Ovviamente mi riferisco alla
scrittura, che il più “anziano” del quartetto è senz’altro il miglior e di gran
lunga. Böll non è facile, ma imperdibile. Gli altri navigano poco sotto la
sufficienza, anche se le premesse erano migliori. Mi aspettavo di più sia dal
mitico “graduate” che dal premio Nobel. L’ultimo, solo una conferma di un libro
a volte furbetto, ma ben scritto (anche se con modi che non sempre mi sono
congeniali).
Charles Webb “Il laureato” Sonzogno euro 5,95 (in realtà scontato a
1,80 euro)
[A: 04/05/2015– I: 14/10/2017 – T: 21/10/2017] - && +
[tit. or.: The Graduate; ling. or.: inglese; pagine: 238; anno 1963]
Secondo
le mie libropeute andrebbe letto da tutti gli studenti universitari. Io
allargherei il brodo, proponendolo un po’ a tutti, con l’avvertenza che: se
conoscete a memoria il film avrete molte immagini sovrapposte (e non sempre
giuste), se non conoscete Webb, sarebbe bene capire anche chi sia l’autore.
Intanto, non so dirvi cosa sia meglio, anche se è certo che il film, con la sua
risonanza, è un punto fermo nel panorama ideale di molti di noi. Ed è anche
certo che senza il film, questo libro sarebbe rimasto uno dei tanti buoni
propositi letterari americani. Scritto per di più da un irregolare della
scrittura, da questo Charles Webb che (sembra anche in modo
para-auto-biografico) produce questo libro, di protesta, verso un mondo che già
vedeva stretto per i suoi orizzonti. Poco prima si era sposato con la sua Eve (cui
dedica il romanzo), e comincia una vita strana ed errabonda. Eve si taglia i
capelli a zero e decide di farsi chiamare Fred, come un noto gruppo femminista
californiano. Charlie cede i diritti del libro per ventimila dollari. Charlie e
Fred-Eve hanno due figli e, tanto per gradire, gestiscono un campo nudisti, divorziano
per protesta verso il modo in cui vengono trattate le donne, ma ancora vivono
insieme, fanno mille lavori: uomo delle pulizie, cuoco, raccoglitore di frutta,
commesso in un supermercato. Attualmente, quasi ottantenne, vive nella costa
sud dell’Inghilterra, sulla Manica. Ma veniamo al libro, che non è un
capolavoro di scrittura, pur avendo alcuni presupposti interessanti, e che
vengono intuiti da Mike Nichols, il regista del film. Perché il libro è tutto
un dialogo, come ci si può aspettare da un libro dei primi anni sessanta, che
cerca di farci intuire delle cose. Ma che con difficoltà ce le descrive. un
dialogo tanto ben fatto, che, come dice qualcuno, sembra già di leggere il
copione del film e non il libro da cui ne viene tratto. Ed attraverso i
dialoghi vediamo (o meglio sentiamo) la ribellione del protagonista, Benjamin
Braddock detto Ben, verso il mondo perbenista ed omologato della California del
tempo. Illuminanti, pur nella loro essenzialità, gli scontri verbali tra Ben e
il padre. Illuminanti, per un verso opposto, i mancati dialoghi tra Ben e Mrs.
