domenica 25 marzo 2018

Finale entusiasmante - 25 marzo 2018


Approfittando del piano di domeniche in questo pur freddo mese di marzo, accosto autori eterogenei, che però crescono in un finale assolutamente strepitoso. Un buon librino sardo, prestito del sempre ottimo Fako, una onesta ma mai esaltante prova del premio Nobel Le Clezio (che continua a non convincermi). Poi lo splendido Mac Orlan e le sue splendide nebbie, che già ci porta molto in alto. Ed a chiudere un bellissimo ed impareggiabile Williams con il suo Stoner, da leggere, ed anche rileggere.
Autori Vari “Sei per la Sardegna” Einaudi s.p. (prestito di Fako)
[A: 22/05/2017– I: 30/10/2017 – T: 31/10/2017] - &&& 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 62; anno 2014]
Ancora prendendo a piene mani dalla sterminata libreria in smembramento dell’amico Roberto, ecco che pesco un libricino, esile e pieno di … racconti. Già questo non mi entusiasma, come si sa. Però poi leggo le premesse, un libro in cui diversi autori uniscono le loro (poche) forze per dedicare i proventi del libro agli alluvionati sardi (ricordo per i meno dotati, 18 novembre 2013, sedici morti). Beh, forse vale la pena dedicarci qualche occhiata. Devo dire che, complessivamente, risulta un libro disomogeneo. Proprio per le premesse, che volevano soltanto accostare alcune pagine degli autori sardi della scuderia Einaudi (anche se il sardissimo e vegliardo Mannuzzu è nato nel continente, vicino a Grosseto). Ma se l’idea è buona, i vari pezzi del risultato non hanno lo stesso peso. Intanto, con coerenza rispetto all’egualitarismo che sarebbe d’obbligo in questi casi, i sei pezzi vengono proposti in ordine alfabetico dell’autore. Si comincia con una sufficienza piena per Un uomo fortunato di Francesco Abate. Cronaca della vita di chi sceglie la Sardegna come patria pur non essendo sardo e l’impegno civile come dirittura di vita. Finale un po’ scontato, ma tutti vorremmo poter dire, alla fine, di essere stati fortunati come Gabriele (rileggere il finale di Ishiguro per tirarsi sempre su). Non vi parrà strano, invece, che cresca nei miei voti il poco sardo E se fosse una malattia? di Alessandro De Roma, che ritengo il migliore del lotto. Perché parla di viaggi, parla di turismo, parla del luogo dove si arriva come un altro da sé, di cui bisogna esorcizzare l’esistenza, posti bellissimi che diventano la caricatura di sé stessi. Viaggiare non è fare il turista. Perché viaggiare è quasi una malattia, per la quale non esiste altro rimedio che lo sciamanico ripetere di gesti rituali. Come il mio lasciare un pezzo di vestiario là dove vado in giro per il mondo. Così il mondo avrà pezzi di me, ed io avrò la scusa (mentale) per tornarci. Comunque Alessandro ha in ogni caso il merito di riportarmi a Macchu Picchu ed a Calcutta, anche se poi lui finisce ad Olbia mentre io ritorno in Prati con il bus da Fiumicino. Poi, già i racconti mi danno prurito, figuriamoci le poesie isolate come questa L'infinito non finire di Marcello Fois. Parole che scorrono, ma che non fanno presa. Un autore che ad altro mi aveva abituato, se non altro ricordando la trilogia dedicata all’avvocato e poeta sardo Sebastiano Satta. Qui in una decina di pagine, evoca il tradimento (soggettivo di sicuro, ma anche oggettivo) che la sua gente ha fatto al patrimonio culturale sardo. C’è tensione civile, ma non riesce a coinvolgerci, non riesce ad andare sopra un paio di librini (anche scarsi) di gradimento. Anche se meglio del seguente illeggibile episodio prosaico-poetico della Cantata profana di Salvatore Mannuzzu. Non l’ho capito, non riesco a seguirne le tracce dove quattro personaggi, attori di questo