domenica 20 maggio 2018

Tra Texas e Sudafrica - 20 maggio 2018


Oggi invece parliamo di avventure. Una isolata, del genere western, che tanto avevo amato al cinema e tanto poco riesco a seguire sulla carta. Forse soltanto Cocco Bill di Jacovitti potrebbe risollevarmi, non certo questo interessante ma un po’ palloso Grey. Poi, diamo il via alla grande saga sudafricana (ma anche rhodesiana ed altre terre affini) del long-seller Wilbur Smith. Che ho iniziato a leggere, che contiene spunti interessanti, ma che non riesce a coinvolgermi nelle sue trame a volte un po’ ripetitive.
Zane Grey “Il ranger del Texas” Corriere della Sera Western 1 euro 5,90
[A: 02/08/2016– I: 01/12/2017 – T: 03/12/2017] - && -
[tit. or.: The Lone Star Ranger; ling. or.: inglese; pagine: 276; anno 1915]
Stava scivolando discretamente in basso, questo volume, che credo rimarrà solitario, quando, cecando notizie sul web, ho scoperto (cosa che le note interne non riportavano) che ha cento anni di anzianità come scrittura. Beh, allora passiamo sopra su alcune ingenuità e su altri dettagli di minor conto, e teniamo a mente il libro, l’ambiente, e lui, Zane, considerato il più grande scrittore western dell’epoca d’oro, quando gli indiani erano cattivi e John Wayne buono. Tra l’altro, Zane in realtà è il cognome, che il nostro nasce Pearl Grey (Grey il padre, Pearl il colore dei vestiti della regina Vittoria che il padre ammirava), nella città di Zanesville, che potete capire fu fondata da un suo antenato (Ebenezer, patriota rivoluzionario ai tempi della rivolta contro gli inglesi, anche se la famiglia Zane veniva dal Vecchio Continente, ma erano quaccheri, quindi perseguitati in patria), ma quando comincia a scrivere, utilizza i due cognomi, materno e paterno, per differenziarsi dalla sua vita “normale”: aveva cominciato come dentista, per poi ad un certo punto dedicarsi completamente alla scrittura, tanto da diventare il primo scrittore miliardario. Dopo queste notizie storiche (d’altra parte Luciano docet, con tale nome, no?), veniamo al libro ed al resto della produzione dello scrittore. Zane Grey è per l’appunto considerato la pietra miliare della letteratura western (con più di 100 libri all’attivo). Ora, benché io legga di tutto, questo tipo di scritti non mi appassiona più di tanto, anche se, ma soprattutto da giovane, i film western erano pane quotidiano. Seguivo con passione prima “Le avventure di Rin Tin Tin” e poi “Bonanza”, non mi sarei mai perso una trasmissione televisiva di “Ombre rosse” o “Mezzogiorno di fuoco” o “I magnifici sette”. E via elencando, fino ad arrivare a “Piccolo grande uomo” e “Soldato blu”. Poi più nulla, fino all’epigono di Tarantino con “Django unchained”. Ma di leggerne, poco o nulla. Nella ricerca di informazioni e diversificazioni, anni fa presi in mano quello che viene considerato il rimodernatore del genere, quel Louis L’Amour di cui parlai un paio di anni fa. Interessante, sul profilo dell’evoluzione della scrittura, ma niente di più. Ora, una collana del Corriere mi aveva stimolato a leggere di questo capostipite assoluto. Di cui questo libro, anche se non è il suo capolavoro (o almeno quello che viene così considerato: “La valle delle sorprese” del 1912), ma viene subito dopo, come importanza e come tematiche. C’è il giovane Buck Duane, figlio di un pistolero morto in duello, anche lui super veloce nello sparare e super preciso nel colpire. Tanto che, sfidato obtorto collo da un tale, lo uccide. Inizia così la sua vita vagabonda, da fuorilegge in pratica, anche se né allora né in seguito, ucciderà per il gusto di uccidere (ed anche se di morti ammazzati il libro è cosparso a piene mani). Cerca comunque di raggiungere la Terra Promessa dei fuorilegge, il Texas, ed in particolare la zona intorno a Rio Grande. Siamo nella seconda metà, forse alla fine dell’Ottocento. Quindi, praterie, allevamenti di bestiame, i primi telegrafi, piccole città con grandi saloon, gente che vive ai confini della legge. E ci vive anche con dei propri codici d’onore: rispetto della parola, aiuto reciproco. Questo almeno nei cow-boy buoni, come Buck, come Luca, come Euchre. Poi ci sono i cattivi, come Bland, e i cattivissimi, come Cheseldine. Andando di città in città, coinvolto suo malgrado in azioni violente, Duane si ritrova prima nella città dove spadroneggia Bland. Dove, per liberare una giovane indifesa, escogita un piano complesso, anche se ben riuscito, alla fine del quale uccide Bland e libera Jennie. A questo punto la svolta: dopo altre peripezie di poco conto, viene raggiunto dalla pattuglia dei ranger guidati da McNelly. Un capitano che conosce il Texas ed i fuorilegge, che capisce Duane e la sua intrinseca bontà. Grande patto: Duane viene arruolato di nascosto con i ranger, a patto che trovi e faccia arrestare il terribile Cheseldine. Duane si mette in caccia, e non per poco tempo (direi che alla fine ne passano di mesi), fino a trovare la città del cattivo, fino a scoprire che questi si cela dietro la rispettabile faccia di un colonello, fino a cadere nelle trame amorose, perché si innamora, ovvio, della figlia del colonnello. Non vi sto a narrare le complicate vicende di sparatorie e di agnizioni, che spesso, purtroppo, sono accennate anche troppo in fretta. Fatto sta che tutto finisce in gloria: l’amore di Ray (la figlia) riscatta Duane, che rimette il colonnello sulla retta via (spedendolo in Louisiana) ed insieme a McNelly sbaraglia ed uccide tutta la banda. Un finale lacrimevole, ma tendente all’happy end, è comunque di prammatica. Lasciando appunto a Zane di sbizzarrirsi su tutti i caposaldi del genere: cow-boy costretti ad uccidere loro malgrado, ma in fondo buoni, cattivi che vogliono sempre mettere le mani addosso alle belle signorine, bevute, sparatorie, cavalcate, inseguimenti, e chi più ne ha più ne metta. Fortunatamente non ci sono indiani nel panorama descritto, solo qualche malcapitato messicano, che non lascia alcuna traccia. Le donne sono o buone (anche se in situazioni complicate) o lascive e calcolatrici. Ogni tanto salta qualche passaggio, come quando, ad un certo punto, di Jennie non si sente più parlare. Una scrittura ingenua, ma diretta, che non lascia ombre, che va diritta al punto. Lanciando sulla carta l’epopea dello stato della stella solitaria (questo il soprannome del Texas, e di conseguenza il titolo originale del libro; che se poi volete vi narrerò anche perché).
