domenica 4 marzo 2018

Angloclassici 3 - 04 marzo 2018


Scusate il pessimo tentativo di crasi tra “anglosassoni” (come sono definiti i libri) e “Gialli classici” (come vorrebbe etichettarli il Corriere che li edita). Comunque eccoci ad una nuova puntata del genere con un solo libro veramente di sufficienza piena (l’ultimo) e gli altri che viaggiano tra il 5 ½ ed il 6- - (se fossero i voti di un professore). Devo dire che poi, personalmente, quello che più mi ha attirato di queste righe è cercare notizie di autori decisamente poco conosciuti (quando a volte del tutto ignoti).
Horatio Winslow & Leslie Quirk “Svanito nel nulla” Corriere della Sera Gialli 7 euro 6,90
[A: 07/03/2016– I: 21/07/2017 – T: 23/07/2017] - && +
[tit. or.: Into thin Air; ling. or.: inglese; pagine: 250; anno 1928]
Horatio Gates Winslow e Leslie W. Quirk sono i casuali autori di questo strano ma poco appassionante (per me) libro della serie anglosassone. Entrambi americani del Wisconsin, entrambi del 1882, percorrono strade diverse nel mondo dell’editoria, per ritrovarsi, nel 1928, a scrivere questa storia che rimarrà isolata: non scriveranno altro insieme, né altro faranno congiuntamente. Una storia comunque esemplare, per alcune ragioni che vedremo più avanti, dove la traduzione italiana del titolo (tento per non venire meno alle mie solite critiche) aggiunge l’aggettivo “svanito” che non compare nell’originale. Tra l’altro “Nel nulla” mi ricorda un esimio episodio dei bellissimi telefilm di Hitchcock. Ma divaghiamo. Il libro, come detto, ha (teoricamente) un posto d’onore nelle classifiche dei migliori libri intorno al mistero de “La camera chiusa”. Purtroppo, in Italia è stato pubblicato solo di recente, e la poca risonanza degli autori ha fatto sì che solo i patiti del genere ne avessero conoscenza. Ricordo che “La camera chiusa” è una tipologia di romanzo in cui l'indagine si svolge intorno a un delitto compiuto in circostanze apparentemente impossibili: un omicidio avvenuto in un ambiente chiuso, più propriamente una camera, o anche un ambiente anche all’aperto ma idealmente chiuso, vuoi per una distesa di sabbia o di neve assolutamente immacolata, oppure per situazioni metereologiche estreme: un incendio esterno, un tornado; o anche delle camere chiuse figurate: un tetto, una piscina. Come spesso accade in questa tipologia di storie, soprattutto nelle prime, c’è sempre vicino qualche altro episodio “soprannaturale” o presunto tale, che serve, come direbbe un illusionista, a fare volgere il capo in una direzione per presentare la soluzione da un’altra parte. Sicuramente, anche se siamo molto lontani dalla scrittura, possiamo ipotizzare tre elementi che stanno alla base della struttura del libro. Uno esplicito, dove vengono menzionate ed esposte alcune teorie occultistiche di uno strano personaggio dell’Ottocento, Eléna Petróvna von Hahn meglio nota con il nome di Madame Blavatsky, e di cui, se volete andare a vedere, Internet è piena di risorse dedicate alla sua “Teosofia” (ma anche esoterismo ed occultismo). Gli altri due più nascosti (e vicini alla scrittura del testo): la recente scomparsa di Harry Houdini e la pubblicazione del libro di Agatha Christie “La