libretto per musica, parlano di un impiccato e di una terra che muore giorno dopo giorno. Mannuzzu è di certo anziano e poco prolifico (si avvia dolcemente verso i novanta anni), ha scritto tanto e forse non aveva voglia di produrre altro. Così si riesuma questa dozzina di pagine, che avrei volentieri saltato. Per fortuna si risale con L'eredità di Michela Murgia, che, seppur in un lungo ed a volte per me poco coinvolgente racconto, aggiorna le tematiche care ai primi sardi che ho letto tanti e tanti anni fa, capovolgendone non il senso ma il percorso. Ovviamente la mente va a Gavino Ledda, ma qui il liberato, lo studioso, decide di essere pastore non per forza ma per scelta, perché alla fine possa dire di “fare l’unica vita che volevo fare”. Dispiace che sia un racconto telegrafico, ma si riavvicina alla sufficienza. Come, anche se anch’esso purtroppo breve, per l’ultimo scritto, Grilli in testa di Paola Soriga, che in quattro anguste paginette esorta a coltivare illusioni, anche avvicinandosi all’età adulta. Un bacio non vale la lettura di un libro ricevuto in regalo. Come disse qualcun altro, il bacio passa, il libro no. Insomma alla fine la sufficienza, soprattutto per i primi due testi, la merita appieno. Corroborata dall’accorata prefazione di Fois, che se la prende con gli scempi che portano morte alla sua terra e ad altre terre italiche. Se la prende (e noi con lui) a chi taglia gli alberi, costruisce case sul vuoto, ricopre la nostra terra di cemento, rimanendo insensibile “al grido di dolore”. E così continueremo a piangere la Sicilia, la Calabria, la Campania, il Vajont, Rigopiano, e via distruggendo. Finisco con una chicca che deriva dal primo racconto (e dedicato ai miei cugini romanisti): ho controllato, il 21 febbraio 1937 in effetti, come dice Abate, a Roma si giocò il derby; era Lazio – Roma, ed i giallorossi vinsero per 1 a 0 (anche se poi a fine campionato furono a metà classifica, mentre la Lazio arrivò seconda a 3 punti dalla vincitrice Bologna). Il gol confermo è stato segnato da Alfredo Mazzoni, che quell’anno segnò cinque gol, ed in tutte e cinque le partite in cui ha segnato la Roma ha vinto (Sampdoria, Lazio, Juventus, Napoli e Inter).
“E se il turismo fosse una malattia? … La smania di fotografare e catalogare tutti quei luoghi che, in misura più o meno grande, possono essere considerati simbolo di qualcosa.” (17)
Jean-Marie Gustave Le Clézio « Voyage à Rodrigues » Gallimard s.p. (regalo di Walid)
[A: 12/06/2017 – I: 17/12/2017 – T: 20/12/2017] - && +
[tit. or.: originale; ling. or.: francese; pagine: 146; anno 1986]
Un libro che ha una bella storia (come libro), una trama interessante anche se inesistente, una scrittura che, al solito, non mi convince. Ho iniziato a suo tempo a leggere qualcosa di Le Clézio dopo l’assegnazione del Nobel, ma, a parte il suo primo romanzo, quello che lo rivelò a 23 anni, non mi ha mai convinto fino in fondo. Ma torniamo all’inizio, alla storia del libro. Era giugno a Gerusalemme, e stavo portando in giro per le terre d’Israele un interessante gruppo di avventurieri. In un caldo pomeriggio di riposo, mi sono ritrovato senza più niente da leggere. Allora Walid, amico spesso utile ma spesso anche difficile, mi dice va, tieni questo, l’ho letto, non mi ha convinto, ma forse a te interesserà. Lette alcune pagine mi sono ritrovato in un turbine di cose da fare che non mi hanno consentito di andare avanti. Ma il libro è rimasto tra i primi da leggere quando c’era spazio. Volevo riportarlo nella seconda andata gerosolimitana, ma ho lisciato anche quella. Ed allora ora, nella vicinanza del Natale, l’ho letto velocemente ribadendo il grazie a Walid. E