domenica 17 giugno 2018

La prima dell'arte - 17 giugno 2018


Perché questa settimana comincia l’analisi dei volumi della serie “Corriere della Sera – L’arte come romanzo”, che, come già dalle prime righe viene evidenziato nasce da una curiosità e da una spinta cuginesca. Devo dire che questa prima cinquina non è che si elevi tanto nel mio panorama personale, vuoi che poco entra nel merito dell’arte, vuoi che le cose migliori forse escono da libri in cui l’arte entra come episodio per raccontare (anche) altro. Vedremo proseguendo nel futuro alla lettura degli altri 25 volumi.
Melania G. Mazzucco “La lunga attesa dell’angelo” Corriere della Sera Arte 8 euro 7,90
[A: 11/10/2016 – I: 26/12/2017 – T: 06/01/2018] - &&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 411; anno 2008]
Finalmente dopo tanto tergiversare e girovagare intorno, diamo mano a questa ennesima collana cui mi sono interessato principalmente sulla spinta parentale del libro di mio cugino Alessandro su Bernini e Borromini. Ovvio che due geniali architetti non siano pittori, come la maggior parte dei protagonisti di questa collana, ma è l’universo artistico dell’espressione che mi ha coinvolto ed interessato. Da sempre, la pittura colpisce le mie corde, anche se il mio cuore rimane legato e mai disciolto ai miei amati impressionisti. Ma di questo avevo già parlato narrando del bel libro su di loro di Sue Roe. In modo casuale, come ovviamente sa chi mi conosce, il primo libro della serie che prendo in mano non è il primo uscito, ma è uno che avrei voluto comunque leggere. Per l’autrice, Melania Mazzucco che mi era piaciuta in “Un giorno perfetto”, ma che in altre prove non mi aveva convinto. Sapevo che aveva dedicato tempo e spazio a Tintoretto, e quindi mi sono attentamente immerso nella Venezia di fine Seicento. Devo dire che non mi è piaciuto, non mi ha convinto. Non so, avevo letto anche il suo “Vita”, ed è forse questo il problema. Il modo di immedesimarsi nelle persone, quando ne tratta biografie non riesce ad entrare nelle mie corde. Ed è quindi con estrema fatica che ho cercato di entrare nel “personaggio” Tintoretto, di cui l’autrice ci narra in prima persona le ultime due settimane di vita. Perché lui, Jacopo o Jacomo Robusti detto il Tintoretto in quanto non grande di corporatura nonché figlio di Giovan Battista Robusti di professione tintore, è ammalato e consumato dalla febbre. Allora, parla, ricorda, cerca di ricostruire brandelli della sua vita, tra un presente di cui sente il volgere alla fine ed un ricco, potente passato. Un passato che lo ha visto lottare in prima persona con tutte le sue armi, dall’astuzia alla maestria pittorica, per emergere. Lui che, appunto, non veniva da una famiglia di tradizioni, né una famiglia nobile, ma solo da una borghesia nobilitata, con limitati accessi alle magnificenze del tempo, ai saloni illustri, alle commesse favolose (quello del maestro dell’epoca, il grande Tiziano). Indipendente e bohemien ante-litteram ha una lunga storia d’amore dalla tedesca Cornelia, da cui ha una figlia, Marietta. Nel mentre, per consolidare la sua precaria posizione sociale, sposa a 31 anni Faustina Episcopi che per più di 40 anni sarà la sua sposa fedele, la madre dei suoi 7 legittimi figli, custode delle sue preoccupazioni domestiche. C’è qualche incertezza sulle date, ma dalla mia ricostruzione esterna, più che dalle parole della Mazzucco, sembra certo che Marietta nasce con il pittore già sposato, intorno al 1556, mentre il primo figlio con Faustina, Domenico, nasce nel 1560. Poi vengono Giovanni detto Zuane, ribelle sin dalla giovinezza, che fugge di casa per morire ventenne probabilmente in Grecia (o giù di lì). Marco che dirazza dalla pittura familiare per fare l’attore. E le quattro femmine, Perina, Ottavia, Altura e Laura, probabilmente tutte destinate alla vita di convento di clausura in quel di Sant’Anna. Sebbene ci siano capitoli sui figli maggiori, più che sulle future suore, dalle quali emerge sia l’incapacità di rapportarsi con altri da parte del pittore, sia la delega, completa a parte qualche eccezione, a Faustina della vita di casa Robusti. Eccezione sarà Domenico, che voleva fare il poeta, ma che, il padre essendo solo, decide di diventare aiuto e braccio, quando il grande poteva poco dipingere se non nelle grandi linee. Domenico che rimarrà nella storia delle tele solo per il primo ritratto fatto a Galileo Galilei. Ma soprattutto Marietta, sia perché è l’unica dotata di vero talento pittorico (non a caso verrà spesso indicata come “la Tintoretta”), sia perché per tutto il libro esce in controluce questo rapporto quasi incestuoso che si istaura tra loro. Perché è l’unica che Jacopo segue e da cui si fa seguire, perché l’unica che ne capisce la tecnica pittorica e l’adotta, perché è lei stessa, in controluce, che fa capire di avere il padre come unico vero faro e amore nella vita. Ma tutta questa parte, e quindi gran parte del libro, è veramente faticosa. Non capisco, non ho capito, quanto sia veritiero e quanto sia romanzesco il rapporto tra i due. Quanto Melania cerca di esprimere o tira fuori perché è quello che vuol farci sentire. Fatto sta che l’ho trovato un rapporto faticoso e faticosamente gestito. Quando poi Marietta muore a 34 anni, il Tintoretto non aspetta altro che la propria morta, che avviene solo 4 anni più tardi, il 31 maggio 1594 per ricongiungersi con la figlia amata nella cappella familiare della Madonna dell’Orto. Purtroppo, per il mio gusto, poco vien fuori delle tecniche