Così, con queste quattro trame,
termina la lunga lettura dei “Gialli Svezia”, una colonna interessante se
riferita anche al mondo scandinavo. Visto ad esempio, che qui abbiamo un solo
svedese, e poi due danesi, ed un francese innamorato della Lapponia. Una collana
dall’esito altalenante, ma che mi è servita per accumulare info e notizie sui
gialli del Nord.
Kjell Eriksson “La principessa del Burundi” Corriere della Sera GialloSvezia
6 euro 7,90
[A: 07/09/2015– I: 07/05/2017 – T: 10/05/2017] - &&--
[tit. or.: Prinsessan av
Burundi; ling. or.: svedese; pagine: 334; anno 2002]
Che
peccato! Un libro mal confezionato e mal presentato, che, in altro contesto e
con altri contorni poteva (e potrebbe) meritare miglior considerazione e
valutazione. Intanto per l’autore, mio coevo (ora non più coetanei, che essendo
tutti “anziani” meglio parlare di ere…). Da sempre impegnato nella sinistra,
anche estrema, con passato nei movimenti maoisti scandinavi. Poi sindacalista
ed ora anche scrittore. Dove si sente sempre una attenzione non sopita ai
bisogni popolari, agli emarginati, dato che con occhio attento non lesina
critiche alla socialdemocrazia svedese ed al suo fino benessere. Ci sono
emarginati, gente che vive ai margini, ma senza cattiverie (il morto ad
esempio). Tuttavia questa critica non si eleva a momenti più intensi. Non
riesce, cioè, ad arrivare alle punte di Sjöwall & Wahlöö tanto per dirne
una. Quindi, anche se scrive, la sua scrittura non sembra essere meditata,
forse di pancia. Ma non arriva a coinvolgere. Comunque, ad un certo punto
decide di impegnarsi in una serie di libri con al centro una poliziotta, Ann
Linden. Qui, i mercati editoriali fanno poi guasti infiniti, presentandolo come
il primo che usa le donne poliziotto come centro di romanzi, scordandosi, ad
esempio, Anne Holt che ben prima lo aveva fatto (ed Anne è norvegese, quindi
ben nota ai popoli del Nord). Venendo poi a questo libro, è ben il quarto della
serie, e né accenni editoriali, né parti della trama, ci fanno capire qualcosa
dello sviluppo della serie stessa. Qui Ann è relegata ad un ruolo quasi
marginale (sappiamo che ha partorito, che è in maternità quindi non al centro
delle indagini, ma non sappiamo altro, che non ce ne vengono spiegati motivi,
forse interessanti per illuminare meglio lo scritto), vediamo che a volte
partecipa a qualcosa, ha anche delle intuizioni che altri non hanno. Ma non
esce fuori come se fosse il centro dei libri di Eriksson. Facendo pendere molte
parti del libro nel limbo delle incomprensioni. Allora, la trama principale è
abbastanza lineare: un giovane, bravo saldatore, licenziato da un padrone
tiranno ed egoista, vive di piccoli espedienti per non tornare a qualche
attività poco lecita (cui è invece dedito il fratello maggiore). Lo aveva
salvato dal “peccato” l’amore per Berit, la moglie, per il figlio, Justus, e la
sua passione per i pesci tropicali. Facciamo subito qualche altro inciso: il
morto veniva chiamato Little John, con un nomignolo che l’autore ci fa
collegare immediatamente a Robin Hood (si parla infatti anche di Frate Tuck, ed
a noi basta fare due più due). Ma la metafora non è portata avanti sino alla
fine, che non si capisce che possa essere allora Robin. Forse lo stesso John?