Robinson. Moglie di un amico del padre, conosciuta alla festa al ritorno dal suo
“Graduate” (che più o meno equivale alla nostra laurea triennale), è una donna
disillusa dalla vita e per ripicca alcolizzata ed un filino perversa. Ma anche,
americanamente, diretta: vuole Ben come oggetto di piacere, e lo prende, lo
usa, quasi gli fa da mamma. Tanto che lo istruisce e lo maltratta, come in
molte famiglie non solo americane. Ed alla fine lo ripudia, quando il suo
vibratore privato ha l’ardire di mettere gli occhi sulla figlia, unico suo
punto debole. Elaine Robinson è pura, Ben è traviato. Ed ecco la buona, sana,
mamma americana fare di tutto per allontanare i due. Arrivando a confessare i
suoi misfatti, pur indorando la pillola, dicendo cioè che è Ben che le ha messo
le mani addosso. Ma Ben, dopo tutta la noia dello studio, del padre, dell’insulsa
vita familiare, nonché delle scopate senza amore con la signora Robinson,
capisce le potenzialità del suo rapporto con Miss Robinson. La corteggia,
dichiara il suo amore, rischia di perderla dopo la confessione, che Elaine
fugge e non lo vuole più vedere, anche in questo sobillata dalla madre. Per
arrivare all’epilogo che tutti conosciamo per aver visto il film (e quindi non scopro
certo misteri): Ben vuole impedire che Elaine sposi un altro, entra in chiesa ma
non riesce ad arrivare alla navata principale, è costretto a salire al primo
piano, e dalla ringhiera vede Elaine andare verso l’altare, comincia a prendere
a pugni la ringhiera, ad urlare, si precipita giù, lotta con tutti, e poi
finalmente prende la mano di Elaine, corre fuori dalla chiesa Presbiteriana di
Santa Barbara, e si avvia in autobus verso l’aeroporto. Avrete di certo notato
le piccole differenze con il film, ma non importa, tanto non è un libro giallo
di cui non dovreste sapere il finale. È un libro pieno di archetipi della vita
americana (non ultima la Duetto rossa che il padre regala a Ben), ed ha in nuce
i prodromi di quella ribellione che anche il film (che è del 1967) anticipa, e
che proprio in California scoppieranno l’anno seguente. Ripeto e concludo: non
un libro indimenticabile, ma un libro che funziona da madeleine proustiana, e
che invoglia, ad un certo punto, di prendere un qualsiasi diffusore sonoro, e
mettere su la colonna sonora mirabile di Simon e Garfunkel. E continuare a
leggere mentre nella mente scivolano le parole “Hello darkness my old friend”,
l’inizio di quel suono del silenzio che ad un certo punto riporta due versi
scolpiti nella memoria per la capacità di rendere tutto un mondo: “People
talking without speaking, People hearing without listening” [“Persone che
parlano senza dir niente, persone che sentono senza ascoltare”]. Ascoltate e
pensate, amici mei.
Kazuo Ishiguro “Quel che resta del giorno” Einaudi euro 12 (in realtà,
scontato a 9 euro)
[A: 09/02/2016 – I: 22/10/2017
– T: 28/10/2017] - && +
[tit. or.: The Remains of the Day; ling. or.: inglese; pagine: 271; anno 1989]
Avevo
preso il libro di Ishiguro consigliato dalle libropeute per curare la tendenza
a procrastinare. Poi, ne ho accelerato la letteratura sia per la sua nomina a
Premio Nobel sia perché stavo visitando il suo paese natale. Pur apprezzando il
libro, queste due ultime qualità non ne costituiscono un punto forte. Certo,
l’autore è giapponese, e si nota nella cura dei dettagli, nella particolare
attenzione alle atmosfere. Ma la scrittura, il senso che ne viene fuori è
tipicamente, intrinsecamente inglese. Inoltre, non sempre il Nobel va ad autori
a me congeniali, anche perché io da anni sostengo che vada assegnato ad Amos
Oz, ed anche quest’anno sono stato deluso. Tra l’altro, ed in maniera del tutto
casuale, nell’ultimo periodo ho letto diversi libri in seguito trasformati in
film. Ed anche in questo caso, devo dire che il film, nella magistrale
trasposizione di James Ivory, nonché nelle superbe interpretazioni di Anthony
Hopkins ed Emma Thompson, si apparenta al libro, facendo diventare il complesso
libro-film un oggetto leggermente superiore alle sue parti costituenti. Ma qui
si parla del libro, che pur nella sua ben costruita struttura, in parte mi ha
lasciato distante. Certo, il messaggio finale, su cui tornerò, fa riflettere,