pittoriche, del lino che usava come tela, delle cuciture dei quadri. Ma soprattutto della grande innovazione dello sfondo. Mentre all’epoca si usava la preparazione del supporto pittorico con uno strato di gesso e colla, quindi chiaro, Tintoretto capovolge l’uso, stendendo sulla tale il resto di tavolozze precedenti, con uno sfondo scuro, da cui più facilmente (e più velocemente) poteva far emergere sia il chiaro sia lo scuro. Come si vede nella magistrale “Ultima cena”, visibile nella Basilica di San Giorgio Maggiore a Venezia. Una scura taverna, con la tavola in diagonale, illuminata da una lampada profana al soffitto e dalle figure di Gesù e degli Apostoli. Che Tintoretto voleva non rappresentare il tradimento di Giuda, ma la nascita dell’eucaristia. E poco rimane di quell’altra mirabile opera del “Miracolo di San Marco”, ora nelle Gallerie dell’Accademia, sempre a Venezia, con quel San Marco che piomba dall’alto sulla scena, in volo a testa in giù. Questo e tanto altro si poteva dire del Tintoretto pittore, che non viene detto. Certo molto si dice del Tintoretto uomo, marito, padre, amante, ed altro ancora. Ma con troppe parole, ed ugualmente con troppi silenzi. Con un colloquio anche con Il Signore, cui Jacopo affida le sue sorti. Con il risultato, soggettivamente per me, con non riesco a penetrare nell’uomo, che trovo fuori dal suo tempo, né nel pittore, di cui capsico l’ardire e l’ardore ma non il pensiero. Infine, anche se forse è corretto dal punto di vista filologico, la scrittrice lo fa chiamare sempre Jacomo mentre per me, nel mio immaginario pittorico, essendo Jacopo mi sembra di leggere di una persona diversa. Non è un caso, infine, che abbia impiegato tempo e fatica nella lettura. E che abbia avuto bisogno di leggere e di guardare i suoi quadri (almeno in riproduzione) per riappacificarmi con lui. Anche se non con la pur brava, ma non a me congeniale, autrice.
“Per un uomo, a volte, un bagliore nella pupilla della persona amata può valere più di tutto.” (19)
“Quando uno ha un sogno, deve fare qualunque cosa per realizzarlo.” (77)
“L’amicizia … è qualcosa che per mettere radici ha bisogno di tempo … i vecchi non hanno amici.” (106)
“Bisogna essere diventati vecchi per capire quanto è breve la vita.” (140)
“Tutto ciò che ci succede quando siamo giovani si imprime con tanta forza nell’animo … passati i quarant’anni le impressioni si incidono con meno forza dentro di noi, che le assaporiamo con un piacere più acuto proprio per questo, ma dopo i sessanta niente si incide più.” (309)
Margrit De Moor “Il pittore e la ragazza” Corriere della Sera Arte 13 euro 7,90
[A: 11/10/2016 – I: xx/01/2018 – T: 11/01/2018] - &--
[tit. or.: De schilder en het meisje; ling. or.: olandese; pagine: 297; anno 2010]
Seconda lettura dei libri della collana “L’arte come un romanzo” e seconda delusione, forse anche maggiore della prima. L’autrice, olandese, è una nota esperta della materia (nonché casualmente anche pianista). Ha scritto molto, ottenuto premi. Ma … ma a me non è piaciuto praticamente nulla di questo romanzo. L’ho trovato molto pretenzioso, che vuole dire tanto, argomentando con poco. Che spara al cerchio (la vita di Elsje di cui dirò poi) per colpire la botte (il pittore), ma manca di tanto il bersaglio. Perché noi, ignari lettori, dovremmo spere tutto del pittore, dagli accenni che se ne fanno. E perché dovremmo sapere tutto di lui? Che la prima moglie muore giovane lasciandogli un figlio. Che vive “more uxorio” con la domestica. Che ha una bancarotta rovinosa, che lo costringere a vendere quasi tutta la sua collezione e raccolta di quadri, compreso un Tiziano. Che Van Gogh ritiene abbia dipinto il più bel quadro mai uscito da mani umane. Che un suo quadro venne quasi distrutto da un vandalo nel 1985, al museo Hermitage di Leningrado. Io, che non sono uno storico dell’arte, ma solo un amante del bello, in tutte le sue forme, ma che in pittura ho approfondito solo i miei amati impressionisti, pur andando a vedere negli anni tutte le mostre che si sono presentate alle mie scarse capacità. Io, dicevo, non sapevo, non avevo capito chi fosse. Ed ho voluto rimanere nell’ignoranza sino all’ultima pagina, sperando che Margrit ne facesse il nome. Ebbene, non lo ha fatto. Solo andando a cercare chi fosse l’autore della “Sposa ebrea” detta anche “Rebecca e Isacco” sono venuto a sapere che parliamo di Rembrandt Harmenszoon van Rijn, meglio noto semplicemente come Rembrandt. Dicevo Margrit tace, e noi seguiamo, a sbalzi ed accenni, la vita di questo pittore olandese del Seicento, nell’anno di grazia 1664 (questo lo scopriremo poi a posteriori) che si aggira per Amsterdam, che pensa ai suoi quadri, che pensa alla luce da dare alle immagini (con alcune pagine dotte sì ma veramente pallose sugli effetti luminosi nei quadri). Accenni che permettono, a chi magari conosce già la sua storia, di seguirla, di collocarla nel tempo, e che invece, nella parola scritta, si lasciano leggere senza trasporto. È una giornata speciale comunque per Amsterdam, perché, per la prima volta dopo 26 anni, una donna viene giustiziata nella pubblica piazza, il Dam. Avendo riscontri storici, possiamo datare il tutto proprio il 3 maggio 1664. Rembrandt non vuole né gradisce vedere la condanna a morte, e si aggira altrove. Solo dopo le parole del figlio Titus, che ne fa un ritratto appassionato degli ultimi istanti, viene colto da curiosità. Anche perché sappiamo essere curioso, come tutti i pittori, dei morti e delle loro terminazioni muscolari e