Altro punto, i pesci. L’autore spiega solo dopo trecento pagine che a) John
chiama “principessa del Burundi” la moglie Berit, soprattutto quando era
allegro e b) “principessa del Burundi” è il nome di un pesce tropicale, punta
di diamante dell’acquario di John. Sinceramente, se non avessi fatto un giro in
rete, sarei ancora qui a chiedermi che c…o c’entra il Burundi. Ed anche adesso,
non è che sia chiaro. Perché John sembra aver avuto una grossa vincita prima di
essere massacrato. Perché Lennart (il fratello “cattivo”) comincia una sua
ricerca sentendosi in colpa. Perché la polizia avanza lentamente e senza troppa
convinzione, a meno che, Ann ogni tanto non abbia dei lampi di genio. E poi si
trova che il vecchio datore di John non solo è avaro, ma anche di molto ricco
con traffici leciti e non leciti. Che aveva subito un furto poco dopo aver
licenziato John. Ci sarà un collegamento? Ma i soldi che Justus trova in casa
da dove provengono? Quanti sono poi i morti? E la squadra poliziesca si
coordina o ognuno va per proprio conto? E perché Justus uccide la principessa
del Burundi, ma non uccide la madre? Ci sono punti interrogativi che spuntano
fuori come giganti giovanetti, bisbigliando verso il lettore (che citazione
colta se qualcuno la coglie…). Comunque, anche se l’autore è parco di
spiegazioni, capiamo abbastanza i meccanismi delle diverse morti. Capiamo anche
che questi piccoli dropout, pur vivendo ai margini, mantengono grandi gradi di
integrità e di rispetto. Questa sarà il retaggio del maoismo di Kjell, ma va
bene così. Come va bene il fatto che la storia si svolga ad Uppsala, cittadina
che ricordo con piacere. Pulita, accogliente, passeggiante, piena di giovani
universitari, e di piccoli locali che ti coccolano, anche d’agosto, anche di
pomeriggio. È un bene che non tutte le storie si svolgano a Stoccolma, che non
è la sola città svedese, anzi… Anzi, pensando, mi viene in mente per
associazioni voltanti il commissario Wallander, e comincio di nuovo a
dispiacermi della morte di Mankell. Ma questa, realmente, è tutta un’altra
storia.
“Pareva incredibile che fossero fratelli.
Così diversi, sia nel comportamento sia nell’aspetto.” (11)
“La morte è l’unica certezza della vita.”
(257)
Jussi Adler-Olsen “Battuta di caccia” Corriere della Sera GialloSvezia 18
euro 7,90 (in realtà, scontato a 3,95 euro)
[A: 01/12/2015 – I: 20/03/2018 – T: 22/03/2018] - &&&--
[tit. or.: Fasandræberne; ling. or.: danese; pagine: 494;
anno 2008]
Ecco
che quasi dopo un anno ci troviamo a parlare del secondo libro scritto dal
danese Adler-Olsen ed imperniato sui casi della “Sezione Q” della polizia di
Copenaghen. Come già scritto nella prima uscita, dispiace solo che questi
gialli siano inseriti in una collana dal titolo “Giallo Svezia”, usata solo
come specchietto per le allodole, visto appunto che, magari con più pertinenza,
si sarebbe dovuta chiamare “Noir Scandinavo” (dato che la Scandinavia, in senso
esteso, nella cultura popolare, dalla metà del XIX secolo, comprende Svezia,
Finlandia, Norvegia, Islanda e Danimarca, e non solo i primi tre
geograficamente assimilabili). Per andare con la seconda ed altrettanto
ripetuta critica, ci si chiede perché Marsilio prima e il Corriere ora
mantengano questo titolo sulla generica battuta di caccia, quando l’originale
parla di “Caccia al fagiano”. Ma questo, ormai, sono critiche che ripeto
puntualmente ogni volta (ma che non mi stanco mai di ripetere), mentre ora
dovremmo guardare al romanzo in sé. Ed al suo essere il secondo capitolo delle
avventure dell’ispettore Carl Mørck e della sezione sui “casi irrisolti”, cui
venne messo a capo in quanto un po’ scomodo. Ritroviamo il suo strano aiutante,
l’arabo Assad, e cominceremo a conoscere il nuovo elemento del gruppo, la
segretaria tuttofare Rose Knudsen. Rimangono un po’ sullo sfondo, il sodale di
Carl, Harry, tetraplegico in seguito alla sparatoria poco chiarita che diede il
via all’emarginazione di Carl, la psicologa Mona Ibsen, verso cui Carl comincia
a sentire qualcosa di più di un “affare ormonale”, nonché il figlio Jasper,
sedicenne sconclusionato, l’inquilino-ospite-gay Morten e l’ex-moglie Vigga.
