domenica 11 marzo 2018

Più si è vecchi... - 11 marzo 2018

Ovviamente mi riferisco alla scrittura, che il più “anziano” del quartetto è senz’altro il miglior e di gran lunga. Böll non è facile, ma imperdibile. Gli altri navigano poco sotto la sufficienza, anche se le premesse erano migliori. Mi aspettavo di più sia dal mitico “graduate” che dal premio Nobel. L’ultimo, solo una conferma di un libro a volte furbetto, ma ben scritto (anche se con modi che non sempre mi sono congeniali).
Charles Webb “Il laureato” Sonzogno euro 5,95 (in realtà scontato a 1,80 euro)
[A: 04/05/2015– I: 14/10/2017 – T: 21/10/2017] - && +
[tit. or.: The Graduate; ling. or.: inglese; pagine: 238; anno 1963]
Secondo le mie libropeute andrebbe letto da tutti gli studenti universitari. Io allargherei il brodo, proponendolo un po’ a tutti, con l’avvertenza che: se conoscete a memoria il film avrete molte immagini sovrapposte (e non sempre giuste), se non conoscete Webb, sarebbe bene capire anche chi sia l’autore. Intanto, non so dirvi cosa sia meglio, anche se è certo che il film, con la sua risonanza, è un punto fermo nel panorama ideale di molti di noi. Ed è anche certo che senza il film, questo libro sarebbe rimasto uno dei tanti buoni propositi letterari americani. Scritto per di più da un irregolare della scrittura, da questo Charles Webb che (sembra anche in modo para-auto-biografico) produce questo libro, di protesta, verso un mondo che già vedeva stretto per i suoi orizzonti. Poco prima si era sposato con la sua Eve (cui dedica il romanzo), e comincia una vita strana ed errabonda. Eve si taglia i capelli a zero e decide di farsi chiamare Fred, come un noto gruppo femminista californiano. Charlie cede i diritti del libro per ventimila dollari. Charlie e Fred-Eve hanno due figli e, tanto per gradire, gestiscono un campo nudisti, divorziano per protesta verso il modo in cui vengono trattate le donne, ma ancora vivono insieme, fanno mille lavori: uomo delle pulizie, cuoco, raccoglitore di frutta, commesso in un supermercato. Attualmente, quasi ottantenne, vive nella costa sud dell’Inghilterra, sulla Manica. Ma veniamo al libro, che non è un capolavoro di scrittura, pur avendo alcuni presupposti interessanti, e che vengono intuiti da Mike Nichols, il regista del film. Perché il libro è tutto un dialogo, come ci si può aspettare da un libro dei primi anni sessanta, che cerca di farci intuire delle cose. Ma che con difficoltà ce le descrive. un dialogo tanto ben fatto, che, come dice qualcuno, sembra già di leggere il copione del film e non il libro da cui ne viene tratto. Ed attraverso i dialoghi vediamo (o meglio sentiamo) la ribellione del protagonista, Benjamin Braddock detto Ben, verso il mondo perbenista ed omologato della California del tempo. Illuminanti, pur nella loro essenzialità, gli scontri verbali tra Ben e il padre. Illuminanti, per un verso opposto, i mancati dialoghi tra Ben e Mrs. Robinson. Moglie di un amico del padre, conosciuta alla festa al ritorno dal suo “Graduate” (che più o meno equivale alla nostra laurea triennale), è una donna disillusa dalla vita e per ripicca alcolizzata ed un filino perversa. Ma anche, americanamente, diretta: vuole Ben come oggetto di piacere, e lo prende, lo usa, quasi gli fa da mamma. Tanto che lo istruisce e lo maltratta, come in molte famiglie non solo americane. Ed alla fine lo ripudia, quando il suo vibratore privato ha l’ardire di mettere gli occhi sulla figlia, unico suo punto debole. Elaine Robinson è pura, Ben è traviato. Ed ecco la buona, sana, mamma americana fare di tutto per allontanare i due. Arrivando a