ribadendo anche il suo giudizio. Non mi ha convinto. Forse andrebbe letto con il precedente, cui fa riferimento ampiamente, “Il cercatore d’oro”. La storia romanzata delle avventure di suo nonno nelle isole mauriziane. Perché Le Clézio è, come dice lui stesso, uno scrittore francese e mauriziano. Che le radici di famiglia vengono proprio dalle isole dell’Oceano Indiano, anche se poi lo scrittore nasce a Nizza nel 1940. Dicevo che va letto insieme, perché questo viaggio è un ripercorrere le tappe delle idee che hanno generato il cercatore d’oro, ripercorrendo, questa volta senza finzione, le tappe del famoso nonno. Un libro quindi che si snoda tra memoria e descrizione. Il nonno, benché giudice in quelle isole, dedicò la maggior parte delle sue energie mentali alla ricerca del tesoro di un pirata che, probabilmente, lo aveva nascosto in una di quelle. Si imbatte casualmente in testi e mappe. Poi ne ricerca a fondo altre per completarne il quadro. Ha un’idea vincente, collocando la ricerca propria nella meno sfruttata delle isole, questa di Rodrigues. Qui il nipote, cinquant’anni dopo che il nonno è morto, ritrova le carte, ed inizia un viaggio nella memoria. Torna alle Mauritius, torna a Rodrigues, e cercando di interpretare quelle criptiche scritte cammina per i luoghi che avevano visto ottanta anni prima il nonno camminare, cercare, scavare. Il testo scorre come una lunga passeggiata, con lo scrittore che cerca un filo nella sua memoria, riannodando qua e là le attività del nonno. E poi riempiendoci di nomi di alberi, di luoghi, di faune. Ma non solo, che se si parla di pirati, poi, si ritorna anche a nominare i corsari del mare, nonché le diverse Compagnie affaristiche olandesi ed inglesi che, a volte sfruttandoli a volte osteggiandoli, fecero fortuna in quei luoghi. Certo, leggendo le righe ritorna al solito in me la voglia di andare, di vedere. Perché non sono mai andato alle Mauritius? O all’isola di Réunion? Boh, forse un giorno, o forse mai. Certo, anche, le parole che rimandano al nonno fanno rivivere i sogni chimerici di chi vive per un sogno e su quello costruisce tutta la vita che non riesce a vivere. Il nonno, con le sue attività ufficiali, con la sua vita entro le regole, non ha forza, non ha nerbo. Poi, a volte, a distanza di anni, si ritrova sull’isola, si spoglia degli orpelli esteriore e trova il suo essere cercatore. Trova anche, e ne farà uno scritto noto purtroppo solo negli ambienti dei cercatori di tesori, il primo luogo dove venne sepolto il tesoro. Che non è più lì. Per alimentare le sue speranze interne, invece di pensare che qualcuno lo trovò prima di lui, ne immagina lo spostamento in altro e più nascosto luogo. Un sogno è sempre un sogno, e così, per quel sogno, si continuerà a vivere. Anche se durante quel sogno il resto del mondo era devastato dalla Prima Guerra Mondiale. Un contrasto che l’autore, il nipote, non riesce a ricomporre. Per Le Clézio, in ogni caso, questo è un atto d’amore ed un motivo per disvelare come nasceva e da dove nasceva la sua scrittura. E come atto d’amore lo accetto. Ma dicevo la sua scrittura non mi prende. Come mi lasciano fredde tutte le pagine, per fortuna poche, zeppe di indicazioni cartografiche, di Nord e di Sud, di numeri e di passi (anzi di “piede francese” che misura 2 cm in più del piede internazionale). Lo ringrazio per la messe di parole nuove che nel frattempo, anche se molte naturalistiche che saranno presto dimenticate per la mia nota mancanza di sensibilità verso il mondo verde. E lo ringrazio anche perché mi ha fatto viaggiare leggendo (ovvio, chi legge è un viaggiatore, come dice un quadro appeso all’entrata di casa mia).
