Perché questa settimana comincia
l’analisi dei volumi della serie “Corriere della Sera – L’arte come romanzo”,
che, come già dalle prime righe viene evidenziato nasce da una curiosità e da
una spinta cuginesca. Devo dire che questa prima cinquina non è che si elevi
tanto nel mio panorama personale, vuoi che poco entra nel merito dell’arte,
vuoi che le cose migliori forse escono da libri in cui l’arte entra come
episodio per raccontare (anche) altro. Vedremo proseguendo nel futuro alla
lettura degli altri 25 volumi.
Melania G. Mazzucco “La lunga attesa dell’angelo” Corriere della Sera
Arte 8 euro 7,90
[A: 11/10/2016 – I: 26/12/2017 – T: 06/01/2018] - &&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 411;
anno 2008]
Finalmente
dopo tanto tergiversare e girovagare intorno, diamo mano a questa ennesima
collana cui mi sono interessato principalmente sulla spinta parentale del libro
di mio cugino Alessandro su Bernini e Borromini. Ovvio che due geniali
architetti non siano pittori, come la maggior parte dei protagonisti di questa
collana, ma è l’universo artistico dell’espressione che mi ha coinvolto ed
interessato. Da sempre, la pittura colpisce le mie corde, anche se il mio cuore
rimane legato e mai disciolto ai miei amati impressionisti. Ma di questo avevo
già parlato narrando del bel libro su di loro di Sue Roe. In modo casuale, come
ovviamente sa chi mi conosce, il primo libro della serie che prendo in mano non
è il primo uscito, ma è uno che avrei voluto comunque leggere. Per l’autrice,
Melania Mazzucco che mi era piaciuta in “Un giorno perfetto”, ma che in altre
prove non mi aveva convinto. Sapevo che aveva dedicato tempo e spazio a
Tintoretto, e quindi mi sono attentamente immerso nella Venezia di fine
Seicento. Devo dire che non mi è piaciuto, non mi ha convinto. Non so, avevo
letto anche il suo “Vita”, ed è forse questo il problema. Il modo di
immedesimarsi nelle persone, quando ne tratta biografie non riesce ad entrare
nelle mie corde. Ed è quindi con estrema fatica che ho cercato di entrare nel
“personaggio” Tintoretto, di cui l’autrice ci narra in prima persona le ultime
due settimane di vita. Perché lui, Jacopo o Jacomo Robusti detto il Tintoretto
in quanto non grande di corporatura nonché figlio di Giovan Battista Robusti di
professione tintore, è ammalato e consumato dalla febbre. Allora, parla,
ricorda, cerca di ricostruire brandelli della sua vita, tra un presente di cui
sente il volgere alla fine ed un ricco, potente passato. Un passato che lo ha
visto lottare in prima persona con tutte le sue armi, dall’astuzia alla maestria
pittorica, per emergere. Lui che, appunto, non veniva da una famiglia di
tradizioni, né una famiglia nobile, ma solo da una borghesia nobilitata, con
limitati accessi alle magnificenze del tempo, ai saloni illustri, alle commesse
favolose (quello del maestro dell’epoca, il grande Tiziano). Indipendente e
bohemien ante-litteram ha una lunga storia d’amore dalla tedesca Cornelia, da
cui ha una figlia, Marietta. Nel mentre, per consolidare la sua precaria
posizione sociale, sposa a 31 anni Faustina Episcopi che per più di 40 anni
sarà la sua sposa fedele, la madre dei suoi 7 legittimi figli, custode delle
sue preoccupazioni domestiche. C’è qualche incertezza sulle date, ma dalla mia
ricostruzione esterna, più che dalle parole della Mazzucco, sembra certo che Marietta
nasce con il pittore già sposato, intorno al 1556, mentre il primo figlio con
Faustina, Domenico, nasce nel 1560. Poi vengono Giovanni detto Zuane, ribelle
sin dalla giovinezza, che fugge di casa per morire ventenne probabilmente in
Grecia (o giù di lì). Marco che dirazza dalla pittura familiare per fare