confessare i suoi misfatti, pur indorando la pillola, dicendo cioè che è Ben che le ha messo le mani addosso. Ma Ben, dopo tutta la noia dello studio, del padre, dell’insulsa vita familiare, nonché delle scopate senza amore con la signora Robinson, capisce le potenzialità del suo rapporto con Miss Robinson. La corteggia, dichiara il suo amore, rischia di perderla dopo la confessione, che Elaine fugge e non lo vuole più vedere, anche in questo sobillata dalla madre. Per arrivare all’epilogo che tutti conosciamo per aver visto il film (e quindi non scopro certo misteri): Ben vuole impedire che Elaine sposi un altro, entra in chiesa ma non riesce ad arrivare alla navata principale, è costretto a salire al primo piano, e dalla ringhiera vede Elaine andare verso l’altare, comincia a prendere a pugni la ringhiera, ad urlare, si precipita giù, lotta con tutti, e poi finalmente prende la mano di Elaine, corre fuori dalla chiesa Presbiteriana di Santa Barbara, e si avvia in autobus verso l’aeroporto. Avrete di certo notato le piccole differenze con il film, ma non importa, tanto non è un libro giallo di cui non dovreste sapere il finale. È un libro pieno di archetipi della vita americana (non ultima la Duetto rossa che il padre regala a Ben), ed ha in nuce i prodromi di quella ribellione che anche il film (che è del 1967) anticipa, e che proprio in California scoppieranno l’anno seguente. Ripeto e concludo: non un libro indimenticabile, ma un libro che funziona da madeleine proustiana, e che invoglia, ad un certo punto, di prendere un qualsiasi diffusore sonoro, e mettere su la colonna sonora mirabile di Simon e Garfunkel. E continuare a leggere mentre nella mente scivolano le parole “Hello darkness my old friend”, l’inizio di quel suono del silenzio che ad un certo punto riporta due versi scolpiti nella memoria per la capacità di rendere tutto un mondo: “People talking without speaking, People hearing without listening” [“Persone che parlano senza dir niente, persone che sentono senza ascoltare”]. Ascoltate e pensate, amici mei.
Kazuo Ishiguro “Quel che resta del giorno” Einaudi euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 09/02/2016 – I: 22/10/2017 – T: 28/10/2017] - && +
[tit. or.: The Remains of the Day; ling. or.: inglese; pagine: 271; anno 1989]
Avevo preso il libro di Ishiguro consigliato dalle libropeute per curare la tendenza a procrastinare. Poi, ne ho accelerato la letteratura sia per la sua nomina a Premio Nobel sia perché stavo visitando il suo paese natale. Pur apprezzando il libro, queste due ultime qualità non ne costituiscono un punto forte. Certo, l’autore è giapponese, e si nota nella cura dei dettagli, nella particolare attenzione alle atmosfere. Ma la scrittura, il senso che ne viene fuori è tipicamente, intrinsecamente inglese. Inoltre, non sempre il Nobel va ad autori a me congeniali, anche perché io da anni sostengo che vada assegnato ad Amos Oz, ed anche quest’anno sono stato deluso. Tra l’altro, ed in maniera del tutto casuale, nell’ultimo periodo ho letto diversi libri in seguito trasformati in film. Ed anche in questo caso, devo dire che il film, nella magistrale trasposizione di James Ivory, nonché nelle superbe interpretazioni di Anthony Hopkins ed Emma Thompson, si apparenta al libro, facendo diventare il complesso libro-film un oggetto leggermente superiore alle sue parti costituenti. Ma qui si parla del libro, che pur nella sua ben costruita struttura, in parte mi ha lasciato distante. Certo, il messaggio finale, su cui tornerò, fa riflettere, ma il personaggio Stevens spesso mi ha fatto innervosire, non