Wilbur Smith “Uccelli da preda” TEA euro 9,90 (in realtà, scontato a 8,42 euro)
[A: 01/11/2015 – I: 18/02/2018 – T: 21/02/2018] - && -- 
[tit. or.: Birds of Prey; ling. or.: inglese; pagine: 674; anno 1997]
Con questo libro comincia la mia lunga immersione negli scritti “africani” di Wilbur Smith. Dell’autore dell’ex-colonia, che ormai ha raggiunto la veneranda età di 85 anni, ho letto due delle serie “minori”: quella dedicata all’antico Egitto e quella dedicata a mr. Cross. La prima ha qualche spunto di interesse, come risulta dalle mie vecchie trame. La seconda è al limite della scarsa leggibilità. Questo è il primo libro, in ordine cronologica, della saga dedicata alla famiglia (o meglio alla dinastia) Courtney. Dove si conferma il giudizio generale che ne avevo dato, un libro certo di avventure, ma con delle punte di “soft core”, quando Smith indulge nelle vicende amorose dei suoi protagonisti. Un misto quindi di sesso e avventura, ma che non ha vette in nessuno dei due elementi della vicenda. C’è del sesso, ma anche dell’amore (e quando spunta il secondo la penna di Smith si fa più leggera). C’è l’avventura, ma non c’è la capacità di sorprendere di Cussler, che io continua a considerare la migliore espressione di questo filone. Ma torniamo alla pagina. Seppur scritto una trentina d’anni dopo il primo libro di Smith, questo si colloca per l’appunto agli inizi delle vicende, collocandosi, temporalmente, intorno al 1660. Anzi, ad essere precisi, le vicende iniziano nell’agosto del 1667, in un braccio di mare nei dintorni del Capo di Buona Speranza. Anzi, per essere ancora più precisi, visto che ci sono stato e lo ricordo, intorno a Capo Agulhas, che in realtà è il punto più a sud del continente africano. Seguiamo quindi le avventure di quella che sarà il fondatore della dinastia africana, Henry Courtney detto Hal. Giovane under 20, viaggia sulla nave del padre, agli ordini della bandiera inglese, nell’ultimo periodo della seconda guerra anglo-olandese. La nave dei Courtney abborda e conquista un galeone olandese, che trasporta verso Città del Capo il nuovo governatore, l’anziano e grasso Van der Velde, e la sua giovane e ninfomane moglie Katrina. Scortati dal comandante della guarnigione, Schreuder. Vittoria facile, e scene di sesso tra Katrina e Hal. Andati al riparo in una cala nascosta, i Courtney vengono raggiunti dal cattivo di turno, un barone scozzese chiamato l’Avvoltoio, che ha un primo scontro con loro, senza successo. L’avvoltoio torna verso porti sicuri, scoprendo che la guerra è terminata, e stringendo un patto con Schreuder per salvare Van der Velde. Cosa che accade, in modo che gli olandesi prendono in prigionia Courtney ed i suoi. Il padre Francis viene torturato ed ucciso, mentre Hal e gli altri finiscono nelle galere. Dove fanno sodalizio con ribelli locali, e scoprono che la bella Sukeena, sorella di un ribelle, è anche diventata la cameriera di Katrina. Questa, ormai buttato Hal alle ortiche, si dedica al capitano, mentre Sukeena aiuta Hal e gli altri prigionieri ad una fuga avventurosa. Schreuder li insegue, ma li perde. Viene degradato, e fugge. Vorrebbe portar con sé l’amante Katrina, che lo sbeffeggia. E lui la uccide. Allora sì che deve fuggire, rifugiandosi su di una nave inglese. Che porta nell’approdo di Courtney, dove ritrova l’Avvoltoio alla ricerca del tesoro della famiglia. Hal e i suoi intanto attraverso la terraferma, raggiungono anche loro la cala. Dove l’Avvoltoio e Schreuder hanno sterminato gli inglesi. Hal riesce a rubare la nave inglese, ma deve subire la perdita di Sukeena, sua nuova donzella, uccisa con un pugnale avvelenato da un traditore. Con la nuova nave, Hal si dirige verso il Corno d’Africa, per soccorrere l’impero etiopico assalito dalle orde islamiche. Qui Smith inserisce la leggenda copto-africana dell’impero del Prete Gianni, di cui sarebbe interessante seguire gli sviluppi, se non fosse fuori dalle corde di questa trama. Fatto sta che ovviamente l’Avvoltoio si mette dalla parte dell’Islam, ed Hal da quella dei cristiani. Dove, alla corte dell’imperatore bambino conosce una specie di pulzella d‘Orleans nelle vesti del generale donna Judith Nazet. Anche qui, salto una serie di avvenimenti di contorno per arrivare al nocciolo. Tra Hal e Judith sboccia il grande amore. Ma prima, Hal uccide in duello Schreuder e fa saltare in aria il battello dell’Avvoltoio. Judith salva l’imperatore, nonché il Sacro Tabernacolo, per poi ricongiungersi con Hal, ed insieme la prima storia finisce con loro che veleggiano verso la cala dell’inizio per recuperare il tesoro dei Courtney. Insomma alla fine della storia, Hal, diventato ormai sir Henry Courtney, ha avuto il battesimo del sesso con la pessima Katrina, quello dell’amore con la bella Sukeena, e quello di un futuro matrimoniale con Judith. Possiede una nave formidabile, è aiutato come secondo dall’ex-schiavo Aboli. Ci sono stati duelli, massacri, uccisioni a non finire, anche truculente. Nonché belle battaglie tra navi sui mari dell’Oceano Indiano. Per ora, tuttavia, Hal è ancora “un capitano di navi” e non un possidente terriero. Ne vedremo gli sviluppi, anche se la lettura è poco più di un passatempo, e non riesce, almeno fino ad ora, a smuovere momenti di vero interesse.