morte di Roger Ackroyd”, entrambi i fatti avvenuti nel 1926. Poiché non anelo a svelarvi molto, questi due tributi ve li lascio scoprire, se ne avete voglia. L’intreccio è, come vuole il genere, discretamente complesso. Ruota intorno a due figure tipiche: un assassino imprendibile, soprannominato lo “spettro di Salem” ed il criminologo dr. Klotz. Questi è uno dei più bizzarri investigatori della narrativa, arrogante, spavaldo e discretamente offensivo. Il suo intento maggiore è smascherare ciarlatani e maghi da strapazzo. Klotz, con le sue indagini, aveva fatto arrestare lo “spettro”, che però fugge, ma nella fuga si trova coinvolto in un incidente ferroviario e muore. Questo l’antefatto. Il romanzo, narrato dal prof. Nollins, allievo di Klotz, prende l’avvio da una seduta spiritica in cui viene detto a Klotz di tornare a casa. Lì trova la domestica che gli parla di uno spirito apparsole, e lui scopre un gioiello scomparso. In base a dei messaggi misteriosi decide di esumare la bara dello spettro: è sigillata, c’è dentro il cadavere giusto, ma questi ha al dito l’anello. Questo primo evento da “camera chiusa” (doppia direi: sparizione da una stanza e apparizione in una bara sigillata), sarà seguito ad un certo punto dall’omicidio dello stesso dottor Klotz e dalla sparizione del suo assassino, dissolto nell’aria, svanito, sotto l’occhio di testimoni ed in modo definito assolutamente sconcertante. Nel frattempo altri personaggi appaiono e si palesano sulla scena come comprimari e possibili autori dei fatti: lo stesso narratore Nollins, la sua fidanzata Daisy, che mostra un astio immotivato per il criminologo, il giudice Mather, che non approva il materialismo di Klotz, la giornalista Ann Clem, che vuole svelare i misteri ed è spesso vittima di allucinazioni, il mago Ernest Fitkin, a suo tempo sbugiardato da Klotz. Di questi probabili colpevoli, ne togliamo solo uno, Fitkin, in arte “Il Gran Galeoto” perché sarà lui a svelare l’arcano che in un intero capitolo svela i misteri nonché fa un elenco (che piacerebbe al mio amico Renato) delle affinità tra i lettori di romanzi polizieschi e gli spettatori di uno spettacolo di magia: da una parte troviamo i creduloni, disposti a credere a qualunque cosa sono convinti di vedere, mentre dall’altra ci sono i solutori di enigmi, categoria che comprende gli adulti ignoranti, i sospettosi e gli spiriti inquieti. Una delle migliori dichiarazioni di Fitkin è quando afferma che l’intera “partita” sia “una competizione di intelligenza tra gli scrittori, i criminali e i maghi da un lato, e i lettori, i detective e gli spettatori dall’altro”. Nonostante ciò, il libro risultato datato nella scrittura, pesante e pedante. Sicuramente è un caposaldo del genere, ma la sua lettura ora lascia poco piacere. Anche il meccanismo risolutivo, pur ingegnoso, è alquanto prevedibile, almeno da un certo punto in poi. Inoltre, il dedicare spazio e credibilità a tutta una serie di eventi soprannaturali non consentono ai due autori di sciogliere tutti i misteri, palesando una scarsa adesione al patto di onestà tra scrittore e lettore. Leggerlo è obbligatorio per chi ami il genere, ma possiamo ammettere che non mi è piaciuto.
