domenica 13 maggio 2018

Gli ultimi "svedesi" - 13 maggio 2018


Così, con queste quattro trame, termina la lunga lettura dei “Gialli Svezia”, una colonna interessante se riferita anche al mondo scandinavo. Visto ad esempio, che qui abbiamo un solo svedese, e poi due danesi, ed un francese innamorato della Lapponia. Una collana dall’esito altalenante, ma che mi è servita per accumulare info e notizie sui gialli del Nord.
Kjell Eriksson “La principessa del Burundi” Corriere della Sera GialloSvezia 6 euro 7,90
[A: 07/09/2015– I: 07/05/2017 – T: 10/05/2017] - &&--
[tit. or.: Prinsessan av Burundi; ling. or.: svedese; pagine: 334; anno 2002]
Che peccato! Un libro mal confezionato e mal presentato, che, in altro contesto e con altri contorni poteva (e potrebbe) meritare miglior considerazione e valutazione. Intanto per l’autore, mio coevo (ora non più coetanei, che essendo tutti “anziani” meglio parlare di ere…). Da sempre impegnato nella sinistra, anche estrema, con passato nei movimenti maoisti scandinavi. Poi sindacalista ed ora anche scrittore. Dove si sente sempre una attenzione non sopita ai bisogni popolari, agli emarginati, dato che con occhio attento non lesina critiche alla socialdemocrazia svedese ed al suo fino benessere. Ci sono emarginati, gente che vive ai margini, ma senza cattiverie (il morto ad esempio). Tuttavia questa critica non si eleva a momenti più intensi. Non riesce, cioè, ad arrivare alle punte di Sjöwall & Wahlöö tanto per dirne una. Quindi, anche se scrive, la sua scrittura non sembra essere meditata, forse di pancia. Ma non arriva a coinvolgere. Comunque, ad un certo punto decide di impegnarsi in una serie di libri con al centro una poliziotta, Ann Linden. Qui, i mercati editoriali fanno poi guasti infiniti, presentandolo come il primo che usa le donne poliziotto come centro di romanzi, scordandosi, ad esempio, Anne Holt che ben prima lo aveva fatto (ed Anne è norvegese, quindi ben nota ai popoli del Nord). Venendo poi a questo libro, è ben il quarto della serie, e né accenni editoriali, né parti della trama, ci fanno capire qualcosa dello sviluppo della serie stessa. Qui Ann è relegata ad un ruolo quasi marginale (sappiamo che ha partorito, che è in maternità quindi non al centro delle indagini, ma non sappiamo altro, che non ce ne vengono spiegati motivi, forse interessanti per illuminare meglio lo scritto), vediamo che a volte partecipa a qualcosa, ha anche delle intuizioni che altri non hanno. Ma non esce fuori come se fosse il centro dei libri di Eriksson. Facendo pendere molte parti del libro nel limbo delle incomprensioni. Allora, la trama principale è abbastanza lineare: un giovane, bravo saldatore, licenziato da un padrone tiranno ed egoista, vive di piccoli espedienti per non tornare a qualche attività poco lecita (cui è invece dedito il fratello maggiore). Lo aveva salvato dal “peccato” l’amore per Berit, la moglie, per il figlio, Justus, e la sua passione per i pesci tropicali. Facciamo subito qualche altro inciso: il morto veniva chiamato Little John, con un nomignolo che l’autore ci fa collegare immediatamente a Robin Hood (si parla infatti anche di Frate Tuck, ed a noi basta fare due più due). Ma la metafora non è portata avanti sino alla fine, che non si capisce che possa essere allora Robin. Forse lo stesso John? Altro punto, i pesci. L’autore spiega solo dopo trecento pagine che a) John chiama “principessa del Burundi” la moglie Berit, soprattutto quando era allegro e b) “principessa del Burundi” è il nome di un pesce tropicale, punta di diamante dell’acquario di John. Sinceramente, se non avessi fatto un giro in rete, sarei ancora qui a chiedermi che c…o c’entra il Burundi. Ed anche adesso, non è che sia chiaro. Perché John sembra aver avuto una grossa vincita prima di essere massacrato. Perché Lennart (il fratello “cattivo”) comincia una sua ricerca sentendosi in colpa. Perché la polizia avanza lentamente e senza troppa convinzione, a meno che, Ann ogni tanto non abbia dei lampi di genio. E poi si trova che il vecchio datore di John non solo è avaro, ma anche di molto ricco con traffici leciti e non leciti. Che aveva subito un furto poco dopo aver licenziato John. Ci sarà un