“On ne partage pas les rêves.” [Non si condividono i sogni.] (135)
Pierre Mac Orlan “Il porto delle nebbie” Adelphi s.p. (Natalino di Paola)
[A: 25/12/2017 – I: 07/01/2018 – T: 09/01/2018] - &&&&&
[tit. or.: Le Quai des brumes; ling. or.: francese; pagine: 143; anno 1927]
Probabilmente pochi non conoscono il film di Marcel Carné con Jean Gabin, Michele Morgan e Pierre Simon. Un bellissimo film, su cui torneremo più avanti. Perché qui parliamo invece dell’altrettanto bello e per me fin ad ora ignoto libro che ne fu all’origine. E quindi un grazie immediato a Paola che me lo ha fatto scoprire. Un libro decisamente diverso dal film, che però ne è stranamente fedele. Con quella fedeltà che solo le opere eccelse sanno avere. Quella di cambiare tutto per restare sé stessi. Il libro è comunque ben confezionato da Adelphi, magistrale in queste sue riproposizioni, anche se non mi è piaciuta gran che la prefazione di Ceronetti. Al contrario ho trovato ottima la post-fazione di Francis Lacassin. Che spinge, a chi come me poco ne sapeva, a cercare di più sull’autore. Scoprendo una bella figura del Novecento francese. Come sottolinea Wikipedia, un personaggio che fu bohémien, scrittore, soldato, pittore e reporter; dove però si dimentica anche l’ultima attività di Mac Orlan, quella di paroliere. Personaggio che nasce Pierre Dumarchey, per adottare quello strambo pseudonimo, primo perché quel “Mac” dava un tocco esotico (millantate ascendenze gallesi) e poi “Orlan” in onore della cittadina di Orléans, patria e luogo deputato di quello che sarà per sempre il suo ispiratore interiore: François Villon. Il nostro bohèmien, verso la fine degli anni ’20, dopo altri libri dedicati “alla liberazione dell’immagine femminile”, si butta in quest’opera che, ma questo lo sappiamo noi posteri, gli darà fama imperitura. Intanto, però, affrontiamo un primo elemento di discussione che arriva dal titolo. Infatti, il 90% del romanzo si svolge a Montmartre, che può avere di tutto, ma di certo non un porto. Inoltre, il “quai” del titolo ripercorre la nomenclatura delle strade che costeggiano la Senna (come il famoso lungosenna di Maigret, il Quai des Orfèvres). L’operazione immaginifica di Mac Orlan è ammantare il monticello parigino, teatro di molte sue avventure, delle nebbie, che spesso c’erano prima della costruzione di quella orrenda chiesa, che tuttavia fece diradare il clima lugubre del monte. Allora perché “porto”? Tutto deriva dal film. Dopo averne tratto, con Jacques Prévert, una sceneggiatura che Mac Orlan aveva apprezzato, il regista Marcel Carné ingaggia Jean Gabin come protagonista. Ma Gabin era legato ad una casa di produzione tedesca, che voleva far girare il film ad Amburgo. Dopo averlo adattato, nel momento della revisione, i tedeschi si tirarono indietro (troppo antimilitarismo), e si fece avanti una produzione francese. Tuttavia, tutto era stato “montato” per un porto, quindi invece che a Parigi, la location viene spostata a Le Havre. Ecco che si arriva al porto del titolo. Dato poi che la censura fascista impedì l’uscita del libro in Italia, che apparve solo dopo la fine della guerra, ormai il titolo del film era uscito, e rimase appiccicato anche all’opera letteraria. Oltre che per il valore filmico, l’opera comunque si solleva dal resto della produzione di Mac Orlan perché spinge al limite quella descrizione della vita e del sociale che, appunto, l’autore chiama “fantastico sociale”, un ponte letterario tra espressionismo e surrealismo. Dove si prendono miserie quotidiane e si fanno assurgere ad emblema delle miserie della