Come caratteristica della serie, oltre alla riapertura di casi irrisolti, c’è
la possibile deriva degli stessi casi nel presente, nonché la critica ad alcuni
modi di vivere e di affrontare successo e denaro, molto presente nel “Nordic
Noir”, e con temi sempre più accentuati nella scrittura di Adler-Olsen. Questo
episodio, infatti, diventa un po’ emblematico della sua scrittura. Venti anni
prima due ragazzi erano stati trucidati in una villa fuori città, con i
principali indiziati dei “figli di papà” ricchi, viziati e tutti nello stesso
complesso scolastico. Ma non si trovano le prove. Solo anni dopo, uno di loro si
autoaccusa, dice di aver fatto tutto da solo, ed ora si trova in carcere. Degli
altri, il più carismatico anni prima è morto all’alba di una battuta di caccia,
con meccanismi non chiariti. La donna del gruppo, Kirsten-Marie detta Kimmie, è
scomparsa, ma noi la ritroviamo che fa la barbona (o finge di farlo). Gli altri
tre fanno ancora la bella vita. Capitano d’industria, rampanti della finanza,
maghi della moda, sempre al vertice della carta stampata. Ma il controtesto di
Jussi è abbastanza esplicito fin dall’inizio: sono loro i cattivi, i perversi,
quelli che riempiono di botte indifesi personaggi. Poi, se questi tacciono, li
riempiono di soldi. Altrimenti, li fanno fuori. Kimmie faceva parte, anzi era
l’elemento “erotico” del gruppo, adescava giovani e meno giovani, che poi il
branco puniva. Stava con Kristian il capo, ma ad un certo punto si allontana,
studia in Svizzera, torna a fare lavori di basso profilo. E sembra trovare
affetto, se non amore, nel più debole Bjarne, quello che poi finirà in carcere.
Ma Kristian, da buon psicopatico, non ci sta, organizza uno stupro di gruppo su
Kimmie, cui Bjarne non si oppone. Lì nasce la lotta solitaria di Kimmie. Che
rimane incinta, che Kristian fa abortire, che fugge, si nasconde, ma ha una
cassetta con le prove per incastrarli. Quindi quando Carl comincia le indagini
seguiamo il doppio filone, anche con un buon ritmo: Carl indaga, scopre indizi,
accumula prove, anche se i “cattivi” ben posizionati anche a livello politico
cercano di esautorarlo. Dall’altra parte Kimmie sfugge all’accerchiamento dei
suoi ex-sodali, che capiscono di essere in pericolo. Il tutto collasserà nel
finale, un po’ convulso. I tre organizzano una battuta di caccia al fagiano e a
belve strane (una volta struzzi, ora una volpe colpita da rabbia), con molto
sadismo. Carl e Assad capiscono i meccanismi, trovano le prove di Kimmie,
cercano di intervenire, ma sono messi fuori gioco. Sarà proprio Kimmie che
invece avrà la sua vendetta, ed anche altro, che qui non dico. Alla fine
scopriremo il ruolo di tutti i personaggi, la (parziale) riabilitazione di
Carl, il possibile inizio della storia con Mona. Ed anche altro. Ribadendo
quanto detto prima: Jussi ci fa vedere i cattivi che sono al top delle loro
attività, e che usano il loro potere per continuare a fare le loro attività
sadico-erotiche. Non siamo certo noi in Italia che scopriamo come il potere
possa essere usato in modo distorto senza essere punito. Ma è interessante
vederne la denuncia anche in Danimarca. Nonostante qualche momento meno
attraente, una lettura di livello, che mantiene il buon spessore del nero del
Nord.
Olivier Truc “Lo stretto del lupo” Corriere della Sera Svezia 22 euro
7,90
[A: 04/01/2016 – I: 03/04/2018 – T: 09/04/2018] - &&&--
[tit. or.: Le détroit du Loup; ling. or.: francese; pagine: 429;
anno 2014]
Non
meravigliatevi ancora una volta che un libro della collana “Giallo Svezia” non
sia scritto in svedese. Avevamo già incontrato Truc, un giornalista francese
vissuto a lungo in Scandinavia, ed ora residente a Stoccolma. Soprattutto un
grande conoscitore ed estimatore della cultura “sami”, cioè del popolo lappone,
la cui regione di appartenenza si estende al Nord della Scandinavia,
coinvolgendo tutti e tre i paesi. Continuiamo allora a seguire le vicende della
“polizia delle renne”, in un volumone di storie intricate, che si dipanano con
difficoltà. E con altrettanta difficoltà noi poveri lettori cerchiamo di
seguire. Perché se da un lato il libro e l’autore sono apprezzabile per lo
sforzo che mettono nel cercare di farci entrare nella cultura “sami”, dall’altro
quello che accade non sempre è chiaro. E non sempre viene spiegato in modo
comprensibile. Intanto, estrapolando dal flusso temporale, il perno (morale)
della vicenda è il modo di affrontare la civiltà che avanza. Ci sono i “sami”
tradizionalisti, legati alla cultura della terra e degli animali. Anche se poi
al loro interno ci sono anche dei tradizionalisti innovativi che, alla stregua
di neofiti della purezza, cercano comunque di aggiornare i loro modi di vivere.