Wilbur Smith & Giles Kristian “Il leone d’oro” TEA euro 13
[A: 04/12/2017 – I: 21/02/2018 – T: 24/02/2018] - & e ½ 
[tit. or.: Golden Lion; ling. or.: inglese; pagine: 493; anno 2015]
Se il primo libro arrivava scarsamente a 2 libri, questo neanche ci si avvicina! Intanto, veniamo a decifrare il modus operandi della “Smith’s factory”. Una volta che il vecchio Wilbur ha scritto decine di romanzi sui tre o quattro filoni che gli interessano (la saga dei Courtney, dei Ballantyne, degli Egizi, di Hector Cross, e così via), decide di riempire buchi temporali con altri scritti, magari (spesso) facendosi aiutare da onesti scribacchini. In questo caso, anche più che onesti, visto che Giles Kristian non solo è scrittore di fiction storiche (tra cui la saga di Raven), ma anche fu in gioventù, lui del 1975 e fino ai primi anni 2000, il leader vocalist della band pop “Upside Down”. Ma torniamo agli scritti. Nella cronologia delle avventure dei primi Courtney c’era un salto tra il sopra citato “Uccelli da preda” che si svolge intorno al 1667-68 (seguendo la datazione della pace della seconda guerra anglo-olandese) ed il seguente “Monsone”, che dovrebbe essere ambientato intorno al 1690. Per dare un raccordo allora, eccoci in questo libro di passaggio, che viene scritto 20 anni dopo (circa) rispetto ai due citati. Tra l’altro con un titolo che non so interpretare. In tutte le 500 pagine non ci sono leoni, c’è la nave di Hal, chiamata “Golden Bough” che significa “Ramo d’oro”; c’è un sacco d’oro che aspetta Hal nel nascondiglio dove il padre decise di occultare il tesoro delle sue “rapine” presso la “Elephant Lagoon” (cioè “Laguna dell’Elefante”); ci saranno iene che attaccano essere umani; cariche di rinoceronti; fianco avvistamenti di leoni. Ma d’oro? Qualcuno sostiene che si riferisca a titoli onorifici, anche se sappiamo che sir Henry (Hal) Courtney è “Mastro Navigatore dell’Ordine di San Giorgio e del Santo Graal”. Beh, lasciamo da parte questo mistero che spero qualcuno svelerà per concentrarci sullo svolgimento della trama. Dove si vede già la senescenza di un certo tipo di scrittura “smithiana”. Qui molti scontri, lotte, capovolgimenti di fronte. Ma poco, quasi nullo sesso. Amore si, che sir Hal e il generale Judith hanno un legame forte e profondo, che li fa stare vicini anche quando non lo sono. Il primo libro era finito con la loro vittoria su tutti i fronti. Ma l’Avvoltoio (come scopriamo nelle prime pagine di questa seconda puntata) benché mortalmente colpito, resiste e sopravvive. Viene preso e curato dallo Sceicco Jahan, quello di Zanzibar che Hal e Judith avevano sonoramente battuto. Bruciato nei polmoni, monco del braccio sinistro, l’Avvoltoio deve dedicarsi più che altro all’astuzia, all’inganno per adempiere il compito assegnatogli dallo Sceicco: uccidere sir Hal e Judith. In questo troverà un alleato nell’ex-console di Zanzibar, caduto in disgrazia, e più avanti in un oscuro e psicopatico impiegato della Compagnia delle Indie, tal William Pett. Anzi, all’inizio sarà proprio le avventure di Pett che seguiamo, la sua fuga dall’India, il suo imbarco sulla nave del comandante Goddings, che lui ha l’incarico di uccidere. Ci riesce, facendo anche saltare in aria la nave. Per poi salvarsi, ripescato in mare dal comandante Tromp (un olandese ambiguo come molti personaggi del mare all’epoca). Scarseggiando di viveri, Tromp ed i suoi tentano l’assalto alla nave di Hal, che sta viaggiando di ritorno dal mar Etiopico, dove finalmente il Prete Gianni e le altre reliquie cristiane sono state messe in salvo da Judith. Hanno la peggio, e Pett (incatenato da Tromp) ribalta la situazione. Da bravo psicopatico, sente le voci, che gli chiedono di uccidere Hal. Cosa che non gli riesce a bordo. Una volta arrivati a Zanzibar, come tappa verso la Laguna dell’Elefante e per far riposare Judith, che risulta incinta, i nostri vengono irretiti dalle trame dell’Avvoltoio e dei suoi amici. Prima viene rapita Judith, che si cerca di vendere come schiava. Hal ingaggia un perverso pirata, tal Jack Rivers, per liberarla. Ma lo stratagemma non riesce, anzi l’Avvoltoio rapisce Judith per portarla in dote ad un pirata portoghese che vive in Mozambico e potrebbe ambire al frutto della passione che cresce nel ventre della nostra eroina. Hal viene prima messo fuori combattimento, poi, dopo aver ucciso una serie di nemici (tra cui Pett sicuramente e forse Grey) ed una serie di neutri come Tromp (in un allucinante duello bendato), riesce a recuperare una nave e con Aboli si mette sulle piste di Judith. Vi risparmio pagine e pagine di inutili battaglie, di utili morti (finalmente vedremo il cadavere dell’Avvoltoio), di inseguimenti ed altro. Tutti sono sbaragliati, e Sir Hal, Judith (che tra l’altro, mi ero dimenticato di sottolineare sia etiope, quindi di pelle quanto meno ambrata), il loro figlio ed il tesoro recuperato veleggiano verso la natia Inghilterra. Prima di lasciare questo inutile capitolo, un secondo piccolo mistero sull’antagonista di questi primi due episodi. Soprannominato in italiano “Avvoltoio”, anche se in originale il suo nome è “Buzzard”, cioè “Poiana”, che ha un senso maggiore (anche se non di facile comprensione) perché: 1) la poiana è scarsamente abile come predatore, ma è un puro opportunista e si approfitta delle gesta altrui (come il nostro in questi libri); e 2) “Poiana” era il reale soprannome di un pirata vissuto una cinquantina d’anni dopo i fatti qui narrati. Tal Olivier Levasseur, che fu tra l’altro uno dei primi (o l’inventore) della famosa “Jolly Rogers” la bandiera dei pirati con il teschio. Continuando a trovare Smith inferiore ad altri “avventurieri”, spero che il ritorno a libri scritti di prima mano sia foriero di miglior coinvolgimento quanto meno a livello di riposo mentale. Che questo secondo libro, al contrario, mi ha fatto solo innervosire.
Wilbur Smith “Monsone” TEA euro 9,90 (in realtà, scontato a 8,42 euro)
[A: 01/11/2015 – I: 24/02/2018 – T: 02/03/2018] - &&& -- 
[tit. or.: Monsoon; ling. or.: inglese; pagine: 860; anno 1999]