ma il personaggio Stevens spesso mi ha fatto innervosire, non riuscendomi
empaticamente a calarmi nei suoi ragionamenti. Stevens è stato per decenni il
maggiordomo di una nobile magione inglese, la dimora di Lord Darlington. Dove
ha passato la vita, essendo figlio del maggiordomo precedente, ed ha visto
anche passare la vita, assistendo, da spettatore e fedele servitore a diverse
situazioni importanti. Ora, la dinastia dei Darlington è finita, e lui e la
casa sono al servizio di un americano, mr. Faraday. Già lì, nella
contrapposizione tra Vecchio e Nuovo mondo, Ishiguro riesce a farci percepire
sia l’atmosfera inglese, sia la difficoltà di Stevens di stare al passo con i
tempi. Lui non è fatto per un mondo di velocità ed informalità. L’occasione
scatenante il lungo flusso di coscienza del maggiordomo è una lettera di una
governante, a suo tempo a servizio nella stessa casa, Miss Kenton, che ora è
sposata e vive altrove. Ma lui prende a pretesto la missiva per chiedere una
settimana di ferie, e fare un giro nella campagna inglese per andarla a
trovare. Il tragitto tra la casa e la Cornovaglia gli innesca un percorso a
ritroso nella sua esistenza, dove va ripercorrendo i fasti di Darlington Hall,
ma anche le sue piccole tappe private. Con la speranza, che quasi non vuole
confessare a sé stesso, di poter recuperare occasioni perdute. Intanto
ripercorre le sue tappe fondamentali, tutti i piccoli e grandi avvenimenti
della sua vita, lui educato a reprimere ogni emozione, abitante di un ruolo che
non dismette mai, in nessun momento della vita. Si sente anche parte della
Storia, quando per la magione sembrano passare i destini dell’Europa, anche se
dalla parte sbagliata che Lord Darlington era propenso ad una alleanza con la
Germania hitleriana. Stevens rimane sempre e comunque impassibile, impassibile
alla morte del padre, fermo nell’aderire alle richieste di Lord Darlington di
licenziare due cameriere ebree, impassibile ai sentimenti che sembra, pare, ipotizza
(ma lo pensa solo ora) possa aver avuto Miss Kenton nei suoi confronti. Ripercorrendo
con onestà tutta la sua vita, si rende conto che avrebbe potuto fare altro, che
avrebbe potuto far fronte in modo diverso ai piccoli incidenti che resero
irrealizzabili i suoi grandi sogni. Sarà proprio Miss Kenton alla fine che gli
aprirà gli occhi: non è possibile far andare indietro l’orologio del tempo, e poiché
non esistono esistenze perfette, non ci resta che godere di quello che resta
del giorno, e fare di questa che viviamo la parte migliore della propria
esistenza. Ripercorrendo ora il libro, mi rendo conto che quello che più mi ha
irritato è la mia somiglianza con l’atteggiamento di Stevens di ripercorrere
ogni minima azione, per analizzarla, motivarla, inquadrarla, e accorgersi della
mancanza di spontaneità che ne deriva. Certo, il punto centrale di Stevens è il
concetto di dignità, di capacità di mantenersi coerente ad un ruolo in tutti i
momenti della vita. Ma come Stevens alla fine ci domandiamo se sia giusto
soffocare la propria personalità, oppure sia meglio reagire in nome di
quell’onestà intellettuale che è parte integrante della coscienza. Una
risposta, tacita, alla fine Stevens ce la propone, in un sussulto di coerenza
con tutti i ragionamenti che lo hanno portato fino a lì. Se infine, ci
rendessimo conto, al tramonto della nostra esistenza, di aver fatto le scelte
sbagliate e di aver perso l'opportunità di essere veramente felici, dovremmo
risponderci come fa sotto Miss Kenton.
“Ci si deve convincere che la nostra vita è altrettanto buona, forse
addirittura migliore, di quella della maggior parte delle persone, e di questo
si deve essere grati.” (263).
Markus Zusak “Storia di una ladra di libri” Pickwick euro 14
[A: 16/05/2017– I: 29/10/2017
– T: 07/11/2017] - && e ½
[tit. or.: The Book Thief; ling. or.: inglese; pagine: 564; anno 2005]
Storia di un libro
di successo, un po’ furbetto ed un po’ no, da cui mi aspettavo qualcosa in più.
Certo, il libro stesso e l’autore sono acclamati e classificati come autori
specifici per “young adults”, ma dal clamore di questo libro, che nel 2014 è
risultato il più venduto in Italia, pensavo fosse una storia più innovativa.