In questo calderone spiccano gli allevatori di renne. Inciso: qui Truc ci
spiega, anche se non sempre linearmente, la cultura della renna, uno dei
cardini fondanti della cultura “sami”. Le renne che danno vita, per la carne,
per le pelli, che sono animali paurosi ed abitudinari. Che tornano ogni anno
sui propri passi, proprio nella stagione della riproduzione, per far nascere i
piccoli in zone che conoscono, anche dal punto di vista della presenza del
cibo. Ma se l’inverno, come capita, si è fatto più duro, le renne possono
decidere di anticipare i tempi, con il rischio di trovarsi nel luogo sbagliato
in un momento di clima non adatto. Così come succede alle mandrie che stanno
rientrando nel pascolo estivo, e che devono attraversare un braccio di mare.
Dove nelle concitate vicende del guado qualcuno le spaventa, si mettono paura,
sbandano, affogano e trascinano con loro il povero Erik, un “sami” nuovo,
sposato da poco con la bella Anneli, insieme tra le punte del nuovo
tradizionalismo sami. Dall’altro, ci sono coloro che si allontanano dalla terra
e dagli animali, come Nils, che decide di diventare sommozzatore, perché lì,
prima nel Mare del Nord poi nel mare di Barents, i Norge hanno trovato il
petrolio. Serve gente per esplorare i fondali, prima che si riesca ad impiantare
le piattaforme estrattive che tanta ricchezza hanno portato alla Norvegia negli
anni 2000. E le società petrolifere coprono d’oro i sommozzatori, così che Nils
può fare una bella vita. Tra questi due corni della vita locale, si inserisce
il perfido Tikkanen, agente immobiliare e maneggione che cerca di vendere pezzi
di terreni e fattorie connesse, truffando la gente. Ma anche manipolandola,
avendo con sé uno schedario con i dati che gli consentono di ricattare chiunque
nella zona. Poi ci sono i dirigenti stessi delle compagnie petrolifere, sia
locali che estere. In mezzo a tutto ciò si muovono i nostri due eroi della
polizia, il “sami” Klemet Nango e la “cittadina” Nina Nansen. Che si trovano
coinvolti in tutte le problematiche relative alla transumanza delle renne, che
lì ad Hammerfest, teatro dell’azione, si legano ben presto ad omicidi vari.
Prima quello di Erik, come abbiamo visto sopra. Poi del sindaco della città, uno
dei più ostili alla presenza delle renne in loco. Quindi muoiono in una camera
iperbarica usata come “stimolatore di energie sessuali”, due dirigenti del
petrolio. Infine, trovano nelle acque dello stretto, lì dove morì Erik, un
pulmino con tre persone a bordo. Morte, ovvio. Vi risparmio tutti i giri di
storie, che l’autore, per darci il senso di queste vicende, ci fa seguire, e
che francamente non è facile seguire. Il tutto alla fine si collega alle prime
esplorazioni sottomarine, dove venivano usati sommozzatori quasi come cavie,
che i mezzi negli anni settanta non sono certo quelli attuali. E le immersioni,
reiterate e poco sicure, porteranno tutti loro ad avere problemi fisici. Come
anche il padre di Nina, nell’inciso personale che ha la poliziotta, dove
consociamo anche l’orrenda madre, e che serve ai nostri per dare la spinta
finale alle ricerche. Perché si scopre che i tre morti nel pulmino sono tutti
legati a quel periodo, e che qualcuno di loro stava cercando una vendetta
eclatante, sentendo arrivare la fine della propria vita. Qualcun altro lo
aiutava ma si accorgeva anche della pericolosità sociale di tutto ciò. Nils
rischia di morire anche lui sott’acqua e tocca con mano l’insensibilità anche
odierna delle grandi ditte. Con l’aiuto di un allevatore che, traviato da
Tikkanen, aveva incidentalmente provocato la morte di Erik, ruba l’archivio
dell’oriundo finlandese, consentendo ai nostri di arrestarlo e fermarne i
loschi traffici. Ma queste sono le conclusioni epifenomeniche della vicenda,
con altre e poco chiare complicazioni che qui tralascio. Che l’ossatura del
libro è tutta sulla diatriba psicologica di come affrontare il mondo nuovo, con
le sfide date dalle nuove tecnologie, con le ricchezze che modificano gli stili
di vita sino a stravolgerli. Come faranno i “sami” a mantenere le loro
tradizioni e la loro cultura, che non aveva confini, ma che era legata solo al
nomadismo delle renne? Facciamo anche un bagno in alcune usanze locali, come la
tenda piantata nel giardino di casa ed usata come alcova per incontri
distensivo-erotici, ed altre piccole cose. Quindi, anche se apprezzo tutto ciò,
tanto che me ne viene una sufficienza per il contesto del romanzo, lo specifico
giallo ed il modo a volte un po’ troppo ingarbugliato di raccontarlo mi costringe
ad aggiungervi una serie molto elevata di “-”. Ma prima o poi si tornerà al
Nord.
