Approfittando del piano di
domeniche in questo pur freddo mese di marzo, accosto autori eterogenei, che
però crescono in un finale assolutamente strepitoso. Un buon librino sardo,
prestito del sempre ottimo Fako, una onesta ma mai esaltante prova del premio
Nobel Le Clezio (che continua a non convincermi). Poi lo splendido Mac Orlan e
le sue splendide nebbie, che già ci porta molto in alto. Ed a chiudere un
bellissimo ed impareggiabile Williams con il suo Stoner, da leggere, ed anche
rileggere.
Autori Vari “Sei per la Sardegna” Einaudi s.p. (prestito di Fako)
[A: 22/05/2017– I: 30/10/2017 – T: 31/10/2017] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 62;
anno 2014]
Ancora prendendo a piene mani dalla
sterminata libreria in smembramento dell’amico Roberto, ecco che pesco un
libricino, esile e pieno di … racconti. Già questo non mi entusiasma, come si
sa. Però poi leggo le premesse, un libro in cui diversi autori uniscono le loro
(poche) forze per dedicare i proventi del libro agli alluvionati sardi (ricordo
per i meno dotati, 18 novembre 2013, sedici morti). Beh, forse vale la pena
dedicarci qualche occhiata. Devo dire che, complessivamente, risulta un libro
disomogeneo. Proprio per le premesse, che volevano soltanto accostare alcune
pagine degli autori sardi della scuderia Einaudi (anche se il sardissimo e
vegliardo Mannuzzu è nato nel continente, vicino a Grosseto). Ma se l’idea è
buona, i vari pezzi del risultato non hanno lo stesso peso. Intanto, con
coerenza rispetto all’egualitarismo che sarebbe d’obbligo in questi casi, i sei
pezzi vengono proposti in ordine alfabetico dell’autore. Si comincia con una
sufficienza piena per Un uomo fortunato di Francesco Abate. Cronaca della vita di
chi sceglie la Sardegna come patria pur non essendo sardo e l’impegno civile
come dirittura di vita. Finale un po’ scontato, ma tutti vorremmo poter dire,
alla fine, di essere stati fortunati come Gabriele (rileggere il finale di
Ishiguro per tirarsi sempre su). Non vi parrà strano, invece, che cresca nei
miei voti il poco sardo E se fosse una
malattia? di Alessandro De Roma,
che ritengo il migliore del lotto. Perché parla di viaggi, parla di turismo,
parla del luogo dove si arriva come un altro da sé, di cui bisogna esorcizzare
l’esistenza, posti bellissimi che diventano la caricatura di sé stessi.
Viaggiare non è fare il turista. Perché viaggiare è quasi una malattia, per la
quale non esiste altro rimedio che lo sciamanico ripetere di gesti rituali.
Come il mio lasciare un pezzo di vestiario là dove vado in giro per il mondo.
Così il mondo avrà pezzi di me, ed io avrò la scusa (mentale) per tornarci.