collegamento? Ma i soldi che Justus trova in casa da dove provengono? Quanti sono poi i morti? E la squadra poliziesca si coordina o ognuno va per proprio conto? E perché Justus uccide la principessa del Burundi, ma non uccide la madre? Ci sono punti interrogativi che spuntano fuori come giganti giovanetti, bisbigliando verso il lettore (che citazione colta se qualcuno la coglie…). Comunque, anche se l’autore è parco di spiegazioni, capiamo abbastanza i meccanismi delle diverse morti. Capiamo anche che questi piccoli dropout, pur vivendo ai margini, mantengono grandi gradi di integrità e di rispetto. Questa sarà il retaggio del maoismo di Kjell, ma va bene così. Come va bene il fatto che la storia si svolga ad Uppsala, cittadina che ricordo con piacere. Pulita, accogliente, passeggiante, piena di giovani universitari, e di piccoli locali che ti coccolano, anche d’agosto, anche di pomeriggio. È un bene che non tutte le storie si svolgano a Stoccolma, che non è la sola città svedese, anzi… Anzi, pensando, mi viene in mente per associazioni voltanti il commissario Wallander, e comincio di nuovo a dispiacermi della morte di Mankell. Ma questa, realmente, è tutta un’altra storia.
“Pareva incredibile che fossero fratelli. Così diversi, sia nel comportamento sia nell’aspetto.” (11)
“La morte è l’unica certezza della vita.” (257)
Jussi Adler-Olsen “Battuta di caccia” Corriere della Sera GialloSvezia 18 euro 7,90 (in realtà, scontato a 3,95 euro)
[A: 01/12/2015 – I: 20/03/2018 – T: 22/03/2018] - &&&--
[tit. or.: Fasandræberne; ling. or.: danese; pagine: 494; anno 2008]
Ecco che quasi dopo un anno ci troviamo a parlare del secondo libro scritto dal danese Adler-Olsen ed imperniato sui casi della “Sezione Q” della polizia di Copenaghen. Come già scritto nella prima uscita, dispiace solo che questi gialli siano inseriti in una collana dal titolo “Giallo Svezia”, usata solo come specchietto per le allodole, visto appunto che, magari con più pertinenza, si sarebbe dovuta chiamare “Noir Scandinavo” (dato che la Scandinavia, in senso esteso, nella cultura popolare, dalla metà del XIX secolo, comprende Svezia, Finlandia, Norvegia, Islanda e Danimarca, e non solo i primi tre geograficamente assimilabili). Per andare con la seconda ed altrettanto ripetuta critica, ci si chiede perché Marsilio prima e il Corriere ora mantengano questo titolo sulla generica battuta di caccia, quando l’originale parla di “Caccia al fagiano”. Ma questo, ormai, sono critiche che ripeto puntualmente ogni volta (ma che non mi stanco mai di ripetere), mentre ora dovremmo guardare al romanzo in sé. Ed al suo essere il secondo capitolo delle avventure dell’ispettore Carl Mørck e della sezione sui “casi irrisolti”, cui venne messo a capo in quanto un po’ scomodo. Ritroviamo il suo strano aiutante, l’arabo Assad, e cominceremo a conoscere il nuovo elemento del gruppo, la segretaria tuttofare Rose Knudsen. Rimangono un po’ sullo sfondo, il sodale di Carl, Harry, tetraplegico in seguito alla sparatoria poco chiarita che diede il via all’emarginazione di Carl, la psicologa Mona Ibsen, verso cui Carl comincia a sentire qualcosa di più di un “affare ormonale”, nonché il figlio Jasper, sedicenne sconclusionato, l’inquilino-ospite-gay Morten e l’ex-moglie Vigga. Come caratteristica della serie, oltre alla riapertura di casi irrisolti, c’è la possibile deriva degli stessi casi nel presente, nonché la critica ad alcuni modi di vivere e di affrontare successo e denaro, molto presente nel “Nordic Noir”, e con temi sempre più accentuati nella scrittura di Adler-Olsen. Questo episodio, infatti, diventa un po’ emblematico della sua scrittura. Venti anni prima due ragazzi erano stati trucidati in una villa fuori città, con i principali indiziati dei “figli di papà” ricchi, viziati e tutti nello stesso complesso scolastico. Ma non si trovano le prove. Solo anni dopo, uno di loro si autoaccusa, dice di aver fatto tutto da solo, ed ora si trova in carcere. Degli altri, il più carismatico anni prima è morto all’alba di una battuta di caccia, con meccanismi non chiariti. La donna del gruppo, Kirsten-Marie detta Kimmie, è scomparsa, ma noi la ritroviamo che fa la barbona (o finge di