nervose. Rembrandt va a vedere il corpo dopo l’esecuzione e lo ritrae in due disegni ora conservati al MoMA di New York. Tutto il resto dello scritto della settantacinquenne scrittrice è dedicato alla storia di Elsje. Diciottenne, probabilmente proveniente dalla Norvegia, affronta un lungo viaggio per mare e per terra al fine di raggiungere l’amata sorella fuggita tempo prima in Olanda. Sebbene come sappiamo le lingue scandinave e l’olandese abbiano affinità, ha comunque difficoltà a farsi capire. Affronta pericoli durante il viaggio (questa probabilmente è la parte di fantasia dello scritto, ed anch’essa poco coinvolgente), ma arrivata in città, oltre a cercare un misero alloggio, non ha modo di trovare, in un luogo così esteso, una persona arrivatavi mesi e mesi prima. Finisce ben presto i soldi, e la locandiera che le aveva affittato la stanza vuole essere pagata. Siccome il luogo è, come spesso accadeva, anche un lupanare, chiede in cambio pagamenti in natura, che Elsje, giovane e innocente, non capisce o non vuole. Il diverbio degenera, ed Elsje afferra il primo oggetto che ha sotto mano, un’ascia, e colpisce a morte la locandiera. Arrestata, il giudizio è reso difficile proprio dalle difficoltà linguistiche. Elsje non capisce le domande, i giudici non capiscono le risposte. Viene chiamato un oste che prova a far da interprete, ma si guarda bene dal riportare le parole fedelmente. Così che, circondata da ignoranza e ostilità in quanto straniera, viene giudicata, condannata e la sentenza eseguita tramite garrota (terribile!). come detto Rembrandt poi dipinge due schizzi. Tutto finito? No, perché l’autrice sembra ci voglia suggerire che gli stessi tratti (ma dai disegni che ho visto non si capisce come né perché), Rembrandt prese le fattezze di quel capolavoro che è appunto “La sposa ebrea”. Insomma, un libro che non ci parla dell’arte, che ci parla della sfortunata storia di una straniera condannata non dico ingiustamente, ma certo oltre l’entità della sua volontà (si tratta, ricostruito, di un delitto preterintenzionale). Tra l’altro con una scrittura che non si segue agilmente. Ma, ed è qui il punto per me peggiore, mi aspettavo qualcosa di più sul pittore, e sul contorno. Certo, non si ha sempre davanti “L’orecchino di perla”, ma poteva concederci qualche brandello informativo in più.
Iain Pears “La pista Caravaggio” Corriere della Sera Arte 4 euro 7,90
[A: 11/10/2016 – I: 15/03/2018 – T: 17/03/2018] - &&&--
[tit. or.: Death and Restoration; ling. or.: inglese; pagine: 284; anno 1996]
Terza lettura della collana “Arte come romanzo” che continua a fare passi avanti e passi indietro con grande velocità. Qui abbiamo due grossi passi indietro, che sono tuttavia più pertinenti ai curatori della collana e agli editori italiani che al libro in sé. Per gli editori andrei ad una gigantesca tirata d’orecchie sul lato del titolo. In inglese stavamo su “Morte e Restauro”, decisamente pertinenti al testo, dove c’è un morto e molta della trama si aggira, si avvale, contorna problematiche del restauro delle opere d’arte. Ora cosa c’entri Caravaggio è un mistero! Certo, nel monastero teatro di gran parte dell’azione c’è un Caravaggio in restauro, ma il buon Merisi non entra minimamente nella trama. Non è mai al centro dell’azione, e verrà nominato tre volte in quasi trecento pagine. Allora il titolo? Solo perché l’autore, lo storico d’arte inglese Iain Pears ha scritto diverse avventure di tinta gialla ambientate nel mondo dell’arte, che, a partire dalla prima e per le due successive, avevano il nome di un artista nel titolo (“Il caso Raffaello”, “Il comitato Tiziano”, “Il busto di Bernini”), non mi sembra il caso di inserire dei nomi casuali per adescare lettori poco attenti. Per i curatori, che, sbandierando la collana come legata a vicende artistiche, a pittori, ed altro inteso come “arte”, forse non si erano resi conto che qui, il centro, il fulcro, il motore della vicenda, è prettamente giallo. Certo di un giallo affine alle vicende artistiche, ma che qui hanno poco sviluppo. Anche se ce l’hanno ad un certo punto, risalendo di qualche punto di gradimento. Inoltre questo è il sesto libro di Pears ambientato in questo mondo, e che ha come uno delle punte di diamante il fittizio storico inglese Jonathan Argyll. Forse se avessero riproposto il primo libro, si sarebbe meglio capito l’intreccio, l’andamento, e magari il contorno degli avvenimenti. Che queste avventure, oltre al Jonathan di cui sopra, hanno altri due punti di forza, motori di una altrettanto fittizia “Squadra Investigativa Artistica”: il generale Taddeo Bottardi (il capo) e l’ispettore Flavia Di Stefano (il braccio). Perché qui, questi tre attori principali ormai hanno mutato il loro ruolo originario, si sono evoluti, tanto che il generale non è praticamente presente, essendo dalle prime pagine avviato a prendere il comando di una fantomatica squadra investigativa intereuropea, con ovvia sede a Bruxelles. Mentre, dopo vari su e giù nei precedenti episodi, ora Flavia e Jonathan vivono more uxorio, continuando, tuttavia, le loro azioni investigative. Quest’ultima parte ci introduce allora ad alcuni dei passi avanti della collana. Un romanzo discreto, non sempre avvincentissimo, ma con alcuni buoni spunti. Il primo, personalissimo, è che la maggior parte della vicenda ruota intorno ad un fittizio monastero, quello dell’Ordine di San Giovanni il Pietista, collocato però in un punto denso di chiese ed altri luoghi sacri, come l’Aventino in Roma. E che vide scorrere per