Comunque Alessandro ha in ogni caso il merito di riportarmi a Macchu Picchu ed
a Calcutta, anche se poi lui finisce ad Olbia mentre io ritorno in Prati con il
bus da Fiumicino. Poi, già i racconti mi danno prurito, figuriamoci le poesie
isolate come questa L'infinito non
finire di Marcello Fois. Parole
che scorrono, ma che non fanno presa. Un autore che ad altro mi aveva abituato,
se non altro ricordando la trilogia dedicata all’avvocato e poeta sardo
Sebastiano Satta. Qui in una decina di pagine, evoca il tradimento (soggettivo
di sicuro, ma anche oggettivo) che la sua gente ha fatto al patrimonio
culturale sardo. C’è tensione civile, ma non riesce a coinvolgerci, non riesce
ad andare sopra un paio di librini (anche scarsi) di gradimento. Anche se
meglio del seguente illeggibile episodio prosaico-poetico della Cantata profana di Salvatore Mannuzzu. Non l’ho capito, non riesco a seguirne le
tracce dove quattro personaggi, attori di questo libretto per musica, parlano
di un impiccato e di una terra che muore giorno dopo giorno. Mannuzzu è di
certo anziano e poco prolifico (si avvia dolcemente verso i novanta anni), ha
scritto tanto e forse non aveva voglia di produrre altro. Così si riesuma
questa dozzina di pagine, che avrei volentieri saltato. Per fortuna si risale
con L'eredità di Michela Murgia, che, seppur in un lungo ed a volte per me poco coinvolgente
racconto, aggiorna le tematiche care ai primi sardi che ho letto tanti e tanti
anni fa, capovolgendone non il senso ma il percorso. Ovviamente la mente va a
Gavino Ledda, ma qui il liberato, lo studioso, decide di essere pastore non per
forza ma per scelta, perché alla fine possa dire di “fare l’unica vita che
volevo fare”. Dispiace che sia un racconto telegrafico, ma si riavvicina alla
sufficienza. Come, anche se anch’esso purtroppo breve, per l’ultimo scritto, Grilli in testa di Paola Soriga, che in quattro anguste paginette esorta a coltivare
illusioni, anche avvicinandosi all’età adulta. Un bacio non vale la lettura di
un libro ricevuto in regalo. Come disse qualcun altro, il bacio passa, il libro
no. Insomma alla fine la sufficienza, soprattutto per i primi due testi, la
merita appieno. Corroborata dall’accorata prefazione di Fois, che se la prende
con gli scempi che portano morte alla sua terra e ad altre terre italiche. Se
la prende (e noi con lui) a chi taglia gli alberi, costruisce case sul vuoto,
ricopre la nostra terra di cemento, rimanendo insensibile “al grido di dolore”.
E così continueremo a piangere la Sicilia, la Calabria, la Campania, il Vajont,
Rigopiano, e via distruggendo. Finisco con una chicca che deriva dal primo
racconto (e dedicato ai miei cugini romanisti): ho controllato, il 21 febbraio
1937 in effetti, come dice Abate, a Roma si giocò il derby; era Lazio – Roma,
ed i giallorossi vinsero per 1 a 0 (anche se poi a fine campionato furono a
metà classifica, mentre la Lazio arrivò seconda a 3 punti dalla vincitrice
Bologna). Il gol confermo è stato segnato da Alfredo Mazzoni, che quell’anno
segnò cinque gol, ed in tutte e cinque le partite in cui ha segnato la Roma ha
vinto (Sampdoria, Lazio, Juventus, Napoli e Inter).
“E
se il turismo fosse una malattia? … La smania di fotografare e catalogare tutti
quei luoghi che, in misura più o meno grande, possono essere considerati
simbolo di qualcosa.” (17)
Jean-Marie Gustave Le Clézio
« Voyage à Rodrigues » Gallimard s.p. (regalo di Walid)
[A: 12/06/2017 – I: 17/12/2017 – T: 20/12/2017] - &&
+
[tit. or.: originale; ling. or.: francese; pagine: 146;
anno 1986]
Un libro che ha
una bella storia (come libro), una trama interessante anche se inesistente, una
scrittura che, al solito, non mi convince. Ho iniziato a suo tempo a leggere
qualcosa di Le Clézio dopo l’assegnazione del Nobel, ma, a parte il suo primo
romanzo, quello che lo rivelò a 23 anni, non mi ha mai convinto fino in fondo.