farlo). Gli altri tre fanno ancora la bella vita. Capitano d’industria, rampanti della finanza, maghi della moda, sempre al vertice della carta stampata. Ma il controtesto di Jussi è abbastanza esplicito fin dall’inizio: sono loro i cattivi, i perversi, quelli che riempiono di botte indifesi personaggi. Poi, se questi tacciono, li riempiono di soldi. Altrimenti, li fanno fuori. Kimmie faceva parte, anzi era l’elemento “erotico” del gruppo, adescava giovani e meno giovani, che poi il branco puniva. Stava con Kristian il capo, ma ad un certo punto si allontana, studia in Svizzera, torna a fare lavori di basso profilo. E sembra trovare affetto, se non amore, nel più debole Bjarne, quello che poi finirà in carcere. Ma Kristian, da buon psicopatico, non ci sta, organizza uno stupro di gruppo su Kimmie, cui Bjarne non si oppone. Lì nasce la lotta solitaria di Kimmie. Che rimane incinta, che Kristian fa abortire, che fugge, si nasconde, ma ha una cassetta con le prove per incastrarli. Quindi quando Carl comincia le indagini seguiamo il doppio filone, anche con un buon ritmo: Carl indaga, scopre indizi, accumula prove, anche se i “cattivi” ben posizionati anche a livello politico cercano di esautorarlo. Dall’altra parte Kimmie sfugge all’accerchiamento dei suoi ex-sodali, che capiscono di essere in pericolo. Il tutto collasserà nel finale, un po’ convulso. I tre organizzano una battuta di caccia al fagiano e a belve strane (una volta struzzi, ora una volpe colpita da rabbia), con molto sadismo. Carl e Assad capiscono i meccanismi, trovano le prove di Kimmie, cercano di intervenire, ma sono messi fuori gioco. Sarà proprio Kimmie che invece avrà la sua vendetta, ed anche altro, che qui non dico. Alla fine scopriremo il ruolo di tutti i personaggi, la (parziale) riabilitazione di Carl, il possibile inizio della storia con Mona. Ed anche altro. Ribadendo quanto detto prima: Jussi ci fa vedere i cattivi che sono al top delle loro attività, e che usano il loro potere per continuare a fare le loro attività sadico-erotiche. Non siamo certo noi in Italia che scopriamo come il potere possa essere usato in modo distorto senza essere punito. Ma è interessante vederne la denuncia anche in Danimarca. Nonostante qualche momento meno attraente, una lettura di livello, che mantiene il buon spessore del nero del Nord.
Olivier Truc “Lo stretto del lupo” Corriere della Sera Svezia 22 euro 7,90
[A: 04/01/2016 – I: 03/04/2018 – T: 09/04/2018] - &&&--
[tit. or.: Le détroit du Loup; ling. or.: francese; pagine: 429; anno 2014]
Non meravigliatevi ancora una volta che un libro della collana “Giallo Svezia” non sia scritto in svedese. Avevamo già incontrato Truc, un giornalista francese vissuto a lungo in Scandinavia, ed ora residente a Stoccolma. Soprattutto un grande conoscitore ed estimatore della cultura “sami”, cioè del popolo lappone, la cui regione di appartenenza si estende al Nord della Scandinavia, coinvolgendo tutti e tre i paesi. Continuiamo allora a seguire le vicende della “polizia delle renne”, in un volumone di storie intricate, che si dipanano con difficoltà. E con altrettanta difficoltà noi poveri lettori cerchiamo di seguire. Perché se da un lato il libro e l’autore sono apprezzabile per lo sforzo che mettono nel cercare di farci entrare nella cultura “sami”, dall’altro quello che accade non sempre è chiaro. E non sempre viene spiegato in modo comprensibile. Intanto, estrapolando dal flusso temporale, il perno (morale) della vicenda è il modo di affrontare la civiltà che avanza. Ci sono i “sami” tradizionalisti, legati alla cultura della terra e degli animali. Anche se poi al loro interno ci sono anche dei tradizionalisti innovativi che, alla stregua di neofiti della purezza, cercano comunque di aggiornare i loro modi di vivere. In questo calderone spiccano gli allevatori di renne. Inciso: qui Truc ci spiega, anche se non sempre linearmente, la cultura della renna, uno dei cardini fondanti della cultura “sami”. Le renne che danno vita, per la carne, per le pelli, che sono animali paurosi ed abitudinari. Che tornano ogni anno sui propri passi, proprio nella stagione della riproduzione, per far nascere i piccoli in zone che conoscono, anche dal