vita. Il fantastico tradizionale si basava (e si basa) sull'irruzione del soprannaturale (e dell’irrazionale a volte) nella vita di ogni giorno, per Mac Orlan i fantasmi sono sostituiti da figure ambigue ma umane. Che so, Jack lo squartatore ed i suoi epigoni. Gli altri elementi costitutivi sono ad esempio i quartieri della prostituzione, il poco valore della vita umana, il potere suggestivo della fotografia, la velocità, i paesaggi devastati dalla guerra, il malessere e l’ansia generata dal presagio di futuri disastri (cioè siamo nella piena descrizione del mondo moderno). In questo quadro di riferimento, attingendo alle sue esperienze del primo decennio del secolo, l’autore, in una notte nebbiosa, fa convergere nel locale “Le Lapin Agile”, un quintetto di personaggio di cui ci spiega la natura, e che, svolazzando, fa poi seguire nelle successive vicende. C’è il pittore tedesco, che si ritiene maledetto, secondo cui lui non dipinge le persone ma la loro morte. Tensione insopportabile, che lo porta la notte stessa ad impiccarsi nel suo atelier (ma dopo aver dato da mangiare al gatto). C’è Isabel il macellaio, detto Zabel, che ripara nel locale, dopo essere estato inseguito da una banda di “apache” (ricordo che con questo termine si indicano a Parigi dei malavitosi che si aggirano in bande, e che hanno per distintivo delle scarpe molto lucide). Lui perde un pacco nella fuga. Seguiamo poi la sua storia, scoprendo che il pacco era la testa di un ricattatore da lui ucciso per rapina in un momento di bisogno. Motivo per cui Isabel sarà ghigliottinato. C’è il piccolo soldato, stanco della guerra o delle guerre (in cui Pierre mette un po’ del fratello Jean), che diserta, dopo la notte al Lapin, si aggira per qualche anno su e giù per la Francia ed i suoi porti, capendo che l’uniforme gli aveva dato un manto di invisibilità, in base alla quale poteva essere più sé stesso, visto che era privo di qualsivoglia capacità lavorativa. Così dopo cinque anni, si imbarca a Marsiglia verso la Legione Straniera (Mac Orlan non ci dice che fine faccia, ma sappiamo che Jean, suo fratello, fatta lo stesso percorso, muore in Africa, da legionario). Ed infine c’è l’eroe eponimo, Jean Rabe, eroe perché è quello su cui si appunta l’occhio di Mac Orlan come su di un altro sé stesso. Una persona abile nel fare mille cose, ma che non ha voglia, costanza o altro di farne una. Così vive arrangiandosi con lavoretti saltuari, scroccando qualcosa quando può. In Jean si sente il male di vivere, la difficoltà di reagire, l’incapacità decisionale. Tutto scorre su di lui. Anche la breve notte d’amore con Nelly, anche la scomparsa del suo cane. Ramengo anche lui sul suolo francese, viene al fine richiamato sotto le armi. Lì capisce intimamente che non ne uscirà mai, da questa sua condizione interna. Allora prende il fucile, spara ad un ufficiale, solo per farsi uccidere dagli altri soldati, quasi non avendo il coraggio di suicidarsi. Rimane Nelly, l’unica donna, che sta sui diciott’anni all’inizio del romanzo, che è invece empatica verso gli altri, anche lei tirando avanti con qualche scroccherie, ed un po’ di femminilità. Con un po’ dei soldi di Jean, si sistema per qualche tempo in una pensione. Da lì, sfruttando cinicamente il suo corpo e gli uomini che le sono intorno, sarà l’unico personaggio vincente. Triste, ovvio, come triste deve essere la vita di chi vende il proprio corpo, di chi vede sparire il grande amore (Jean). Ma la vediamo alla fine, dopo la Prima Guerra, ancora sulle tracce del limitare tra malavita e vita “normale”, andare avanti ed