Ma torniamo all’inizio, alla storia del libro. Era giugno a Gerusalemme, e
stavo portando in giro per le terre d’Israele un interessante gruppo di
avventurieri. In un caldo pomeriggio di riposo, mi sono ritrovato senza più
niente da leggere. Allora Walid, amico spesso utile ma spesso anche difficile,
mi dice va, tieni questo, l’ho letto, non mi ha convinto, ma forse a te
interesserà. Lette alcune pagine mi sono ritrovato in un turbine di cose da
fare che non mi hanno consentito di andare avanti. Ma il libro è rimasto tra i
primi da leggere quando c’era spazio. Volevo riportarlo nella seconda andata
gerosolimitana, ma ho lisciato anche quella. Ed allora ora, nella vicinanza del
Natale, l’ho letto velocemente ribadendo il grazie a Walid. E ribadendo anche
il suo giudizio. Non mi ha convinto. Forse andrebbe letto con il precedente,
cui fa riferimento ampiamente, “Il cercatore d’oro”. La storia romanzata delle
avventure di suo nonno nelle isole mauriziane. Perché Le Clézio è, come dice lui
stesso, uno scrittore francese e mauriziano. Che le radici di famiglia vengono
proprio dalle isole dell’Oceano Indiano, anche se poi lo scrittore nasce a
Nizza nel 1940. Dicevo che va letto insieme, perché questo viaggio è un
ripercorrere le tappe delle idee che hanno generato il cercatore d’oro,
ripercorrendo, questa volta senza finzione, le tappe del famoso nonno. Un libro
quindi che si snoda tra memoria e descrizione. Il nonno, benché giudice in
quelle isole, dedicò la maggior parte delle sue energie mentali alla ricerca
del tesoro di un pirata che, probabilmente, lo aveva nascosto in una di quelle.
Si imbatte casualmente in testi e mappe. Poi ne ricerca a fondo altre per
completarne il quadro. Ha un’idea vincente, collocando la ricerca propria nella
meno sfruttata delle isole, questa di Rodrigues. Qui il nipote, cinquant’anni
dopo che il nonno è morto, ritrova le carte, ed inizia un viaggio nella
memoria. Torna alle Mauritius, torna a Rodrigues, e cercando di interpretare
quelle criptiche scritte cammina per i luoghi che avevano visto ottanta anni
prima il nonno camminare, cercare, scavare. Il testo scorre come una lunga
passeggiata, con lo scrittore che cerca un filo nella sua memoria, riannodando
qua e là le attività del nonno. E poi riempiendoci di nomi di alberi, di
luoghi, di faune. Ma non solo, che se si parla di pirati, poi, si ritorna anche
a nominare i corsari del mare, nonché le diverse Compagnie affaristiche
olandesi ed inglesi che, a volte sfruttandoli a volte osteggiandoli, fecero
fortuna in quei luoghi. Certo, leggendo le righe ritorna al solito in me la
voglia di andare, di vedere. Perché non sono mai andato alle Mauritius? O
all’isola di Réunion? Boh, forse un giorno, o forse mai. Certo, anche, le
parole che rimandano al nonno fanno rivivere i sogni chimerici di chi vive per
un sogno e su quello costruisce tutta la vita che non riesce a vivere. Il
nonno, con le sue attività ufficiali, con la sua vita entro le regole, non ha
forza, non ha nerbo. Poi, a volte, a distanza di anni, si ritrova sull’isola,
si spoglia degli orpelli esteriore e trova il suo essere cercatore. Trova
anche, e ne farà uno scritto noto purtroppo solo negli ambienti dei cercatori
di tesori, il primo luogo dove venne sepolto il tesoro. Che non è più lì. Per
alimentare le sue speranze interne, invece di pensare che qualcuno lo trovò
prima di lui, ne immagina lo spostamento in altro e più nascosto luogo. Un
sogno è sempre un sogno, e così, per quel sogno, si continuerà a vivere. Anche
se durante quel sogno il resto del mondo era devastato dalla Prima Guerra
Mondiale. Un contrasto che l’autore, il nipote, non riesce a ricomporre. Per Le
Clézio, in ogni caso, questo è un atto d’amore ed un motivo per disvelare come
nasceva e da dove nasceva la sua scrittura. E come atto d’amore lo accetto. Ma
dicevo la sua scrittura non mi prende. Come mi lasciano fredde tutte le pagine,
per fortuna poche, zeppe di indicazioni cartografiche, di Nord e di Sud, di
numeri e di passi (anzi di “piede francese” che misura 2 cm in più del piede
internazionale). Lo ringrazio per la messe di parole nuove che nel frattempo,
anche se molte naturalistiche che saranno presto dimenticate per la mia nota
mancanza di sensibilità verso il mondo verde. E lo ringrazio anche perché mi ha
fatto viaggiare leggendo (ovvio, chi legge è un viaggiatore, come dice un
quadro appeso all’entrata di casa mia).