l’attore. E le quattro femmine, Perina, Ottavia, Altura e Laura, probabilmente
tutte destinate alla vita di convento di clausura in quel di Sant’Anna. Sebbene
ci siano capitoli sui figli maggiori, più che sulle future suore, dalle quali
emerge sia l’incapacità di rapportarsi con altri da parte del pittore, sia la
delega, completa a parte qualche eccezione, a Faustina della vita di casa
Robusti. Eccezione sarà Domenico, che voleva fare il poeta, ma che, il padre
essendo solo, decide di diventare aiuto e braccio, quando il grande poteva poco
dipingere se non nelle grandi linee. Domenico che rimarrà nella storia delle
tele solo per il primo ritratto fatto a Galileo Galilei. Ma soprattutto
Marietta, sia perché è l’unica dotata di vero talento pittorico (non a caso
verrà spesso indicata come “la Tintoretta”), sia perché per tutto il libro esce
in controluce questo rapporto quasi incestuoso che si istaura tra loro. Perché
è l’unica che Jacopo segue e da cui si fa seguire, perché l’unica che ne
capisce la tecnica pittorica e l’adotta, perché è lei stessa, in controluce,
che fa capire di avere il padre come unico vero faro e amore nella vita. Ma
tutta questa parte, e quindi gran parte del libro, è veramente faticosa. Non
capisco, non ho capito, quanto sia veritiero e quanto sia romanzesco il
rapporto tra i due. Quanto Melania cerca di esprimere o tira fuori perché è
quello che vuol farci sentire. Fatto sta che l’ho trovato un rapporto faticoso
e faticosamente gestito. Quando poi Marietta muore a 34 anni, il Tintoretto non
aspetta altro che la propria morta, che avviene solo 4 anni più tardi, il 31
maggio 1594 per ricongiungersi con la figlia amata nella cappella familiare
della Madonna dell’Orto. Purtroppo, per il mio gusto, poco vien fuori delle
tecniche pittoriche, del lino che usava come tela, delle cuciture dei quadri.
Ma soprattutto della grande innovazione dello sfondo. Mentre all’epoca si usava
la preparazione del supporto pittorico con uno strato di gesso e colla, quindi
chiaro, Tintoretto capovolge l’uso, stendendo sulla tale il resto di tavolozze
precedenti, con uno sfondo scuro, da cui più facilmente (e più velocemente)
poteva far emergere sia il chiaro sia lo scuro. Come si vede nella magistrale
“Ultima cena”, visibile nella Basilica di San Giorgio Maggiore a Venezia. Una
scura taverna, con la tavola in diagonale, illuminata da una lampada profana al
soffitto e dalle figure di Gesù e degli Apostoli. Che Tintoretto voleva non
rappresentare il tradimento di Giuda, ma la nascita dell’eucaristia. E poco
rimane di quell’altra mirabile opera del “Miracolo di San Marco”, ora nelle
Gallerie dell’Accademia, sempre a Venezia, con quel San Marco che piomba
dall’alto sulla scena, in volo a testa in giù. Questo e tanto altro si poteva
dire del Tintoretto pittore, che non viene detto. Certo molto si dice del
Tintoretto uomo, marito, padre, amante, ed altro ancora. Ma con troppe parole,
ed ugualmente con troppi silenzi. Con un colloquio anche con Il Signore, cui
Jacopo affida le sue sorti. Con il risultato, soggettivamente per me, con non
riesco a penetrare nell’uomo, che trovo fuori dal suo tempo, né nel pittore, di
cui capsico l’ardire e l’ardore ma non il pensiero. Infine, anche se forse è
corretto dal punto di vista filologico, la scrittrice lo fa chiamare sempre
Jacomo mentre per me, nel mio immaginario pittorico, essendo Jacopo mi sembra
di leggere di una persona diversa. Non è un caso, infine, che abbia impiegato
tempo e fatica nella lettura. E che abbia avuto bisogno di leggere e di
guardare i suoi quadri (almeno in riproduzione) per riappacificarmi con lui.
Anche se non con la pur brava, ma non a me congeniale, autrice.