anni la mia infanzia, e che tuttora fa rivivere momenti natalizi intensi. Come dimenticare Santa Sabina, Sant’Anselmo, Sant’Alessio, e qui mi fermo per non cadere nella malinconia dei ricordi. Tornando allo scritto, la vicenda si impernia sul furto o tentato tale di una icona nel monastero di cui sopra. La vicenda vede aggirarsi tal Mary, un tempo grande ladra d’arte (in episodi precedenti), costretta tramite ricatto a rubare l’icona, per conto di un giovane greco figlio di primo letto di un miliardario a suo tempo amante di Mary. Il tutto complicato dalle vicende dell’ordine monastico, in declino economico per ruberie priorali, e di cui, nel corso del romanzo, conosciamo diversi prelati, ognuno con alcune specificità interessanti. Ma di cui non entro nel merito. Fatto sta che il miliardario aveva anche incaricato un mercante d’arte di acquistare “onestamente” l’icona. Ma il figlio cattivo, come tutti i cattivi, sbanda, si inserisce con le cattiverie ricattatorie, uccide il mercante, per poi, alla fine, fare anche lui una fine poco degna. Senza che mai il Caravaggio venga nelle vicinanze dell’azione, alla fine, Mary torna salva in patria, Flavia, ufficialmente, risolve il caso, consentendo a Jonathan di rimettere l’icona al posto che le spetta. Nelle more, c’è anche la vicenda della costruzione di un’icona falsa da parte di un restauratore americano, ed altre piccole appendici, in realtà poco significative. Che quello che resta è la parte “storia dell’arte e storia”, che vede artefice e risolutore il buon Argyll. Questa poi è l’idea fanta-storica di Pears alla base del romanzo stesso. Perché l’icona che si tenta di trafugare sarebbe niente meno che la “Madonna Odigitria”, colei che conduce, mostrando la direzione, un ritratto iconico di Maria con in braccio Gesù Bambino, che si diceva dipinto da San Luca. Tale icona era realmente presente a Costantinopoli il 29 maggio 1453, giorno in cui i Turchi, comandati da Maometto II invadano la città e, secondo le fonti ufficiali, uccidono l’Imperatore Romano d’Oriente Costantino XI Paleologo, distruggono l’icona, ed entrano in Santa Sofia, trasformandola in Moschea. La fanta-idea di Pears è che l’Imperatore sia fuggito con l’icona, si sia rifugiato in Roma, cercando l’aiuto papale per una nuova crociata contro i Turchi. Costantino XI avrebbe cercato l’aiuto di papa Callisto III (sul soglio pontificio dal 1455 al 1458) senza riuscire ad ottenerlo, la vicenda decadendo poi con il papa seguente, Pio II, al secolo Enea Silvio Piccolomini, grande diplomatico sì, ma fautore delle arti e architetto della bellissima città di Pienza. Ecco, questo l’altro punto a favore dell’autore che mi ha stimolato a riprendere in mano la storia della caduta di Bisanzio e del papato in quei turbolenti anni decorsi cinquecento anni prima della mia nascita. Tuttavia, anche se questo fa salire un po’ il gradimento, come opera poliziesca e artistica non regge molto, è sicuramente di tono minore. Anche Pears ha scritto altro e sicuramente di meglio (consiglio, per chi non lo avesse letto, il suo “Le Quattro verità”).
Susan Vreeland “La ragazza in blu” Corriere della Sera Arte 1 euro 7,90
[A: 11/10/2016 – I: 20/03/2018 – T: 24/03/2018] - && e ½ 
[tit. or.: Girl in Hyacinth Blue; ling. or.: inglese; pagine: 199; anno 1999]
Tre anni dopo “La passione di Artemisia” che mi era discretamente piaciuto, prendo in mano un altro libro della scrittrice di libri d’arte Susan Vreeland, che era anche il primo dei libri usciti in questa collana di “arte e romanzi” che, per ora, non ha rispecchiato le attese che avevo avuto nel leggerne le premesse. Nel frattempo, purtroppo, l’autrice ci ha lasciato, anche solo settantenne. fatto allora un doveroso omaggio a chi non c'è più, vengo al libro che, pur con punte di interesse, nel complesso non mi ha convinto in pieno. Intanto perché, come si evince dalle note finali, alcuni capitoli erano stati pubblicati come racconti autonomi in varie riviste, forse, credo, anteriormente al libro stesso. Per poi essere intrecciati in un’unica storia, complessa, dove, in realtà, seguiamo otto storie, tutte in qualche modo, legate al dipinto del titolo. Dove, al solito, non capisco perché sia sparito dal titolo l’accenno al “giacinto”, che dava una caratterizzazione al blu del titolo. Perché è il colore più diffuso del giacinto olandese (e parlando di un dipinto olandese ci sta) e perché il giacinto è legato alla primavera e quindi alla rinascita, dove molti elementi delle otto storie portano proprio a questa speranza. L’altro elemento che poco mi convince è l’andamento a ritroso delle storie, che partono da un quasi presente per risalire sino al momento della pittura del quadro stesso. Il dipinto in realtà non esiste, perché non sembra, a quanto ho potuto trovare nelle liste delle opere, anche perdute di Johannes van der Meer, meglio noto con il nome di Jan Vermeer. È comunque un dipinto che avrebbe potuto dipingere, per il motivo rappresentato e per i colori usati. Il dipinto infatti dovrebbe riprodurre una ragazza che cuce in una stanza, simile a molte delle idee pittoriche dell’artista (da “La lattaia” alla “Giovane donna con brocca d’acqua”, da “La merlettaia” fino alla “Ragazza con turbante” meglio nota come “La Ragazza con l’orecchino di perla”), cioè ritratto di una donna in una stanza, con in genere la luce che proviene da sinistra (probabilmente una finestra), vestita con gli abiti di tutti i giorni, da cui il blu giacinto della nostra cucitrice, con la descrizione, mirabile