Anna Grue “Il bacio del traditore” Corriere della Sera GialloSvezia 24
euro 7,90
[A: 19/01/2016 – I: 10/04/2018 – T: 15/04/2018] - &&&
[tit. or.: Judaskysset; ling. or.: danese; pagine: 411;
anno 2007]
E
con questo siamo all’ultimo volume della collana del Corriere della Sera
intitolata a “Giallo Svezia”. E come per il primo volume, anche l’ultimo non è
svedese, ma danese. Ambientato, come accennavo nella prima trama, in una
cittadina poco distante dalla capitale e che vede la seconda puntata delle inchieste
di Dan Sommerdahl, ex pubblicitario che abbiamo visto all’opera in “Nessuno
conosce il mio nome”, dove si improvvisa detective risolvendo il caso e
meritandosi il soprannome di “Detective Calvo” (e magari capite anche perché).
Pur continuando con la scrittura di buon livello e con una trama decente, il
libro perde un po’ il ritmo. Soprattutto quando Dan continua a fare il geloso
verso il suo amico commissario Flemming, un tempo fidanzato con sua moglie
Marianne. Il via si collega idealmente al precedente, che nel collegio dove
studia la figlia di Dan, un’insegnante è turlupinata da un bellimbusto gigolò
che vive alle spalle delle signore di mezza età, depredandole dei loro averi. Contemporaneamente
c’è anche un omicidio di un ragazzo, efferato ed inspiegabile. La storia
procede per un po’ su tre binari, la vita di Dan, le imprese di J.H. (lo indico
con le inziali che il gigolò cambia ogni volta nome) e le indagini sulla morte
di Mikail. La parte meno coinvolgente è sempre quella di Dan, con le sue idiosincrasie,
le sue manie, ed il suo voler tornare in pista, in azione. Cioè sentirsi al
centro della vita, così come faceva da pubblicitario. Ma lì abbandonò il campo
non reggendo lo stress (sottile critica alla vita lavorativa danese ed alla
difficoltà di assumersi responsabilità). Meglio seguire J.H., di cui a pezzi ed
a flashback ricostruiamo la vita. Figlio con madre che, vedova, si risposa con
un fervente religioso, e con lui entra in una specie di setta molto “Testimoni
di Geova” (lettura della Bibbia, divieto di trasfusioni ed altre “amenità”). In
rotta con il patrigno, si consola con un buon rapporto con il fratellino. Ma
per una sua disattenzione, il fratello perde tre dita della mano sinistra e lui
va via di casa, lasciando madre, fratello e fidanzata. Da qui comincia una vita
da mantenuto, tra belle donne e spinelli. Con spesso un salto in India, ed in
particolare a Goa, suo buon rifugio. Dove però viene sorpreso con uno spinello
(vietatissimo) e condannato a tre anni di carcere. Ed il carcere indiano non è
roba da mammolette. Ne esce alla fine, aiutato dall’amico Sanjay. Da qui cerca
di ricostruirsi la vita, investendo i suoi risparmi, dolosamente percepiti, in
una scuola di recupero per bambini indiani. Torna spesso in Danimarca e trova
modo di far fruttare il suo lavoro. Scopre il punto debole di un commercialista
legato ad una Lotteria Europea. Con ricatti ed altro, si fa indicare signore
single che vincono milioni di corone. E le circuisce, asciugandone il conto in
banca. C’è però una che era di difficile circuizione, e si inventa tutto un
meccanismo che non spiego ma che ha bisogno di un hacker per falsificare dei
dati. Hacker che il suo socio Osten, trova in Mikail, il fratello di J.H.,
anche se all’insaputa del bellimbusto. Intanto fortunatamente avevamo
abbandonato le indagini sull’omicidio che la scrittrice non riesce a sviluppare
degnamente. Ma ora trova il modo di far quadrare tutti i cerchi: Osten è un
anziano della setta da dove J.H. fu scomunicato, e che Mikail e la madre
frequentano. Così come Kamma, trentenne zitella, sostegno della madre di
Mikail, tuttofare di Osten nonché ex-fidanzata di J.H. con una serie di
stratagemmi, mettendo in mezzo anche la sorella Bente, Dan riesce quasi a
mettere le mani su J.H., ma questi riesce a fuggire all’ultimo minuto. Non così
Osten, da cui sappiamo tutte le cose che ho narrato. Ma Dan, pervicace e senza
un grano di giudizio, anticipa J.H. a Goa, dove i due hanno un chiarimento
finale. Insieme trovano la soluzione per consegnare J.H. alla giustizia salvando
nel contempo la colonia dei bambini abbandonati. Inoltre, Dan svela che il
morto è proprio il fratello di J.H., e ricostruendo con lui la scena
dell’assassino fa in modo che questi capisca chi sia l’assassino di Mikail.