“Per un uomo, a volte, un bagliore nella
pupilla della persona amata può valere più di tutto.” (19)
“Quando uno ha un sogno, deve fare qualunque
cosa per realizzarlo.” (77)
“L’amicizia … è qualcosa che per mettere
radici ha bisogno di tempo … i vecchi non hanno amici.” (106)
“Bisogna essere diventati vecchi per capire
quanto è breve la vita.” (140)
“Tutto ciò che ci succede quando siamo
giovani si imprime con tanta forza nell’animo … passati i quarant’anni le
impressioni si incidono con meno forza dentro di noi, che le assaporiamo con un
piacere più acuto proprio per questo, ma dopo i sessanta niente si incide più.”
(309)
Margrit De Moor “Il pittore e la ragazza” Corriere della Sera Arte 13
euro 7,90
[A: 11/10/2016 – I: xx/01/2018 – T: 11/01/2018] - &--
[tit. or.: De schilder en het
meisje; ling. or.: olandese; pagine: 297; anno 2010]
Seconda lettura
dei libri della collana “L’arte come un romanzo” e seconda delusione, forse
anche maggiore della prima. L’autrice, olandese, è una nota esperta della
materia (nonché casualmente anche pianista). Ha scritto molto, ottenuto premi.
Ma … ma a me non è piaciuto praticamente nulla di questo romanzo. L’ho trovato
molto pretenzioso, che vuole dire tanto, argomentando con poco. Che spara al
cerchio (la vita di Elsje di cui dirò poi) per colpire la botte (il pittore),
ma manca di tanto il bersaglio. Perché noi, ignari lettori, dovremmo spere
tutto del pittore, dagli accenni che se ne fanno. E perché dovremmo sapere
tutto di lui? Che la prima moglie muore giovane lasciandogli un figlio. Che
vive “more uxorio” con la domestica. Che ha una bancarotta rovinosa, che lo
costringere a vendere quasi tutta la sua collezione e raccolta di quadri,
compreso un Tiziano. Che Van Gogh ritiene abbia dipinto il più bel quadro mai
uscito da mani umane. Che un suo quadro venne quasi distrutto da un vandalo nel
1985, al museo Hermitage di Leningrado. Io, che non sono uno storico dell’arte,
ma solo un amante del bello, in tutte le sue forme, ma che in pittura ho
approfondito solo i miei amati impressionisti, pur andando a vedere negli anni
tutte le mostre che si sono presentate alle mie scarse capacità. Io, dicevo,
non sapevo, non avevo capito chi fosse. Ed ho voluto rimanere nell’ignoranza
sino all’ultima pagina, sperando che Margrit ne facesse il nome. Ebbene, non lo
ha fatto. Solo andando a cercare chi fosse l’autore della “Sposa ebrea” detta
anche “Rebecca e Isacco” sono venuto a sapere che parliamo di Rembrandt
Harmenszoon van Rijn, meglio noto semplicemente come Rembrandt. Dicevo Margrit
tace, e noi seguiamo, a sbalzi ed accenni, la vita di questo pittore olandese
del Seicento, nell’anno di grazia 1664 (questo lo scopriremo poi a posteriori)
che si aggira per Amsterdam, che pensa ai suoi quadri, che pensa alla luce da
dare alle immagini (con alcune pagine dotte sì ma veramente pallose sugli
effetti luminosi nei quadri). Accenni che permettono, a chi magari conosce già
la sua storia, di seguirla, di collocarla nel tempo, e che invece, nella parola
scritta, si lasciano leggere senza trasporto. È una giornata speciale comunque
per Amsterdam, perché, per la prima volta dopo 26 anni, una donna viene
giustiziata nella pubblica piazza, il Dam. Avendo riscontri storici, possiamo
datare il tutto proprio il 3 maggio 1664. Rembrandt non vuole né gradisce
vedere la condanna a morte, e si aggira altrove. Solo dopo le parole del figlio
Titus, che ne fa un ritratto appassionato degli ultimi istanti, viene colto da
curiosità. Anche perché sappiamo essere curioso, come tutti i pittori, dei
morti e delle loro terminazioni muscolari e nervose. Rembrandt va a vedere il
corpo dopo l’esecuzione e lo ritrae in due disegni ora conservati al MoMA di
New York. Tutto il resto dello scritto della settantacinquenne scrittrice è
dedicato alla storia di Elsje. Diciottenne, probabilmente proveniente dalla
Norvegia, affronta un lungo viaggio per mare e per terra al fine di raggiungere
l’amata sorella fuggita tempo prima in Olanda. Sebbene come sappiamo le lingue
scandinave e l’olandese abbiano affinità, ha comunque difficoltà a farsi
capire. Affronta pericoli durante il viaggio (questa probabilmente è la parte
di fantasia dello scritto, ed anch’essa poco coinvolgente), ma arrivata in
città, oltre a cercare un misero alloggio, non ha modo di trovare, in un luogo
così esteso, una persona arrivatavi mesi e mesi prima. Finisce ben presto i
soldi, e la locandiera che le aveva affittato la stanza vuole essere pagata.
