domenica 27 maggio 2018

Aver cura della pioggia - 27 maggio 2018

Speriamo proprio di no, che la pioggia è uno degli eventi atmosferici che più mi rendono storta la giornata. Ma se cominciamo da un medio “Gambellini” che non so quanto avrà cura di me, passiamo attraverso la prima Bridget Jones, ci imbattiamo in un interessante ma non coinvolgente libro di una ex-premio Pulitzer, come non terminare contenti leggendo un libro esordiente, anche se c’è di mezzo la pioggia? Difetti ce ne sono, che la perfezione è altra. Ma ci sono promesse, e qualche spunto non banale. Prosegui così, Beatrice.
Massimo Gramellini & Chiara Gamberale “Avrò cura di te” TEA euro 5
[A: 04/07/2017 – I: 21/12/2017 – T: 22/12/2017] - &&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 187; anno 2014]
Pur essendo un libro misto uomo-donna, lo collocherò nell’Universo femminile, che mi sembra l’impronta di Chiara maggiore, o di maggior spinta, rispetto a quella di Massimo. Gramellini che non mi dispiaceva leggere a volte su “La Stampa” (non invece nella nuova veste nel Corriere) o ascoltare da Fazio, ma non riesco ad entrare nella sua scrittura libraria. Ho letto “L’ultima riga delle favole” e non mi è piaciuto; ho provato ad interessarmi a “Fai bei sogni”, e niente anche qui. Confesso che in questa prova l’ho trovato più leggibile, anche se, a volte, un po’ troppo legato alla parola, all’effetto, al detto e mal interpretato. Eppur tuttavia, discretamente godibile, anche se facilmente decrittabile. Gamberale è, al solito, nel buio nero delle crisi esistenziali. Non sembra aver fatto un passo avanti dal precedente “Per dieci minuti”. È ancora lì, ad elaborare lutti e cercare di recuperare, a riempirsi di parole, quasi a sommergerci in modo da non darci diritto di replica. Per questo, lo ritengo un libro più femminile, per questa preponderanza, almeno emotiva, della parte “Chiara”. Il libro è costruito come una specie di epistolario tra la povera Gioconda-Chiara, con tutti i problemi, passati, presenti e probabilmente futuri, ed un nomato “Filèmone”, presentatosi come suo Angelo Custode. Senza entrare nel merito dell’angelicità, della vita al di là della morte (e magari della reincarnazione), sottolineiamo la scelta de nome che rimanda alla saga di Filèmone e Bauci, due dei più teneri amanti della mitologia greca, che per rimanere uniti per sempre vennero prima di morire trasformati da Zeus in una quercia e un tiglio uniti per il tronco. Ma non ci meraviglia inoltre, che Filèmone sia un personaggio centrale dell’opera psicologica di Jung. Perché, in realtà, volendo traslare l’angelicità, Filèmone-Massimo ha molto dello psicologo, con in più la capacità – volontà – dirazzamento di intervenire oltre che di ascoltare. La trama a due voci è discretamente lineare: Gioconda è stata lasciata dal marito Leonardo (certo invenzione poco felice), non riesce ad elaborare il suo (nuovo) lutto, ed ecco che interviene come suo contraltare Filèmone, che la striglia, la indirizza, fino alla catarsi finale cui arriveremo. Perché, nel progredire dello scritto vediamo delinearsi sempre più chiaramente le figure sia di Gioconda che di Filèmone. Gioconda, trasferitasi a casa della ormai defunta nonna Gioconda, ne mitizza la vita vissuta accanto al marito Antonino. Intanto, sotto la spinta dell’angelo, tira fuori la sua storia. Figlia di una coppia scoppiata quando lei aveva quattro anni, non si è mai sentita accudita – compresa – cresciuta né dal padre, esimio ofiologo, né dalla madre, pronta a partire per il Sud America in vista di un nuovo possibile amore “che dia un senso alla vita vissuta fin qui”. Cresciuta con i nonni, ribelle senza rivoluzione, fa (quasi) sempre scelte sbagliate accettando o rifiutando innamorati e amanti. A trentun anni, laureata ed insegnante di Italiano, incontra Leonardo. Ne nasce una storia d’amore forte, complessa, piena