Mary Fitt “In una sera di pioggia” Corriere della Sera Gialli 25 euro 6,90
[A: 02/08/2016– I: 23/09/2017 – T: 24/09/2017] - &&&--
[tit. or.: Death and the Pleasant Voices; ling. or.: inglese; pagine: 234; anno 1946]
Eccoci ad un nuovo libro della serie dei gialli “classici” direi di un discreto livello. Forse anche per la personalità dell’autrice che, sebbene abbia scritto molto di noir, non è per il noir che viveva la sua vita. Mary Fitt è infatti lo pseudonimo di Kathleen Freeman insigne grecista, titolare della cattedra di Greco all'università del Galles del Sud in quel di Cardiff. Così come Margaret Doody o come Danila Comastri Montanari, ecco allora una insigne docente che decide di sfruttare alcune sue doti dedicandosi ad una cosiddetta arte minore. Ma Fitt non ha interesse a speculare sui suoi amati greci, che saranno sempre presenti nelle sue scrittura "maggiori". Preferisce usare le sue doti affabulatorie, che i suoi studenti tanto apprezzavano, verso la costruzione di intrecci interessanti e di ragionamento. Tra le tante sue uscite, ad un certo punto si focalizza su di un personaggio, l’ispettore Mallett. Delle cui novelle il tratto caratteristico è il titolo, in genere composto dalla frase “Death and …”. Purtroppo però in questa uscita il suo eroe ragionatore, anche se richiamato dal titolo, compare solo come un'ombra durante l'inchiesta. Ne sarà responsabile e mentore, ma di poco spessore nel corso del ragionamento. Che tutto il carico è invece sostenuto dal giovane Jack Seaborne. Purtroppo Jack non ha un grande spessore, o qualche appiglio particolare, che ci faccia essere a lui sodali. Anche se l’idea della trama sembra carina, e così anche il suo sviluppo. Ma che da un certo punto in poi decade, scivolano verso un finale, scontato e poco entusiasmante. L'idea dicevamo: un sessantenne dalla grande vita muore. Ma non lascia la sua eredità ai suoi due figli inglesi, nomina invece erede unico Hugo, il figlio di primo letto che aveva avuto con la moglie indiana (dell’India non nativa americana), e di cui nessuna sapeva l’esistenza. L'intrigo nasce dal fatto che Jack, nella campagna inglese, si perde, rompe la macchina, e chiede ospitalità a casa Ullstone. Tutti pensano sia Hugo l'erede, lo trattano con rispetto, ma anche con freddezza. Solo sir Frederick lo prende in simpatia, in quanto dottore come Jack e poi scoprendosi mentore del di lui fratello. Tanto che lo lascia a custode del buon esito degli avvenimenti. Questo è il momento migliore, quello della presentazione dei personaggi e delle loro attività incrociate. Ci sono i due figli inglesi del morto: Ursula, che sembra presa dal fallito dottor Hillary, e Jim, che invece pare avere una storia con la lontana cugina Evelyn. Cuginastra che il morto forse voleva sposare, ma che Jim soppianta. Quattro attori che si muovono con tutte le possibili ambiguità. Accentuate dall’arrivo dell'aspettato ospite. Un ospite che inizia subito a far girare molte rotelle. Risulta antipatico sia a Jim che a Hillary. Jack sembra subirne la volubilità. Evelyn e Ursula, a turno, cadono preda dei suoi modi da “tombeur de femme”, che sa parlare, sa ballare, suona “Al chiaro di luna” al pianoforte. Si scopre però che si tratta non di Hugo ma del suo amico Marcel. Avrete già intuito la falsariga di una tragedia greca. Il Re che disereda i figli e l’erede che giunge sotto celate spoglie. Speravo si svelasse che Jack era Hugo. Invece Hugo arriva il giorno dopo, arriva ma morto. Chi aveva interesse a farlo fuori? I mancati eredi? Marcel che vorrebbe forse prenderne il posto? Evelyn che così, tornando da Jim, diverrebbe padrona della magione. Con un colpo di genio però, Mary Fitt fa scrivere ad Hugo un testamento che lascia tutto a Marcel. Cui ora Ursula ed Evelyn fanno di nuovo il filo. Nell’ombra poi c’è Hillary, ubriacone non molesto che si lascia andare verso l’oblio, e che potrebbe agire per lasciare la tenuta ad Ursula. Tutto sembra andare in questa direzione, poiché il giorno dopo Hillary si uccide. Sarà questo gesto un’estrema confessione? Siamo entrati a piè pari nella parte minore del romanzo, quella dove si spendono troppe parole per far capire l’ovvio. Che noi avevamo già capito dalle mosse dei protagonisti. Allora quello che Hillary deve confessare lo lascia scritto a Jack con una lunga lettera che ci dice tutto quello che si suppone non dobbiamo sapere ma che era scritto da tempo. La fine si affretta, tutti i comprimari vanno verso i loro segnati destini, così come l’artefice di tutto l’imbroglio. Rimane solo Jack, che finalmente si allontana dalla tremenda casa degli Ullstone (quasi fosse la casa degli Usher di Poe), ricordando il suo arrivo e le voci piacevoli che lo avevano accolto sotto la pioggia. Avrei gradito qualche colpo di scena in più e qualche spiegazione meno scontata. Magari un bel confronto nel salone con tutte le parti in causa. Ma consoliamoci con la bella prima metà, che resta dignitosa, ben scritta e piacevole, come dal titolo. E ricordiamoci dei ben più poderosi ed accademici scritti dell’autrice.