Dopo il salto temporale (inutile, come ho sopra detto, se non per riempire qualche vuoto ma che aggiunge poco), riprendiamo la sequenza primaria, che due anni dopo “Uccelli da preda”, Smith scrive questo voluminoso “Monsone”, dove si riprendono le avventure della prima ondata dei Courtney, con l’eroe delle prime mosse, Hal, che torna in Inghilterra. Nonostante la mole, si legge abbastanza scorrevolmente, ed ha un intreccio che è anch’esso ben orchestrato. Quasi una sufficienza piena, se non fosse che, proprio per la lunghezza del romanzo, se ne potevano costruire almeno due, se non tre, altrettanto avvincenti e probabilmente più stringati. Che qui, ogni tanto, si sbrodola, si perde il filo, e talvolta si saltano sequenze temporali che farebbero meglio apprezzare una scrittura compatta. Certo, è possibile che Smith non avesse in mente un racconto tanto ampio (ricordo che, ad ora, sono 16 i volumi che compongono la saga), e quindi tenesse in minor conto alcuni sfridi temporali. Come ad esempio l’inizio di questo romanzo che, se diamo conto della nascita del primogenito di Sir Hal dovrebbe svolgersi nel 1695, quando William ha appunto 24 anni. Ma dato che ci sono avvenimenti cruciali che si svolgono dopo la morte del protagonista dei primi due volumi, cui assistiamo e che viene detto essere avvenuta nel 1693, ci troviamo in un solido groviglio temporale. Facciamo finta di nulla, e facciamo anche finta che la maggior parte delle vicende si svolga negli anni ’90 del 1600. Allora, troviamo sir Hal nella sua magione inglese, dove vive il primogenito, avuto dall’amata Judith, il pluriantipatico Black Billy, poi ci sono i gemelli Tom e Guy, avuta da Margaret, sua seconda moglie morta in un naufragio, nonché Dorian, avuto dalla terza moglie Elizabeth, morta di parto. Come detto, tanto Judith era dolce, tanto William è una carogna, che tartassa i fratellastri minori, dove abbiamo Tom, intraprendente e già puttaniere, che va alla ricerca delle belle fanciulle della fattoria, Guy, che è il lato debole della gemellitudine (i gemelli dovrebbero avere 16-17 anni all’epoca, o forse 15), e Dorian, piccolo, spavaldo, ma per l’appunto piccolo, che non può avere più di 11-12 anni. In questo quadro, la Compagnia delle Indie chiede a Sir Hal di debellare un pirata nelle acque dell’Oceano Indiano, tra il Corno d’Africa e Zanzibar. Il nostro parte con tutta la famiglia (meno Bill, ovvio), dovendo anche dare un passaggio alla famiglia Beatty che si reca in India. Per farla breve, Tom e Caroline Beatty si danno alle grandi passioni puberali (tanto che nove mesi dopo nascerà Christopher), Courtney ed i suoi incontrano il cattivo al-Auf, lo debellano ma: Dorian viene preso dagli arabi, Hal ha le gambe troncate in battaglia, e Guy, che odia fare il marinaio, convince il sig. Beatty a portarlo i India. L’unico eroe, al momento, è Tom, che in poco tempo diventa lui l’eroe della saga. Riporta in patria il padre, che però poco dopo muore lasciando tutto (come da legge dell’epoca) al primogenito William. Che non vede l’ora di sbarazzarsi di Tom, anche in combutta con i capi della Compagnia. Tom, che ha ereditato dal padre anche il fido Aboli, riesce a scampare agli agguati, dove però, senza volerlo veramente, uccide William. Sarò così costretto a fuggire dall’Inghilterra senza più tornarvi. Rientrato in Africa, scopre a Zanzibar che Guy ha sposato Caroline, riconoscendo come suo il figlio Christopher e che Guy stesso cova un odio profondo verso di lui. Mentre riscopre che la piccola Beatty, Sarah, ora è cresciuta ed è sempre innamorata di lui. Ovvio il trionfo dell’amore, anche se dovranno fuggire, ed insediarsi nell’interno tra ex-Rhodesia e Tanzania, prosperando per anni con il commercio delle zanne d’avorio d’elefante. Nonché, nell’ultimo periodo, scoprendo anche le prime miniere d’oro. Nel frattempo, benché tutti lo credano morto, Dorian viene adottato dallo sceicco al-Malik, grazie ad una profezia riguardante un ragazzo dai capelli rossi (ovvio che Dorian è rossiccio, e si collega al fatto, che cercherò di acclarare, che Maometto stesso era rosso). Dorian ovvio che: è ben voluto da al-Malik, tanto che sembra essersi convertito, si mette in urto con il primogenito dello sceicco Zaid, si innamora a 14 anni di Yasmini, anche se poi la perde di vista. Passano gli anni (e non sappiamo quanti, questo è un altro dei punti oscuri di Smith) ed i fratelli lontani accumulano uno ricchezze e l’altro fama. Ma Tom viene ad un certo punto coinvolto nella lotta contro i negrieri, quando questi uccidono i figli piccoli di Aboli. Un commercio, quello degli schiavi, molto redditizio per gli arabi e quindi al-Malik chiede a Dorian di intervenire. Nelle more, Dorian ha ritrovato Yasmini, e l’ha liberata, tenendola sempre con sé, anche se travestita da ragazzo. Altrettanto banale che le armate di Dorian e di Tom si scontrino, con un verdetto di parità, che Tom si salva e Dorian viene ferito seriamente. Peccato che al-Malik nel frattempo sia morto, che le redini del trono dell’Elefante sono passate al perfido Zaid, che vuole la morte di Dorian. Scontro finale, Yasmini convince Tom che il fratello è vivo, Tom e Aboli lo liberano, ed il lungo capitolo finisce con la nave dei Courtney che veleggia verso Buona Speranza, con a bordo: Tom e la moglie Sarah (incinta), Dorian che finalmente può sposare Yasmini (incinta), Aboli ed i suoi due figli maschi adolescenti, un ricco carico di avorio ed oro. Il seguito alle prossime puntate. Come detto, un mega-polpettone, però leggibile, e moderatamente interessante. Seppur con i limiti delle piccole confusioni temporali, nonché di un qualche collegamento tra le varie zone d’influenza. Perché Tom sembra stare di base tra Mozambico, Tanzania e Kenya, Guy è in quel di Zanzibar, ma Dorian è affiliato alle orde di al-Malik detto califfo dell’Oman. Sulla cartina le zone sarebbero chiare, ma le distanze non coincidono con i tempi del romanzo. Aspettiamo le prossime vicende per capire meglio. Tuttavia, ripeto, questo romanzone, con poco sesso gratuito (c’è ma è funzionale alla trama), molte avventure ed una bella scrittura, risolleva il giudizio sul povero Wilbur.
“Che cosa proverai, quando, chissà dove, ti giungerà la notizia che tuo padre è morto?” (419)
“Ogni viaggio comincia con il primo passo.” (539)
Terza settimana di scritture di maggio, ed allora, visto che queste avventure non vi hanno coinvolto, vi lascio anche un allegato dedicato … all’adrenalina (che parla anche di cinema).
Per il resto, che vi devo dire, niente di nuovo sul fronte occidentale. Poco cinema, qualche cena, qualche ipotesi di viaggio, ma tanto, tantissimo lavoro alle case ed alle spese governative. Speriamo di finire le spese prima di finire i soldi… Ma siamo sempre contenti, noi che si parla del più e del meno, e se ne scrive e si abbracciano gli amici

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni

MAGGIO 2018
Per questo aprile effervescente eccoci ad una serie di libri “scandalosi”.

GOCCE D'ADRENALINA

Libri citati

Stephen King                  “Shining”
Stephen King                  “Carrie”
Stephen King                  “It”
Stephen King                  “Misery”
Stephen King                  “Dottor Sleep”
Robert W. Chambers      “Il re giallo”
James M. Cain                “Il postino suona sempre due volte”
Se state vivendo un periodo di semi-letargo, se pensate di avete i riflessi di un bradipo con la pressione bassa, se una sensazione di torpore vi tiene compagnia dalla mattina alla sera, se il jet lag vi fa appisolare quando dovreste stare svegli e vi tiene svegli quando sarebbe ora di dormire, se volete darvi una svegliata, se credete che il vostro fisico e la vostra psiche avrebbero bisogno di una scarica di emozioni ma non avete la forza di schiodarvi dal comodissimo divano o dal letto, ricorrete smodatamente ad alcune gocce d’adrenalina, i cui eccipienti sono più o meno gli stessi brevettati con successo dall’esimio professore del brivido Edgar Allan Poe. Morirete di paura ma vi sentirete vivi.