punto di vista della presenza del cibo. Ma se l’inverno, come capita, si è fatto più duro, le renne possono decidere di anticipare i tempi, con il rischio di trovarsi nel luogo sbagliato in un momento di clima non adatto. Così come succede alle mandrie che stanno rientrando nel pascolo estivo, e che devono attraversare un braccio di mare. Dove nelle concitate vicende del guado qualcuno le spaventa, si mettono paura, sbandano, affogano e trascinano con loro il povero Erik, un “sami” nuovo, sposato da poco con la bella Anneli, insieme tra le punte del nuovo tradizionalismo sami. Dall’altro, ci sono coloro che si allontanano dalla terra e dagli animali, come Nils, che decide di diventare sommozzatore, perché lì, prima nel Mare del Nord poi nel mare di Barents, i Norge hanno trovato il petrolio. Serve gente per esplorare i fondali, prima che si riesca ad impiantare le piattaforme estrattive che tanta ricchezza hanno portato alla Norvegia negli anni 2000. E le società petrolifere coprono d’oro i sommozzatori, così che Nils può fare una bella vita. Tra questi due corni della vita locale, si inserisce il perfido Tikkanen, agente immobiliare e maneggione che cerca di vendere pezzi di terreni e fattorie connesse, truffando la gente. Ma anche manipolandola, avendo con sé uno schedario con i dati che gli consentono di ricattare chiunque nella zona. Poi ci sono i dirigenti stessi delle compagnie petrolifere, sia locali che estere. In mezzo a tutto ciò si muovono i nostri due eroi della polizia, il “sami” Klemet Nango e la “cittadina” Nina Nansen. Che si trovano coinvolti in tutte le problematiche relative alla transumanza delle renne, che lì ad Hammerfest, teatro dell’azione, si legano ben presto ad omicidi vari. Prima quello di Erik, come abbiamo visto sopra. Poi del sindaco della città, uno dei più ostili alla presenza delle renne in loco. Quindi muoiono in una camera iperbarica usata come “stimolatore di energie sessuali”, due dirigenti del petrolio. Infine, trovano nelle acque dello stretto, lì dove morì Erik, un pulmino con tre persone a bordo. Morte, ovvio. Vi risparmio tutti i giri di storie, che l’autore, per darci il senso di queste vicende, ci fa seguire, e che francamente non è facile seguire. Il tutto alla fine si collega alle prime esplorazioni sottomarine, dove venivano usati sommozzatori quasi come cavie, che i mezzi negli anni settanta non sono certo quelli attuali. E le immersioni, reiterate e poco sicure, porteranno tutti loro ad avere problemi fisici. Come anche il padre di Nina, nell’inciso personale che ha la poliziotta, dove consociamo anche l’orrenda madre, e che serve ai nostri per dare la spinta finale alle ricerche. Perché si scopre che i tre morti nel pulmino sono tutti legati a quel periodo, e che qualcuno di loro stava cercando una vendetta eclatante, sentendo arrivare la fine della propria vita. Qualcun altro lo aiutava ma si accorgeva anche della pericolosità sociale di tutto ciò. Nils rischia di morire anche lui sott’acqua e tocca con mano l’insensibilità anche odierna delle grandi ditte. Con l’aiuto di un allevatore che, traviato da Tikkanen, aveva incidentalmente provocato la morte di Erik, ruba l’archivio dell’oriundo finlandese, consentendo ai nostri di arrestarlo e fermarne i loschi traffici. Ma queste sono le conclusioni epifenomeniche della vicenda, con altre e poco chiare complicazioni che qui tralascio. Che l’ossatura del libro è tutta sulla diatriba psicologica di come affrontare il mondo nuovo, con le sfide date dalle nuove tecnologie, con le ricchezze che modificano gli stili di vita sino a stravolgerli. Come faranno i “sami” a mantenere le loro tradizioni e la loro cultura, che non aveva confini, ma che era legata solo al nomadismo delle renne? Facciamo anche un bagno in alcune usanze locali, come la tenda piantata nel giardino di casa ed usata come alcova per incontri distensivo-erotici, ed altre piccole cose. Quindi, anche se apprezzo tutto ciò, tanto che me ne viene una sufficienza per il contesto del romanzo, lo specifico giallo ed il modo a volte un po’ troppo ingarbugliato di raccontarlo mi costringe ad aggiungervi una serie molto elevata di “-”. Ma prima o poi si tornerà al Nord.