“Essere lasciati è una delle sensazioni più strane che abbia mai provato.” (155)
Milton Propper “Morte in sala d’attesa” Corriere della Sera Gialli 16 euro 6,90
[A: 09/05/2016– I: 17/11/2017 – T: 20/11/2017] - &&&--
[tit. or.: The Divorce Court Murder; ling. or.: inglese; pagine: 347; anno 1934]
Avrebbe preso la sufficienza piena, questo pur ben datato libro, se: fosse stato più stringato nell’avvio, avesse avuto un titolo coerente all’inglese, non mi avesse fatto scoprire anzitempo il colpevole (indico “il” al solito nel generico singolare onnicomprensivo italico, essendo possibile che il colpevole sia maschio o femmina). Ed anzi, stava avendo anche qualche punto in più perché: è un giallo americano di ragionamento, ed il ragionamento stava filando bene, l’autore era gay dichiarato, e per questo perseguitato ed alla fine costretto al suicidio a soli 56 anni. Propper nasce infatti nel 1906, si avvia ben presto alla carriera giornalistica, ed a 23 anni scrive il suo primo poliziesco, con protagonista un giovane ispettore della polizia di Filadelfia, Tommy Rankin. Per 14 anni produce un libro all’anno, seguendo Rankin nelle sue indagini, con un giallo nel filone dell’Ellery Queen degli anni Venti. Atipico, nel panorama americano, che, avvicinandosi la guerra, si orienta verso gialli d’azioni, sempre più intensa. Per sfociare negli hard boiled di Dashiell Hammett e Raymond Chandler. Propper è spiazzato, i suoi gialli non vendono più. È inoltre osteggiato in quanto gay dichiarato. Emarginato dalla scrittura, sopravvive per una ventina d’anni tra diverse angheria, per poi chiudere la sua vita con un gesto tragico a soli 56 anni. Ed il ragionamento, come seguiamo bene in questo suo libro, è ben portato avanti, si intesse una tela, cui scoperta dopo scoperta vengono aggiunti dettagli e possibilità. Per poi risolversi in un momento finale, dove tutti i pezzi del puzzle vanno al loro posto, senza tanto spargimento di sangue. Infatti, anche qui, pur nella lentezza un po’ diesel della partenza, ed in qualche momento di passaggio poco stringato, la tela del ragno è ben tessuta. La scena madre è già presentata all’inizio. C’è un divorzio in atto, abbastanza complicato, ed una testimone chiave, mentre aspetta di essere ascoltata dalla corte, viene uccisa. Questo il senso del titolo inglese (“Assassinio al Tribunale del divorzio”), un po’ stravolto da quello italiano (anche se Barbara viene uccisa proprio nella sala d’attesa del tribunale). Abbiamo i due divorziandi, Allen e Adele. Lei ricca del precedente matrimonio, lui un bel tipo senza molta arte, ma di bell’aspetto (cosa tipica nei gialli americani). Stanchi della loro routine, decidono, previo accordo economico, di arrivare al divorzio. Cosa che favorisce Allen che avrà un discreto appannaggio, Adele che potrà risposarsi con un altro bel tipo, al solito vicino alla malavita (anche se mai incolpato direttamente). Nonché Harvey, il fratello di Adele, che tornerebbe a curare gli interessi della sorella, mettendo a posto i suoi enormi debiti personali. Dovendo essere pe colpa, i due coinvolgono la segretaria di Allen in una tresca con falsa testimonianza. Tuttavia Allen scopre che Adele non è che sia uno stinco di santo, avendo anzi tempo iniziato la relazione con il losco Campbell. Per questo ipotizza di alzare la posta, prendendo a testimone la Barbara di cui sopra. moglie di un industriale ben in vista nella società di Filadelfia, anche se fino a quattro