Tutto bene, tutto in gloria, anche Flemming che trova una nuova fiamma (e non
vi dico chi è, ma non è Marianne), così che Dan può mettersi il cuore in pace.
Un piccolo inciso sulle manie dei traduttori, che il titolo originale recita
“Il bacio di Giuda” che senza dubbio viene storicamente annoverato tra i
traditori, ma che aveva una pertinenza più stretta alla trama, laddove J.H.
diceva sempre a Kamma di sentirsi lui Giuda. Indizio che permetterà ai miei
attenti lettori di capire tutto. Anna Grue riempie di molto il libro, forse
anche un po’ troppo, che sarebbe stato meglio asciugarlo un pochino. Pur
sempre, tuttavia, alla stregua del filone distintivo dello “Scandinavian Noir”,
con una buona dose di critiche sociali: sul lavoro, sulle manie religiose,
sulla tolleranza, ed altro che vi lascio scoprire. Che in fin dei conti, anche
se non sono il mio massimo, le avventure di Dan sono leggibili. Per un tuffo,
solito ma diverso, nel mondo del Nord che tanto stiamo seguendo in questi anni.
“Quanto ci si può sbagliare nel dare credito
ai pregiudizi e nel cercare di immaginare una situazione in ogni dettaglio
prima di viverla davvero.” (57)
Seconda trama, e quindi il solito allegato terapeutico,
anche questa volta dedicato alla paternità, o meglio alla sua mancanza.
L’ho
detto la settimana scorsa, e lo ripeto: ora si lavora alle case, alla messa in
opera di grandi lavori estivi ed alla sistemazione di quanto è possibile
mettere in ordine al fine di ritrovarsi, spero, alla ripresa autunnale, con una
situazione serena e piacevole.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i
“bugiardini” di Giovanni
MAGGIO 2018
Ed inopinatamente, ecco un
secondo mese dedicato al tema della paternità, anche se qui sul versante
opposto, di chi la tema, di la vuole evitare, consciamente o meno.
PATERNITÀ, EVITARE LA
Sebastian
Faulks “Il canto del cielo”
Basta
bere la sera tardi. Basta poltrire la domenica con giornale e caffè fino a
mezzogiorno. I rapporti esclusivi con fidanzata/moglie/compagno/cane/madre sono
finiti. Non potrete più dire, senza sensi di colpa: «È solo un weekend coi
ragazzi. Ci vediamo domenica sera».
Per
le donne è più facile. Fin dall’inizio della gravidanza, la nuova vita che
cresce dentro di loro già le cambia, non solo fisicamente ma anche emotivamente.
Questo è quello che succede a Isabelle ne “Il canto del cielo”, il romanzo
strappalacrime di Sebastian Faulks ambientato durante la prima guerra mondiale.
Appena fugge insieme a Stephen dal proprio matrimonio infelice, Isabelle si
rende conto di aspettare un figlio da lui, e quasi subito scopre anche un
inedito, ossessivo desiderio di maternità. Ma nella sua confusione (forse
ormonale) decide non solo di non informare Stephen, ma anche di lasciarlo e
correre invece dalla sorella Jeanne.
Stephen
ne rimane emotivamente segnato. Quando lo rivediamo, non tocca una donna da
sette anni ed è al comando di un plotone nelle trincee della Somme. Mentre
cercano di sopravvivere giorno per giorno a orrori inimmaginabili e
all’assurdità di poter morire in qualsiasi momento, gli uomini inviano e
ricevono lettere da casa. Siamo subito consapevoli di chi, tra loro, ha figli e
chi no, perché a torto o a ragione Faulks utilizza l’esistenza dei bambini
nella vita di questi uomini per suscitare in noi maggiore simpatia. Per esempio,
c’è Wilkinson, appena sposato e con un figlio in arrivo, che muore di una morte
spaventosa in prima linea. C’è Jack Firebrace, sempre di buon umore, che viene
a sapere dalla moglie del figlio John in ospedale con la difterite e chiede al
suo tenente - che sta per decidere se farlo fucilare per essersi addormentato
in servizio - se ha dei figli anche lui. Il tenente è Stephen. La risposta è
no, ma noi ovviamente sappiamo che probabilmente non è così.