Anna Grue “Il bacio del traditore” Corriere della Sera GialloSvezia 24 euro 7,90
[A: 19/01/2016 – I: 10/04/2018 – T: 15/04/2018] - &&&
[tit. or.: Judaskysset; ling. or.: danese; pagine: 411; anno 2007]
E con questo siamo all’ultimo volume della collana del Corriere della Sera intitolata a “Giallo Svezia”. E come per il primo volume, anche l’ultimo non è svedese, ma danese. Ambientato, come accennavo nella prima trama, in una cittadina poco distante dalla capitale e che vede la seconda puntata delle inchieste di Dan Sommerdahl, ex pubblicitario che abbiamo visto all’opera in “Nessuno conosce il mio nome”, dove si improvvisa detective risolvendo il caso e meritandosi il soprannome di “Detective Calvo” (e magari capite anche perché). Pur continuando con la scrittura di buon livello e con una trama decente, il libro perde un po’ il ritmo. Soprattutto quando Dan continua a fare il geloso verso il suo amico commissario Flemming, un tempo fidanzato con sua moglie Marianne. Il via si collega idealmente al precedente, che nel collegio dove studia la figlia di Dan, un’insegnante è turlupinata da un bellimbusto gigolò che vive alle spalle delle signore di mezza età, depredandole dei loro averi. Contemporaneamente c’è anche un omicidio di un ragazzo, efferato ed inspiegabile. La storia procede per un po’ su tre binari, la vita di Dan, le imprese di J.H. (lo indico con le inziali che il gigolò cambia ogni volta nome) e le indagini sulla morte di Mikail. La parte meno coinvolgente è sempre quella di Dan, con le sue idiosincrasie, le sue manie, ed il suo voler tornare in pista, in azione. Cioè sentirsi al centro della vita, così come faceva da pubblicitario. Ma lì abbandonò il campo non reggendo lo stress (sottile critica alla vita lavorativa danese ed alla difficoltà di assumersi responsabilità). Meglio seguire J.H., di cui a pezzi ed a flashback ricostruiamo la vita. Figlio con madre che, vedova, si risposa con un fervente religioso, e con lui entra in una specie di setta molto “Testimoni di Geova” (lettura della Bibbia, divieto di trasfusioni ed altre “amenità”). In rotta con il patrigno, si consola con un buon rapporto con il fratellino. Ma per una sua disattenzione, il fratello perde tre dita della mano sinistra e lui va via di casa, lasciando madre, fratello e fidanzata. Da qui comincia una vita da mantenuto, tra belle donne e spinelli. Con spesso un salto in India, ed in particolare a Goa, suo buon rifugio. Dove però viene sorpreso con uno spinello (vietatissimo) e condannato a tre anni di carcere. Ed il carcere indiano non è roba da mammolette. Ne esce alla fine, aiutato dall’amico Sanjay. Da qui cerca di ricostruirsi la vita, investendo i suoi risparmi, dolosamente percepiti, in una scuola di recupero per bambini indiani. Torna spesso in Danimarca e trova modo di far fruttare il suo lavoro. Scopre il punto debole di un commercialista legato ad una Lotteria Europea. Con ricatti ed altro, si fa indicare signore single che vincono milioni di corone. E le circuisce, asciugandone il conto in banca. C’è però una che era di difficile circuizione, e si inventa tutto un meccanismo che non spiego ma che ha bisogno di un hacker per falsificare dei dati. Hacker che il suo socio Osten, trova in Mikail, il fratello di J.H., anche se all’insaputa del bellimbusto. Intanto fortunatamente avevamo abbandonato le indagini sull’omicidio che la scrittrice non riesce a sviluppare degnamente. Ma ora trova il modo di far quadrare tutti i cerchi: Osten è un anziano della setta da dove J.H. fu scomunicato, e che Mikail e la madre frequentano. Così come Kamma, trentenne zitella, sostegno della madre di Mikail, tuttofare di Osten nonché ex-fidanzata di J.H. con una serie di stratagemmi, mettendo in mezzo anche la sorella Bente, Dan riesce quasi a mettere le mani su J.H., ma questi riesce a fuggire all’ultimo minuto. Non così Osten, da cui sappiamo tutte le cose che ho narrato. Ma Dan, pervicace e senza un grano di giudizio, anticipa J.H. a Goa, dove i due hanno un chiarimento finale. Insieme trovano la