questa da parte della Vreeland, delle pennellate per rendere le pieghe degli abiti, i capelli, la cuffietta, e gli altri particolari che fanno un Vermeer. Come detto, allora, si parte dal presente, dove assistiamo ai tormenti di un figlio di un gerarca nazista riparato in America dopo la guerra, avendo nel poco bagaglio, un quadro. La cucitrice in blu giacinto. Tormenti che il figlio, capita la provenienza del quadro, si domanda cosa ne deve fare, sospeso tra la bellezza del dipinto e la vergogna del modo in cui il padre se lo è procurato. Modalità che scopriamo nel secondo racconto, dove ci spostiamo ad Amsterdam, nella casa di una famiglia ebrea, che possiede il quadro, ed assistiamo ai momenti precedenti alla loro deportazione verso i campi di concentramento ed al furto del quadro da parte del nazista di cui al primo capitolo. Poi ci sono due capitoli di passaggio, che io avrei invertito perché mi sembrano temporalmente non susseguenti. Dove nel secondo ci si narra di un amore, di un tradimento, e di una fuga per la quale i soldi vengono trovati vendendo il quadro ad un mercante. Nel primo il quadro (ma questo è forse l’episodio meno legato al quadro stesso, quasi appunto un racconto inserito per onore di spazio) verrà donato dal padre alla figlia come regalo di nozze, non senza che il padre stesso ci narri come abbia avuto una storia legata al quadro stesso, e che mette in pericolo il suo matrimonio. Il quinto ed il sesto capitolo sono molto legati, che si svolgono entrambi durante la famosa “Inondazione di Natale del 1717”, che causò in Olanda 14000 vittime. Seguiamo la storia di uno studioso che si innamora di una ragazza in odore di stregoneria, fanno l’amore e lei partorisce, nascostamente, due gemelli: un bambino sano ed una bambina deforme. La donna uccide la bambina e per questo verrà impiccata. Lo studioso prende il bambino, un quadro (anzi il quadro della nostra storia) e li porta in una fattoria isolata dove (seconda storia) una famiglia, colpita dall’inondazione, li trova. Il bimbo sarà adottato, il quadro, dopo molte peripezie venduto ad un mercante di Amsterdam per una somma che consentirà una svolta alla famiglia stessa. Finalmente, nelle ultime due storie, troviamo Vermeer, i suoi problemi, la sua povertà (relativa, ma solo perché viveva al di sopra dei propri mezzi e doveva dipingere per far fronte ai debiti). Con questo dipinto realizzato intorno al 1670, una cinquantina di anni prima delle storie precedenti. Ma entriamo poco nella storia del pittore (ci saranno altri romanzi, credo, che ce ne consentiranno meglio la visione), ma ne vediamo solo alcuni sprazzi, e l’idea di dipingerà la figlia Magdalena mentre cuce. Figlia che nell’ultimo capitolo ci racconta i suoi sogni, l’amore per il padre, la sua voglia di dipingere e l’impossibilità, per una ragazza del Seicento, di farlo. Alla fine, quindi, a parte il capitolo sette, unico legato alla pittura, gli altri sono solo pretesti che utilizzano il quadro per mostrare stati d’animo, storie, nonché domande, come quella iniziale se gli assassini possano e come essere colpiti dalla bellezza. Che poi si può tradurre in una più generale domanda: come un’opera d’arte può influenzare la vita di ognuno di noi? Bella domanda, che qualcuno più bravo di me potrebbe sviluppare. Per ora salutiamo Susan ed i suoi scritti.
Robert M. Edsel con Bret Witter “Monuments Man – Eroi alleati, ladri nazisti e la più grande caccia al tesoro della Storia” Corriere della Sera Arte 17 euro 7,90
[A: 09/11/2016 – I: 18/03/2018 – T: 27/03/2018] - &&&-- 
[tit. or.: The Monuments Men; ling. or.: inglese; pagine: 444; anno 2009]
Ecco un nuovo capitolo dell’arte come romanzo, che, in effetti, risponde meglio allo spirito della collana. Anche se parla poco di uno specifico quadro o di uno specifico artista, ma, come si capisce dal titolo, è concentrato su di una interessante e degna operazione. E sulle sue conseguenze. È un libro di difficile costruzione, soprattutto perché vuole, giustamente, concedere poco alla spettacolarità, e vuole concentrarsi sulle operazioni, sulla vita e sulle, per fortuna poche, morti di un gruppo di uomini che dedicò anni del loro tempo di guerra alla ricerca e al ritrovamento dei capolavori artistici razziati dai nazisti durante il terribile periodo del Terzo Reich. E nominatamente, durante i tempi della Seconda Guerra Mondiale. Purtroppo Edsel non è uno scrittore accattivante, ed anche con l’aiuto di Bret Witter, uno storyteller coautore di molti best-seller, il libro non risulta di facile lettura. Gli autori, giustamente, concentrano la loro scrittura in un piccolo gruppo di personaggi, che troppo sarebbe dispersivo entrare nella storia dei circa 350 elementi del gruppo indicato come “Monuments Men”. Questa fu una task force creata da Roosevelt nel 1943 con il preciso scopo di preservare, ma soprattutto di ritrovare ciò che i nazisti avevano rubato in giro per l’Europa. Il gruppo nasce sotto la spinta di conservatori museali americani, particolarmente a valle della battaglia di Montecassino e della distruzione della locale abbazia. Noi, appunto, seguiamo le vicissitudini di otto elementi del gruppo, più una donna, che rivestirà un ruolo fondamentale. E di due dei capolavori maggiori trafugati: la “Madonna di Bruges” di Michelangelo e “L’Agnello mistico” di Van Eyck. Li ho visti entrambi ora, nelle loro collocazioni. E la pala d’altare è sinceramente uno dei punti più alti di pittura che ho ammirato. Quindi non entro nella facile diatriba tra bellezza e