Speriamo proprio di no, che la
pioggia è uno degli eventi atmosferici che più mi rendono storta la giornata.
Ma se cominciamo da un medio “Gambellini” che non so quanto avrà cura di me,
passiamo attraverso la prima Bridget Jones, ci imbattiamo in un interessante ma
non coinvolgente libro di una ex-premio Pulitzer, come non terminare contenti
leggendo un libro esordiente, anche se c’è di mezzo la pioggia? Difetti ce ne
sono, che la perfezione è altra. Ma ci sono promesse, e qualche spunto non
banale. Prosegui così, Beatrice.
Massimo Gramellini & Chiara Gamberale “Avrò cura di te” TEA euro 5
[A: 04/07/2017 – I: 21/12/2017 – T: 22/12/2017] - &&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 187;
anno 2014]
Pur
essendo un libro misto uomo-donna, lo collocherò nell’Universo femminile, che
mi sembra l’impronta di Chiara maggiore, o di maggior spinta, rispetto a quella
di Massimo. Gramellini che non mi dispiaceva leggere a volte su “La Stampa”
(non invece nella nuova veste nel Corriere) o ascoltare da Fazio, ma non riesco
ad entrare nella sua scrittura libraria. Ho letto “L’ultima riga delle favole”
e non mi è piaciuto; ho provato ad interessarmi a “Fai bei sogni”, e niente
anche qui. Confesso che in questa prova l’ho trovato più leggibile, anche se, a
volte, un po’ troppo legato alla parola, all’effetto, al detto e mal
interpretato. Eppur tuttavia, discretamente godibile, anche se facilmente
decrittabile. Gamberale è, al solito, nel buio nero delle crisi esistenziali.
Non sembra aver fatto un passo avanti dal precedente “Per dieci minuti”. È
ancora lì, ad elaborare lutti e cercare di recuperare, a riempirsi di parole,
quasi a sommergerci in modo da non darci diritto di replica. Per questo, lo
ritengo un libro più femminile, per questa preponderanza, almeno emotiva, della
parte “Chiara”. Il libro è costruito come una specie di epistolario tra la
povera Gioconda-Chiara, con tutti i problemi, passati, presenti e probabilmente
futuri, ed un nomato “Filèmone”, presentatosi come suo Angelo Custode. Senza
entrare nel merito dell’angelicità, della vita al di là della morte (e magari
della reincarnazione), sottolineiamo la scelta de nome che rimanda alla saga di
Filèmone e Bauci, due dei più teneri amanti della mitologia greca, che per
rimanere uniti per sempre vennero prima di morire trasformati da Zeus in una
quercia e un tiglio uniti per il tronco. Ma non ci meraviglia inoltre, che
Filèmone sia un personaggio centrale dell’opera psicologica di Jung. Perché, in
realtà, volendo traslare l’angelicità, Filèmone-Massimo ha molto dello
psicologo, con in più la capacità – volontà – dirazzamento di intervenire oltre
che di ascoltare. La trama a due voci è discretamente lineare: Gioconda è stata
lasciata dal marito Leonardo (certo invenzione poco felice), non riesce ad
elaborare il suo (nuovo) lutto, ed ecco che interviene come suo contraltare
Filèmone, che la striglia, la indirizza, fino alla catarsi finale cui
arriveremo. Perché, nel progredire dello scritto vediamo delinearsi sempre più
chiaramente le figure sia di Gioconda che di Filèmone. Gioconda, trasferitasi a
casa della ormai defunta nonna Gioconda, ne mitizza la vita vissuta accanto al
marito Antonino. Intanto, sotto la spinta dell’angelo, tira fuori la sua
storia. Figlia di una coppia scoppiata quando lei aveva quattro anni, non si è
mai sentita accudita – compresa – cresciuta né dal padre, esimio ofiologo, né
dalla madre, pronta a partire per il Sud America in vista di un nuovo possibile
amore “che dia un senso alla vita vissuta fin qui”. Cresciuta con i nonni,
ribelle senza rivoluzione, fa (quasi) sempre scelte sbagliate accettando o
rifiutando innamorati e amanti. A trentun anni, laureata ed insegnante di
Italiano, incontra Leonardo. Ne nasce una storia d’amore forte, complessa,
piena dei di lui silenzi e delle sue parole. Tuttavia, mai dare per scontato
l’amore, che va rivisto e coccolato ogni giorno. Gioconda e Leonardo si
raffreddano, si allontanano, fino a che lei, quasi senza esserne cosciente, va
a letto con il padre di un suo alunno. Un tradimento? Si potrebbe discutere e
parlarne. Certo Leonardo, scopertolo, intenta un processo via mail a Gioconda e
la lascia. Gioconda cerca aiuto in Filèmone, anche dei suoi passi incerti, del
voler tornare con l’Innominato, ma senza muovere un dito (commento mio). E
l’Angelo la convince a guardarsi dentro, a non nascondere il proprio Io.