anni prima era una semplice manicure in un albergo di lusso. Con il gusto del disvelamento progressivo scopriamo poi che Barbara e Allen si frequentano da tempo, tanto da farci supporre una loro liaison precedente. Che Mortimer, il marito di Barbara, viene avvertito della possibile tresca, ma quando irrompe, insieme ad Adele e Harvey, nel motel del peccato, trova Allan non con la moglie ma con la segretaria. Seguendo poi una labile traccia di medicine per il mal di testa (siamo a metà degli Anni Trenta ed allora non era molto in voga, ma noi ora leggiamo che si imbottiva di … piramidone) Rankin scopre che Barbara in realtà si chiama Ellen, è stata un anno in prigione per colpa del suo precedente compagno, morto durante una rapina. Durante la quale il complice dei due si salva e scompare. Ricostruendo la scena del delitto, Rankin ci fa vedere come tutti gli indiziati potevano compiere il delitto: Adele che compra una bottiglia di cloroformio per passarla a Campbell che, con l’aiuto di due scagnozzi, potrebbe rapire Barbara; Campbell che potrebbe usare il cloroformio in modo eccessivo; Allen, che si allontana dal tribunale per parlare con un autista e potrebbe essere tornato anzi tempo sulla scena del delitto; Harvey che anche lui ha alcuni minuti non giustificati; Mortimer che mente sulla sua presenza in Tribunale. Quando Rankin capisce le motivazioni del delitto, che sono forse più ampie di quelle che si pensava all’inizio, arriva alla soluzione del caso. Che, come ho detto, aveva già da tempo la mia soluzione, quando troppe volte si gridava al lupo al lupo, ma mai (e qui cominciai ad insospettirmi) verso una delle persone indiziabili. Comunque si legge con gradevolezza, e scorre via senza troppi altri pensieri. Permettendo ad un pensieroso lettore di avere momenti di tregua da altri e ben più pressanti accadimenti.
Leslie Cargill “La morte viaggia in autobus” Corriere della Sera Gialli 22 euro 6,90
[A: 24/06/2016– I: 20/11/2017 – T: 22/11/2017] - &&
[tit. or.: Death Goes by Bus; ling. or.: inglese; pagine: 250; anno 1936]
Mi ero accostato abbastanza speranzoso a questo nuovo giallo anglosassone, spinto da due premesse intriganti. L’autore, il cui vero nome è Leslie Clarke, è praticamente ignoto, anche al “Grande Libro dei Giallisti Anglosassoni”. Si sa, per la quarta di copertina di un suo libro, che è nato nel 1895 e che Cargill è uno pseudonimo. Scrive 21 romanzi, l’ultimo nel 1952, poi scompare nell’ombra, e di lui si saprà solo, tramite il suo editore, che muore nel 1964. Ho provato in tutti i modi a saperne di più, ma anche attraverso tutti i più nascosti siti internet, questo è il massimo che si riesce a sapere. Cioè, questo, insieme all’elenco dei libri pubblicati a suo nome. Il secondo punto (oltre a notare di passaggio che finalmente, il titolo non viene massacrato come al solito) è la personalità del personaggio centrale, il risolutore del giallo. Morrison Sharpe viene definito “enigmista”. Solutore di cruciverba, rompicapi, nonché problemi matematici e/o scacchistici. Sembra un inizio promettente. Con un tono che Cargill mantiene per tutto il romanzo. Tuttavia, non basta dire che uno è un enigmista per farlo diventare tale. A parte il problema giallo in sé, Morrison non sembra mostrare nessuna caratteristica peculiare del solutore di enigmi. Soprattutto, e qui casca l’asino, l’autore non ci dice uno che uno degli enigmi da lui risolti. Ogni tanto, Cargill inzeppa la frase con: qui