riuscendomi empaticamente a calarmi nei suoi ragionamenti. Stevens è stato per decenni il maggiordomo di una nobile magione inglese, la dimora di Lord Darlington. Dove ha passato la vita, essendo figlio del maggiordomo precedente, ed ha visto anche passare la vita, assistendo, da spettatore e fedele servitore a diverse situazioni importanti. Ora, la dinastia dei Darlington è finita, e lui e la casa sono al servizio di un americano, mr. Faraday. Già lì, nella contrapposizione tra Vecchio e Nuovo mondo, Ishiguro riesce a farci percepire sia l’atmosfera inglese, sia la difficoltà di Stevens di stare al passo con i tempi. Lui non è fatto per un mondo di velocità ed informalità. L’occasione scatenante il lungo flusso di coscienza del maggiordomo è una lettera di una governante, a suo tempo a servizio nella stessa casa, Miss Kenton, che ora è sposata e vive altrove. Ma lui prende a pretesto la missiva per chiedere una settimana di ferie, e fare un giro nella campagna inglese per andarla a trovare. Il tragitto tra la casa e la Cornovaglia gli innesca un percorso a ritroso nella sua esistenza, dove va ripercorrendo i fasti di Darlington Hall, ma anche le sue piccole tappe private. Con la speranza, che quasi non vuole confessare a sé stesso, di poter recuperare occasioni perdute. Intanto ripercorre le sue tappe fondamentali, tutti i piccoli e grandi avvenimenti della sua vita, lui educato a reprimere ogni emozione, abitante di un ruolo che non dismette mai, in nessun momento della vita. Si sente anche parte della Storia, quando per la magione sembrano passare i destini dell’Europa, anche se dalla parte sbagliata che Lord Darlington era propenso ad una alleanza con la Germania hitleriana. Stevens rimane sempre e comunque impassibile, impassibile alla morte del padre, fermo nell’aderire alle richieste di Lord Darlington di licenziare due cameriere ebree, impassibile ai sentimenti che sembra, pare, ipotizza (ma lo pensa solo ora) possa aver avuto Miss Kenton nei suoi confronti. Ripercorrendo con onestà tutta la sua vita, si rende conto che avrebbe potuto fare altro, che avrebbe potuto far fronte in modo diverso ai piccoli incidenti che resero irrealizzabili i suoi grandi sogni. Sarà proprio Miss Kenton alla fine che gli aprirà gli occhi: non è possibile far andare indietro l’orologio del tempo, e poiché non esistono esistenze perfette, non ci resta che godere di quello che resta del giorno, e fare di questa che viviamo la parte migliore della propria esistenza. Ripercorrendo ora il libro, mi rendo conto che quello che più mi ha irritato è la mia somiglianza con l’atteggiamento di Stevens di ripercorrere ogni minima azione, per analizzarla, motivarla, inquadrarla, e accorgersi della mancanza di spontaneità che ne deriva. Certo, il punto centrale di Stevens è il concetto di dignità, di capacità di mantenersi coerente ad un ruolo in tutti i momenti della vita. Ma come Stevens alla fine ci domandiamo se sia giusto soffocare la propria personalità, oppure sia meglio reagire in nome di quell’onestà intellettuale che è parte integrante della coscienza. Una risposta, tacita, alla fine Stevens ce la propone, in un sussulto di coerenza con tutti i ragionamenti che lo hanno portato fino a lì. Se infine, ci rendessimo conto, al tramonto della nostra esistenza, di aver fatto le scelte sbagliate e di aver perso l'opportunità di essere veramente felici, dovremmo risponderci come fa sotto Miss Kenton.
“Ci si deve convincere che la nostra vita è altrettanto buona, forse addirittura migliore, di quella della maggior parte delle persone, e di questo si deve essere grati.” (263).