“On ne partage pas les
rêves.” [Non si
condividono i sogni.] (135)
Pierre Mac Orlan “Il porto delle nebbie” Adelphi s.p. (Natalino di
Paola)
[A: 25/12/2017 – I: 07/01/2018
– T: 09/01/2018] - &&&&&
[tit. or.: Le
Quai des brumes; ling. or.: francese; pagine: 143; anno 1927]
Probabilmente
pochi non conoscono il film di Marcel Carné con Jean Gabin, Michele Morgan e
Pierre Simon. Un bellissimo film, su cui torneremo più avanti. Perché qui
parliamo invece dell’altrettanto bello e per me fin ad ora ignoto libro che ne
fu all’origine. E quindi un grazie immediato a Paola che me lo ha fatto
scoprire. Un libro decisamente diverso dal film, che però ne è stranamente
fedele. Con quella fedeltà che solo le opere eccelse sanno avere. Quella di
cambiare tutto per restare sé stessi. Il libro è comunque ben confezionato da
Adelphi, magistrale in queste sue riproposizioni, anche se non mi è piaciuta
gran che la prefazione di Ceronetti. Al contrario ho trovato ottima la
post-fazione di Francis Lacassin. Che spinge, a chi come me poco ne sapeva, a
cercare di più sull’autore. Scoprendo una bella figura del Novecento francese.
Come sottolinea Wikipedia, un personaggio che fu bohémien, scrittore, soldato,
pittore e reporter; dove però si dimentica anche l’ultima attività di Mac
Orlan, quella di paroliere. Personaggio che nasce Pierre Dumarchey, per
adottare quello strambo pseudonimo, primo perché quel “Mac” dava un tocco
esotico (millantate ascendenze gallesi) e poi “Orlan” in onore della cittadina
di Orléans, patria e luogo deputato di quello che sarà per sempre il suo
ispiratore interiore: François Villon. Il nostro bohèmien, verso la fine degli
anni ’20, dopo altri libri dedicati “alla liberazione dell’immagine femminile”,
si butta in quest’opera che, ma questo lo sappiamo noi posteri, gli darà fama
imperitura. Intanto, però, affrontiamo un primo elemento di discussione che
arriva dal titolo. Infatti, il 90% del romanzo si svolge a Montmartre, che può
avere di tutto, ma di certo non un porto. Inoltre, il “quai” del titolo
ripercorre la nomenclatura delle strade che costeggiano la Senna (come il
famoso lungosenna di Maigret, il Quai des Orfèvres). L’operazione immaginifica
di Mac Orlan è ammantare il monticello parigino, teatro di molte sue avventure,
delle nebbie, che spesso c’erano prima della costruzione di quella orrenda
chiesa, che tuttavia fece diradare il clima lugubre del monte. Allora perché
“porto”? Tutto deriva dal film. Dopo averne tratto, con Jacques Prévert, una
sceneggiatura che Mac Orlan aveva apprezzato, il regista Marcel Carné ingaggia
Jean Gabin come protagonista. Ma Gabin era legato ad una casa di produzione
tedesca, che voleva far girare il film ad Amburgo. Dopo averlo adattato, nel
momento della revisione, i tedeschi si tirarono indietro (troppo
antimilitarismo), e si fece avanti una produzione francese. Tuttavia, tutto era
stato “montato” per un porto, quindi invece che a Parigi, la location viene
spostata a Le Havre. Ecco che si arriva al porto del titolo. Dato poi che la
censura fascista impedì l’uscita del libro in Italia, che apparve solo dopo la
fine della guerra, ormai il titolo del film era uscito, e rimase appiccicato
anche all’opera letteraria. Oltre che per il valore filmico, l’opera comunque
si solleva dal resto della produzione di Mac Orlan perché spinge al limite
quella descrizione della vita e del sociale che, appunto, l’autore chiama
“fantastico sociale”, un ponte letterario tra espressionismo e surrealismo.