dei di lui silenzi e delle sue parole. Tuttavia, mai dare per scontato l’amore, che va rivisto e coccolato ogni giorno. Gioconda e Leonardo si raffreddano, si allontanano, fino a che lei, quasi senza esserne cosciente, va a letto con il padre di un suo alunno. Un tradimento? Si potrebbe discutere e parlarne. Certo Leonardo, scopertolo, intenta un processo via mail a Gioconda e la lascia. Gioconda cerca aiuto in Filèmone, anche dei suoi passi incerti, del voler tornare con l’Innominato, ma senza muovere un dito (commento mio). E l’Angelo la convince a guardarsi dentro, a non nascondere il proprio Io. Bellissime le poche righe che Gioconda si (e ci) concede per la sua fuga all’Isola di Pasqua. Ovvio che quando Gioconda finalmente comincia a camminare con le proprie gambe, Leonardo si ripresenta, rischiando di far crollare il fragile castello. Sarà la capacità di non chiudere gli occhi che consentirà (forse e se lo vorranno) l’inizio di una via nuova sulla vita vecchia. Il tutto ha per contraltare l’angelo, che ci racconta delle sue vite passate, ed intuiamo, da interventi fuori testo, che anche lui ha un grande amore, immutabile, immancabile, eterno. Per costringere Gioconda a guardarsi dentro senza altre maschere, Filèmone, alla fine, le fa capire che il suo grande amore era (è) proprio la nonna Gioconda. Ma allora Filèmone è nonno Antonino, o c’è una storia diversa che non conosciamo e che conosceremo? Come conosceremo l’idea (che però è chiara già da diverse pagine prima della fine) di come Filèmone e Gioconda senior potranno dare ancora una mano a Gioconda junior. A parte l’invenzione dell’Angelo, che mi lascia freddo, il libro si legge come un Fabio Volo al femminile, con qualche tocco di Federica Bosco. E molte frasi (anche se quelle sotto riportate sono condivisibili) più da Bacio Perugina che da libro di lettura. Leggerino, incomprensibilmente (o forse molto comprensibilmente) in testa a classifiche mensili di lettura. Dove ormai mi sembra chiaro che la popolarità raramente si accoppia ad una riuscita emotiva e cerebrale completa.
“Dov’è il confine che separa un segreto da una bugia?” (115)
“Si completa con gli altri solo chi sa bastare a sé stesso.” (134)
“L’amore perfetto non esiste: quello reale è la somma di tante imperfezioni. Ogni tradimento è il tentativo di colmare un vuoto.” (181)
Helen Fielding “Il diario di Bridget Jones” Rizzoli euro 12 (in realtà, scontato a 9,60 euro)
[A: 28/05/2016– I: 17/01/2018 – T: 21/01/2018] - && --
[tit. or.: Bridget Jones’s Diary; ling. or.: inglese; pagine: 313; anno 1996]
Certo riparleremo a lungo di questo libro nell’ambito delle terapie d’amore per essere felici. Intanto, l’ho ripreso in mano dopo tanti anni (credo di averlo letto, ma ne ricordavo poco, almeno nei dettagli, se non nella struttura). Ovviamente poi, il ricordo è stato corroborato dal fatto di averne in seguito visto il film. Che devo dire mi aveva anche fatto sorridere. Nonché incuriosire con quell’ottimo tris d’attori dei protagonisti. Ricordate certamente Renée Zellweger nella parte di Bridget Jones, Colin Firth in quella di Mark Darcy e Hugh Grant che interpretava Daniel Cleaver. Ma non è questo il luogo di critiche cinematografiche, bensì di parlare del testo. Che, spero sappiate, deriva dalla trasposizione in romanzo di una rubrica fissa che Helen Fielding teneva sul giornale “The Indipendent”, dove cercava ogni settimana di parlare di una donna trentenne single. Tutti questi elzeviri, dato il successo della rubrica, vennero quindi rimaneggiati, amalgamati e fatti diventare un diario, questo, in cui seguiamo la “povera” Bridget in un fondamentale anno della sua vita. Con tutti i passaggi ed i trabocchetti che le diverse esperienze di single avevano avuto nel giornale. Bridget diventa quindi una specie di summa di piccoli comportamenti, che, partendo da buone intenzioni, si