Invece, seppur non posso negare che per un pubblico giovanile possa avere degli
“appeal”, alla fine risulta un po’ scontato. Innegabile, ovvio, che non si
possa rimanere freddi e distanti rispetto ad un libro che parla di avvenimenti
in Germania tra il 1939 ed il 1943. Ovvio che il pensiero vada all’autore
stesso, australiano figlio di due emigrati di lingua tedesca, se colleghiamo
nomi e quanto ci viene accennato di sfuggita (ma non proprio da lasciarmelo
sfuggire) verso il finale del poderoso (in quanto a lunghezza) romanzo. Quindi,
libro letto in anticipo in quanto successo editoriale, in quanto film (anche se
il film ha avuto meno risonanza). Libro che ripeto è troppo giovanilista per
essere avvincente. Pieno, infatti, di piccoli trucchi che prendono i teenagers,
ma che forse, a noi smaliziati, lasciano più indifferenti. La storia si colloca
nel solco delle belle storie (ovviamente virgolettando belle) che trattano di
guerra, di ebrei, di nazisti e di campi di concentramento. La storia ha al centro
Liesel, una ragazzina figlia di un comunista (ahi, ahi, siamo già nei guai) e
per questo strappata alla sua famiglia e data in affido ad una coppia che vive
nella periferia di Monaco. Liesel che a dieci anni vede morire di freddo e
stenti il fratellino piccolo, che ha un trauma lunghissimo per questo (e ci
credo), che al cimitero ruba il suo primo libro (un’ottima lettura per chi
vuole iniziare a leggere: il “Manuale del Necroforo”!!). Liesel che ha subito
un buon rapporto con il padre adottivo Hans. Che rolla le sigarette, che
lavoricchia, che suona la fisarmonica. Liesel che impiegherà molto tempo ad
accettare la sua burbera madre adottiva Rosa. Che urla sempre, che tratta tutti
rudemente, che ha un cuore grande. Liesel che, di tanto in tanto, si troverà in
mano dei nuovi libri. Una decina in tutto, ma solo un adolescente può
categorizzarla come “ladra di libri”. Comunque i libri servono a Liesel per
superare i suoi traumi, per uscire verso la vita, anche se una vita difficile
per i giovani tedeschi in quegli anni. Markus tratta con leggerezza (anche se
non tralascia) i rapporti tra ariani ed ebrei, tra nazisti convinti e nazisti
“per necessità”. Ma non è un trattato filosofico, è un libro d’evasione.
Allora, torniamo a Liesel che ha un buon rapporto solo con un coetaneo, Rudy.
Uno pazzo quasi quanto lei, che viveva nel mito della velocità, tanto da
dipingersi a sette anni la faccia di nero, e correre gridando di essere Jesse
Owens. Un’eresia per i puri tedeschi che videro trionfare gente di colore nella
“loro” olimpiade. Ad un certo punto, poi, entrerà in scena anche l’ebreo.
Figlio di un commilitone di Hans, che ad Hans salvò la vita nella prima Guerra
Mondiale. Max, questo il suo nome, aveva vissuto una giovinezza dedicata ad uno
degli sporti tedeschi per eccellenza, il pugilato (e come non ricordare per
inciso uno dei tanti match del secolo che vide nel 1938 opporsi il nero Joe
Louis al tedesco Max Schmeling?). Per poi doversi nascondere quando passano le
leggi razziste e poi dover fuggire, accolto dal buon Hans, e dall’altrettanto
buona Rosa. Tanto ben accolto anche dalla piccola, ma in via di crescita,
Liesel. Che ne diventa amica, che quando si ammala legge per lui ad alta voce i
libri che ha rubato sperando che la forza delle parole riesca a farlo guarire,
che quando guarisce viene fatta omaggio da Max di libri illustrati da lui
disegnati mentre sta in cantina. Poi la guerra incalza, Max deve fuggire, Hans
ha una brutta storia con i nazisti locali, arrivano gli aerei delle forze
alleate, Max viene arrestato, Max viene deportato a Dachau e passa per Monaco e
Liesel lo vede. Piccoli rivoli coinvolgono altri momenti della vita della
piccola comunità. Rudy soprattutto, ma anche la moglie del sindaco, una vicina
di casa, e molto altro (bisogna pur riempire le oltre 500 pagine). Finché, per
leggere un nuovo libro, Liesel si rifugia in cantina, non si accorge dei
bombardamenti e… Beh, leggetelo, ma non vi dico altro. Parlo solo del fatto che
tutto il libro è narrato in prima persona dalla morte, che ci racconta il suo
andare in giro a raccogliere le anime che spirano, alla fatica di tutto ciò, ed
al libro che Liesel scrive per scacciare le sue paure, che contiene la storia
dei libri rubati, libro che capiterà in mano alla morte, libro che la morte
legge e ci ripropone con le sue parole. Forse queste piccole invenzioni di
Zusak hanno il pregio di ravvivare una materia altrimenti già letta e riletta.