Markus Zusak “Storia di una ladra di libri” Pickwick euro 14
[A: 16/05/2017– I: 29/10/2017 – T: 07/11/2017] - && e ½
[tit. or.: The Book Thief; ling. or.: inglese; pagine: 564; anno 2005]
Storia di un libro di successo, un po’ furbetto ed un po’ no, da cui mi aspettavo qualcosa in più. Certo, il libro stesso e l’autore sono acclamati e classificati come autori specifici per “young adults”, ma dal clamore di questo libro, che nel 2014 è risultato il più venduto in Italia, pensavo fosse una storia più innovativa. Invece, seppur non posso negare che per un pubblico giovanile possa avere degli “appeal”, alla fine risulta un po’ scontato. Innegabile, ovvio, che non si possa rimanere freddi e distanti rispetto ad un libro che parla di avvenimenti in Germania tra il 1939 ed il 1943. Ovvio che il pensiero vada all’autore stesso, australiano figlio di due emigrati di lingua tedesca, se colleghiamo nomi e quanto ci viene accennato di sfuggita (ma non proprio da lasciarmelo sfuggire) verso il finale del poderoso (in quanto a lunghezza) romanzo. Quindi, libro letto in anticipo in quanto successo editoriale, in quanto film (anche se il film ha avuto meno risonanza). Libro che ripeto è troppo giovanilista per essere avvincente. Pieno, infatti, di piccoli trucchi che prendono i teenagers, ma che forse, a noi smaliziati, lasciano più indifferenti. La storia si colloca nel solco delle belle storie (ovviamente virgolettando belle) che trattano di guerra, di ebrei, di nazisti e di campi di concentramento. La storia ha al centro Liesel, una ragazzina figlia di un comunista (ahi, ahi, siamo già nei guai) e per questo strappata alla sua famiglia e data in affido ad una coppia che vive nella periferia di Monaco. Liesel che a dieci anni vede morire di freddo e stenti il fratellino piccolo, che ha un trauma lunghissimo per questo (e ci credo), che al cimitero ruba il suo primo libro (un’ottima lettura per chi vuole iniziare a leggere: il “Manuale del Necroforo”!!). Liesel che ha subito un buon rapporto con il padre adottivo Hans. Che rolla le sigarette, che lavoricchia, che suona la fisarmonica. Liesel che impiegherà molto tempo ad accettare la sua burbera madre adottiva Rosa. Che urla sempre, che tratta tutti rudemente, che ha un cuore grande. Liesel che, di tanto in tanto, si troverà in mano dei nuovi libri. Una decina in tutto, ma solo un adolescente può categorizzarla come “ladra di libri”. Comunque i libri servono a Liesel per superare i suoi traumi, per uscire verso la vita, anche se una vita difficile per i giovani tedeschi in quegli anni. Markus tratta con leggerezza (anche se non tralascia) i rapporti tra ariani ed ebrei, tra nazisti convinti e nazisti “per necessità”. Ma non è un trattato filosofico, è un libro d’evasione. Allora, torniamo a Liesel che ha un buon rapporto solo con un coetaneo, Rudy. Uno pazzo quasi quanto lei, che viveva nel mito della velocità, tanto da dipingersi a sette anni la faccia di nero, e correre gridando di essere Jesse Owens. Un’eresia per i puri tedeschi che videro trionfare gente di colore nella “loro” olimpiade. Ad un certo punto, poi, entrerà in scena anche l’ebreo. Figlio di un commilitone di Hans, che ad Hans salvò la vita nella prima Guerra Mondiale. Max, questo il suo nome, aveva vissuto una giovinezza dedicata ad uno degli sporti tedeschi per eccellenza, il pugilato (e come non ricordare per inciso uno dei tanti match del secolo che vide nel 1938 opporsi il nero Joe Louis al tedesco Max Schmeling?). Per poi doversi nascondere quando passano le leggi razziste e poi dover fuggire, accolto dal buon Hans, e dall’altrettanto buona Rosa. Tanto ben accolto anche dalla piccola, ma in via di crescita, Liesel. Che ne diventa amica, che quando si ammala legge per lui ad alta voce i libri che ha rubato sperando che la forza delle parole riesca a farlo guarire, che quando guarisce viene fatta omaggio da Max di libri illustrati da lui disegnati mentre sta in cantina. Poi la guerra incalza, Max deve fuggire, Hans ha una brutta storia con i nazisti locali, arrivano gli aerei delle forze alleate, Max viene arrestato, Max viene deportato a Dachau e passa per Monaco e Liesel lo vede. Piccoli rivoli coinvolgono altri momenti della vita della piccola comunità. Rudy soprattutto, ma anche la moglie del sindaco, una vicina di casa, e molto altro (bisogna pur riempire le oltre 500 pagine). Finché, per leggere un nuovo libro, Liesel si rifugia in cantina, non si accorge dei bombardamenti e… Beh, leggetelo, ma non vi dico altro. Parlo solo del fatto che tutto il libro è narrato in prima persona dalla morte, che ci racconta il suo andare in giro a raccogliere le anime che spirano, alla fatica di tutto ciò, ed al libro che Liesel scrive per scacciare le sue paure, che contiene la storia dei libri rubati, libro che capiterà in mano alla morte, libro che la morte legge e ci ripropone con le sue parole. Forse queste piccole invenzioni di Zusak hanno il pregio di ravvivare una materia altrimenti già letta e riletta. Come piacevole è la costruzione e la riproposizione dei libri che scrive Max per Liesel. Tuttavia, questa morte che narra, che ci comunica il suo dispiacere per le vite umane che deve accogliere (ma non è il suo lavoro? E allora di che si lamenta?), che ogni tanto si ferma per enunciare avvenimenti o stati d’animo che verranno palesati da lì a poche righe, diventa una lettura oltremodo pesante. Tanto che il primo capitolo l’ho dovuto leggere due volte prima di entrare nello spirito del romanzo. Speriamo sia utile al pubblico adolescente che tende a dimenticarsi di avvenimenti di ormai settanta anni fa.