Stephen King “Shining”
Se “Il crollo della casa Usher”, uno dei più famosi racconti di Poe, vi ha angosciato tanto da farvi ululare di goduria, entrare nell’inquietante Overlook Hotel di “Shining” sarà come fare un giro nella casa dei fantasmi al Luna Park: puro divertimento. In questo imponente e sinistro albergo, sperso tra le montagne del Colorado, si svolge il best seller di Stephen King, un cocktail di tensione e ansia che oscilla tra il thriller e l’horror. Le premesse della vicenda sono già inquietanti: Jack Torrance è uno scrittore fallito con problemi di alcol e comportamenti violenti. Per dare una svolta alla sua vita e rimettersi in carreggiata, ha la brillante idea di accettare un lavoro ameno: il guardiano invernale all’Overlook Hotel. Così si trasferisce con moglie e figlioletto di cinque anni nelle desolate montagne del Colorado, la cui desolazione aumenta quando arriva la neve e l'hotel chiude. Un grande albergo, vuoto e completamente isolato, presenta connotati sinistri per una persona normale, figuriamoci per uno come Jack che non sta tanto bene in partenza. A questo Martini esplosivo, aggiungiamo l’oliva: l’Overlook è stato teatro di macabri episodi, tra cui il suicidio di un precedente guardiano invernale che aveva fatto a pezzi moglie e figli. A questa notizia, una persona sana di mente sarebbe ridiscesa dai monti da un pezzo. Ma Jack tanto sano non è e decide di restare. Anche suo figlio Danny non è proprio normale, ma in un altro senso: il bambino ha il potere di vedere fatti già accaduti o che accadranno in futuro. Ma mentre il piccolo riesce a gestire e respingere le visioni di tutti i fatti sanguinosi e sovrannaturali avvenuti nell’albergo, Jack comincia a essere posseduto dalle forze maligne che infestano le stanze, scaricando la violenza sulla sua famiglia. Stephen King è un re nel miscelare con cura un crescendo esplosivo di tensione che può mettere a dura prova i cardiopatici, con la follia e il delirio provocato dalle oscure presenze che, mescolandosi all’indole violenta di Jack, causano l’inesorabile distruzione emotiva e psicologica dei protagonisti. “Shining” è una pillola che provoca ansia, tensione e scariche d’adrenalina, pertanto è consigliato per combattere apatia e sonnolenza. Può provocare palpitazioni e brividi di paura, aumentati da un paralizzante senso d’impotenza di fronte alla consapevolezza che niente è mai come sembra e il pericolo si annida in ogni riga. La lettura potrebbe indurre anche una certa reticenza a soggiornare in grandi alberghi di montagna poco frequentati. “Shining” è indicato anche se avete problemi con l’alcol o la gestione della rabbia: l’autodistruzione di Jack vi aprirà gli occhi, anzi ve li farà tenere sbarrati per giorni, prospettandovi la vostra potenziale fine. Gli unici cocktail che vorrete concedervi, a quel punto, saranno quelli a base di orrore e paura, suspense onirica e tensione agghiacciante preparati da Stephen King, uno dei più portentosi “mixologist” del genere thriller-horror. Per sbronze da paura sono tante le pillole del dottor King da mandare giù al bisogno, oltre a “Carrie”, “It” e “Misery”, la lista è lunga e quasi tutta corredata di film. Nel 2013 l’autore ha pubblicato “Dottor Sleep”, il seguito di “Shining”, in cui ritroviamo Danny ormai adulto alle prese con un'altra inquietante avventura. Danny è riuscito a rifarsi una vita, ora è il Doctor Sleep e, grazie ai suoi poteri, aiuta gli anziani di una casa di cura nel momento del sonno eterno. Ma presto la sua vita torna a essere fagocitata da una spaventosa guerra tra bene e male. Inquietante, ma anche commovente, non vi fate ingannare dal titolo: non c’è niente che vi farà dormire. Quasi tutti i romanzi di Stephen King sono passati automaticamente dalla pagina al grande schermo. Nel 1980 “Shining” è diventato, nelle mani esperte di Stanley Kubrick, un cult movie, uno dei migliori film horror di tutta la storia del cinema. Attraverso i movimenti di macchina e il montaggio, il regista è riuscito a ricreare la stessa tensione che l’autore ha disseminato nelle righe del romanzo. L’ambientazione e la folle interpretazione di Jack Nicholson fanno il resto in questo capolavoro assoluto del terrore le cui immagini si stampano nella mente dello spettatore per non andare più via. E chi se lo dimentica Jack con l’ascia in mano e il ghigno sulla bocca (non si sa cosa terrorizzi di più), mentre grida «sono il lupo cattivo». Se il vostro problema era la letargia, con “Shining” (libro e film) trascorrerete notti insonni con gli occhi sbarrati.
Robert W. Chambers “Il re giallo”
Se volete continuare a vagabondare nelle atmosfere inquietanti e spettrali che caratterizzano i racconti di Edgar Allan Poe, “Il re giallo” è perfetto. Non una ma dieci pillole, dieci racconti dell’orrore pregni di avvenimenti sovrannaturali, dettagli macabri e vicende spaventose. «Quest’opera raggiunge vertici straordinari di paura cosmica»: a dirlo è, agli inizi del Novecento, H.P. Lovecraft, uno che nella paura, nel terrore e nella tensione ci sguazzava (la sua opera completa è raccomandabile come coadiuvante nella cura da brividi). Sarebbe come se Dario Argento vi consigliasse un film horror. Quindi, se a reclamizzarla in questo modo è uno dei massimi rappresentanti della letteratura del terrore, possiamo fidarci della validità della medicina. Nonostante sia stato pubblicato nel 1895, “Il re giallo” è un farmaco privo di scadenza, i cui ingredienti principali non sono soggetti a deterioramento. Lo dimostra il fatto che una delle serie televisive americane di maggior successo degli ultimi anni è dichiaratamente ispirata alla raccolta di Robert W. Chambers. È “True Detective”, ideata da Nic Pizzolatto, che ha rivoluzionato il genere poliziesco trasformando la storia di due detective sulle tracce di un serial killer in una sorta di viaggio esistenziale condito con note horror e sovrannaturali. Una caccia all’uomo durata diciassette anni è il pretesto per scavare nelle menti dei due poliziotti (gli straordinari Matthew McConaughey e Woody Harrelson). Ambientata nelle desolanti paludi della Louisiana e girata con stile decisamente cinematografico, “True Detective” incentiva la produzione di brividi con l’inquietante presentimento che il male possa saltare fuori in ogni momento. Si può affiancare la lettura dei racconti con la somministrazione della prima stagione della serie, cercando le citazioni e i riferimenti al libro.
Tornando a “Il re giallo”, alcuni racconti sono legati dal filo rosso sangue di un misterioso libro che provoca la pazzia in chi lo legge (tema usato e abusato in seguito dal cinema). Mettiamola così: se vi piace l’horror, questo libro vi farà letterariamente impazzire.