Mr. Sharpe risolve un cruciverba, qui Morrison fa dei strani segni su di un pezzo di carta, qui il nostro si china su di una scacchiera e pensa. Già questo mi stava innervosendo. Poi, ogni volta che la polizia fa un passo avanti, lui dice di averlo scoperto prima, di esserci arrivato prima, ma senza mai farci seguire il suo ragionamento. Come se noi si dovesse avere una fideistica adesione a tutto quello che dice l’autore. Ne risente anche la trama gialla, che si annuncia interessante, si complica strada facendo, ma si scioglie come neve al sole, che, per l’appunto, non ci vengono spiegati i ragionamenti di Morrison, né tanto meno quelli dell’ispettore di polizia. Il nostro enigmista, senza motivi apparenti, va su e giù per la campagna inglese, con treni ed autobus. Ma questa volta, il bus è particolarmente interessante, per i personaggi e gli avvenimenti. Ci sono una decina di persone, più l’autista. Autobus vecchio, che fatica in salita, scoppiettando talmente forte da coprire uno sparo che uccide un passeggero, Caleb. Sharpe prende il controllo della situazione, in attesa dei poliziotti, scoprendo che oltre a lui, sul mezzo c’erano: una coppia di agricoltori, da subito esclusa, un giovanotto, abbastanza sveglio anche se distratto, che dice di aver visto qualcuno scendere al volo, ed un barbone che scroccava un passaggio, il giovane John Smith, in possesso di una pistola che però non spara e che voleva convincere l’autista a partecipare a delle rapine, la signora Hanson, che, alla vista del morto, inopinatamente, sviene, un greco che sostiene fare il commerciante di mobili antichi, ma che nasconde qualcosa, il signor Young, unico a raccontare bene quello che ha visto, anche se poi mente su di sé, sulle sue manovre, e presto scompare. Morrison e l’ispettore, in un crescendo di piccole agnizioni scoprono al fine che quella mattina, sull’autobus, c’era veramente di tutto. Il signor Winslow, quello visto dal giovanotto e poi sparito, è in realtà un bancario in fuga con soldi rubati alla banca. Ma scappa dal bus lasciando i soldi, si trova nel bosco, vede il barbone, fuggito anche lui alla vista del morto, pensa di essere già stato raggiunto dalla polizia, e si uccide con del veleno. Poi c’era la grande banda di ladri internazionali, composta da Caleb (il morto, nonché il capo, nonché in possesso di una collana rubata poco tempo prima a New York), il greco (in funzione di ricettatore e smistatore della refurtiva), Smith e Young, i manovali del crimine, e la signora Hanson, amante dello sposato Young. Caleb aveva venduto la collana al greco, per poi rubargliela di notte e fuggire, inseguito dal resto della banda. Caleb aveva fatto il colpo per punire gli altri che, sotto la spinta di Young, oltre alle varie merci rubate, avevano cominciato a spacciare droga, elemento secondo Caleb disonorevole per un ladro. Anche se Caleb non è che sia tanto onorevole, venendosi a sapere poi che il giovane Smith è figlio suo e della signora Hanson. Quindi tutti avevano dei motivi per farlo fuori, ma solo uno della banda lo ha fatto. Vi lascio questo piccolo dilemma, anche se, pur non essendo Morrison, si comprende ben presto chi possa essere. Peccato, quindi, che ad un inizio promettente, seguano pagine non all’altezza, dove l’onnisciente Cargill ci spiega tutto, senza darci gli strumenti per seguire i nostri ragionamenti. Credo che sia stato giustamente dimenticato nel corso degli anni, come scrittore di seconda fascia.