Dove si prendono miserie quotidiane e si fanno assurgere ad emblema delle
miserie della vita. Il fantastico tradizionale si basava (e si basa)
sull'irruzione del soprannaturale (e dell’irrazionale a volte) nella vita di
ogni giorno, per Mac Orlan i fantasmi sono sostituiti da figure ambigue ma
umane. Che so, Jack lo squartatore ed i suoi epigoni. Gli altri elementi
costitutivi sono ad esempio i quartieri della prostituzione, il poco valore
della vita umana, il potere suggestivo della fotografia, la velocità, i
paesaggi devastati dalla guerra, il malessere e l’ansia generata dal presagio
di futuri disastri (cioè siamo nella piena descrizione del mondo moderno). In
questo quadro di riferimento, attingendo alle sue esperienze del primo decennio
del secolo, l’autore, in una notte nebbiosa, fa convergere nel locale “Le Lapin
Agile”, un quintetto di personaggio di cui ci spiega la natura, e che,
svolazzando, fa poi seguire nelle successive vicende. C’è il pittore tedesco,
che si ritiene maledetto, secondo cui lui non dipinge le persone ma la loro
morte. Tensione insopportabile, che lo porta la notte stessa ad impiccarsi nel
suo atelier (ma dopo aver dato da mangiare al gatto). C’è Isabel il macellaio,
detto Zabel, che ripara nel locale, dopo essere estato inseguito da una banda
di “apache” (ricordo che con questo termine si indicano a Parigi dei malavitosi
che si aggirano in bande, e che hanno per distintivo delle scarpe molto lucide).
Lui perde un pacco nella fuga. Seguiamo poi la sua storia, scoprendo che il
pacco era la testa di un ricattatore da lui ucciso per rapina in un momento di
bisogno. Motivo per cui Isabel sarà ghigliottinato. C’è il piccolo soldato,
stanco della guerra o delle guerre (in cui Pierre mette un po’ del fratello
Jean), che diserta, dopo la notte al Lapin, si aggira per qualche anno su e giù
per la Francia ed i suoi porti, capendo che l’uniforme gli aveva dato un manto
di invisibilità, in base alla quale poteva essere più sé stesso, visto che era
privo di qualsivoglia capacità lavorativa. Così dopo cinque anni, si imbarca a
Marsiglia verso la Legione Straniera (Mac Orlan non ci dice che fine faccia, ma
sappiamo che Jean, suo fratello, fatta lo stesso percorso, muore in Africa, da
legionario). Ed infine c’è l’eroe eponimo, Jean Rabe, eroe perché è quello su
cui si appunta l’occhio di Mac Orlan come su di un altro sé stesso. Una persona
abile nel fare mille cose, ma che non ha voglia, costanza o altro di farne una.
Così vive arrangiandosi con lavoretti saltuari, scroccando qualcosa quando può.
In Jean si sente il male di vivere, la difficoltà di reagire, l’incapacità
decisionale. Tutto scorre su di lui. Anche la breve notte d’amore con Nelly,
anche la scomparsa del suo cane. Ramengo anche lui sul suolo francese, viene al
fine richiamato sotto le armi. Lì capisce intimamente che non ne uscirà mai, da
questa sua condizione interna. Allora prende il fucile, spara ad un ufficiale,
solo per farsi uccidere dagli altri soldati, quasi non avendo il coraggio di
suicidarsi. Rimane Nelly, l’unica donna, che sta sui diciott’anni all’inizio
del romanzo, che è invece empatica verso gli altri, anche lei tirando avanti
con qualche scroccherie, ed un po’ di femminilità. Con un po’ dei soldi di
Jean, si sistema per qualche tempo in una pensione. Da lì, sfruttando
cinicamente il suo corpo e gli uomini che le sono intorno, sarà l’unico
personaggio vincente. Triste, ovvio, come triste deve essere la vita di chi
vende il proprio corpo, di chi vede sparire il grande amore (Jean). Ma la
vediamo alla fine, dopo la Prima Guerra, ancora sulle tracce del limitare tra
malavita e vita “normale”, andare avanti ed ancora avanti, accompagnata dal
cane di Jean Rabe, che ha ritrovato (il cane, ovvio) ed adottato. Non è un
caso, è nelle corde di Mac Orlan questa fiducia nello spirito femminile anche
nelle avversità. Fa parte della sua complessa filosofia bohemien e parigina.