Heinrich Böll “Biliardo alle nove e mezzo” Mondadori euro 9,50 (in realtà scontato a 7,12 euro)
[A: 12/04/2016 – I: 06/12/2017 – T: 09/12/2017] - &&&&
[tit. or.: Billard um halbzehn; ling. or.: tedesco; pagine: 278; anno 1959]
Sono senz’altro d’accordo con il famoso manuale delle cure librarie che questo è un romanzo che può dare una scossa. Intanto, premetto che di Böll ho letto, non tanto, ma letto. Sempre di un livello alto, fino a quello che per me è uno dei capolavori del romanzo moderno, cioè “Opinioni di un clown”. Comunque, dopo molte peregrinazioni di letture, mi sono deciso ad affrontare anche questo “Biliardo”, e con successo. Un libro forse amaro, ma reale e presente. un libro che restituisce tutta l’angoscia di un tedesco che ha vissuto il nazismo, la guerra, la ricostruzione. Ma non ha ancora affrontato il dramma del muro. Il libro è infatti del 1959, mentre il muro di Berlino fu costruito due anni più tardi. L’unico motivo, molto personale se vogliamo, per cui non veleggia verso i 5 o 6 librini è quella fatica di seguire percorsi datati di descrizioni e sensazioni. Certamente funzionali, certamente imprescindibili dall’andamento del testo, ma che non hanno (più) quella freschezza, quell’andamento trascinante che potrebbero avere se scritti ora, con altri ritmi. Ma Böll ne scrive sessant’anni fa, quindi va bene così. Scrive anche per destrutturare la grande tradizione delle saghe familiari, uno dei pilastri della letteratura germanica. Pensiamo ad esempio, e come unico esempio per non appesantire il tutto, a “I Buddenbrook” di Thomas Mann. Anche qui abbiamo una decadenza di una famiglia tedesca (o l’idea di una decadenza, che qualcuno deciderà se si tramuterà in caduta), descritta prendendo a modello ideale l’Ulysses di Joyce: una giornata (6 settembre 1958) e flussi di coscienza. Si, perché anche se ci sono descrizioni, passaggi ed altri piccoli accorgimento di raccordo, tutta la narrazione avviene attraverso lunghi monologhi, spesso interiori, dei personaggi in ballo. Lungo l’arco della giornata in esame. Passando dall’uno all’altro, senza dirlo esplicitamente, ma, ovvio, facendolo trasparire dalla trama del narrato. La famiglia in questione è quella di Heinrich Fähmel. Il giorno è quello dell’ottantesimo compleanno del capostipite. Che non è un “grande di famiglia storica”, non è un “aristocratico con millenni alle spalle”. Heinrich è un architetto, che decide di puntare tutto sulla propria capacità ingegneristica, presentando un progetto per la costruzione dell’Abbazia di Sant’Antonio. Senza grandi capitali, ma con un grande senso delle proprie capacità, si trasferisce nella città teatro del romanzo, che, anche se non esplicitamente, può essere fatta risalire alla città di Colonia, patria dell’autore. Decide anche scientemente di sposarsi con qualche benestante signorina del posto. Scelta che cadrà su Johanna Kilb, la figlia del più importante notaio della città. Heinrich avrà la commessa, e da quel momento cominceranno le fortune economiche della famiglia. Non quelle della vita quotidiana, che i due avranno una serie di figli, alcuni morti in tenera età, fino a che rimarranno due: Otto e Robert. Di due caratteri opposti, tanto che Robert a 18 anni partecipa ad un ben misero attentato, in seguito al quale fugge per alcuni anni in Olanda. Otto invece diverrà nazista convinto, sino a morire in guerra. Robert invece appunto era sul fronte opposto, insieme all’amico Schrella (chiamato sempre e solo con il