Come piacevole è la costruzione e la riproposizione dei libri che scrive Max
per Liesel. Tuttavia, questa morte che narra, che ci comunica il suo dispiacere
per le vite umane che deve accogliere (ma non è il suo lavoro? E allora di che
si lamenta?), che ogni tanto si ferma per enunciare avvenimenti o stati d’animo
che verranno palesati da lì a poche righe, diventa una lettura oltremodo
pesante. Tanto che il primo capitolo l’ho dovuto leggere due volte prima di
entrare nello spirito del romanzo. Speriamo sia utile al pubblico adolescente
che tende a dimenticarsi di avvenimenti di ormai settanta anni fa.
Heinrich Böll “Biliardo alle nove e mezzo” Mondadori euro 9,50 (in
realtà scontato a 7,12 euro)
[A: 12/04/2016 – I: 06/12/2017
– T: 09/12/2017] - &&&&
[tit. or.: Billard um halbzehn; ling. or.: tedesco; pagine: 278; anno 1959]
Sono senz’altro
d’accordo con il famoso manuale delle cure librarie che questo è un romanzo che
può dare una scossa. Intanto, premetto che di Böll ho letto, non tanto, ma
letto. Sempre di un livello alto, fino a quello che per me è uno dei capolavori
del romanzo moderno, cioè “Opinioni di un clown”. Comunque, dopo molte
peregrinazioni di letture, mi sono deciso ad affrontare anche questo
“Biliardo”, e con successo. Un libro forse amaro, ma reale e presente. un libro
che restituisce tutta l’angoscia di un tedesco che ha vissuto il nazismo, la
guerra, la ricostruzione. Ma non ha ancora affrontato il dramma del muro. Il
libro è infatti del 1959, mentre il muro di Berlino fu costruito due anni più
tardi. L’unico motivo, molto personale se vogliamo, per cui non veleggia verso
i 5 o 6 librini è quella fatica di seguire percorsi datati di descrizioni e
sensazioni. Certamente funzionali, certamente imprescindibili dall’andamento
del testo, ma che non hanno (più) quella freschezza, quell’andamento
trascinante che potrebbero avere se scritti ora, con altri ritmi. Ma Böll ne
scrive sessant’anni fa, quindi va bene così. Scrive anche per destrutturare la
grande tradizione delle saghe familiari, uno dei pilastri della letteratura
germanica. Pensiamo ad esempio, e come unico esempio per non appesantire il
tutto, a “I Buddenbrook” di Thomas Mann. Anche qui abbiamo una decadenza di una
famiglia tedesca (o l’idea di una decadenza, che qualcuno deciderà se si
tramuterà in caduta), descritta prendendo a modello ideale l’Ulysses di Joyce:
una giornata (6 settembre 1958) e flussi di coscienza. Si, perché anche se ci
sono descrizioni, passaggi ed altri piccoli accorgimento di raccordo, tutta la
narrazione avviene attraverso lunghi monologhi, spesso interiori, dei
personaggi in ballo. Lungo l’arco della giornata in esame. Passando dall’uno
all’altro, senza dirlo esplicitamente, ma, ovvio, facendolo trasparire dalla
trama del narrato. La famiglia in questione è quella di Heinrich Fähmel. Il
giorno è quello dell’ottantesimo compleanno del capostipite. Che non è un
“grande di famiglia storica”, non è un “aristocratico con millenni alle
spalle”. Heinrich è un architetto, che decide di puntare tutto sulla propria
capacità ingegneristica, presentando un progetto per la costruzione
dell’Abbazia di Sant’Antonio. Senza grandi capitali, ma con un grande senso
delle proprie capacità, si trasferisce nella città teatro del romanzo, che,
anche se non esplicitamente, può essere fatta risalire alla città di Colonia,
patria dell’autore. Decide anche scientemente di sposarsi con qualche
benestante signorina del posto. Scelta che cadrà su Johanna Kilb, la figlia del
più importante notaio della città. Heinrich avrà la commessa, e da quel momento
cominceranno le fortune economiche della famiglia. Non quelle della vita
quotidiana, che i due avranno una serie di figli, alcuni morti in tenera età,
fino a che rimarranno due: Otto e Robert. Di due caratteri opposti, tanto che
Robert a 18 anni partecipa ad un ben misero attentato, in seguito al quale
fugge per alcuni anni in Olanda. Otto invece diverrà nazista convinto, sino a
morire in guerra. Robert invece appunto era sul fronte opposto, insieme
all’amico Schrella (chiamato sempre e solo con il cognome). Ma Robert è anche
un debole, ed accetta di pacificarsi con le istituzioni, accetta la grazia,
ritorna, si laurea in ingegneria, sposa Edith la sorella di Schrella. Ed andrà
in guerra, dove grazie alle sue nozioni di statica e dinamica verrà impiegato
nella distruzione di postazioni nemiche con la dinamite. Durante l’ultima fase
della guerra, poco prima della resa, Robert (e qui è il fulcro della
riflessione dell’autore) decide di far saltare (riuscendoci) l’Abbazia del
padre. Senza motivo? O forse con tutta una serie di motivi anche reconditi.