rivelano disastri, più o meno grandi. A cominciare dal tentativo, sempre abortito, di controllare il peso (durante tutto l’anno oscilla tra i 55 ed i 59 e qualcosa), di smettere di fumare, di bere poco. E tanti altri buoni propositi che si perdono lungo la via. Da single incallita, cerca di trovare l’amore in ogni luogo, cerca di farsi voler bene (e gli amici gliene vogliono, anche se lei a volte non lo capisce), cerca di vestirsi appropriatamente, cerca di cucinare cene deliziose ed elaborate. Tutti tentativi miseramente falliti. Ricordo solo un inciso che mi ha fatto sorridere: il brodo fatto con ossa ed altri pezzi animali, legati da uno spago, che, non avendone altri, è uno spago blu. A cena gli amici si sorbiranno una minestra blu. Ottimo. Bridget lavora in una casa editrice, è perdutamente, ed erroneamente innamorata del suo capo Daniel, che invece pensa solo al sesso, con lei e con tutte le donne che gli capitano a tiro. Ha una corte di amici single (o quasi): Sharon, femminista sputa sentenze, Jude, che si prende e si lascia con il “Perfido Richard” ogni venti pagine, e Tom, omosessuale e pieno di attenzioni (e consigli) verso la sua più cara amica. Bridget ha anche una famiglia: una madre Pamela, che scopre di essere stata troppo legata al marito Colin, per cui se ne va di casa, comincia a fare l’intervistatrice per una TV, imperversa per tutto il libro con le sue pazzie (di vestiario, di comportamento), fugge con il suo amante portoghese, che si rivela essere uno sfruttatore, per poi finire, il Natale del redde rationem, nel tornare con l’opaco Colin. Dopo le delusioni con Daniel, Bridget decide anche di cambiare vita, si licenzia, passa anche lei in una televisione, dove viene strapazzata anche dal nuovo capo, ma ottiene, con la sua aria innocente con cui passa attraverso tutte le disgrazie, anche dei buoni successi, ed un’intervista clamorosa. In questo aiutata dal timido Mark. Che incontriamo già nelle prime pagine, al Natale che avvia il libro, con in dosso un terrificante maglione a rombi. Mark entra ed esce dalle scene, mettendo sempre qualche parola buona verso Bridget, che ovviamente non se ne accorge. Tipica la scena dell’appuntamento dove Bridget aspetta Mark e non lo sente suonare il campanello perché si sta asciugando i capelli con un phon super-galattico. Ma alla fine il timido Mark, così come il Darcy di “Orgoglio e Pregiudizio” da cui è venuta l’ispirazione, avrà la sua rivincita, nonché l’attenzione e le cure, e probabilmente l’amore di Bridget. Il seguito alla prossima puntata (ce ne sono almeno due). Il problema però con il libro è che i venti anni passati hanno lasciato molta polvere sull’ironia di Helen-Bridget. Se il tentativo era di concentrarsi sulle abitudini sessuali attraverso la narrazione dei conflitti (di coppia, di rivalità, di amicizia), ebbene il tempo è corso molto più veloce di quanto Bridget riesca a dimagrire. Certo sorridiamo alle intemperanze della madre Pam, ma è un sorriso un po’ forzato, per nascondere l’imbarazzo. Come sorridiamo ai tentativi di Bridget di autoregolarsi, di darsi un codice di comportamento che sappiamo già (noi e lei) che non seguirà. Come rimangano molto datati molti comportamenti “da buona società borghese”. Mi ha solo colpito quella frase che riporto, dove già allora, quando cellulari e social non avevano ancora stravolto molte nostre abitudini, come la cultura dell’attenzione fosse già in declino. Rilevo solo in finale, un piccolo cammeo letterario, a pagina 249, quando viene citato Nick Hornby come guru del football, ovviamente per quel suo magistrale “Febbre a 90°”. Che forse venti anni fa non avrei colto, e che ora suona quasi una presa in giro del ben altrimenti noto scrittore. Rimaniamo alla finestra a guardare, magari mangiando un gelato. Di certo non ingurgitando tutti gli intrugli alcolici di Bridget & soci.