cognome). Ma Robert è anche un debole, ed accetta di pacificarsi con le istituzioni, accetta la grazia, ritorna, si laurea in ingegneria, sposa Edith la sorella di Schrella. Ed andrà in guerra, dove grazie alle sue nozioni di statica e dinamica verrà impiegato nella distruzione di postazioni nemiche con la dinamite. Durante l’ultima fase della guerra, poco prima della resa, Robert (e qui è il fulcro della riflessione dell’autore) decide di far saltare (riuscendoci) l’Abbazia del padre. Senza motivo? O forse con tutta una serie di motivi anche reconditi. Robert ed Edith, intanto, nelle due brevi licenze del soldato, avevano generato Joseph e Ruth, che si salvano insieme a quasi tutta la famiglia, meno la povera Edith. Robert rileva quindi lo studio del padre, dedicandolo a fornire calcoli per le costruzioni anche se non partecipa alle stesse. Di Ruth sappiamo, mentre assume rilievo Joseph. Sia perché scopre che è stato il padre a far saltare l’abbazia, sia per il suo rapporto con Marianne, una sopravvissuta alla guerra, scampata per poco alla follia dei genitori. Il padre, gerarca nazista, alla fine della guerra, si suicida, chiedendo alla moglie di uccidere i figli. Cosa che farà con il maschio, ma sarà fermata prima di uccidere Marianne. Ultima menziona è per Johanna, da anni rinchiusasi volontariamente in un istituto per alienati, pur non essendo pazza. Ma per sfuggire al mondo che ha ucciso quasi tutta la sua famiglia: genitori, fratelli, figli. Istituto da dove esce per il compleanno del marito, progettando e probabilmente mettendo in pratica un estremo gesto esemplare, che serve da coronamento alla giornata di una “normale” famiglia tedesca. Ma il bersaglio principale di Böll, all’interno della descrizione della storia della famiglia Fähmel, è il conflitto tra i seguaci della “Bestia”, devoti al totalitarismo e all’aggressione in ogni sua forma, ed i seguaci degli “Agnelli”, i liberi pensatori, quelli che non vogliono opprimere nessuno. Elementi che, in varia forma, sono presenti sia nei Fähmel che nei personaggi di contorno. Non scopro certo nessun segreto dicendo che faccio il tifo per gli “Agnelli”. Contrapposizione che ha anche del biblico (molti i riferimenti che ne fa l’autore), così come testamentale è la divisione in 13 capitoli, quasi una via Crucis che si ferma all’ultima stazione. Infine, piccolo divertimento personale, il capitolo dedicato allo Schlagball, gioco a squadre molto in voga nella Germania degli anni Trenta, con caratteristiche simili, anche se solo simili, al baseball. Magari un giorno se avrò tempo, voglia e spazio ci tornerò sopra. Per ora, in tempi di fanatismi, leggere di questo biliardo, intorno al quale ha costruito la sua routine di vita il buon Robert è una lettura da consigliare. A tutti. Per riflettere.
“Nel suo viso leggevo gli anni che non riuscivo a scorgere nel mio.” (100)
Seconda trama e quindi prima cura, che, stranezze del caso, si rivolge a chi, almeno momentaneamente, si trova nei pasticci.
Non ci sono altre grosse novità, in questo andamento da anno strano e un po’ sbilenco. Nulla va veramente male, ma nulla va veramente bene. Si viaggia a vista, visto che non si viaggia altrimenti. Allora, avvicino i miei pensieri a tutti i miei amici (sull’onda di una cena memoriale e memorabile).

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

MARZO 2018
Quasi a voler sottolineare un momento storico, pubblico e personale, ecco che questo mese cerchiamo di capire come tirarsene fuori.