ancora avanti, accompagnata dal cane di Jean Rabe, che ha ritrovato (il cane, ovvio) ed adottato. Non è un caso, è nelle corde di Mac Orlan questa fiducia nello spirito femminile anche nelle avversità. Fa parte della sua complessa filosofia bohemien e parigina. Lasciamo così queste intense pagine, che tra le due guerre ci ricordano che se un orrore è finito, la cattiveria umana, presto, ce ne proporrà altro. Rimangono tocchi, impressioni, e soprattutto “Le Lapin Agile” con la sua fauna montmartriana, che vide in quegli anni passare al bancone da Aristide Bruant a Toulouse-Lautrec, da Apollinaire a Picasso, ed ovviamente Mac Orlan ed i suoi amici. Come ultima chicca, ricordo anche la nascita del nome. Era un locale quasi di campagna, che nell’Ottocento aveva cambiato tanti nomi, sino a che l’oscuro pittore André Gill ne disegno l’insegna, un coniglio che scappa dalla pentola. Tanto successo ebbe, che la locanda si cominciò a chiamare “Le Lapin à Gill”. Da qui al nome attuale, capite bene come il passo sia breve.
John Williams “Stoner” Fazi editore euro 15 (in realtà, scontato a 11,25 euro)
[A: 18/09/2017– I: 12/01/2018 – T: 14/01/2018] - &&&&&+
[tit. or.: Stoner; ling. or.: inglese; pagine: 332; anno 1965]
Un libro che mi ha emozionato e che ho letto tutto di un fiato. È vero, la mia amica Luciana mi aveva detto già da tempo di leggerlo ed io avevo rimandato un po’ casualmente, un po’ per quel sentore di “storie di un uomo inutile”, che mi ronzava, erroneamente, nella testa. Faccio ammenda. Questa è la storia di un uomo che forse non è utile in sé, ma che lascia tanti solchi, dentro e fuori di sé. Soprattutto, una storia talmente semplice che è proprio la storia di uno di noi, uomini forse inutili che percorriamo il suolo di questa nostra terra. Come rileva Peter Cameron nella bella post-fazione, il libro è già tutto nelle prime righe. Vediamo William Stoner descritto, e immortalato nelle sue tappe fondamentali. Nasce nel 1891, nel 1910 entra all’Università, nel 1918 si laurea (non entro nei livelli di laurea americana, troppo complicati per me), e comincia la sua docenza che porterà avanti sino alla morte nel 1956 (a soli 65 anni, e questo già mi colpisce). Il libro può finire qui. Invece Williams ha la capacità di dilatare queste tre righe in più di trecento pagine, facendo in modo che la mia attenzione non decada mai. Ci racconta l’evolversi di questa vita normale, dall’infanzia contadina all’idea di iscriversi ad Agraria, per poi essere folgorato, al secondo anno, da una lezione di inglese. Decide quindi di cambiare facoltà, e lo fa con successo, capacità. Si laurea, comincia a specializzarsi, dottorato, primo insegnamento. Conosce Edith di cui si innamora, corteggia e sposa. Ma non sarà mai un rapporto ed un matrimonio facile. O felice. Tuttavia hanno una bambina, Grace. Si nota nel loro diverso rapporto con Grace anche la difficoltà dei loro rapporti umani. Difficoltà anche sul lavoro, dove, per un eccesso di onestà, si inimica un altro docente. Che farà poi più carriera di lui, che lo metterà alle corde, lasciandogli solo briciole di insegnamento. Ma Stoner non si tira indietro. Forse dà anche il meglio di sé in questa fase. Tanto che trova anche l’amore con Kathleen. Certo, non lascerà mai Grace. Certo, non è semplice né ben visto un rapporto tra professore confermato e dottoranda. Dopo la breve stagione d’amore, dovrà fare marcia indietro. O forse Kathleen decide lei di fare un passo di lato. Rimane lì, lui, all’università. Continua ad insegnare, gli anni passano, Grace cresce, oppressa dalla sotterranea