James M. Cain “Il postino suona sempre due volte”
Con questo classico firmato dal padre putativo della scuola dell’hard-boiled la tensione è assicurata. Se il vostro organismo è troppo sensibile all’horror ma avete bisogno di riscuotervi da un’apatia fisica e mentale, “Il postino suona sempre due volte” è perfetto per una cura a base di letteratura noir, dove gli spasmi di tensione s’intrecciano a quelli di torbide passioni. A mettere in moto la storia è un pericoloso triangolo: Frank Chambers è un tipo poco raccomandabile, un delinquentello in cerca di avventure che vive di espedienti, Cora è la quintessenza della sensualità conturbante e travolgente, la seduzione fatta donna, mentre Nick Papadakis è l’immancabile marito da eliminare, squallido e ributtante. Sullo sfondo la provincia americana, la Grande Depressione e il vuoto lasciato dalla delusione del sogno americano, un mix di desolazione palpabile nel locale dove il misero marito della “femme fatale” offre un lavoro al disonesto Frank. Divampa subito un’attrazione irrefrenabile e devastante che spinge i diabolici amanti a pianificare l’eliminazione del marito tradito, trascinandoli in un vortice di amoralità e perdizione. A provocare scariche di adrenalina non ci sono oscure presenze, fantasmi o dettagli paranormali, ma una realistica passione che s’impadronisce come un’ossessione dei protagonisti, trasformandoli in marionette nelle mani di un destino beffardo che, presentando poi il conto delle loro malefatte, ne deciderà la tragica fine. Perché il destino, come il postino, suona sempre due volte. Con uno stile secco e crudo, una prosa rapida e incisiva, fin dalla prima riga James M. Cain mette in moto una catena di macchinazioni, tradimenti, incidenti, delitti e drammatiche casualità che tengono alta la tensione. Trattasi della catena di una bicicletta che costringe il lettore a pedalare dalla prima all’ultima pagina, in una corsa senza fiato verso l’epilogo. La prosa scattante e l’incalzare degli eventi rendono “Il postino suona sempre due volte” un'arma efficace per vincere noia e pigrizia senza alzarsi dal divano, stimolando la produzione di una salutare forma d’ansia. È utile anche per contrastare il pericolo di trasformare l’amore in una malattia ossessiva, con il conseguente rischio di perdere di vista il confine tra bene e male. Per via della rapidità con cui si legge e della sua durata che supera di poco le cento pagine, “Il postino suona sempre due volte” è da considerarsi una cura breve ma molto intensa.
Il mix di tensione e passione, ossessione e perversione non poteva lasciare indifferente il cinema e così il postino di James M. Cain ha bussato più di una volta al grande schermo. Tra le trasposizioni più famose, oltre a quella del 1946 diretta da Tay Garnett e interpretata da Lana Turner e John Garfield, c’è quella del 1981 di Bob Rafelson. Decisamente meno noir della precedente versione in bianco e nero, la cura risulta molto efficace grazie alla presenza di Jack Nicholson e Jessica Lange. Ma se volete mandar giù una vera pillola di tensione drammatica ed erotica d’autore, consiglio “Ossessione”. Nel film del 1943 liberamente ispirato a “Il postino suona sempre due volte”, Luchino Visconti ha spostato magistralmente la vicenda dall’America della Depressione all’Italia fascista, caricandola di implicazioni a livello tematico e visivo. Con la sua opera prima, il regista ha iniziato quella personale rivoluzione cinematografica che avrebbe contribuito alla nascita del Neorealismo. Superando i casti amori e i melodrammi melensi del cinema di regime, Visconti ha portato scompiglio e scandalo con il racconto realistico (straordinariamente interpretato da Carla Calamai e Massimo Girotti) di una passione carnale che si trasforma in ossessione. Il noir americano da noi è diventato Neorealismo, dove il nero, l’oscurità e il male incombono in maniera ancora più realistica. Da brivido.

Commenti

Credo di aver letto Chambers in gioventù, ma non ne ricordo quasi nulla, così che lo salto. Non salto King, ovvio, di cui parlerò per due libri. Né tanto meno Cain, che ho trovato stupendo.
Stephen King “Misery” Repubblica Giallo euro 5,90
[pubblicato il 6 novembre 2011]
Non avevo mai letto King. È un peccato? Una dimenticanza? Il fato? Fatto sta che ora che l’ho fatto, non è che abbia molta voglia di leggere altro. Ben fatto, ben scritto, riesce a reggere una (quasi) suspense per 400 pagine con due soli personaggi. Cerca anche di fare “il saputello” parlando di letteratura e di scrittura mentre procede il romanzo che abbiamo davanti. Indubbiamente, essendo stato (anche) professore di lettere ha materia per trattare, ma quelle parti sono un po’ appese (l’unica che rimane, come tecnica di scrittura è la tirata sui file di concordanze dei personaggi dei serial seller). Come appese, le citazioni qua e là di musica d’epoca, da Roger Miller a Paul Simon, fino a “Disco Inferno” di Leroy Green. Inoltre, in quest’opera summa dimostra di saper ben lavorare con gli ingredienti del suo mestiere, lì dove, di fronte all’abbacinata Annie le illustra come quello dello scrittore non sia un “dono di Dio”, ma un mestiere. Certo, c’è chi lo fa bene, chi svogliato, chi magistralmente. Ma è un mestiere, bisogna applicarsi, studiare, provare e limare. E con questo mestiere riesce a tenerci sulle 400 pagine con due soli personaggi, sperduti in una casa lontana, ma non irraggiungibile, dalla vicina cittadina. Due personaggi, che si evolvono, vivono, lottano, fanno, dicono, ogni tanto sembra che si sia raggiunto un momento di stasi, ma (ed è qui che esce fuori la genialità di King) trac, ecco là che se ne inventa un’altra, e la storia va avanti, si intrica, si complica. Pochi sarebbero riuscita a tirarla così per le lunghe senza uscire dal seminato. King ci riesce, e devo dire, ci riesce bene. La storia si regge bene sul filo dell’improbabile, ma che poi impariamo ad accettare come possibile. Lo scrittore di best-seller Paul Sheldon ha un incidente, ma viene salvato da Annie Wilkes, una fan della sua serie di successo basata sulle gesta dell’ottocentesca Misery. Peccato che nell’ultimo libro, stufo di Misery, Paul la faccia morire di parto. Peccato che Annie sia psicopatica e sequestra Paul per fargli scrivere un seguito alla storia. Da questo inizio improbabile, nascono le 400 pagine di segregazione di Paul, di sevizie della psicopatica, di agnizioni da parte di Paul che Annie, ex-infermiera, ha sulla coscienza decine di morti ospedaliere. Ma nasce anche la scrittura del nuovo romanzo, dove Paul trova (senza imbrogliare, come chiede Annie) il modo di far risuscitare Misery, e di farle vivere una nuova, complessa avventura. Che seguiamo anche noi, negli intarsi con scrittura a “macchina da scrivere” (bella anche la trovata della perdita della “n” per cui la pazza si trova a inserire le lettere mentre legge le bozze). È quindi un crescendo. Paul ha le gambe fratturate dall’incidente. Annie è un’ex-infermiera ed ha la casa piena di medicine. Ma Paul sa anche che, se e quando finirà il libro, Annie lo ucciderà. Si innesca così una lotta all’ultimo sangue, che sappiamo bene che qualcuno finirà male. E non vi dico chi. Ma pur avvincente, pur obbligandoti a non lasciare la pagina per sapere cosa succederà, alla fin fine non suscita sussulti emotivi particolari. Sono curioso, non emozionato. Quindi certo, un libro di buon livello, ma non da stella del firmamento. Un libro che segna una svolta nel quarantenne del Maine, fino ad allora scrittore pulp, e da ora in poi scrittore a tutto tondo. Ma, alla fine, rendono di più i suoi libri come idee. Ne vediamo meglio la trasposizione sullo schermo, dove, nel momento in cui incontrano registi di buona se non eccelsa fatta, ne escono capolavori. Vogliamo parlare di “Carrie”? O de “Il miglio verde”? Per arrivare su, su alle vette di “Shining”? E per tornare a Misery, come dimenticare il cupo film degli anni novanta, che ha visto Kathy Bates prendere un meritato Oscar per l’interpretazione della psicopatica Annie? Inciso cinematografico, perché in Italia il film, che si chiama, come il libro, semplicemente “Misery”, viene distribuito con il titolo “Misery non deve morire”? Chiusa letteraria, uno di quei libri “da leggere”, non “da non mancare”.