Bellissime le poche righe che Gioconda si (e ci) concede per la sua fuga
all’Isola di Pasqua. Ovvio che quando Gioconda finalmente comincia a camminare
con le proprie gambe, Leonardo si ripresenta, rischiando di far crollare il
fragile castello. Sarà la capacità di non chiudere gli occhi che consentirà
(forse e se lo vorranno) l’inizio di una via nuova sulla vita vecchia. Il tutto
ha per contraltare l’angelo, che ci racconta delle sue vite passate, ed
intuiamo, da interventi fuori testo, che anche lui ha un grande amore, immutabile,
immancabile, eterno. Per costringere Gioconda a guardarsi dentro senza altre
maschere, Filèmone, alla fine, le fa capire che il suo grande amore era (è)
proprio la nonna Gioconda. Ma allora Filèmone è nonno Antonino, o c’è una
storia diversa che non conosciamo e che conosceremo? Come conosceremo l’idea
(che però è chiara già da diverse pagine prima della fine) di come Filèmone e
Gioconda senior potranno dare ancora una mano a Gioconda junior. A parte
l’invenzione dell’Angelo, che mi lascia freddo, il libro si legge come un Fabio
Volo al femminile, con qualche tocco di Federica Bosco. E molte frasi (anche se
quelle sotto riportate sono condivisibili) più da Bacio Perugina che da libro
di lettura. Leggerino, incomprensibilmente (o forse molto comprensibilmente) in
testa a classifiche mensili di lettura. Dove ormai mi sembra chiaro che la
popolarità raramente si accoppia ad una riuscita emotiva e cerebrale completa.
“Dov’è il confine che separa un segreto da
una bugia?” (115)
“Si completa con gli altri solo chi sa
bastare a sé stesso.” (134)
“L’amore perfetto non esiste: quello reale è
la somma di tante imperfezioni. Ogni tradimento è il tentativo di colmare un
vuoto.” (181)
Helen Fielding “Il diario di Bridget Jones” Rizzoli euro 12 (in realtà,
scontato a 9,60 euro)
[A: 28/05/2016– I: 17/01/2018
– T: 21/01/2018] - && --
[tit. or.: Bridget Jones’s Diary; ling. or.: inglese; pagine: 313; anno 1996]
Certo riparleremo a lungo di
questo libro nell’ambito delle terapie d’amore per essere felici. Intanto, l’ho
ripreso in mano dopo tanti anni (credo di averlo letto, ma ne ricordavo poco,
almeno nei dettagli, se non nella struttura). Ovviamente poi, il ricordo è
stato corroborato dal fatto di averne in seguito visto il film. Che devo dire
mi aveva anche fatto sorridere. Nonché incuriosire con quell’ottimo tris
d’attori dei protagonisti. Ricordate certamente Renée Zellweger nella parte di
Bridget Jones, Colin Firth in quella di Mark Darcy e Hugh Grant che
interpretava Daniel Cleaver. Ma non è questo il luogo di critiche
cinematografiche, bensì di parlare del testo. Che, spero sappiate, deriva dalla
trasposizione in romanzo di una rubrica fissa che Helen Fielding teneva sul
giornale “The Indipendent”, dove cercava ogni settimana di parlare di una donna
trentenne single. Tutti questi elzeviri, dato il successo della rubrica,
vennero quindi rimaneggiati, amalgamati e fatti diventare un diario, questo, in
cui seguiamo la “povera” Bridget in un fondamentale anno della sua vita. Con
tutti i passaggi ed i trabocchetti che le diverse esperienze di single avevano
avuto nel giornale. Bridget diventa quindi una specie di summa di piccoli
comportamenti, che, partendo da buone intenzioni, si rivelano disastri, più o
meno grandi. A cominciare dal tentativo, sempre abortito, di controllare il
peso (durante tutto l’anno oscilla tra i 55 ed i 59 e qualcosa), di smettere di
fumare, di bere poco. E tanti altri buoni propositi che si perdono lungo la
via. Da single incallita, cerca di trovare l’amore in ogni luogo, cerca di
farsi voler bene (e gli amici gliene vogliono, anche se lei a volte non lo
capisce), cerca di vestirsi appropriatamente, cerca di cucinare cene deliziose
ed elaborate. Tutti tentativi miseramente falliti. Ricordo solo un inciso che
mi ha fatto sorridere: il brodo fatto con ossa ed altri pezzi animali, legati
da uno spago, che, non avendone altri, è uno spago blu. A cena gli amici si
sorbiranno una minestra blu. Ottimo. Bridget lavora in una casa editrice, è
perdutamente, ed erroneamente innamorata del suo capo Daniel, che invece pensa
solo al sesso, con lei e con tutte le donne che gli capitano a tiro. Ha una
corte di amici single (o quasi): Sharon, femminista sputa sentenze, Jude, che
si prende e si lascia con il “Perfido Richard” ogni venti pagine, e Tom,
omosessuale e pieno di attenzioni (e consigli) verso la sua più cara amica.