Siccome il luogo è, come spesso accadeva, anche un lupanare, chiede in cambio
pagamenti in natura, che Elsje, giovane e innocente, non capisce o non vuole.
Il diverbio degenera, ed Elsje afferra il primo oggetto che ha sotto mano,
un’ascia, e colpisce a morte la locandiera. Arrestata, il giudizio è reso
difficile proprio dalle difficoltà linguistiche. Elsje non capisce le domande,
i giudici non capiscono le risposte. Viene chiamato un oste che prova a far da
interprete, ma si guarda bene dal riportare le parole fedelmente. Così che,
circondata da ignoranza e ostilità in quanto straniera, viene giudicata,
condannata e la sentenza eseguita tramite garrota (terribile!). come detto
Rembrandt poi dipinge due schizzi. Tutto finito? No, perché l’autrice sembra ci
voglia suggerire che gli stessi tratti (ma dai disegni che ho visto non si
capisce come né perché), Rembrandt prese le fattezze di quel capolavoro che è
appunto “La sposa ebrea”. Insomma, un libro che non ci parla dell’arte, che ci
parla della sfortunata storia di una straniera condannata non dico
ingiustamente, ma certo oltre l’entità della sua volontà (si tratta,
ricostruito, di un delitto preterintenzionale). Tra l’altro con una scrittura
che non si segue agilmente. Ma, ed è qui il punto per me peggiore, mi aspettavo
qualcosa di più sul pittore, e sul contorno. Certo, non si ha sempre davanti
“L’orecchino di perla”, ma poteva concederci qualche brandello informativo in
più.
Iain Pears “La pista Caravaggio” Corriere della Sera Arte 4 euro 7,90
[A: 11/10/2016 – I:
15/03/2018 – T: 17/03/2018] - &&&--
[tit. or.: Death and Restoration; ling. or.: inglese; pagine: 284; anno 1996]
Terza
lettura della collana “Arte come romanzo” che continua a fare passi avanti e
passi indietro con grande velocità. Qui abbiamo due grossi passi indietro, che
sono tuttavia più pertinenti ai curatori della collana e agli editori italiani
che al libro in sé. Per gli editori andrei ad una gigantesca tirata d’orecchie
sul lato del titolo. In inglese stavamo su “Morte e Restauro”, decisamente
pertinenti al testo, dove c’è un morto e molta della trama si aggira, si
avvale, contorna problematiche del restauro delle opere d’arte. Ora cosa
c’entri Caravaggio è un mistero! Certo, nel monastero teatro di gran parte
dell’azione c’è un Caravaggio in restauro, ma il buon Merisi non entra
minimamente nella trama. Non è mai al centro dell’azione, e verrà nominato tre
volte in quasi trecento pagine. Allora il titolo? Solo perché l’autore, lo storico
d’arte inglese Iain Pears ha scritto diverse avventure di tinta gialla
ambientate nel mondo dell’arte, che, a partire dalla prima e per le due
successive, avevano il nome di un artista nel titolo (“Il caso Raffaello”, “Il
comitato Tiziano”, “Il busto di Bernini”), non mi sembra il caso di inserire
dei nomi casuali per adescare lettori poco attenti. Per i curatori, che,
sbandierando la collana come legata a vicende artistiche, a pittori, ed altro
inteso come “arte”, forse non si erano resi conto che qui, il centro, il
fulcro, il motore della vicenda, è prettamente giallo. Certo di un giallo
affine alle vicende artistiche, ma che qui hanno poco sviluppo. Anche se ce
l’hanno ad un certo punto, risalendo di qualche punto di gradimento. Inoltre
questo è il sesto libro di Pears ambientato in questo mondo, e che ha come uno
delle punte di diamante il fittizio storico inglese Jonathan Argyll. Forse se
avessero riproposto il primo libro, si sarebbe meglio capito l’intreccio,
l’andamento, e magari il contorno degli avvenimenti. Che queste avventure,
oltre al Jonathan di cui sopra, hanno altri due punti di forza, motori di una
altrettanto fittizia “Squadra Investigativa Artistica”: il generale Taddeo
Bottardi (il capo) e l’ispettore Flavia Di Stefano (il braccio). Perché qui,
questi tre attori principali ormai hanno mutato il loro ruolo originario, si