Lasciamo così queste intense pagine, che tra le due guerre ci ricordano che se
un orrore è finito, la cattiveria umana, presto, ce ne proporrà altro.
Rimangono tocchi, impressioni, e soprattutto “Le Lapin Agile” con la sua fauna
montmartriana, che vide in quegli anni passare al bancone da Aristide Bruant a
Toulouse-Lautrec, da Apollinaire a Picasso, ed ovviamente Mac Orlan ed i suoi
amici. Come ultima chicca, ricordo anche la nascita del nome. Era un locale
quasi di campagna, che nell’Ottocento aveva cambiato tanti nomi, sino a che
l’oscuro pittore André Gill ne disegno l’insegna, un coniglio che scappa dalla
pentola. Tanto successo ebbe, che la locanda si cominciò a chiamare “Le Lapin à
Gill”. Da qui al nome attuale, capite bene come il passo sia breve.
John Williams “Stoner” Fazi editore euro 15 (in realtà, scontato a
11,25 euro)
[A: 18/09/2017– I: 12/01/2018 – T: 14/01/2018] - &&&&&+
[tit. or.: Stoner; ling. or.: inglese; pagine: 332;
anno 1965]
Un libro che mi ha
emozionato e che ho letto tutto di un fiato. È vero, la mia amica Luciana mi
aveva detto già da tempo di leggerlo ed io avevo rimandato un po’ casualmente,
un po’ per quel sentore di “storie di un uomo inutile”, che mi ronzava, erroneamente,
nella testa. Faccio ammenda. Questa è la storia di un uomo che forse non è
utile in sé, ma che lascia tanti solchi, dentro e fuori di sé. Soprattutto, una
storia talmente semplice che è proprio la storia di uno di noi, uomini forse
inutili che percorriamo il suolo di questa nostra terra. Come rileva Peter
Cameron nella bella post-fazione, il libro è già tutto nelle prime righe.
Vediamo William Stoner descritto, e immortalato nelle sue tappe fondamentali.
Nasce nel 1891, nel 1910 entra all’Università, nel 1918 si laurea (non entro
nei livelli di laurea americana, troppo complicati per me), e comincia la sua
docenza che porterà avanti sino alla morte nel 1956 (a soli 65 anni, e questo
già mi colpisce). Il libro può finire qui. Invece Williams ha la capacità di
dilatare queste tre righe in più di trecento pagine, facendo in modo che la mia
attenzione non decada mai. Ci racconta l’evolversi di questa vita normale,
dall’infanzia contadina all’idea di iscriversi ad Agraria, per poi essere
folgorato, al secondo anno, da una lezione di inglese. Decide quindi di
cambiare facoltà, e lo fa con successo, capacità. Si laurea, comincia a
specializzarsi, dottorato, primo insegnamento. Conosce Edith di cui si
innamora, corteggia e sposa. Ma non sarà mai un rapporto ed un matrimonio
facile. O felice. Tuttavia hanno una bambina, Grace. Si nota nel loro diverso
rapporto con Grace anche la difficoltà dei loro rapporti umani. Difficoltà
anche sul lavoro, dove, per un eccesso di onestà, si inimica un altro docente.