Bridget ha anche una famiglia: una madre Pamela, che scopre di essere stata
troppo legata al marito Colin, per cui se ne va di casa, comincia a fare
l’intervistatrice per una TV, imperversa per tutto il libro con le sue pazzie
(di vestiario, di comportamento), fugge con il suo amante portoghese, che si
rivela essere uno sfruttatore, per poi finire, il Natale del redde rationem,
nel tornare con l’opaco Colin. Dopo le delusioni con Daniel, Bridget decide
anche di cambiare vita, si licenzia, passa anche lei in una televisione, dove
viene strapazzata anche dal nuovo capo, ma ottiene, con la sua aria innocente
con cui passa attraverso tutte le disgrazie, anche dei buoni successi, ed
un’intervista clamorosa. In questo aiutata dal timido Mark. Che incontriamo già
nelle prime pagine, al Natale che avvia il libro, con in dosso un terrificante
maglione a rombi. Mark entra ed esce dalle scene, mettendo sempre qualche
parola buona verso Bridget, che ovviamente non se ne accorge. Tipica la scena
dell’appuntamento dove Bridget aspetta Mark e non lo sente suonare il
campanello perché si sta asciugando i capelli con un phon super-galattico. Ma
alla fine il timido Mark, così come il Darcy di “Orgoglio e Pregiudizio” da cui
è venuta l’ispirazione, avrà la sua rivincita, nonché l’attenzione e le cure, e
probabilmente l’amore di Bridget. Il seguito alla prossima puntata (ce ne sono
almeno due). Il problema però con il libro è che i venti anni passati hanno
lasciato molta polvere sull’ironia di Helen-Bridget. Se il tentativo era di
concentrarsi sulle abitudini sessuali attraverso la narrazione dei conflitti
(di coppia, di rivalità, di amicizia), ebbene il tempo è corso molto più veloce
di quanto Bridget riesca a dimagrire. Certo sorridiamo alle intemperanze della
madre Pam, ma è un sorriso un po’ forzato, per nascondere l’imbarazzo. Come
sorridiamo ai tentativi di Bridget di autoregolarsi, di darsi un codice di
comportamento che sappiamo già (noi e lei) che non seguirà. Come rimangano
molto datati molti comportamenti “da buona società borghese”. Mi ha solo
colpito quella frase che riporto, dove già allora, quando cellulari e social
non avevano ancora stravolto molte nostre abitudini, come la cultura
dell’attenzione fosse già in declino. Rilevo solo in finale, un piccolo cammeo
letterario, a pagina 249, quando viene citato Nick Hornby come guru del
football, ovviamente per quel suo magistrale “Febbre a 90°”. Che forse venti
anni fa non avrei colto, e che ora suona quasi una presa in giro del ben
altrimenti noto scrittore. Rimaniamo alla finestra a guardare, magari mangiando
un gelato. Di certo non ingurgitando tutti gli intrugli alcolici di Bridget
& soci.