Robert ed Edith, intanto, nelle due brevi licenze del soldato, avevano generato
Joseph e Ruth, che si salvano insieme a quasi tutta la famiglia, meno la povera
Edith. Robert rileva quindi lo studio del padre, dedicandolo a fornire calcoli
per le costruzioni anche se non partecipa alle stesse. Di Ruth sappiamo, mentre
assume rilievo Joseph. Sia perché scopre che è stato il padre a far saltare
l’abbazia, sia per il suo rapporto con Marianne, una sopravvissuta alla guerra,
scampata per poco alla follia dei genitori. Il padre, gerarca nazista, alla
fine della guerra, si suicida, chiedendo alla moglie di uccidere i figli. Cosa
che farà con il maschio, ma sarà fermata prima di uccidere Marianne. Ultima
menziona è per Johanna, da anni rinchiusasi volontariamente in un istituto per
alienati, pur non essendo pazza. Ma per sfuggire al mondo che ha ucciso quasi
tutta la sua famiglia: genitori, fratelli, figli. Istituto da dove esce per il
compleanno del marito, progettando e probabilmente mettendo in pratica un
estremo gesto esemplare, che serve da coronamento alla giornata di una
“normale” famiglia tedesca. Ma il bersaglio principale di Böll, all’interno
della descrizione della storia della famiglia Fähmel, è il conflitto tra i
seguaci della “Bestia”, devoti al totalitarismo e all’aggressione in ogni sua
forma, ed i seguaci degli “Agnelli”, i liberi pensatori, quelli che non
vogliono opprimere nessuno. Elementi che, in varia forma, sono presenti sia nei
Fähmel che nei personaggi di contorno. Non scopro certo nessun segreto dicendo
che faccio il tifo per gli “Agnelli”. Contrapposizione che ha anche del biblico
(molti i riferimenti che ne fa l’autore), così come testamentale è la divisione
in 13 capitoli, quasi una via Crucis che si ferma all’ultima stazione. Infine,
piccolo divertimento personale, il capitolo dedicato allo Schlagball, gioco a
squadre molto in voga nella Germania degli anni Trenta, con caratteristiche
simili, anche se solo simili, al baseball. Magari un giorno se avrò tempo,
voglia e spazio ci tornerò sopra. Per ora, in tempi di fanatismi, leggere di
questo biliardo, intorno al quale ha costruito la sua routine di vita il buon
Robert è una lettura da consigliare. A tutti. Per riflettere.
“Nel suo viso leggevo gli anni che non riuscivo a
scorgere nel mio.” (100)
Seconda trama e quindi prima
cura, che, stranezze del caso, si rivolge a chi, almeno momentaneamente, si
trova nei pasticci.
Non ci
sono altre grosse novità, in questo andamento da anno strano e un po’ sbilenco.
Nulla va veramente male, ma nulla va veramente bene. Si viaggia a vista, visto
che non si viaggia altrimenti. Allora, avvicino i miei pensieri a tutti i miei
amici (sull’onda di una cena memoriale e memorabile).
CURARSI CON I LIBRI di
Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
MARZO 2018
Quasi a voler sottolineare un
momento storico, pubblico e personale, ecco che questo mese cerchiamo di capire
come tirarsene fuori.