“Siamo nella cultura dei tre minuti. Abbiamo tutti un’attenzione di durata limitata.” (192)
Jennifer Egan “Manhattan Beach” Mondadori s.p. (omaggio di Mondadori per recensione)
[A: 01/03/2018 – I: 03/03/2018 – T: 07/03/2018] - &&
[tit. or.: Manhattan Beach; ling. or.: inglese; pagine: 510; anno 2017]
Premessa: questo libro è entrato in modo strano nella mia libreria. Anobii mi manda un messaggio dicendo se ero interessato a recensirlo. Dovevo essere tra i primi 10 a rispondere, e credo di averlo fatto, che in pochi giorni il libro arriva. E come promesso, mi metto subito a leggerlo. Seconda premessa: quanto prima anche perché, oltre ad essere un anobiano di ferro, a suo tempo feci una recensione del libro Premio Pulitzer che suscitò qualche consenso. Terza ed ultima premessa: si “Il tempo è un bastardo” è un bel libro, e va assolutamente letto; con questo non farò ulteriori confronti tra quella scrittura e questa, che ogni libro è un mondo, anche se un mondo dipinto dalla stessa mano. Quindi concentriamoci su questo libro. Un libro che mi ha fatto piacere leggere, ma che non mi è piaciuto, tanto che dei miei 5/6 libri di gradimento ne riceve solo 2. La storia è intrigante, la capacità della Egan di seguire più storie che si intrecciano altrettanto gradevole, ma alla fine poco scatta dei meccanismi di empatia e di adesione ai personaggi. Che questa volta sono in realtà solo quattro: Anna, il padre Eddie, il gangster Dexter ed il mare. Certo, le pagine sono piene anche di comprimari, prima tra tutte la sfortunata disabile sorella Lydia, la madre, la zia Bessie, l’amica Nell, gli amici e i nemici della base navale, il nostromo, ed i malavitosi, di piccola o grande taglia. Ma sono le storie dei quattro che tengono banco, il loro intrecciarsi, dove da punti che sembrano all’inizio distanti vediamo convergere verso momenti di vita comune. Sempre con il mare che fa da collante. La spiaggia del titolo, dove si affaccia la villa di Dexter, e dove Eddie e Anna si ritrovano all’inizio della storia. Il mare del porto di New York, dove Anna fa le sue prime esperienze da palombaro, unica donna in un mondo maschile. Le onde oceaniche della nave di Eddie affondata dagli U-boot tedeschi. Il mare, caldo, californiano, dove finalmente Eddie e Anna, forse, troveranno un modo per incontrarsi e per chiarire tutte le cose non dette prima di allora. Con una scrittura sua tipica, l’autrice, pur seguendo uno svolgimento temporalmente lineare, dal 1937 al 1944, ogni tanto fa salti indietro in quello stesso flusso temporale, per rivelarci cose che al momento sembravano misteriose, ma che, tutte, hanno una loro spiegazione. Eddie che, colpito dalla depressione degli Anni Trenta, prima fa il galoppino per un sindacalista di mezza tacca. Poi, alla ricerca di soldi anche per curare la figlia Lydia, fa il salto nel mondo della criminalità. Rimanendo ai margini, divenendo gli occhi di Dexter nelle sue sale giochi, svelando trucchi, portando bustarelle. In questo salto, tuttavia, abbandona Anna, che nelle gite innocue dei primi tempi era il suo contraltare, ma che non può entrare nei giochi pesanti del malaffare. Ma Eddie ha comunque una coscienza, e di fronte alla brutalità di quel mondo, si ritrae, e misteriosamente scompare. Ucciso? Svanito nel nulla? Per più di metà libro lo perdiamo, per poi trovarlo reinventato sulle navi, lontano dal vecchio mondo, fino allo scontro che lo vede quasi perire in mare, per poi anche lui, ritirarsi convalescente nell’assolata California. Dove ritroverà la figlia che ha fatto tutto un suo percorso di affermazione personale: studentessa senza troppa voglia, lavoratrice in aiuto alla Marina, unica a capire i bisogni inespressi della sorella Lydia. Che riesce a portare al mare, proprio in quella spiaggia dell’inizio, proprio aiutata da Dexter, anche se questi non sa che Anna è la figlia di Eddie. Ma la sua affermazione è la voglia di mare, la voglia di entrarci dentro, di entrare nel mondo subacqueo dei palombari professionisti. In questo il femminismo non femminista della Egan ci descrive la lotta di una donna in un mondo maschile, riuscendo a farcene capire le mosse, le fatiche, le sconfitte, ma anche, alla fine, le vittorie. Amare forse, ma vere. Che Anna diventerà