Possiamo
anche non essere d’accordo col fatto che Faulks utilizzi i figli come criterio
selettivo; nel mondo di questo romanzo, tuttavia, chi ha figli è diverso da chi
non li ha - e non possiamo fare a meno di pensare che Stephen, che è padre
senza saperlo, viene danneggiato dalla sua ignoranza. Se fosse stato
consapevole di essere un padre, si sarebbe comportato diversamente? E come?
Alla fine decide di non fucilare Jack, ma nei giorni bui della guerra non trova
nessuna consolazione come capita agli altri. Il romanzo si conclude con una
nascita e con l’esplosione di gioia di un padre che si precipita fuori e lancia
in aria delle castagne.
Se
siete in attesa di diventare padri e non provate altro che smarrimento e un
vago timore per l’apocalisse che vi aspetta, questo romanzo è per voi. Se vi
aggirate con circospezione, un passo avanti e uno indietro, intorno alla
questione dell’impegno e del matrimonio, questo romanzo vale anche per voi.
Conosciamo molti uomini che, finché l’embrione che hanno contribuito a generare
è nascosto nel grembo della madre, non provano un briciolo di istinto paterno
ma poi, appena il loro bambino viene al mondo, se ne innamorano perdutamente.
Guardate Stephen, e decidete: l’ha scampata bella o ha perso l’occasione di
vivere una vita più ricca?
Bugiardino
Letto tre anni fa, un libro che
mi aveva ben incuriosito, e che mi aveva dato spunti interessanti che non mi
aspettavo all’inizio. Rivediamolo insieme.
Sebastian Faulks “Il canto del cielo” Beat
euro 13,90
[tramata
il 19 luglio 2015]
Ecco
un altro libro che, senza le mie libropeute, difficilmente avrebbe trovato
spazio tra le mie letture. Un libro che basicamente si svolge in Francia tra il
1910 ed il 1918, ed è pieno, stracolmo direi, di Prima Guerra Mondiale. Che non
è (nonostante i centenari e le celebrazioni) tra le priorità dei miei
interessi. Eppur sono onnivoro, ed alla fine mangio anche questo, che, tra alti
e bassi, ha comunque un suo interesse ed un suo spazio. Certo a volte sembra
ripetere altre trame ed altri filoni, già letti o sentiti. Ma (a parte una
personale critica sulle ultime 100 pagine di cui dirò) è stata una lettura
interessante, con qualche domanda che affiora alla testa. La prima, di
carattere solo filologico, è la trasmigrazione del titolo da Birdsong (il canto
egli uccelli) a “Il canto del cielo”. L’originale ha una duplice attinenza al
testo, dove è vero che gli uccelli volano nel cielo dove, durante la maggior
parte del libro, volano granate ed altre bombe, così che si collega il loro
canto alla morte (e questo rimane nella traduzione italiana). Ma è anche vero
che gli uccelli venivano portati nelle gallerie che si scavavano sottoterra per
piazzare mine ed altri ordigni (servivano a controllare che ci fosse ancora
aria con il loro canto), e questa parte (che poi è uno dei cardini del libro)
si perde e viene ignorata. Seconda domanda è la mistificazione palese della
quarta di copertina, dove viene indicato come “Romanzo nominato Best British
Book of the Last 25 years”. Purtroppo in italiano nominato ha un significato
molteplice, ma tutti convergeranno subito su quello più evidente (tipo “Renzi
era un sindaco nominato Primo Ministro”) Ma il libro non ha vinto la tenzone,
ha solo avuto una “nomination”, cioè è tra quelli indicati come “interessanti”
dopo i primi 10. Ed il primo fu “Vergogna” di J. M. Coetzee. Ciò premesso, il
libro scorre con interesse, mentre iniziamo a seguire le vicende della vita di
Stephen Wraysford, un inglese mandato nel 1910 in Francia, ad Amiens, per
indagare su un possibile investimento inglese in una fabbrica tessile francese.