“Quando aveva dichiarato che moriva dalla voglia di sapere cosa sarebbe successo dopo, non stava scherzando. Perché si continua a vivere per scoprire che cosa succede dopo” (272)
Stephen King “Shining” Bompiani euro 13 (in realtà, scontato a 9,75 euro)
[pubblicato il 3 maggio 2015]
Non avrei certo letto un altro libro di Stephen King, autore che confesso non mi piace affatto, se non spinto dalla libropeutica di Berthoud & Elderkin. E mentre rimando a quel filone di discussione l’approfondimento su cosa possa curare omeopaticamente questo libro, per quanto riguardo il romanzo in sé, devo dire che mi sento di ripetere la risposta che Kubrick dette a King quando questi vide il film, e ne rimase contrariato, affermando che non era molto coerente con il suo romanzo. Per tutta risposta, Kubrick affermò che il libro «non era poi un gran capolavoro». Ed è proprio così. Non è un capolavoro. È un buon romanzo thriller, con un crescente di tensione, ma con una assoluta mancanza di spiegazioni, non dico razionali, ma convincenti su tutto quanto avviene nelle quasi 600 pagine del libro. Credo che la storia sia super-conosciuta, quindi ne parlo ma solo perché nel libro ci sono cose diverse dal film che tutti credo abbiano visto. La storia è la caduta verso la pazzia di Jack Torrence, trentenne scrittore fallito e alcolista non pentito. La storia è il rapporto tra Jack e sua moglie Wendy, dall’amore giovanile alle attuali paure. La storia è la vita di Danny, il figlio di Jack e Wendy, quello che ha dei poteri paranormali, che sente i pensieri, che, come dice il salvatore della patria Dick (poi vedremo perché e come), ha “l’aura” o meglio, in inglese “the shining”. Che il titolo (del libro e del film) è con l’articolo. E si riferisce al potere di Danny. Il libro poi è più complesso, che non parla solo dell’Overlook Hotel e delle vicende che vi avvengono quando Jack accetta il posto di guardiano invernale dell’albergo. Perché seguiamo i motivi che portano Jack ad accettare quel posto: il suo inizio come scrittore che vende alcuni racconti, ingaggiato come professore in una università privata, la difficoltà di scrivere una commedia, l’incontro con Al che lo porta ad amare la bottiglia ed il suo contenuto (soprattutto Martini Cocktail), l’incapacità di reagire alle sfortune, la violenza con il figlio di Danny (cui rompe un braccio in un accesso alcolico), il passaggio (misterioso, e non completamente spiegato) verso l’astinenza completa da alcolici, la rabbia che sale senza sfogo, il pestaggio che rivolge ad un suo studente con cui entra in conflitto, il licenziamento dall’università, e la necessità di trovare un lavoro. In parallelo, vediamo la crescita di Danny, che sente i pensieri, che ha un amico nascosto che gli dice cosa fare e cosa non fare, che si angoscia per il possibile divorzio dei genitori (contro di cui usa tutte le sue armi “paranormali”), la paura che gli prende quando si trova nell’albergo in montagna. Qui King usa tutte le sue armi, dopo aver fatto i suoi flashback per spiegarci (nelle prime 300 pagine) chi siano i nostri tre (anche se Wendy mi rimane sempre molto moscia). Si passa dall’inizio post-estivo dell’albergo che si svuota dei clienti prima dell’inverno, e le storie che il guardiano estivo Watson narra a Jack: le strane morti, i sucidi nella stanza 217, l’uccisione di un mafioso nell’appartamento presidenziale, sino alla strage effettuata dal precedente guardiano invernale verso la moglie e le due figlie gemelle. Vediamo il parco giochi. Vediamo le siepi a forma di animali (ed avranno un ruolo nell’angoscia di Jack, che sotto effetto dell’efedrina immagina questi animali muoversi per volerlo assalirlo), quelli che, erratamente, Kubrick trasforma nel famoso labirinto della morte. Vediamo il cuoco Dick, che ha un piccolo potere di “shine”, ma che lo riconosce in Danny e gli spiega come non averne paura. Poi si avvicina l’inverno. Poi comincia a nevicare, l’albergo viene ad isolarsi dal mondo, rimanendo l’unico compito di Jack quello di controllare che la caldaia non si surriscaldi troppo, per evitare catastrofi. Da qui in poi, è un crescendo di non-spiegazioni. Jack, probabilmente, in astinenza da eccitanti, e non riuscendo a scrivere la sua commedia, quella che gli darà la fama e gli onori, comincia a cadere in paranoia, pensa che ci siano forze che gli vogliono tarpare le ali (scusa che estremizza l’incapacità di accettare la propria mediocrità). Ed ecco, le foto si animano, ci sono balli notturni di fantasmi, ci sono incontri con il guardiano assassino. Ed anche Danny è preso da questo vortice di anormalità, si aggira per posti incongrui, ed apre la famosa stanza 217 dove trova il cadavere di una donna (quella suicida) e dopo una fuga Wendy lo trova con dei segni sul collo. Danny dice che è stata la morta, Wendy pensa sia stato Jack ormai incontrollabile. Con un messaggio super-potente del suo shine, Danny chiama Dick che intanto sta al caldo in Florida (e ricordo che l’Overlook sta in Colorado…). Dick si precipita, ma intanto Jack è ormai al di là di ogni ritorno. Ed usando un mazzuolo da “roque” (gioco derivato dal croquet inglese, dove si usa una mazza con una superficie di gomma dura ed una di ferro) cerca di sterminare tutti quanti. Ferisce seriamente Wendy, stordisce quasi a morte l’arrivato Dick, ed insegue Danny in soffitta. Qui, con uno sforzo enorme, Danny fa tornare per un attimo Jack in sé, mentre lo sta quasi uccidendo. E Danny gli dice che la caldaia sta per scoppiare. Jack deve decidere se uccidere Danny e pensare alla caldaia o fare l’inverso. Ma Jack, nel fondo, ama il figlio, corre in cantina e, capendo che se si salva, poi, ucciderà Danny, invece di abbassare la caldaia, la alza al massimo e salta in aria con l’albergo. E tutto finisce con Wendy in ospedale, che riprenderà una vita quasi normale con il piccolo, ma quanto traumatizzato, Danny. Mi sono dilungato molto sul libro, più di quanto pensassi. Anche perché mi dà modo di fare qualche tocco di confronto con il film (così faccio vedere quanto conosco il regista, come sa il mio amico Luciano). Intanto, nel film la stanza maledetta diventa la 237 (così l’albergo-modello non avrebbe avuto problemi per i suoi clienti). Poi, si salta molto su quanto succede prima dell’inverno, per cui nel film poco si capisce della pazzia di Jack. Ma si insiste molto sui poteri “assassini” dell’albergo, similmente al libro, ed in entrambi i casi non si capisce perché. Poi ci sono le siepi a forma di animali, che impauriscono prima Danny, poi Jack e che nel libro tentano di fermare la corsa verso il salvataggio di Dick. Nel film invece, molto simbolicamente, Kubrick mette un labirinto di una tipologia che però (questo l’errore) non poteva vivere ai 2000 metri di altitudine dell’albergo. Poi c’è la mazza da roque, che Kubrick sostituisce con la famosa accetta, quella che colpisce più e più volte la porta del bagno dove è nascosta Wendy. Accetta che nel film uccide Dick, e nel libro, mazza che invece lo stordisce soltanto. Infine, Jack non muore congelato nel labirinto, ingannato da Danny che, camminando sopra i passi, fa perdere l’orientamento al padre, ma salta in aria (volontariamente) come a volersi redimere in un ultimo barlume di coscienza. Quindi, mentre in Kubrick le “pazzie” sono accettate come simboliche rappresentazioni, nel libro molte cose vengono non dette e non spiegate, ed a me hanno lasciato un gusto poco partecipe. Non dico voglio capire tutto (in fondo sono molto limitato) ma gradirei che l’autore desse la sua spiegazione. Cui io posso aderire o meno. Mentre questo passaggio sotto silenzio mi lascia freddo verso l’autore. E precipita il libro verso i voti bassi. Colpa anche di una confezione poco accurata, di cui do solo due esempi. A pagina 149 troviamo la frase “una versione riveduta e corretta dell’interi maledetta commedia”. E, poco dopo, a pagina 171: “Nella luce della lampada … il taccino del piccolo appariva teso”. Le sottolineature sono mie: non è difficile fare una concordanza singolare femminile, o e neanche tanto immaginare che Danny abbia un “faccino” e non un “taccino”. Odio l’incuria! Ed alla fine, beh, se vi piace King, leggetelo, io ho fatto un po’ di fatica per le lunghe pagine un po’ prolisse e poco convincenti per i miei gusti.