furti, tra scellerati che amano il bello ed altro. Sono discussioni che altrove hanno più rilevanza. Qui trono allo scritto, ed a seguire i nostri eroi. Eccoli, in ordine alfabetico. Il capitano Robert Balfour, inglese, che si unisce al gruppo nell’aprile del 1944, per seguire la pianificazione dell’intervento a seguito del previsto sbarco in Normandia. Seguendo le truppe, arriverà a Bruges pochi giorni dopo la sparizione della Madonna di Michelangelo. Dopo varie peripezie, nel marzo del ’45 ritroverà pezzi artistici a Kleve in Germania. Il 10 marzo, Balfour viene ucciso a Kleve da una raffica di proiettili mentre lui e altri uomini stavano tentando di mettere in salvo i pezzi di una pala d'altare medievale. Il caporale Ettlinger era uno dei più giovani del gruppo, utilizzato soprattutto perché, essendo nato in Germania prima di emigrare in America, parlava correntemente tedesco. Lavorò a stretto contatto con Rorimer, soprattutto nei ritrovamenti delle collezioni trafugate da Göring e ritrovate nel castello di Neuschwanstein. È uno dei pochi ancora in vita. Il capitano Walker Hancock, invece, era americano ed era un rinomato scultore. Arruolatosi dopo Pearl Harbour, e conosciuto il gruppo, chiese di entrarvi, cosa che fece tra i primi. E dopo l’invasione, viene immediatamente inviato a Parigi per coordinare le attività dalla capitale. Viene ricordato per i ritrovamenti delle reliquie di Carlomagno trafugate dalla cattedrale di Aquisgrana. Il capitano Walter J. Huchthausen, anche lui americano, nasce architetto ma anche lui nel 1942 si arruola. Ferito seriamente durante i bombardamenti di Londra, durante la convalescenza si unisce al gruppo, e, nel novembre del ’44, assegnato nella vallata della Loira. Anche lui ad Aquisgrana, quindi spostato in Olanda alla ricerca di siti nascosti. Nell’aprile del ’45 in cerca di una pala d’altare scomparsa, si avventura di notte con un compagno in territorio nemico, dove cade sotto il fuoco di una compagnia tedesca. Uno degli esempi più interessanti è quello del soldato semplice Lincoln Kirstein, che nei 35 anni prima dell’entrata in guerra fu poeta, compositore, ma soprattutto patrono delle arti e fondatore con George Balanchine della “School of American Ballet”. Non volle far carriera nell’esercito, ma dall’aprile del ’44 anche lui entra nel gruppo, lavorando come attendente di Posey, e partecipando ai ritrovamenti nella miniera di sale di Altaussee. Il maggiore Robert Posey e il capitano James Rorimer furono i due maggiori “ritrovatori” del gruppo. Uno come uomo militare, anche se laureato in architettura, l’altro come direttore di museo, poi entrato nelle forze armate. A loro si devono i due grandi ritrovamenti, di Neuschwanstein e di Altaussee. George Stout, infine, fu l’anima del gruppo, anche perché fu lui ad instillare nella mente della burocrazia americana la necessità del gruppo. Anche perché nasce come conservatore di monumenti. Era il più anziano, e, sebbene non entra in nessuna azione specifica, a lui si devono tutte le conservazioni dei quadri e dei monumenti ritrovati. Grazie alla sua esperienza, riuscì a riportare al loro posto, e quasi integri, una buona parte dei ritrovamenti. L’eroina misconosciuta, che questo libro cerca di portare alla luce, fu poi la francese Rose Valland. Lavoratrice volontaria ai musei francesi, viene assegnata nel ’40 al “Jeu de Pomme”. E da lì, carpendo notizie ai tedeschi invasori, ricostruisce buona parte della mappa dei tesori trafugati. Nel suo lungo braccio di ferro con il capitano Rorimer, alla fine si convince ad una collaborazione estesa, permettendo soprattutto il ritrovamento della miniera di sale di Altaussee in Austria, l’enorme magazzino delle opere d'arte rubate dai nazisti. Solo nel campo della pittura, ad Altaussee sono stati trovati oltre 6.500 dipinti. Tra le opere principali trovate ci sono opere appartenenti al Belgio, come la “Madonna di Bruges” di Michelangelo, rubata dalla Chiesa di Nostra Signora di Bruges, “L'agnello mistico” di Gand, di Jan van Eyck, “L'Astronomo e l'arte della pittura” di Vermeer. Purtroppo, nonostante tutti gli sforzi, molti sono tuttora i quadri che mancano all’appello, che si ritiene in parte bruciati, in parte nascosti in qualche caveau in giro per il mondo. Tra i più noti, con una lacrima agli occhi perché di certo non li vedremo più, posso ricordare “Ritratto di uomo” di Botticelli, “Ritratto di una giovane donna” di Caravaggio, “Auvers sul fiume Oise” di Cézanne, “Manet che dipinge nel suo giardino” di Manet, “Ritratto di un giovane” di Raffaello, “Vincent sulla strada per Tarascona” di Van Gogh. Mi accorgo di aver parlato del tema ma non del libro, che, ripeto, può essere letto, che è un bel documento storico anche senza appassionare. Solo un’ultima immagine terribile rimando: la descrizione del rogo dell’arte degenerata, dove i nazisti bruciano quadri di Klee, Picasso, e già mi sento male. E ripenso ai Buddha afghani distrutti dai talebani. Come diceva Schiller: “Contro la stupidità neanche gli dei possono nulla”.
Terza trama, dove, per essere felici, possiamo dedicarci a qualche bel romanzo duro americano, ma soprattutto alle loro trasposizioni cinematografiche.
Come ben sapete, questa seconda metà di giugno è dedicata al completamento di due lavori: uno di cui faccio solo la direzione (il completamento della casa di campagna) ed uno che mi vede impegnato (e molto) nella ricerca di alloggi e spazi nella brumosa terra scozzese. Sperando nel solito sostegno di voi tutti, vi abbraccio .