“Siamo nella cultura dei tre minuti. Abbiamo tutti un’attenzione di durata
limitata.” (192)
Jennifer Egan “Manhattan Beach” Mondadori s.p. (omaggio di Mondadori
per recensione)
[A: 01/03/2018 – I: 03/03/2018
– T: 07/03/2018] - &&
[tit. or.: Manhattan Beach; ling. or.: inglese; pagine: 510; anno 2017]
Premessa:
questo libro è entrato in modo strano nella mia libreria. Anobii mi manda un
messaggio dicendo se ero interessato a recensirlo. Dovevo essere tra i primi 10
a rispondere, e credo di averlo fatto, che in pochi giorni il libro arriva. E
come promesso, mi metto subito a leggerlo. Seconda premessa: quanto prima anche
perché, oltre ad essere un anobiano di ferro, a suo tempo feci una recensione
del libro Premio Pulitzer che suscitò qualche consenso. Terza ed ultima
premessa: si “Il tempo è un bastardo” è un bel libro, e va assolutamente letto;
con questo non farò ulteriori confronti tra quella scrittura e questa, che ogni
libro è un mondo, anche se un mondo dipinto dalla stessa mano. Quindi
concentriamoci su questo libro. Un libro che mi ha fatto piacere leggere, ma
che non mi è piaciuto, tanto che dei miei 5/6 libri di gradimento ne riceve
solo 2. La storia è intrigante, la capacità della Egan di seguire più storie
che si intrecciano altrettanto gradevole, ma alla fine poco scatta dei
meccanismi di empatia e di adesione ai personaggi. Che questa volta sono in
realtà solo quattro: Anna, il padre Eddie, il gangster Dexter ed il mare.
Certo, le pagine sono piene anche di comprimari, prima tra tutte la sfortunata
disabile sorella Lydia, la madre, la zia Bessie, l’amica Nell, gli amici e i
nemici della base navale, il nostromo, ed i malavitosi, di piccola o grande
taglia. Ma sono le storie dei quattro che tengono banco, il loro intrecciarsi,
dove da punti che sembrano all’inizio distanti vediamo convergere verso momenti
di vita comune. Sempre con il mare che fa da collante. La spiaggia del titolo,
dove si affaccia la villa di Dexter, e dove Eddie e Anna si ritrovano
all’inizio della storia. Il mare del porto di New York, dove Anna fa le sue
prime esperienze da palombaro, unica donna in un mondo maschile. Le onde
oceaniche della nave di Eddie affondata dagli U-boot tedeschi. Il mare, caldo,
californiano, dove finalmente Eddie e Anna, forse, troveranno un modo per
incontrarsi e per chiarire tutte le cose non dette prima di allora. Con una
scrittura sua tipica, l’autrice, pur seguendo uno svolgimento temporalmente
lineare, dal 1937 al 1944, ogni tanto fa salti indietro in quello stesso flusso
temporale, per rivelarci cose che al momento sembravano misteriose, ma che, tutte,
hanno una loro spiegazione. Eddie che, colpito dalla depressione degli Anni
Trenta, prima fa il galoppino per un sindacalista di mezza tacca. Poi, alla
ricerca di soldi anche per curare la figlia Lydia, fa il salto nel mondo della
criminalità. Rimanendo ai margini, divenendo gli occhi di Dexter nelle sue sale
giochi, svelando trucchi, portando bustarelle. In questo salto, tuttavia,
abbandona Anna, che nelle gite innocue dei primi tempi era il suo contraltare,
ma che non può entrare nei giochi pesanti del malaffare. Ma Eddie ha comunque
una coscienza, e di fronte alla brutalità di quel mondo, si ritrae, e
misteriosamente scompare. Ucciso? Svanito nel nulla? Per più di metà libro lo
perdiamo, per poi trovarlo reinventato sulle navi, lontano dal vecchio mondo,
fino allo scontro che lo vede quasi perire in mare, per poi anche lui,
ritirarsi convalescente nell’assolata California. Dove ritroverà la figlia che
ha fatto tutto un suo percorso di affermazione personale: studentessa senza
troppa voglia, lavoratrice in aiuto alla Marina, unica a capire i bisogni
inespressi della sorella Lydia. Che riesce a portare al mare, proprio in quella
spiaggia dell’inizio, proprio aiutata da Dexter, anche se questi non sa che
Anna è la figlia di Eddie. Ma la sua affermazione è la voglia di mare, la
voglia di entrarci dentro, di entrare nel mondo subacqueo dei palombari
professionisti. In questo il femminismo non femminista della Egan ci descrive
la lotta di una donna in un mondo maschile, riuscendo a farcene capire le mosse,
le fatiche, le sconfitte, ma anche, alla fine, le vittorie. Amare forse, ma
vere. Che Anna diventerà palombaro, che Anna sarà l’amante di una notte di
Dexter, come sognava dalle prime righe del libro, che Anna uscirà vincente,
anche se sola e da ragazza madre, da tutta la storia. Dove invece, nonostante
tutte le premesse di conoscenze e di saper fare, non uscirà vincente Dexter.