James M. Cain “Il postino suona sempre due volte” Adelphi euro 9
[pubblicato il 7 febbraio 2016]
Confesso, preliminarmente ed a scanso di equivoci, che non ho visto né il film con Lana Turner e John Garfield del 1946 né quello del 1981 con Jessica Lang e Jack Nicholson. Anche se, come tutti, se n’è sempre sentito parlare. Come si sente parlare che questo libro avrebbe trasversalmente ispirato anche “Ossessione” di Luchino Visconti (con Clara Calamai e Massimo Girotti). Ma io parlo di libri, e di Cain ho letto con piacere quel bellissimo “Mildred Pierce”. Perciò, in questa estate caliente, ho deciso di portarmelo appresso, principalmente per la sua brevità, e quindi per la maneggevolezza dell’oggetto-libro. E nella tiepida estate baltica mi sono immerso nella torrida vicenda di Frank e Cora. Frank, sbandato giramondo, vivacchiando di qua e di là, si ritrova ad accettare un lavoro da aiutante presso Nick Pappadakis, un immigrato greco che gestisce la “taverna delle Due Querce”, insieme alla moglie Cora. Ovviamente, ed in poco tempo. Frank e Cora diventano amanti, pensano di costruirsi una vita insieme. E quale soluzione per avere un futuro libero davanti? Uccidere Nick senza esserne accusati. Il tentativo però è goffo, come tutto in Cora e in Frank. Lui aspetta in macchina che Cora dia una botta in testa a Nick che fa il bagno, così che questo possa essere preso per annegamento dopo malore. Ma mentre si sta svolgendo il misfatto, un poliziotto passa vicino alla Taverna guardando Frank con aria interrogativa, e subito dopo un gatto salta sui fili della luce scoperti, facendo saltare la corrente a tutta la zona. Cora è presa da rimorsi, porta Nick all’ospedale, e Frank se ne va per la sua strada, tornando a fare il vagabondo. Tuttavia a Frank manca la bella Cora. Torna, e la passione divampa nuovamente. Ed allora, ecco che proviamo un nuovo incidente. Questa volta di macchina, facendo ubriacare Nick, e simulando un’uscita di strada. Dove per poco anche Frank non ci lascia le penne. Qualcuno ha visto qualcosa, ma un astuto avvocato (ed è questa la parte migliore del libro), riesce ad imbastire una sottile linea di difesa, che porta la corte ad assolvere i due amanti dall’accusa di omicidio. Tuttavia, durante il processo, il loro rapporto è messo gravemente in crisi, ci sono momenti in cui dubitano reciprocamente delle rispettive correttezze e del rispettivo amore. Tornati alla taverna, Cora deve andare dalla madre ammalata, e Frank (si sa che l’uomo è cacciatore, ma Frank più che altro sembra succube della propria virilità) ha una storia con una signorina locale. Al ritorno, pur nel continuo comportamento cane-gatto, Frank & Cora sembrano ritrovare una prima dose di serenità. Minata però dai tentativi di ricatto di un losco figuro. Anche questo riescono a superare. Finalmente si sposano e Cora rimane incinta. Ci avviamo così a grandi passi verso l’epico finale. Cora ha le doglie, Frank prende la macchina per portarla in ospedale e… Ovviamente ha un incidente, ovviamente Cora muore, ovviamente Frank rimane ferito. E si riaprono i giochi che sembravano chiusi. Qui, inoltre, c’è la grande divaricazione tra libro e film, per cui non vi dirò come nel libro si evolverà la parte finale, che è tutta da seguire. Un mega-polpettone in meno di 150 pagine. Pensavo potesse essere più lungo, come sosteneva il grande Raymond Chandler, che, da Hollywood, aveva bollato il nostro Cain come un Proust dei poveri. Ma, tornando al libro, quello che rimane sempre un mistero, nonostante le spiegazioni che lo stesso Cain ha dato più volte (ed ogni volta diverse), è il titolo. Dato che nessun postino compare mai in tutto il libro. Personalmente, la versione cui do maggior credito è quella che fa riferimento alla vicenda di Ruth Snyder, che nel 1927, aiutata controvoglia dall’amante Judd, uccide il marito simulando un incidente. Ma la coppia viene smascherata, accusata, condannata e giustiziata. Tuttavia non è questa parte cui mi riferisco, anche se ci sono similitudini con il primo tentativo di uccidere Nick. Il collegamento è con il postino: Ruth aveva convinto il marito a stipulare un’assicurazione sulla vita, cambiandone poi le modalità, e convincendo altresì il postino che, nel caso arrivasse posta per lei, doveva suonare due volte. Forse, se avesse conosciuto il latino, poteva anche chiamarlo “Reptita non iuvant”, visto che a forza di ripetere azioni e situazioni, invece di migliorare, le cose peggiorano. Ripeto però che al fine, trovo leggibile e godibile lo scritto di Cain. Trovo la sua modalità interessante, per quella fine che dà un senso a tutta la storia. E per quest’amore tra Frank e Cora, un’attrazione sessuale che non si può frenare. Tipica dell’immagine che abbiamo dell’America degli Anni Trenta.

Finalino

Concordo con l’adrenalina che passa nelle vene, ma solo nei film. Forse il solo Cain regge bene la pagina. King, come ho ripetuto più volte, mi ha sempre abbastanza deluso. Mentre inviterei sempre tutti a vedere, rivedere e poi rivedere Kubrick e Visconti.

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