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni

GIUGNO 2018
Ben venga giugno, come diceva il poeta. Poiché siamo troppo in tranquillità, ecco qualche altro stimolo adrenalinico

IL BICCHIERE DELLA STAFFA CON DUE MAESTRI DELL'HARD-BOILED

Libri citati

Dashiell Hammett           “Il falcone maltese”
Raymond Chandler         “Il grande sonno”
James M. Cain                “La morte paga doppio”
Patricia Highsmith          “Sconosciuti in treno”
Per depurare la mente dai pensieri, ritrovare un po' di sana iniziativa e darsi una scossa, in alternativa ai tradizionali farmaci può essere altrettanto efficace un buon bicchiere. Maestri indiscussi dell’hard-boiled, Dashiell Hammett e Raymond Chandler sono da considerarsi due superalcolici di ottima qualità, ideali per proseguire la cura per veri duri iniziata con James M. Cain. Questo genere letterario può provocare dipendenza come l’alcol ma, se bevuto responsabilmente, ovvero centellinando le pagine, garantisce un'ebbrezza unica nel suo genere. Come non tutti abbiamo la stessa capacità di reggere l’alcol, non tutti i lettori hanno lo stomaco abbastanza forte per tollerare la miscela dell’hard-boiled che si distingue innanzi tutto per una rappresentazione molto realistica del crimine. Rispetto al giallo tradizionale in cui l’assassinio porta un elemento di disordine che la risoluzione del caso rimette a posto, qui si presuppone la presenza del male come parte integrante e incancellabile di una società corrotta. Oltre a un linguaggio duro e ad ambientazioni metropolitane la novità maggiore è rappresentata dalla figura del detective: uomo più di “pancia” e di pugni che di testa, d’azione più che di pensiero, affronta il pericolo a mani nude e non risolve mai i casi con la sola deduzione logica. Siamo in America e non in Inghilterra, il gioco si fa duro e gli investigatori diventano uomini dai modi spicci che bluffano, fanno a cazzotti, prendono calci, si muovono nei bassifondi, frequentano bar malfamati, bevono, fumano e amano senza mai innamorarsi veramente.
Suggerisco di iniziare sorseggiando “Il falcone maltese”, capolavoro di Dashiell Hammett con protagonista il mitico Sam Spade. La trama è intricatissima, ma tanto l’obiettivo della cura scuotersi dall’apatia e darsi una svegliata, quindi state attenti affidatevi al fiuto di questo cinico e solitario detective priva tutto d’un pezzo alle prese con un complicato caso da risolvei e una conturbante, intrigante e pericolosamente sexy dark lady. Voi non dovete preoccuparvi di niente, Sam pensa a tutto (sia all’intrigo che al vostro divertimento). La cura è efficace sole se affiancata dalla visione de “Il mistero del falco”, l’adattamento cinematografico realizzato da John Houston nel 1941. Anzi, è uno dei rari casi in cui si consiglia di invertire la somministrazione anteponendo la terapia cinematografica. Humphrey Bogart è Sam Spade, a suo agio nei panni del detective come se si trattasse del suo pigiama preferito, e leggere il romanzo pensando a lui ne aumenta i benefici terapeutici. Bogart ha prestato il suo imperturbabile volto da duro di classe (che è altra cosa dal rozzo macho) anche a Philip Marlowe, il protagonista di una serie di romanzi di Raymond Chandler. Anche lui è il prototipo nuovo detective: onesto, ma a modo suo, impudente, freddo e cinico, è rude ma elegante come solo gli uomini “in bianco e nero” sanno essere, violento quando serve ma senza scomporsi più di tanto. Fuma e beve parecchio, vizi che non lo rendono una ciminiera puzzolente ma solo sexy. Distaccato e stropicciato dalla vita sembra perfino insensibile al fascino femminile, che nel linguaggio del noir vuol dire che non disdegna le bellissime e disonestissime donne che gli cadono ai piedi, ma sa benissimo che non può fidarsi di loro. Solitario e misterioso, Philip Marlowe è più complesso dei casi che deve risolvere, spesso così ingarbugliati che si consiglia di assumere la medicina tutta d'un fiato. Sarebbe preferibile cominciare con il primo romanzo la serie, “Il grande sonno”, per poi continuare con gli altri. Tra gli effetti collaterali può manifestarsi la comparsa di una specie d’invidia per la pacata sicurezza e la padronanza verbale di Marlowe: anche quando ricorre alle mani lo fa senza perdere la calma, quando viene tradito non si dispera e ha sempre la battuta pronta. Per prolungare l’ebbrezza della lettura si consiglia vivamente l’adattamento cinematografico del romanzo, “Il grande sonno”, realizzato da Howard Hawks nel 1946 con la conturbante Lauren Bacali al fianco di Humphrey Bogart (una coppia da brivido). Grazie al suo stile diretto e ai dialoghi brillanti e serrati, Chandler ha spesso collaborato con il cinema partecipando come sceneggiatore a capolavori quali “La fiamma del peccato” di Billy Wilder (tratto dal romanzo di James M. Cain “La morte paga doppio”) e “Delitto per delitto” (“L’altro uomo”) di Alfred Hitchcock (tratto dal primo romanzo di Patricia Highsmith “Sconosciuti in treno”). Dal momento che è la tensione che cerchiamo, questi film sono da considerarsi un ottimo coadiuvante della cura. Non ve ne pentirete.
Avvertenza: in caso di sovradosaggio da Sam Spade, Philip Marlowe e Humphrey Bogart, il rischio è di diventare così spavaldi da indossare l’impermeabile con il bavero alzato e il cappello a falda. Tenete presente che solo Humphrey Bogart può farlo senza sembrare ridicolo. Tra gli effetti collaterali più comuni, causati soprattutto dalla visione dei film, c’è anche il desiderio di fumare una sigaretta, sempre alla maniera di Humphrey. Anche chi non fuma può essere sfiorato dalla tentazione, ma fumare alla Bogart nuoce gravemente alla salute (e non vi renderà mai uguali a lui).