Che farà poi più carriera di lui, che lo metterà alle corde, lasciandogli solo
briciole di insegnamento. Ma Stoner non si tira indietro. Forse dà anche il
meglio di sé in questa fase. Tanto che trova anche l’amore con Kathleen. Certo,
non lascerà mai Grace. Certo, non è semplice né ben visto un rapporto tra
professore confermato e dottoranda. Dopo la breve stagione d’amore, dovrà fare
marcia indietro. O forse Kathleen decide lei di fare un passo di lato. Rimane
lì, lui, all’università. Continua ad insegnare, gli anni passano, Grace cresce,
oppressa dalla sotterranea lotta familiare. Tanto che si fa mettere incinta e
si sposa per poter fuggire. Gli ultimi anni ancora hanno alti e bassi. Alti
professionali, che imposta i suoi corsi in modo innovativo, con gli studenti che
lo seguono al meglio. Bassi familiari, che con Edith non andrà mai a soluzione,
e con Grace che se ne va lontano ad annegare nel bere le sue angosce personali.
Fino all’età in cui dovrebbe andare in pensione, vorrebbe rimanere, lotta ed
ottiene di farlo. Ma un tumore mette fine alla sua vita ed alla sua lotta. La
capacità, bellissima, di Williams di raccontarci tutta questa vita normale,
banale, senza scatti. Stoner ha tante possibilità, ma come tutte le persone
normali riesce a sfruttarne solo alcune. Scrive un bel libro. Comunica la
passione per le lettere ai suoi studenti. Ma non farà mai il “salto di
qualità”. Perché non tutti lo fanno (anzi sono in pochi). Ma Williams ci fa
appassionare comunque a questa normalità. Alle battaglie che Stoner affronta nella
sua vita. Con Edith. Con Grace. Con Kathleen. Con il professor Lomax. Si sente
inoltre la mano di una persona anch’essa dedita e con passione alle lettere,
negli intarsi di docenza. Quando Stoner parla di retorica e grammatica. Quando
si discetta su Shakespeare e sul grammatico latino Donato. Si sente la
conoscenza del mondo universitario, nelle lotte tra docenti, negli sgambetti,
nelle ripicche, nelle lotte di potere. Si avvertono tanti mondi sottesi al
testo. Il passaggio di Stoner dal mondo contadino familiare (e magistrali le
pagine sulla morte dei genitori) al mondo intellettuale universitario. Stoner
vi entra impreparato, e continuerà ad essere sempre esposto a chi ha alle
spalle altre famiglie, altri sostegni. Come si sente l’ingenua fanciullezza del
suo amore per Edith, con un rapporto in cui entrambi entrano senza sapere
molto. E senza sapere molto continueranno a viverlo per decenni. Come non
rimanere coinvolti inoltre quando Stoner scopre la bellezza dell’amore, quando
vi si apre, quando vi trova gli unici momenti di serenità dei suoi
quarant’anni. Noi siamo lì, con tutte le forze che gli diciamo dai, buttati,
fai uno scatto in avanti. Eppure ci vogliono qualità anche in questo, ed un
uomo normale non sempre può averle. Non sempre se la sente. Esco alla fine da
queste pagine arrabbiato e felice. Arrabbiato perché avrei voluto per Stoner
un’altra vita, un altro svolgersi degli eventi. Felice perché sono delle pagine
che non stancano mai di essere lette. Che si concatenano, le une alle altre
come un perfetto meccanismo ad orologeria. Ma anche io mi sento molto Stoner,
davanti a queste righe. Sento che potrebbero esprimere meglio idee luminose che
frullano nella testa. E come Stoner davanti alla prima domanda del suo
insegnante, rimango muto. È talmente affascinante che non si riescono a trovare
modi di condividerlo. Se non esortando a leggerlo, ed anche a rileggerlo. Un
punto altissimo di letteratura.
“La persona che amiamo da subito non è quella che
amiamo per davvero e … l’amore non è una fine ma un processo attraverso il
quale una persona tenta di conoscerne un’altra.” (225)
“Non riusciva a pensarsi come un vecchio. Certe volte, la mattina …
guardava la sua immagine riflessa nello specchio e non si riconosceva affatto
in quel viso che ricambiava stupito il suo sguardo.” (290)
Approfittando
poi dell’assenza di viaggi imminenti, ci si dedica a mettere a posto cose e
case. Soprattutto nel pensiero che la casa in campagna posso diventare un bel
punto di riposo per quando si è stanchi. Vedremo.
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