Samuel W. Taylor “L’uomo con la mia faccia” Corriere della Sera Gialli 6 euro 6,90
[A: 29/02/2016– I: 25/11/2017 – T: 26/11/2017] - &&&
[tit. or.: The Man with my Face; ling. or.: inglese; pagine: 252; anno 1949]
Finalmente torniamo a livelli accettabili di scrittura in questa collana ultimamente un po’ troppo al ribasso. Tra l’altro con uno scrittore americano e non inglese, anche se fuori dall’ormai imperante hard boiled degli anni ’40. Taylor tra l’altro ha una sua storia strana (da lui poi scritta in una interessante biografia). Nasce nello Utah mormone, in una famiglia allargata ancora sull’onda poligamica del fondatore. Cerca di farsi un suo spazio, senza riuscirci in quel mondo chiuso e ristretto (andateci nello Utah e capirete), per poi fuggirne a 27 anni, rintanarsi a Redwood in California con la moglie, e da lì produrre il suo meglio. Sia in qualche buona sceneggiatura (anche se i biografi sbagliano ad attribuirgli una collaborazione con Hitchcock) sia nelle biografie, sia in qualche buon giallo o poliziesco o thriller. Come questo, che se avesse un buon regista sarebbe anche potuto diventare un buon film, ed invece non lo fu. Non è un poliziesco classico, non c’è da scoprire assassini o colpevoli, ma siamo lì, fin dalle prime righe a seguire la strana vicenda che comincia a vivere Charles "Chick" Graham. Onesto contabile, torna a casa dal lavoro una sera, e la moglie Cora, che sempre lo va a prendere alla stazione non c’è. torna a casa a piedi e trova la moglie, insieme al di lei fratello Buster, nonché suo socio nella contabilità, e la di lui moglie, insieme ad un quarto uomo. che sostiene di essere lui Chick. Un uomo con una strabiliante somiglianza. Noi seguiamo la vicenda dalla parte di Chick, e ci domandiamo, con lui, che cosa sta succedendo? Chi è quello? Perché il cane di Chick non obbedisce al padrone ma al nuovo entrato? Da qui, passo dopo passo, si aggiungono pezzetti di storia, in una vicenda che alla fine risulta essere una gigantesca e macchinosa messa in scena, tesa alla copertura di un furto di svariati milioni di dollari. Certo, l’operazione “sostituzione” è lunga, ma costruita con attenzione, perizia, e non facilmente scardinabile. Tutto era cominciato sotto le armi. Chick, ufficiale americano, si imbatte in Buster che lo scambia per il suo amico Rand. Sciolto l’equivoco, Buster si incolla a Chick, divenendone un’ombra fedele. Gli fa conoscere la sorella Cora, che comincia a fare la svenevole con lui. Gli nasconde le lettere della fidanzata Mary, che Chick ben presto fa scivolare nell’oblio, anche perché viene spedito in Europa. Al ritorno, Chick e Cora si sposano, Chick e Buster mettono su una società di contabilità, Bill, addestratore di cani, vende un bull terrier, gli vende il cane Jiggs. Insomma tutto fila per almeno un anno sul filo della normalità. Fino alla scena descritta sopra. Dove crolla tutto e dove Chick deve difendersi da tutti gli assalti alla sua persona. Arrestato, riesce a scappare, per scoprire che il giorno prima un bancario di nome Rand ha fatto una rapina di diversi milioni di dollari alla sua banca, ed è fuggito uccidendo un uomo. Una tramona costruita in anni e anni, aggiungendo tassello dopo tassello. Vista la somiglianza, Rand capisce la possibilità di una grande rapina, fa incollare Buster e Cora a Chick, va anche lui sotto le armi, dove riesce a sostituire le sue impronte digitali a quelle di Chick. Finita la guerra, mentre Chick inizia la sua vita come sopra, sempre controllato dai due fratelli, Rand convince il suo amico Bill, addestratore di cani, ad