PASTICCI, TROVARSI NEI
Yann
Martel “Vita di Pi”
P. G. Wodehouse “L'inimitabile Jeeves”
I
pasticci sono di molti tipi, più o meno appiccicosi, ma nessuno lo è quanto
quello in cui si trova Pi Patel, che ha fatto naufragio ed è finito su una
scialuppa di salvataggio, in mare aperto, insieme a una zebra, una iena, un
orango e una tigre del Bengala di tre anni. Il giovane eroe di “Vita di Pi”,
romanzo di Yann Martel vincitore del Booker Prize, non si fa illusioni su
quanto sia pericolosa la tigre (presto, infatti, le leggi della selezione
naturale si occupano degli altri, e restano solo loro due). Quando lui e la
tigre si affrontano per la prima volta, lei con gli occhi fiammeggianti, le
orecchie aderenti alla testa e gli artigli sguainati, la reazione di Pi è
quella di gettarsi in mare e cercare di cavarsela in acqua.
Ed
è la reazione giusta. Così come costruire una zattera accanto alla scialuppa,
in modo che lui e quel carnivoro di oltre duecento chili possano vivere in
spazi separati. È quello che fa dopo, tuttavia, ciò per cui non possiamo che
ammirarlo. Accorgendosi del punto debole della tigre - il mal di mare - attinge
a quello che sull'addestramento degli animali ha imparato per osmosi nello zoo
del padre, e inizia uno scontro di opinioni con la tigre che riduce la
magnifica creatura in uno stato di riluttante obbedienza. Il duello che
sancisce la vittoria del ragazzo è la migliore gara di sguardi della
letteratura. Tenete questo romanzo a portata di mano ogni volta che cercherete
una via d'uscita da un vostro (speriamo meno appiccicoso) pasticcio, L'autorevolezza
di Pi, un ragazzo così esile e affamato, è qualcosa di entusiasmante.
Per
chi invece si trova in un guaio di natura sociale - come finire con le spalle
al muro, senza possibilità di cavarsela in modo dignitoso - raccomandiamo un
compagno dello stampo di Jeeves, il maggiordomo dei romanzi di P. G. Wodehouse.
Se non potete permettervene uno vero, dovrete accontentarvi di un maggiordomo
immaginario. Quest'uomo mellifluo, svelto a inarcare le sopracciglia, esperto
di Dostoevskij come del modo giusto in cui indossare una fascia scarlatta per
lo smoking (non fatelo) passa il tempo a togliere dai guai lo sventurato Bertie
Wooster. Ricco, e tuttavia dotato di scarso buon senso e capacità di giudizio,
Wooster sa - anche se non lo ammetterebbe mai - che senza Jeeves e le sue
benefiche tazze di tè non sopravvivrebbe un giorno. Noi, come Bertie, troviamo
la presenza di Jeeves nella nostra vita infinitamente tranquillizzante - e
quando lo avrete conosciuto lo farete anche voi (vi toccherà rinunciare a
quella fascia scarlatta).
Quando
vi troverete sulla graticola, con la temperatura che continua a salire - che
sia per colpa di una tigre o di una ragazza con cui vi siete fidanzati per
errore - pensate a cosa potrebbero consigliarvi Pi o Jeeves e riuscirete a
spegnere il forno prima che sia troppo tardi.
Bugiardino
Nella mia adolescenza, sull’onda
della grande lettrice che era mia madre, lessi e molto di Jeeves, immedesimandomi
alquanto nello scapestrato e spesso fuori fase Bertie. Ma sono anni ed anni che
non leggo più di Wodehouse, e non so se ne riprenderò in mano qualcosa. Martel
invece l’ho letto solo dodici anni fa e questo fu il mio breve commento
Yann Martel Vita di Pi
Piemme 5,90 euro.
Mi piace a tratti. Sembra
promettere qualcosa in più, sul punto di decollare, quando entra nella
narrazione di come il naufrago si organizza la vita. Ma alla fine non mi
ha “emozionato”. Troppa pubblicità intorno? Una frase “Devi parlare della
paura… se la paura diventa un’oscurità inespressa che cerchi di evitare e che
forse riesci persino a dimenticare, ti esponi ai suoi attacchi futuri.”