PASTICCI, TROVARSI NEI

Yann Martel                   “Vita di Pi”
P. G. Wodehouse            “L'inimitabile Jeeves”
I pasticci sono di molti tipi, più o meno appiccicosi, ma nessuno lo è quanto quello in cui si trova Pi Patel, che ha fatto naufragio ed è finito su una scialuppa di salvataggio, in mare aperto, insieme a una zebra, una iena, un orango e una tigre del Bengala di tre anni. Il giovane eroe di “Vita di Pi”, romanzo di Yann Martel vincitore del Booker Prize, non si fa illusioni su quanto sia pericolosa la tigre (presto, infatti, le leggi della selezione naturale si occupano degli altri, e restano solo loro due). Quando lui e la tigre si affrontano per la prima volta, lei con gli occhi fiammeggianti, le orecchie aderenti alla testa e gli artigli sguainati, la reazione di Pi è quella di gettarsi in mare e cercare di cavarsela in acqua.
Ed è la reazione giusta. Così come costruire una zattera accanto alla scialuppa, in modo che lui e quel carnivoro di oltre duecento chili possano vivere in spazi separati. È quello che fa dopo, tuttavia, ciò per cui non possiamo che ammirarlo. Accorgendosi del punto debole della tigre - il mal di mare - attinge a quello che sull'addestramento degli animali ha imparato per osmosi nello zoo del padre, e inizia uno scontro di opinioni con la tigre che riduce la magnifica creatura in uno stato di riluttante obbedienza. Il duello che sancisce la vittoria del ragazzo è la migliore gara di sguardi della letteratura. Tenete questo romanzo a portata di mano ogni volta che cercherete una via d'uscita da un vostro (speriamo meno appiccicoso) pasticcio, L'autorevolezza di Pi, un ragazzo così esile e affamato, è qualcosa di entusiasmante.
Per chi invece si trova in un guaio di natura sociale - come finire con le spalle al muro, senza possibilità di cavarsela in modo dignitoso - raccomandiamo un compagno dello stampo di Jeeves, il maggiordomo dei romanzi di P. G. Wodehouse. Se non potete permettervene uno vero, dovrete accontentarvi di un maggiordomo immaginario. Quest'uomo mellifluo, svelto a inarcare le sopracciglia, esperto di Dostoevskij come del modo giusto in cui indossare una fascia scarlatta per lo smoking (non fatelo) passa il tempo a togliere dai guai lo sventurato Bertie Wooster. Ricco, e tuttavia dotato di scarso buon senso e capacità di giudizio, Wooster sa - anche se non lo ammetterebbe mai - che senza Jeeves e le sue benefiche tazze di tè non sopravvivrebbe un giorno. Noi, come Bertie, troviamo la presenza di Jeeves nella nostra vita infinitamente tranquillizzante - e quando lo avrete conosciuto lo farete anche voi (vi toccherà rinunciare a quella fascia scarlatta).
Quando vi troverete sulla graticola, con la temperatura che continua a salire - che sia per colpa di una tigre o di una ragazza con cui vi siete fidanzati per errore - pensate a cosa potrebbero consigliarvi Pi o Jeeves e riuscirete a spegnere il forno prima che sia troppo tardi.

Bugiardino

Nella mia adolescenza, sull’onda della grande lettrice che era mia madre, lessi e molto di Jeeves, immedesimandomi alquanto nello scapestrato e spesso fuori fase Bertie. Ma sono anni ed anni che non leggo più di Wodehouse, e non so se ne riprenderò in mano qualcosa. Martel invece l’ho letto solo dodici anni fa e questo fu il mio breve commento
Yann Martel Vita di Pi Piemme 5,90 euro.
Mi piace a tratti. Sembra promettere qualcosa in più, sul punto di decollare, quando entra nella narrazione di come il naufrago si organizza la vita. Ma alla fine non mi ha “emozionato”. Troppa pubblicità intorno? Una frase “Devi parlare della paura… se la paura diventa un’oscurità inespressa che cerchi di evitare e che forse riesci persino a dimenticare, ti esponi ai suoi attacchi futuri.”