palombaro, che Anna sarà l’amante di una notte di Dexter, come sognava dalle prime righe del libro, che Anna uscirà vincente, anche se sola e da ragazza madre, da tutta la storia. Dove invece, nonostante tutte le premesse di conoscenze e di saper fare, non uscirà vincente Dexter. Che ha una bella casa, una moglie amata, ma che deve gestire locali e bische di alto e basso rango per un fantomatico signor Q. Un gangster di vecchio stampo (di certo già pluri-ottantenne) che fa brillare la stella di Dexter finché gli è utile, ma che lo lascerà cadere precipitosamente quando si accorge che Dexter comincia a cedere. Sia sul piano del lavoro poco pulito, sia sul piano privato (forse si stava innamorando di Anna?). Sarà la zia Bessie che prende alla fine Anna per mano, le rivela tutte le cose che lei sa e la nipote no, la porta in salvo in California, per poi… Non entro in tutti i personaggi minori, dove la sapiente scrittura della Egan ha buon gioco a farne, in pochi tratti, risaltare qualità e difetti. Entro solo nel ribadire che tutta questa bella storia, alla fine, non coinvolge gran che. Certo, sentiamo simpatia per Anna, vogliamo che abbia tutto il bene che i maschi antipatici le stanno negando. Certo capiamo la metamorfosi di un mondo che viene stravolto dalla guerra. Da dove, profeticamente come dalle parole del suocero di Dexter, l’America uscirà vincitrice e faro per le generazioni a venire. Ma tutto ciò smuove poco la voglia di conoscenza, la voglia di approfondimento. L’America è un mondo pieno (anche) di ladri? I soldati sono (anche) razzisti? Le donne sono (spesso) trattate male? Non hanno le stese opportunità e speranze di successo dei maschi? Di certo lo sapevamo già, e non è questo libro che ce ne fa scoprire lati nuovi o inaspettati. Sicuramente, e ne diamo atto, Jennifer Egan è capace di seguire una storia, di imbastirla e condirla, senza cadute di stile per tutte e 500 le pagine. E di certo non è poco, e non ci aspettiamo di meno da un’autrice che sappiamo sa scrivere. Personalmente rilevo alcune chicche, positive e negative, che mi hanno colpito. Come, in positivo, la citazione della storia di Evelyn Nesbit che tanto rimanda a Ragtime di Doctorow. Come, in negativo, il qualificare il cognato di Dexter, Henry, con l’aggettivo “prude”, forse vicino all’originale (immagino) ma che avrei reso con “pudico”. Infine, ritengo che l’edizione speciale non definitiva che ho sottomano non debba essere incolpata dei troppi (per un’edizione Mondadori) errori di stampa (almeno quattro, tra cui un “capishh” invece di “capisci”, e una ripetizione di parola del tipo “attraverso attraverso”). Ma non sono un linotipista, né un correttore. Sono un semplice lettore, che in ogni caso ha divorato il libro in pochi giorni. Questo almeno un segno della bontà del prodotto. Sperando in altri buoni libri, ed altre veloci recensioni, vero Anobii?
Beatrice Corradini “Io sono la pioggia” Centauria euro 9,90 (in realtà, scontato a 6,60 euro)
[A: 10/01/2018 – I: 02/04/2018 – T: 07/04/2018] - &&& e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 346; anno 2017]
Metto subito le mani avanti: non sarà facile parlare di questo libro, e non perché è troppo giovane per un anziano come me. Cercherò di mantenere neutrale, professionale ed un po’ antipatico il tono, perché, come in alcune poche altre recensioni, devo scontare il fatto non solo di conoscere l’autrice, ma anche di conoscere la madre della scrittrice ed il cane a cui è dedicato. Un fardello non da poco. E tuttavia non per questo ho dato un giudizio decisamente buono ad un libro che è interessante, scritto con capacità, e giustamente con qualche pecca di gioventù ampiamente comprensibile. Cominciamo allora come ben si usa con qualche nota positiva: la scrittura, scorrevole, efficace, che riesce a tenere legato il lettore al succedere degli eventi e che lega gli eventi stessi tra loro. I rimandi, non sempre facili nevvero, soprattutto quando si fa riferimento a musiche di nicchia (ma è comunque interessante poi capirne le origini e le sonorità), ma invece ben comprensibili se svariano sul pano letterario. Infine, un buon taglio per osservare, con gli occhi di chi è più vicino di me, un mondo giovanile ma non giovanilistico. Un