Certo le mie trame all’inizio
erano molto stringate, e davano solo spazi a pennellate di sensazioni. Per cui,
al fine di fare ammenda della mia avarizia, mi e vi consolo dandovi il sunto,
con qualche personale modifica, della trama riportato su Wikipedia:
“Piscine Molitor Patel è un
ragazzo indiano che viene preso in giro a causa del suo nome fino a ridurlo
semplicemente in Pi. I suoi genitori gli hanno dato questo nome perché da
piccolo amava nuotare con suo zio e amava particolarmente la piscina pubblica
di Parigi. È attratto dalle religioni al punto da iniziare a professarne tre
insieme. Suo padre gestisce uno zoo ma, a causa dell'instabile situazione
politica ed economica dell'India negli anni Settanta, decide di emigrare con la
famiglia in Canada per rifarsi una vita, dopo aver venduto tutti gli animali.
La famiglia salpa insieme ad alcune bestie destinate agli zoo canadesi, ma,
durante il viaggio, la nave affonda, causando la morte dei familiari di Pi (i
genitori e il fratello) e di quasi tutti gli animali. Soltanto Pi e quattro
animali (una zebra, un orango, una iena ed una tigre del Bengala di nome
Richard Parker) riescono a salvarsi raggiungendo una scialuppa di salvataggio.
La scialuppa vaga nell'oceano per
diversi giorni e Pi assiste terrorizzato all'uccisione degli animali. Rimasto
solo con la tigre, Pi medita di ucciderla per timore di essere ammazzato a sua
volta. Intanto sulla scialuppa trova un kit di sopravvivenza per i naufraghi:
dei distillatori d'acqua marina, delle scorte di cibo e acqua, degli attrezzi
per la pesca, giubbotti di salvataggio e altri oggetti con cui costruisce una
zattera che lega alla scialuppa per stare a distanza dalla tigre. Col passare
dei giorni, decide di addestrarla dimostrandosi autoritario per farsi ubbidire
e per stabilire gli spazi sulla scialuppa, ma anche amichevole e generoso per
aiutarla a sopravvivere.
Pi imparerà a pescare e uccidere
e a combattere contro le avversità. Pur temendo spesso di morire e consapevole
di essere in balia del fato, la speranza di sopravvivenza, la fede in Dio e la condivisione
degli oggetti e degli spazi con Richard Parker lo motiveranno facendolo
diventare comunque un uomo più risoluto e sicuro. Si affezionerà ad alcuni
animali marini e resterà ammirato dai delfini, dalle balene e dagli squali.
Non mancano episodi grandi e
piccoli che costellano tutto il libro, ma alla fine Pi e la tigre, dopo 227
giorni di naufragio, approderanno in Messico dove Richard Parker, con il quale
ha costruito un rapporto speciale, fuggirà in una foresta abbandonandolo.
In ospedale, davanti a due
dipendenti del Dipartimento Marittimo del Ministero dei Trasporti giapponese,
trarrà le conclusioni morali e religiose della sua peregrinazione e davanti
alla loro incredulità, gli proporrà un altro racconto, più semplice e senza
animali, invitandoli a scegliere: i due intervistatori opteranno per la storia
con Richard Parker. Il libro è diviso in tre parti, ma possiede pure una
struttura unitaria. La prima parte è composta dalle elucubrazioni di un ragazzo
sulla spiritualità e la vita in India. La seconda è la fusione del ricordo
dettagliato e realistico della sopravvivenza. La terza e ultima penetra più a
fondo della spiritualità di Pi, che offre al lettore due modi di guardare la
stessa realtà e di scegliere la storia migliore.”
Per finire con tocco di
leggerezza, torno a Bertie Wooster ed alla sua affermazione sui motivi che lo
sostengono nell’avere il suo maggiordomo sempre con sé: “Jeeves era un uomo di
grande intelligenza, e sarebbe stata in molte maniere una gran comodità avere
qualcuno che pensasse per me”.
Conclusioni
Spero che nessuno di voi si sia
mai trovato in difficoltà solo contro una tigre, anche se so, e posso parlarne,
che spesso molti di noi si sono trovati realmente in situazioni in cui, forse,
era meglio affrontare la tigre. Tuttavia il libro della vita di Pi non mi ha
ancora convinto. Meglio ridere aspettando che Jeeves risolva le difficoltà
della nostra vita.
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