Certo le mie trame all’inizio erano molto stringate, e davano solo spazi a pennellate di sensazioni. Per cui, al fine di fare ammenda della mia avarizia, mi e vi consolo dandovi il sunto, con qualche personale modifica, della trama riportato su Wikipedia:
“Piscine Molitor Patel è un ragazzo indiano che viene preso in giro a causa del suo nome fino a ridurlo semplicemente in Pi. I suoi genitori gli hanno dato questo nome perché da piccolo amava nuotare con suo zio e amava particolarmente la piscina pubblica di Parigi. È attratto dalle religioni al punto da iniziare a professarne tre insieme. Suo padre gestisce uno zoo ma, a causa dell'instabile situazione politica ed economica dell'India negli anni Settanta, decide di emigrare con la famiglia in Canada per rifarsi una vita, dopo aver venduto tutti gli animali. La famiglia salpa insieme ad alcune bestie destinate agli zoo canadesi, ma, durante il viaggio, la nave affonda, causando la morte dei familiari di Pi (i genitori e il fratello) e di quasi tutti gli animali. Soltanto Pi e quattro animali (una zebra, un orango, una iena ed una tigre del Bengala di nome Richard Parker) riescono a salvarsi raggiungendo una scialuppa di salvataggio.
La scialuppa vaga nell'oceano per diversi giorni e Pi assiste terrorizzato all'uccisione degli animali. Rimasto solo con la tigre, Pi medita di ucciderla per timore di essere ammazzato a sua volta. Intanto sulla scialuppa trova un kit di sopravvivenza per i naufraghi: dei distillatori d'acqua marina, delle scorte di cibo e acqua, degli attrezzi per la pesca, giubbotti di salvataggio e altri oggetti con cui costruisce una zattera che lega alla scialuppa per stare a distanza dalla tigre. Col passare dei giorni, decide di addestrarla dimostrandosi autoritario per farsi ubbidire e per stabilire gli spazi sulla scialuppa, ma anche amichevole e generoso per aiutarla a sopravvivere.
Pi imparerà a pescare e uccidere e a combattere contro le avversità. Pur temendo spesso di morire e consapevole di essere in balia del fato, la speranza di sopravvivenza, la fede in Dio e la condivisione degli oggetti e degli spazi con Richard Parker lo motiveranno facendolo diventare comunque un uomo più risoluto e sicuro. Si affezionerà ad alcuni animali marini e resterà ammirato dai delfini, dalle balene e dagli squali.
Non mancano episodi grandi e piccoli che costellano tutto il libro, ma alla fine Pi e la tigre, dopo 227 giorni di naufragio, approderanno in Messico dove Richard Parker, con il quale ha costruito un rapporto speciale, fuggirà in una foresta abbandonandolo.
In ospedale, davanti a due dipendenti del Dipartimento Marittimo del Ministero dei Trasporti giapponese, trarrà le conclusioni morali e religiose della sua peregrinazione e davanti alla loro incredulità, gli proporrà un altro racconto, più semplice e senza animali, invitandoli a scegliere: i due intervistatori opteranno per la storia con Richard Parker. Il libro è diviso in tre parti, ma possiede pure una struttura unitaria. La prima parte è composta dalle elucubrazioni di un ragazzo sulla spiritualità e la vita in India. La seconda è la fusione del ricordo dettagliato e realistico della sopravvivenza. La terza e ultima penetra più a fondo della spiritualità di Pi, che offre al lettore due modi di guardare la stessa realtà e di scegliere la storia migliore.”
Per finire con tocco di leggerezza, torno a Bertie Wooster ed alla sua affermazione sui motivi che lo sostengono nell’avere il suo maggiordomo sempre con sé: “Jeeves era un uomo di grande intelligenza, e sarebbe stata in molte maniere una gran comodità avere qualcuno che pensasse per me”.

Conclusioni

Spero che nessuno di voi si sia mai trovato in difficoltà solo contro una tigre, anche se so, e posso parlarne, che spesso molti di noi si sono trovati realmente in situazioni in cui, forse, era meglio affrontare la tigre. Tuttavia il libro della vita di Pi non mi ha ancora convinto. Meglio ridere aspettando che Jeeves risolva le difficoltà della nostra vita.

Nessun commento:

Posta un commento