soluzione per consegnare J.H. alla giustizia salvando nel contempo la colonia dei bambini abbandonati. Inoltre, Dan svela che il morto è proprio il fratello di J.H., e ricostruendo con lui la scena dell’assassino fa in modo che questi capisca chi sia l’assassino di Mikail. Tutto bene, tutto in gloria, anche Flemming che trova una nuova fiamma (e non vi dico chi è, ma non è Marianne), così che Dan può mettersi il cuore in pace. Un piccolo inciso sulle manie dei traduttori, che il titolo originale recita “Il bacio di Giuda” che senza dubbio viene storicamente annoverato tra i traditori, ma che aveva una pertinenza più stretta alla trama, laddove J.H. diceva sempre a Kamma di sentirsi lui Giuda. Indizio che permetterà ai miei attenti lettori di capire tutto. Anna Grue riempie di molto il libro, forse anche un po’ troppo, che sarebbe stato meglio asciugarlo un pochino. Pur sempre, tuttavia, alla stregua del filone distintivo dello “Scandinavian Noir”, con una buona dose di critiche sociali: sul lavoro, sulle manie religiose, sulla tolleranza, ed altro che vi lascio scoprire. Che in fin dei conti, anche se non sono il mio massimo, le avventure di Dan sono leggibili. Per un tuffo, solito ma diverso, nel mondo del Nord che tanto stiamo seguendo in questi anni.
“Quanto ci si può sbagliare nel dare credito ai pregiudizi e nel cercare di immaginare una situazione in ogni dettaglio prima di viverla davvero.” (57)
Seconda trama, e quindi il solito allegato terapeutico, anche questa volta dedicato alla paternità, o meglio alla sua mancanza.
L’ho detto la settimana scorsa, e lo ripeto: ora si lavora alle case, alla messa in opera di grandi lavori estivi ed alla sistemazione di quanto è possibile mettere in ordine al fine di ritrovarsi, spero, alla ripresa autunnale, con una situazione serena e piacevole.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
MAGGIO 2018
Ed inopinatamente, ecco un secondo mese dedicato al tema della paternità, anche se qui sul versante opposto, di chi la tema, di la vuole evitare, consciamente o meno.

PATERNITÀ, EVITARE LA

Sebastian Faulks            “Il canto del cielo”
Basta bere la sera tardi. Basta poltrire la domenica con giornale e caffè fino a mezzogiorno. I rapporti esclusivi con fidanzata/moglie/compagno/cane/madre sono finiti. Non potrete più dire, senza sensi di colpa: «È solo un weekend coi ragazzi. Ci vediamo domenica sera».
Per le donne è più facile. Fin dall’inizio della gravidanza, la nuova vita che cresce dentro di loro già le cambia, non solo fisicamente ma anche emotivamente. Questo è quello che succede a Isabelle ne “Il canto del cielo”, il romanzo strappalacrime di Sebastian Faulks ambientato durante la prima guerra mondiale. Appena fugge insieme a Stephen dal proprio matrimonio infelice, Isabelle si rende conto di aspettare un figlio da lui, e quasi subito scopre anche un inedito, ossessivo desiderio di maternità. Ma nella sua confusione (forse ormonale) decide non solo di non informare Stephen, ma anche di lasciarlo e correre invece dalla sorella Jeanne.
Stephen ne rimane emotivamente segnato. Quando lo rivediamo, non tocca una donna da sette anni ed è al comando di un plotone nelle trincee della Somme. Mentre cercano di sopravvivere giorno per giorno a orrori inimmaginabili e all’assurdità di poter morire in qualsiasi momento, gli uomini inviano e ricevono lettere da casa. Siamo subito consapevoli di chi, tra loro, ha figli e chi no, perché a torto o a ragione Faulks utilizza l’esistenza dei bambini nella vita di questi uomini per suscitare in noi maggiore simpatia. Per esempio, c’è Wilkinson, appena sposato e con un figlio in arrivo, che muore di una morte spaventosa in prima linea. C’è Jack Firebrace, sempre di buon umore, che viene a sapere dalla moglie del figlio John in ospedale con la difterite e chiede al suo tenente - che sta per decidere se farlo fucilare per essersi addormentato in servizio - se ha dei figli anche lui. Il tenente è Stephen. La risposta è no, ma noi ovviamente sappiamo che probabilmente non è così.