Si installa quindi nella casa del proprietario della filanda, René Azaire. Ne
seguiamo il percorso cognitivo della vita lavorativa francese, ma soprattutto
il continuo avvicinarsi alla giovane moglie di Azaire, Isabelle. ovviamente
scoppia l’amore, i due, creando scandalo, fuggono insieme. Vivono del tempo
nella cittadina di St. Rémy grazie al lavoro di lui. Poi Isabelle, incinta,
sparisce. E Stephen non la cerca. Passano 6 anni, e troviamo il nostro
impegnato nella Prima Guerra Mondiale. In tutta questa parte c’è un tentativo
molteplice: far vedere la follia della guerra, farci percepire gli orrori della
stessa (con tutte le scene cruente, le morti violente ed insensate), farcene
percepire l’intensa umanità negli uomini che la combattono. Stephen sprofonda
sempre più nel suo orrore interno, dove, una volta senza Isabelle, comincia a
sentirsi cadere addosso l’inutilità della vita. Ma è un tipo strano, Stephen,
per cui fa comunque il suo dovere, e, spesso, i suoi uomini si salvano mentre
intorno fioccano i morti. Certo, a ben vedere la scrittura e le descrizioni di
Faulks sono debitrici di grandi lasciati, primi fra tutti gli scritti di
Remarque sul lato della riflessione intorno alla guerra e quelli di Hemingway
sulle azioni e sugli ospedali militari. E come non vederci, in controluce, un
riflesso di “Orizzonti di gloria” di Kubrick? Non ve ne dico però il motivo
(fate lo sforzo di vedere il film, stupendo, e di leggere questo libro). C’è in
tutta la parte militare il contro-altare proletario di Stephen nella figura di
Jack, quello che scava sottoterra, capitato per soldi nella guerra, dove anche
lui rimane in trappola. E come per Stephen, anche a lui muoiono tutti gli amici
intorno (e muore di difterite il figlio di otto anni dell’amico che Jack,
rimasto con la madre a Londra). La casualità della guerra porta Stephen ancora
ad Amiens, dove ricerca Isabelle, colà tornata, e mutilata da una scheggia di
granata, nonché innamorata di un tenente tedesco, ora tornato in patria. Trova
anche Jeanne, la sorella di Isabelle. Capisce che la storia con il suo primo
amore ormai è sepolta, e questo aggiunge altra amarezza alla già notevole sua.
Tuttavia, trova (o comincia a trovare) un aiuto in Jeanne (mentre non sa che,
oltre la porta, c’è Françoise, figlia sua e di Isabelle). Poi c’è tutta la
scena madre, che io avrei tagliato di decine di pagine, dove Jack e Stephen,
agli sgoccioli della guerra, rimangono intrappolati sottoterra. Ci sono grandi
parole, proclami, amicizie, rinvangamenti. Ma c’è anche la morte di Jack, ed il
salvataggio di Stephen da parte di un plotone tedesco. E quando esce al sole
(per sentire di nuovo il canto degli uccelli) sa che la guerra è finita. Noi
tutto ciò lo sappiamo anche in retrospettiva, perché una grossa parte del
racconto si svolge anche nel 1978, dove Elizabeth, la nipote di Stephen,
attraversando anche lei una storia d’amore tormentata, comincia a chiedersi chi
sia suo nonno. Elizabeth è inglese, ma sappiamo che la madre è francese e si
chiama Françoise. La nipote scoprirà i diari del nonno, ed in un colloquio
rivelatore con la madre saprà tutta la storia, della rinascita, dopo due anni
dalla fine della guerra, di una scintilla di vita in Stephen, del suo
matrimonio con la nonna, e di tutto il resto. Non vi svelo però se la nonna sia
Isabelle o Jeanne. Ma vi dico che, al piccolo che nasce (in una nascita che fa
rabbrividire per quanto poco realistica sia), la nostra Elizabeth vorrà dare il
nome di John, il figlio morto del minatore Jack. Finisce qui questo pur bello e
interessante libro contro la guerra. Ma anche con quel sentimento sotterraneo
di indecisione tra paternità e sua assenza e sua presenza coatta. Che vediamo
in Stephen che non sa di aver una figlia, in Isabelle che scappa senza
dirglielo, in Robert (l’amante sposato di Elizabeth) che non sa se accettarlo,
in Jack che perde il figlio e da quel momento ne parla con tutto l’amore
possibile. Insomma, un elemento di discussione bello ed intrigante su biologia
e natura.
“Quando c’è vero amore fra le persone, come
ce n’era fra noi, i dettagli non contano.” (479)
Conclusioni
Ottima scelta, quella delle
libroterapuete, di utilizzare un libro pieno di guerra per parlare di
paternità, sua voglia e sua mancanza. Completamente in sintonia, vi auguro di
leggerne.
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