sono evoluti, tanto che il generale non è praticamente presente, essendo dalle
prime pagine avviato a prendere il comando di una fantomatica squadra
investigativa intereuropea, con ovvia sede a Bruxelles. Mentre, dopo vari su e
giù nei precedenti episodi, ora Flavia e Jonathan vivono more uxorio,
continuando, tuttavia, le loro azioni investigative. Quest’ultima parte ci
introduce allora ad alcuni dei passi avanti della collana. Un romanzo discreto,
non sempre avvincentissimo, ma con alcuni buoni spunti. Il primo,
personalissimo, è che la maggior parte della vicenda ruota intorno ad un
fittizio monastero, quello dell’Ordine di San Giovanni il Pietista, collocato
però in un punto denso di chiese ed altri luoghi sacri, come l’Aventino in
Roma. E che vide scorrere per anni la mia infanzia, e che tuttora fa rivivere
momenti natalizi intensi. Come dimenticare Santa Sabina, Sant’Anselmo,
Sant’Alessio, e qui mi fermo per non cadere nella malinconia dei ricordi.
Tornando allo scritto, la vicenda si impernia sul furto o tentato tale di una
icona nel monastero di cui sopra. La vicenda vede aggirarsi tal Mary, un tempo
grande ladra d’arte (in episodi precedenti), costretta tramite ricatto a rubare
l’icona, per conto di un giovane greco figlio di primo letto di un miliardario
a suo tempo amante di Mary. Il tutto complicato dalle vicende dell’ordine
monastico, in declino economico per ruberie priorali, e di cui, nel corso del
romanzo, conosciamo diversi prelati, ognuno con alcune specificità
interessanti. Ma di cui non entro nel merito. Fatto sta che il miliardario
aveva anche incaricato un mercante d’arte di acquistare “onestamente” l’icona.
Ma il figlio cattivo, come tutti i cattivi, sbanda, si inserisce con le
cattiverie ricattatorie, uccide il mercante, per poi, alla fine, fare anche lui
una fine poco degna. Senza che mai il Caravaggio venga nelle vicinanze
dell’azione, alla fine, Mary torna salva in patria, Flavia, ufficialmente, risolve
il caso, consentendo a Jonathan di rimettere l’icona al posto che le spetta.
Nelle more, c’è anche la vicenda della costruzione di un’icona falsa da parte
di un restauratore americano, ed altre piccole appendici, in realtà poco
significative. Che quello che resta è la parte “storia dell’arte e storia”, che
vede artefice e risolutore il buon Argyll. Questa poi è l’idea fanta-storica di
Pears alla base del romanzo stesso. Perché l’icona che si tenta di trafugare
sarebbe niente meno che la “Madonna Odigitria”, colei che conduce, mostrando la
direzione, un ritratto iconico di Maria con in braccio Gesù Bambino, che si
diceva dipinto da San Luca. Tale icona era realmente presente a Costantinopoli
il 29 maggio 1453, giorno in cui i Turchi, comandati da Maometto II invadano la
città e, secondo le fonti ufficiali, uccidono l’Imperatore Romano d’Oriente
Costantino XI Paleologo, distruggono l’icona, ed entrano in Santa Sofia,
trasformandola in Moschea. La fanta-idea di Pears è che l’Imperatore sia
fuggito con l’icona, si sia rifugiato in Roma, cercando l’aiuto papale per una
nuova crociata contro i Turchi. Costantino XI avrebbe cercato l’aiuto di papa
Callisto III (sul soglio pontificio dal 1455 al 1458) senza riuscire ad
ottenerlo, la vicenda decadendo poi con il papa seguente, Pio II, al secolo
Enea Silvio Piccolomini, grande diplomatico sì, ma fautore delle arti e
architetto della bellissima città di Pienza. Ecco, questo l’altro punto a
favore dell’autore che mi ha stimolato a riprendere in mano la storia della caduta
di Bisanzio e del papato in quei turbolenti anni decorsi cinquecento anni prima
della mia nascita. Tuttavia, anche se questo fa salire un po’ il gradimento,
come opera poliziesca e artistica non regge molto, è sicuramente di tono
minore. Anche Pears ha scritto altro e sicuramente di meglio (consiglio, per
chi non lo avesse letto, il suo “Le Quattro verità”).