Se la cura risultasse troppo dura e la dose di tensione eccessivamente massiccia, provate a rilassarvi come Philip Marlowe che, per addormentarsi, ricorre a un bel bicchiere di whisky. Ma se non riuscite a prendere sonno vuol dire che avete superato l’apatia e quindi siete guariti. Brindiamo! Con il bicchiere della staffa, ovviamente.

Commenti

Ho letto e visto il film del falcone e degli sconosciuti in treno (stupendo Alfred) veramente tanti anni fa (credo a metà degli anni ’80). Mentre mi manca l’esimio libro di Cain. Quindi parlerò solo del grande sonno.
Raymond Chandler “Il grande sonno” Repubblica Giallo euro 5,90
[pubblicato il 3 agosto 2011]
La nascita di un mito. Chandler ha cinquanta anni ed è al suo primo romanzo. Certo, sono cinque – sei anni che scrive racconti. E la sua vita non è stata “pipe e pantofole” sino ad allora. Americano emigrato in Inghilterra, dove studia e si accosta ai classici, partecipa alla prima guerra mondiale combattendo in Francia, e poi mille altri mestieri di ritorno in America. Da qui, in poi, il successo. Hollywood, fama, denaro, e alcool molto alcool, sino alla morte settantenne per polmonite alla fine degli Anni Cinquanta. Ma è qui, in questo romanzo, che getta le basi non solo della sua fortuna, ma di tutta una letteratura che allora sembrò solo di genere (hard boiled veniva chiamata, per la crudezza delle rappresentazioni della vita quotidiana, le morti, la vita al limite e spesso al di là della legge), ma che riletta attentamente è stata anche giustamente accostata al modernismo. Quel filone di rinnovamento del romanzo mondiale che nei primi 40 anni del secolo scorso aveva come alfieri Pirandello, Kafka, Hemingway, la Woolf e tanti altri. Accostata, che Chandler non è “solo” modernista. Mette in scena quello che vede (e che sente) nei bar e nei bassifondi di Los Angeles, ma anche nelle ville dorate della California con gli stanchi ricchi che non sanno come spendere il loro non sudato denaro. E segue il tutto con gli occhi di un investigatore privato. Non tanto uno che cerca di guadagnarsi la vita inseguendo divorzi e piccole frodi. Ma qualcuno che vive la vita quotidiana della città, ne conosce gli alti e i bassi. E soprattutto, mette in campo questo Philip Marlowe che ci sorprende ad ogni piè sospinto per la presenza di una sua etica. Non diciamo una dirittura morale, che sarebbe impropria, ma un’etica sì, basata sul rispetto del cliente, sulla convinzione che, pur esistendo un lato in ombra in ognuno, non si possa andare oltre un certo limite. Ed imbastisce una storia, forse datata in alcune parti, ma certo molto meno confusa, leggendola, di quello che se ne dice senza conoscerla. O conoscendo solo i suoi risvolti cinematografici. Certo, Marlowe è molto Bogart, con l’impermeabile beige e la sigaretta in bocca, e la non curanza con cui guarda una donna senza vestiti ma che non tocca (etica, etica, ed altro). Ma, per me, è anche stemperato da una punta di Elliot Gould, piuttosto che intristito nella vecchiaia di Robert Mitchum. E molta della confusione viene proprio dal film, che, sì, è quello confuso, perché nel film vengono fusi due romanzi di Chandler, e se ne affida la sceneggiatura a quel mostro di bravura letteraria che era William Faulkner. E viene messa più in positivo di quanto sia nel libro la figura di Vivian, che è stupendamente interpretata da Lauren Bacall, al tempo del film ancora moglie di Humphrey. Con l’invenzione del finale pirotecnico della morte del cattivo Eddie Mars. Tutto questo non c’è nel libro. Che parte dalla ricerca della soluzione di un ricatto ai danni del padre di Vivian da parte di Marlowe, prosegue con la ricerca dello scomparso marito di Vivian stessa, e con la soluzione di questi due misteri. Certo, compare Eddie Mars, che comunque è il re dei cattivi di Los Angeles, e compare la lotta senza quartiere tra lui e Marlowe. Ma qui, nel libro, non si va oltre la soluzione dei misteri proposti. Lasciando ad altri libri cosa succederà, forse, dopo. Nel libro non possiamo far altro che seguire Marlowe che, passo dopo passo, svela le magagne che si presentano, fa un po’ il buon samaritano con la bionda che si sta perdendo ma forse no, beve a tutto spiano. E seguiamo l’uso sapiente del dialogo, questo puro elemento di novità che Chandler maneggia benissimo, un po’ sulla falsariga di come scriveva il giovane Hemingway (che aveva 10 anni meno di lui). E l’uso asciutto delle descrizioni, un po’ paradossali ma efficaci (come quella che cito sotto), inseguendo le citazioni trasversali che l’intellettuale Chandler mette qua e là, anche se pochi se ne accorsero al tempo. Come, quando, mirabilmente, per spiegare il comportamento poco ortodosso della sorellina Carmen, risponde, mozartianamente, “Così fan tutte”.
“Un uomo grasso, di mezza età, con un paio di occhi color cielo che si ingegnavano a far passare una mancanza d’espressione per un’aria amichevole.” (107)

Finalino

Premetto che non sono un amante del whisky cui preferisco sempre un rhum o una grappa. Ma sono da sempre “innamorato” di Humphrey (come si chiama il mio amico di pezza che mi regalò la mia amica Rosa). Ed anche se l’hard-boiled americano non sempre mi convince, John Houston e Howard Hawks sono imperdibili. Così come il grande Alfred, anche se lì c’è zero hard.

Nessun commento:

Posta un commento