Possiamo anche non essere d’accordo col fatto che Faulks utilizzi i figli come criterio selettivo; nel mondo di questo romanzo, tuttavia, chi ha figli è diverso da chi non li ha - e non possiamo fare a meno di pensare che Stephen, che è padre senza saperlo, viene danneggiato dalla sua ignoranza. Se fosse stato consapevole di essere un padre, si sarebbe comportato diversamente? E come? Alla fine decide di non fucilare Jack, ma nei giorni bui della guerra non trova nessuna consolazione come capita agli altri. Il romanzo si conclude con una nascita e con l’esplosione di gioia di un padre che si precipita fuori e lancia in aria delle castagne.
Se siete in attesa di diventare padri e non provate altro che smarrimento e un vago timore per l’apocalisse che vi aspetta, questo romanzo è per voi. Se vi aggirate con circospezione, un passo avanti e uno indietro, intorno alla questione dell’impegno e del matrimonio, questo romanzo vale anche per voi. Conosciamo molti uomini che, finché l’embrione che hanno contribuito a generare è nascosto nel grembo della madre, non provano un briciolo di istinto paterno ma poi, appena il loro bambino viene al mondo, se ne innamorano perdutamente. Guardate Stephen, e decidete: l’ha scampata bella o ha perso l’occasione di vivere una vita più ricca?

Bugiardino

Letto tre anni fa, un libro che mi aveva ben incuriosito, e che mi aveva dato spunti interessanti che non mi aspettavo all’inizio. Rivediamolo insieme.
Sebastian Faulks “Il canto del cielo” Beat euro 13,90
[tramata il 19 luglio 2015]
Ecco un altro libro che, senza le mie libropeute, difficilmente avrebbe trovato spazio tra le mie letture. Un libro che basicamente si svolge in Francia tra il 1910 ed il 1918, ed è pieno, stracolmo direi, di Prima Guerra Mondiale. Che non è (nonostante i centenari e le celebrazioni) tra le priorità dei miei interessi. Eppur sono onnivoro, ed alla fine mangio anche questo, che, tra alti e bassi, ha comunque un suo interesse ed un suo spazio. Certo a volte sembra ripetere altre trame ed altri filoni, già letti o sentiti. Ma (a parte una personale critica sulle ultime 100 pagine di cui dirò) è stata una lettura interessante, con qualche domanda che affiora alla testa. La prima, di carattere solo filologico, è la trasmigrazione del titolo da Birdsong (il canto egli uccelli) a “Il canto del cielo”. L’originale ha una duplice attinenza al testo, dove è vero che gli uccelli volano nel cielo dove, durante la maggior parte del libro, volano granate ed altre bombe, così che si collega il loro canto alla morte (e questo rimane nella traduzione italiana). Ma è anche vero che gli uccelli venivano portati nelle gallerie che si scavavano sottoterra per piazzare mine ed altri ordigni (servivano a controllare che ci fosse ancora aria con il loro canto), e questa parte (che poi è uno dei cardini del libro) si perde e viene ignorata. Seconda domanda è la mistificazione palese della quarta di copertina, dove viene indicato come “Romanzo nominato Best British Book of the Last 25 years”. Purtroppo in italiano nominato ha un significato molteplice, ma tutti convergeranno subito su quello più evidente (tipo “Renzi era un sindaco nominato Primo Ministro”) Ma il libro non ha vinto la tenzone, ha solo avuto una “nomination”, cioè è tra quelli indicati come “interessanti” dopo i primi 10. Ed il primo fu “Vergogna” di J. M. Coetzee. Ciò premesso, il libro scorre con interesse, mentre iniziamo a seguire le vicende della vita di Stephen Wraysford, un inglese mandato nel 1910 in Francia, ad Amiens, per indagare su un possibile investimento inglese in una fabbrica tessile francese. Si installa quindi nella casa del proprietario della filanda, René Azaire. Ne seguiamo il percorso cognitivo della vita lavorativa francese, ma soprattutto il continuo avvicinarsi alla giovane moglie di Azaire, Isabelle. ovviamente scoppia l’amore, i due, creando scandalo, fuggono insieme. Vivono del tempo nella cittadina di St. Rémy grazie al lavoro di lui. Poi