Che ha una bella casa, una moglie amata, ma che deve gestire locali e bische di
alto e basso rango per un fantomatico signor Q. Un gangster di vecchio stampo
(di certo già pluri-ottantenne) che fa brillare la stella di Dexter finché gli
è utile, ma che lo lascerà cadere precipitosamente quando si accorge che Dexter
comincia a cedere. Sia sul piano del lavoro poco pulito, sia sul piano privato
(forse si stava innamorando di Anna?). Sarà la zia Bessie che prende alla fine
Anna per mano, le rivela tutte le cose che lei sa e la nipote no, la porta in
salvo in California, per poi… Non entro in tutti i personaggi minori, dove la
sapiente scrittura della Egan ha buon gioco a farne, in pochi tratti, risaltare
qualità e difetti. Entro solo nel ribadire che tutta questa bella storia, alla
fine, non coinvolge gran che. Certo, sentiamo simpatia per Anna, vogliamo che
abbia tutto il bene che i maschi antipatici le stanno negando. Certo capiamo la
metamorfosi di un mondo che viene stravolto dalla guerra. Da dove,
profeticamente come dalle parole del suocero di Dexter, l’America uscirà
vincitrice e faro per le generazioni a venire. Ma tutto ciò smuove poco la
voglia di conoscenza, la voglia di approfondimento. L’America è un mondo pieno
(anche) di ladri? I soldati sono (anche) razzisti? Le donne sono (spesso)
trattate male? Non hanno le stese opportunità e speranze di successo dei
maschi? Di certo lo sapevamo già, e non è questo libro che ce ne fa scoprire
lati nuovi o inaspettati. Sicuramente, e ne diamo atto, Jennifer Egan è capace
di seguire una storia, di imbastirla e condirla, senza cadute di stile per
tutte e 500 le pagine. E di certo non è poco, e non ci aspettiamo di meno da
un’autrice che sappiamo sa scrivere. Personalmente rilevo alcune chicche,
positive e negative, che mi hanno colpito. Come, in positivo, la citazione
della storia di Evelyn Nesbit che tanto rimanda a Ragtime di Doctorow. Come, in
negativo, il qualificare il cognato di Dexter, Henry, con l’aggettivo “prude”,
forse vicino all’originale (immagino) ma che avrei reso con “pudico”. Infine,
ritengo che l’edizione speciale non definitiva che ho sottomano non debba
essere incolpata dei troppi (per un’edizione Mondadori) errori di stampa
(almeno quattro, tra cui un “capishh” invece di “capisci”, e una ripetizione di
parola del tipo “attraverso attraverso”). Ma non sono un linotipista, né un
correttore. Sono un semplice lettore, che in ogni caso ha divorato il libro in
pochi giorni. Questo almeno un segno della bontà del prodotto. Sperando in
altri buoni libri, ed altre veloci recensioni, vero Anobii?
Beatrice Corradini “Io sono la pioggia” Centauria euro 9,90 (in realtà,
scontato a 6,60 euro)
[A: 10/01/2018 – I: 02/04/2018 – T: 07/04/2018] - &&&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 346;
anno 2017]
Metto
subito le mani avanti: non sarà facile parlare di questo libro, e non perché è
troppo giovane per un anziano come me. Cercherò di mantenere neutrale,
professionale ed un po’ antipatico il tono, perché, come in alcune poche altre
recensioni, devo scontare il fatto non solo di conoscere l’autrice, ma anche di
conoscere la madre della scrittrice ed il cane a cui è dedicato. Un fardello
non da poco. E tuttavia non per questo ho dato un giudizio decisamente buono ad
un libro che è interessante, scritto con capacità, e giustamente con qualche
pecca di gioventù ampiamente comprensibile. Cominciamo allora come ben si usa
con qualche nota positiva: la scrittura, scorrevole, efficace, che riesce a
tenere legato il lettore al succedere degli eventi e che lega gli eventi stessi
tra loro. I rimandi, non sempre facili nevvero, soprattutto quando si fa
riferimento a musiche di nicchia (ma è comunque interessante poi capirne le
origini e le sonorità), ma invece ben comprensibili se svariano sul pano
letterario. Infine, un buon taglio per osservare, con gli occhi di chi è più
vicino di me, un mondo giovanile ma non giovanilistico. Un mondo del disagio,
ma anche della presa di coscienza. Sul versante opposto, probabilmente avrebbe
inciso di più una riduzione della massa di avvenimenti, condensarli, o quanto
