto ciò anche aldilà degli intenti di Margaret, quando voleva solo fare una saga del “Grande Sud”. Ma leggerlo, se non rende felici, almeno allevia possibili infelicità.

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