Isabelle, incinta, sparisce. E Stephen non la cerca. Passano 6 anni, e troviamo il nostro impegnato nella Prima Guerra Mondiale. In tutta questa parte c’è un tentativo molteplice: far vedere la follia della guerra, farci percepire gli orrori della stessa (con tutte le scene cruente, le morti violente ed insensate), farcene percepire l’intensa umanità negli uomini che la combattono. Stephen sprofonda sempre più nel suo orrore interno, dove, una volta senza Isabelle, comincia a sentirsi cadere addosso l’inutilità della vita. Ma è un tipo strano, Stephen, per cui fa comunque il suo dovere, e, spesso, i suoi uomini si salvano mentre intorno fioccano i morti. Certo, a ben vedere la scrittura e le descrizioni di Faulks sono debitrici di grandi lasciati, primi fra tutti gli scritti di Remarque sul lato della riflessione intorno alla guerra e quelli di Hemingway sulle azioni e sugli ospedali militari. E come non vederci, in controluce, un riflesso di “Orizzonti di gloria” di Kubrick? Non ve ne dico però il motivo (fate lo sforzo di vedere il film, stupendo, e di leggere questo libro). C’è in tutta la parte militare il contro-altare proletario di Stephen nella figura di Jack, quello che scava sottoterra, capitato per soldi nella guerra, dove anche lui rimane in trappola. E come per Stephen, anche a lui muoiono tutti gli amici intorno (e muore di difterite il figlio di otto anni dell’amico che Jack, rimasto con la madre a Londra). La casualità della guerra porta Stephen ancora ad Amiens, dove ricerca Isabelle, colà tornata, e mutilata da una scheggia di granata, nonché innamorata di un tenente tedesco, ora tornato in patria. Trova anche Jeanne, la sorella di Isabelle. Capisce che la storia con il suo primo amore ormai è sepolta, e questo aggiunge altra amarezza alla già notevole sua. Tuttavia, trova (o comincia a trovare) un aiuto in Jeanne (mentre non sa che, oltre la porta, c’è Françoise, figlia sua e di Isabelle). Poi c’è tutta la scena madre, che io avrei tagliato di decine di pagine, dove Jack e Stephen, agli sgoccioli della guerra, rimangono intrappolati sottoterra. Ci sono grandi parole, proclami, amicizie, rinvangamenti. Ma c’è anche la morte di Jack, ed il salvataggio di Stephen da parte di un plotone tedesco. E quando esce al sole (per sentire di nuovo il canto degli uccelli) sa che la guerra è finita. Noi tutto ciò lo sappiamo anche in retrospettiva, perché una grossa parte del racconto si svolge anche nel 1978, dove Elizabeth, la nipote di Stephen, attraversando anche lei una storia d’amore tormentata, comincia a chiedersi chi sia suo nonno. Elizabeth è inglese, ma sappiamo che la madre è francese e si chiama Françoise. La nipote scoprirà i diari del nonno, ed in un colloquio rivelatore con la madre saprà tutta la storia, della rinascita, dopo due anni dalla fine della guerra, di una scintilla di vita in Stephen, del suo matrimonio con la nonna, e di tutto il resto. Non vi svelo però se la nonna sia Isabelle o Jeanne. Ma vi dico che, al piccolo che nasce (in una nascita che fa rabbrividire per quanto poco realistica sia), la nostra Elizabeth vorrà dare il nome di John, il figlio morto del minatore Jack. Finisce qui questo pur bello e interessante libro contro la guerra. Ma anche con quel sentimento sotterraneo di indecisione tra paternità e sua assenza e sua presenza coatta. Che vediamo in Stephen che non sa di aver una figlia, in Isabelle che scappa senza dirglielo, in Robert (l’amante sposato di Elizabeth) che non sa se accettarlo, in Jack che perde il figlio e da quel momento ne parla con tutto l’amore possibile. Insomma, un elemento di discussione bello ed intrigante su biologia e natura.
“Quando c’è vero amore fra le persone, come ce n’era fra noi, i dettagli non contano.” (479)

Conclusioni

Ottima scelta, quella delle libroterapuete, di utilizzare un libro pieno di guerra per parlare di paternità, sua voglia e sua mancanza. Completamente in sintonia, vi auguro di leggerne.

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