Susan Vreeland “La ragazza in blu” Corriere della Sera Arte 1 euro 7,90
[A: 11/10/2016 – I: 20/03/2018 – T: 24/03/2018] - &&
e ½
[tit. or.: Girl in Hyacinth
Blue; ling. or.: inglese; pagine: 199; anno 1999]
Tre
anni dopo “La passione di Artemisia” che mi era discretamente piaciuto, prendo
in mano un altro libro della scrittrice di libri d’arte Susan Vreeland, che era
anche il primo dei libri usciti in questa collana di “arte e romanzi” che, per
ora, non ha rispecchiato le attese che avevo avuto nel leggerne le premesse.
Nel frattempo, purtroppo, l’autrice ci ha lasciato, anche solo settantenne.
fatto allora un doveroso omaggio a chi non c'è più, vengo al libro che, pur con
punte di interesse, nel complesso non mi ha convinto in pieno. Intanto perché,
come si evince dalle note finali, alcuni capitoli erano stati pubblicati come
racconti autonomi in varie riviste, forse, credo, anteriormente al libro stesso.
Per poi essere intrecciati in un’unica storia, complessa, dove, in realtà,
seguiamo otto storie, tutte in qualche modo, legate al dipinto del titolo.
Dove, al solito, non capisco perché sia sparito dal titolo l’accenno al
“giacinto”, che dava una caratterizzazione al blu del titolo. Perché è il
colore più diffuso del giacinto olandese (e parlando di un dipinto olandese ci
sta) e perché il giacinto è legato alla primavera e quindi alla rinascita, dove
molti elementi delle otto storie portano proprio a questa speranza. L’altro
elemento che poco mi convince è l’andamento a ritroso delle storie, che partono
da un quasi presente per risalire sino al momento della pittura del quadro
stesso. Il dipinto in realtà non esiste, perché non sembra, a quanto ho potuto
trovare nelle liste delle opere, anche perdute di Johannes van der Meer, meglio
noto con il nome di Jan Vermeer. È comunque un dipinto che avrebbe potuto
dipingere, per il motivo rappresentato e per i colori usati. Il dipinto infatti
dovrebbe riprodurre una ragazza che cuce in una stanza, simile a molte delle
idee pittoriche dell’artista (da “La lattaia” alla “Giovane donna con brocca
d’acqua”, da “La merlettaia” fino alla “Ragazza con turbante” meglio nota come
“La Ragazza con l’orecchino di perla”), cioè ritratto di una donna in una
stanza, con in genere la luce che proviene da sinistra (probabilmente una
finestra), vestita con gli abiti di tutti i giorni, da cui il blu giacinto
della nostra cucitrice, con la descrizione, mirabile questa da parte della
Vreeland, delle pennellate per rendere le pieghe degli abiti, i capelli, la
cuffietta, e gli altri particolari che fanno un Vermeer. Come detto, allora, si
parte dal presente, dove assistiamo ai tormenti di un figlio di un gerarca
nazista riparato in America dopo la guerra, avendo nel poco bagaglio, un
quadro. La cucitrice in blu giacinto. Tormenti che il figlio, capita la
provenienza del quadro, si domanda cosa ne deve fare, sospeso tra la bellezza
del dipinto e la vergogna del modo in cui il padre se lo è procurato. Modalità
che scopriamo nel secondo racconto, dove ci spostiamo ad Amsterdam, nella casa
di una famiglia ebrea, che possiede il quadro, ed assistiamo ai momenti
precedenti alla loro deportazione verso i campi di concentramento ed al furto
del quadro da parte del nazista di cui al primo capitolo. Poi ci sono due