meno dare un taglio a qualche episodio, di sicuro utile alla comprensione
globale, ma che rende il volume un filo troppo denso e lungo. E si sa che in
questi casi, un po’ si scivola o nella scrittura di routine, o nel dimenticarsi
qualcosa. Ad esempio, non ho capito, o forse mi sono perso nelle pieghe del
testo, che succede quando il cattivo Cesare spara a Satana. Lo uccide? Sembra
di sì. Ma una morte così palese dovrebbe portare risvolti polizieschi che
invece non sono presenti (o me li sono persi io?). L’ultimo cenno è al coraggio
della scrittrice nell’affrontare un tema che si sarebbe prestato a facili
scivolate nel melenso. Parlare di una studentessa che si innamora del giovane
professore (e/o viceversa) rischiava di far cadere i toni del romanzo che
invece riesce a svicolarne i facili “ismi” (sentimentalismi, romanticismi e via
discorrendo), imbastendo una vicenda che, seppur alla fine avrà il suo sbocco
naturale, ci arriva per vie traverse, sfociando in un finale non scontato di
apertura. Di certo problematica, ma, come direbbe il grande Lucio, “lo
scopriranno solo vivendo”. Il tutto nell’arco di un anno vissuto
soggettivamente e pericolosamente dalla pur simpatica Andrea. Anno di liceo,
con tutto quanto può succedere in una classe liceale composita: gelosie, amori
e malumori, cricche che inglobano e che emarginano. Anno che si apre con
l’arrivo di un giovane professore al primo anno di insegnamento, con una buona
dose di volontà costruttiva, ma anche con qualche non sopito elemento
(auto-)distruttivo. Seguiamo Andrea isolata nella sua classe perché non si
omologa, scintillata da alcune uscite del professor Parisi, miracolata
dall’arrivo dell’altra super-alternativa Dana. Andrea che scopre il lato
segreto di Parisi che di notte suona e canta in una band punk-rock, seguendo,
lei e lui il filo musicale di “Dancing with myself” di Billy Idol. Ci sono
centri sociali alla “Casa Pound” che imperversano e taccheggiano i più deboli.
Tentativi, più o meno riusciti, di stupri verso Dana e Andrea. Occupazioni “propositive”
dei licei con tanto di lezioni alternative. E poi il grande mistero del “mondo
di Primo Parisi”, quello con Jaco, quello con Cesare. Che ad un certo punto
esce fuori. Ma io preferisco seguire Andrea sulla sua bicicletta Sally (che mi
sa tanto di Vasco…), con le sue elucubrazioni, i suoi pensieri, la voglia di
stare e comunicare, ma solo con… Tipico nei libri di formazione (e questo è un
libro di formazione) ambientati in liceo, la gita all’estero, dove qui si
sceglie Manchester (che trovo sempre una degna meta da raggiungere). Andrea si
forma, Andrea si confronta con La Dolce, compagna di scuola prima snobetta, poi
emarginata dalle bellone. Andrea si scontra con Dana ed il suo amore diverso.
Andrea alla fine… Ma perché raccontarlo. È bello, infatti seguire Beatrice che
ci racconta, anche con i suoi piccoli intoppi (in fondo se in un libro tutto
fila liscio o si scrive senza criterio o si è già preso un Nobel). La
scrittrice Corradini invece continua a percorrere le strade del suo romanzo, e
noi che lo abbiamo letto, diciamo di averci trovato uno spunto per dare uno
sguardo su quel mondo giovanile che sembra tanto lontano, ma che forse è solo
perché si parla di meno. Ripeto e concludo, avrei asciugato qualche episodio,
anche se mi rendo conto che poteva avere (che ha) senso nell’economia di
spiegare tutti i passi che portano i protagonisti là dove arrivano. Aspettiamo
altro, ma non di Andrea, bensì da Beatrice. Buona fortuna.
“Quando sei genitore non hai un manuale da
seguire. Nessuno ti dice dove sbagli o in che modo devi muoverti.” (138)
“Sei … la persona migliore che abbia mai
conosciuto, ma il tuo problema è che agli altri non ci pensi.” (210)
Vi
confesso che non è certo un momento facile. Non si recupera facilmente un lutto
forte, anche se tutti gli amici aiutano ad andare avanti, a fare cose, e ad
intraprendere nuove avventure. Ma gli affetti, le amicizie, e le piccole e
grandi imprese aiutano ad andare sempre avanti.
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