istruire due bull terrier gemelli, regalandone uno a Chick. Poi Rand fa la corte ad Alexandra, convincendo il di lei padre ad assumerlo nella banca di famiglia. Eccoci pronti al grande colpo: Rand, mentre trasporta un ingente quantitativo di valori, uccide la guardia che è con lui e fugge. Arrivato a Redwood (la città dove vive anche il nostro scrittore) mentre aspetta il ritorno di Chick, si sostituisce a lui nella casa, prendendo anche il cane gemello. Così tutto è pronto per mettere fuori gioco Chick: a casa nessuno lo riconosce, neanche il cane, una guardia lo arresta, ma mentre vanno verso il carcere, dove li aspetta Bill con un altro cane pronto ad assalire ed uccidere Chick, la guardia, inaspettatamente, rilascia Chick. Questo è il punto in cui poi incominciano le vicende a perdita di fiato: Chick ritrova la sua vecchia fiamma Mary, da cui cerca di farsi aiutare. Vuole rintracciare Alexandra, che conosce da vicino Rand, ma questa viene uccisa. Come vengono uccisi, ma mano, tutti i possibili testimoni a favore di Chick. Ma lui non demorde ed in una scena inversa della prima, mentre Rand sta in ufficio, Chick torna a casa, riprende il suo posto, ed al ritorno di Rand si cerca di ripercorrere la scena iniziale. Con il cane di Chick che torna ad essere il cane di Chick. E con la guardia che viene per arrestare qualcuno. Chi avrà la meglio? Vi lascio qualche suspense, dicendo anche che un film ne fu tratto senza grande successo, mentre l’altro film che mi veniva in mente, quello con Cage e Travolta, è basicamente diverso (lo ricordate, vero?). Bisognerebbe avere un buon regista, perché invece questo libro meriterebbe.
“Ma chi è che riesce ad avere dalla vita quello che veramente vuole?” (82)
Come dimenticare che la prima trama del mese porta con sé degli elenchi di libri letti? Ecco quindi i 14 libri decembrini, che una volta tanto spaziano veramente dall’alto in basso. Basso che raggiungono con lo striminzito saggio di Hoffmann e l’inutile (eppur tanto acclamato) giallo di Carrisi. Mentre le vette (o quasi) vengono raggiunte da due classici (o quasi) di Böll e di Simenon, nonché da due saggi (che finalmente sono all’altezza della loro fama). Avere un mese con quasi 1/3 delle letture quasi al top è evento assai raro.

#
Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Anne Holt
Quale verità
Einaudi
13
3
2
Zane Grey
Il ranger del Texas
Corriere della Sera Western
5,90
2
3
Massimo Cassani
Zona Franca
TEA
11
3
4
Heinrich Böll
Biliardo alle nove e mezzo
Mondadori
9,50
4
5
Zygmunt Bauman & Ezio Mauro
Babel
Laterza
10
4
6
Elizabeth George
Un piccolo gesto crudele
TEA
12
3
7
Massimo Recalcati
Il segreto del figlio
Feltrinelli
15
4
8
Jean M. G. Le Clézio
Voyage à Rodrigues
Folio
s.p.
2
9
Massimo Gramellini & Chiara Gamberale
Avrò cura di te
TEA
5
2
10
Roald Hoffmann
Chimica e poesia
Castelvecchi
s.p.
1
11
Georges Simenon
I Maigret – 9
Adelphi
s.p.
4
12
Donato Carrisi
Il suggeritore
Superpocket
4,90
1
13
Martin Cruz Smith
Tatiana
Repubblica Noir
7,90
2
14
Charlie Higson
Spara o muori
Repubblica Noir Junior
6,90
3

Tra oggi e domani ricorrono i 75 anni dalla nascita di due grandi cantanti italiani ormai scomparsi. Ma io voglio invece qui ricordarvi che ieri è stato il 66° compleanno di un mio amico. Di certo non vi dico che sia, ma almeno facciamo festa che il resto, per ora, in questo ’18 buio e pesto, non è che si sia allegri (ed accidenti alle moto, all’acqua e tanto altro). Ma io da questa grande piazza da dove canto al sole (belle citazioni, eh), vi saluto 

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