mondo del disagio, ma anche della presa di coscienza. Sul versante opposto, probabilmente avrebbe inciso di più una riduzione della massa di avvenimenti, condensarli, o quanto meno dare un taglio a qualche episodio, di sicuro utile alla comprensione globale, ma che rende il volume un filo troppo denso e lungo. E si sa che in questi casi, un po’ si scivola o nella scrittura di routine, o nel dimenticarsi qualcosa. Ad esempio, non ho capito, o forse mi sono perso nelle pieghe del testo, che succede quando il cattivo Cesare spara a Satana. Lo uccide? Sembra di sì. Ma una morte così palese dovrebbe portare risvolti polizieschi che invece non sono presenti (o me li sono persi io?). L’ultimo cenno è al coraggio della scrittrice nell’affrontare un tema che si sarebbe prestato a facili scivolate nel melenso. Parlare di una studentessa che si innamora del giovane professore (e/o viceversa) rischiava di far cadere i toni del romanzo che invece riesce a svicolarne i facili “ismi” (sentimentalismi, romanticismi e via discorrendo), imbastendo una vicenda che, seppur alla fine avrà il suo sbocco naturale, ci arriva per vie traverse, sfociando in un finale non scontato di apertura. Di certo problematica, ma, come direbbe il grande Lucio, “lo scopriranno solo vivendo”. Il tutto nell’arco di un anno vissuto soggettivamente e pericolosamente dalla pur simpatica Andrea. Anno di liceo, con tutto quanto può succedere in una classe liceale composita: gelosie, amori e malumori, cricche che inglobano e che emarginano. Anno che si apre con l’arrivo di un giovane professore al primo anno di insegnamento, con una buona dose di volontà costruttiva, ma anche con qualche non sopito elemento (auto-)distruttivo. Seguiamo Andrea isolata nella sua classe perché non si omologa, scintillata da alcune uscite del professor Parisi, miracolata dall’arrivo dell’altra super-alternativa Dana. Andrea che scopre il lato segreto di Parisi che di notte suona e canta in una band punk-rock, seguendo, lei e lui il filo musicale di “Dancing with myself” di Billy Idol. Ci sono centri sociali alla “Casa Pound” che imperversano e taccheggiano i più deboli. Tentativi, più o meno riusciti, di stupri verso Dana e Andrea. Occupazioni “propositive” dei licei con tanto di lezioni alternative. E poi il grande mistero del “mondo di Primo Parisi”, quello con Jaco, quello con Cesare. Che ad un certo punto esce fuori. Ma io preferisco seguire Andrea sulla sua bicicletta Sally (che mi sa tanto di Vasco…), con le sue elucubrazioni, i suoi pensieri, la voglia di stare e comunicare, ma solo con… Tipico nei libri di formazione (e questo è un libro di formazione) ambientati in liceo, la gita all’estero, dove qui si sceglie Manchester (che trovo sempre una degna meta da raggiungere). Andrea si forma, Andrea si confronta con La Dolce, compagna di scuola prima snobetta, poi emarginata dalle bellone. Andrea si scontra con Dana ed il suo amore diverso. Andrea alla fine… Ma perché raccontarlo. È bello, infatti seguire Beatrice che ci racconta, anche con i suoi piccoli intoppi (in fondo se in un libro tutto fila liscio o si scrive senza criterio o si è già preso un Nobel). La scrittrice Corradini invece continua a percorrere le strade del suo romanzo, e noi che lo abbiamo letto, diciamo di averci trovato uno spunto per dare uno sguardo su quel mondo giovanile che sembra tanto lontano, ma che forse è solo perché si parla di meno. Ripeto e concludo, avrei asciugato qualche episodio, anche se mi rendo conto che poteva avere (che ha) senso nell’economia di spiegare tutti i passi che portano i protagonisti là dove arrivano. Aspettiamo altro, ma non di Andrea, bensì da Beatrice. Buona fortuna.
“Quando sei genitore non hai un manuale da seguire. Nessuno ti dice dove sbagli o in che modo devi muoverti.” (138)
“Sei … la persona migliore che abbia mai conosciuto, ma il tuo problema è che agli altri non ci pensi.” (210)
Vi confesso che non è certo un momento facile. Non si recupera facilmente un lutto forte, anche se tutti gli amici aiutano ad andare avanti, a fare cose, e ad intraprendere nuove avventure. Ma gli affetti, le amicizie, e le piccole e grandi imprese aiutano ad andare sempre avanti. 

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