lotta familiare. Tanto che si fa mettere incinta e si sposa per poter fuggire. Gli ultimi anni ancora hanno alti e bassi. Alti professionali, che imposta i suoi corsi in modo innovativo, con gli studenti che lo seguono al meglio. Bassi familiari, che con Edith non andrà mai a soluzione, e con Grace che se ne va lontano ad annegare nel bere le sue angosce personali. Fino all’età in cui dovrebbe andare in pensione, vorrebbe rimanere, lotta ed ottiene di farlo. Ma un tumore mette fine alla sua vita ed alla sua lotta. La capacità, bellissima, di Williams di raccontarci tutta questa vita normale, banale, senza scatti. Stoner ha tante possibilità, ma come tutte le persone normali riesce a sfruttarne solo alcune. Scrive un bel libro. Comunica la passione per le lettere ai suoi studenti. Ma non farà mai il “salto di qualità”. Perché non tutti lo fanno (anzi sono in pochi). Ma Williams ci fa appassionare comunque a questa normalità. Alle battaglie che Stoner affronta nella sua vita. Con Edith. Con Grace. Con Kathleen. Con il professor Lomax. Si sente inoltre la mano di una persona anch’essa dedita e con passione alle lettere, negli intarsi di docenza. Quando Stoner parla di retorica e grammatica. Quando si discetta su Shakespeare e sul grammatico latino Donato. Si sente la conoscenza del mondo universitario, nelle lotte tra docenti, negli sgambetti, nelle ripicche, nelle lotte di potere. Si avvertono tanti mondi sottesi al testo. Il passaggio di Stoner dal mondo contadino familiare (e magistrali le pagine sulla morte dei genitori) al mondo intellettuale universitario. Stoner vi entra impreparato, e continuerà ad essere sempre esposto a chi ha alle spalle altre famiglie, altri sostegni. Come si sente l’ingenua fanciullezza del suo amore per Edith, con un rapporto in cui entrambi entrano senza sapere molto. E senza sapere molto continueranno a viverlo per decenni. Come non rimanere coinvolti inoltre quando Stoner scopre la bellezza dell’amore, quando vi si apre, quando vi trova gli unici momenti di serenità dei suoi quarant’anni. Noi siamo lì, con tutte le forze che gli diciamo dai, buttati, fai uno scatto in avanti. Eppure ci vogliono qualità anche in questo, ed un uomo normale non sempre può averle. Non sempre se la sente. Esco alla fine da queste pagine arrabbiato e felice. Arrabbiato perché avrei voluto per Stoner un’altra vita, un altro svolgersi degli eventi. Felice perché sono delle pagine che non stancano mai di essere lette. Che si concatenano, le une alle altre come un perfetto meccanismo ad orologeria. Ma anche io mi sento molto Stoner, davanti a queste righe. Sento che potrebbero esprimere meglio idee luminose che frullano nella testa. E come Stoner davanti alla prima domanda del suo insegnante, rimango muto. È talmente affascinante che non si riescono a trovare modi di condividerlo. Se non esortando a leggerlo, ed anche a rileggerlo. Un punto altissimo di letteratura.
“La persona che amiamo da subito non è quella che amiamo per davvero e … l’amore non è una fine ma un processo attraverso il quale una persona tenta di conoscerne un’altra.” (225)
“Non riusciva a pensarsi come un vecchio. Certe volte, la mattina … guardava la sua immagine riflessa nello specchio e non si riconosceva affatto in quel viso che ricambiava stupito il suo sguardo.” (290)
Approfittando poi dell’assenza di viaggi imminenti, ci si dedica a mettere a posto cose e case. Soprattutto nel pensiero che la casa in campagna posso diventare un bel punto di riposo per quando si è stanchi. Vedremo. 

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