capitoli di passaggio, che io avrei invertito perché mi sembrano temporalmente
non susseguenti. Dove nel secondo ci si narra di un amore, di un tradimento, e
di una fuga per la quale i soldi vengono trovati vendendo il quadro ad un
mercante. Nel primo il quadro (ma questo è forse l’episodio meno legato al
quadro stesso, quasi appunto un racconto inserito per onore di spazio) verrà
donato dal padre alla figlia come regalo di nozze, non senza che il padre
stesso ci narri come abbia avuto una storia legata al quadro stesso, e che
mette in pericolo il suo matrimonio. Il quinto ed il sesto capitolo sono molto
legati, che si svolgono entrambi durante la famosa “Inondazione di Natale del
1717”, che causò in Olanda 14000 vittime. Seguiamo la storia di uno studioso
che si innamora di una ragazza in odore di stregoneria, fanno l’amore e lei
partorisce, nascostamente, due gemelli: un bambino sano ed una bambina deforme.
La donna uccide la bambina e per questo verrà impiccata. Lo studioso prende il
bambino, un quadro (anzi il quadro della nostra storia) e li porta in una
fattoria isolata dove (seconda storia) una famiglia, colpita dall’inondazione,
li trova. Il bimbo sarà adottato, il quadro, dopo molte peripezie venduto ad un
mercante di Amsterdam per una somma che consentirà una svolta alla famiglia
stessa. Finalmente, nelle ultime due storie, troviamo Vermeer, i suoi problemi,
la sua povertà (relativa, ma solo perché viveva al di sopra dei propri mezzi e
doveva dipingere per far fronte ai debiti). Con questo dipinto realizzato
intorno al 1670, una cinquantina di anni prima delle storie precedenti. Ma
entriamo poco nella storia del pittore (ci saranno altri romanzi, credo, che ce
ne consentiranno meglio la visione), ma ne vediamo solo alcuni sprazzi, e
l’idea di dipingerà la figlia Magdalena mentre cuce. Figlia che nell’ultimo
capitolo ci racconta i suoi sogni, l’amore per il padre, la sua voglia di
dipingere e l’impossibilità, per una ragazza del Seicento, di farlo. Alla fine,
quindi, a parte il capitolo sette, unico legato alla pittura, gli altri sono
solo pretesti che utilizzano il quadro per mostrare stati d’animo, storie,
nonché domande, come quella iniziale se gli assassini possano e come essere colpiti
dalla bellezza. Che poi si può tradurre in una più generale domanda: come
un’opera d’arte può influenzare la vita di ognuno di noi? Bella domanda, che
qualcuno più bravo di me potrebbe sviluppare. Per ora salutiamo Susan ed i suoi
scritti.
Robert M. Edsel con Bret Witter “Monuments Man – Eroi alleati, ladri
nazisti e la più grande caccia al tesoro della Storia” Corriere della Sera Arte
17 euro 7,90
[A: 09/11/2016 – I:
18/03/2018 – T: 27/03/2018] - &&&--
[tit. or.: The Monuments Men; ling. or.: inglese; pagine: 444; anno 2009]
Ecco
un nuovo capitolo dell’arte come romanzo, che, in effetti, risponde meglio allo
spirito della collana. Anche se parla poco di uno specifico quadro o di uno
specifico artista, ma, come si capisce dal titolo, è concentrato su di una
interessante e degna operazione. E sulle sue conseguenze. È un libro di
difficile costruzione, soprattutto perché vuole, giustamente, concedere poco
alla spettacolarità, e vuole concentrarsi sulle operazioni, sulla vita e sulle,
per fortuna poche, morti di un gruppo di uomini che dedicò anni del loro tempo
di guerra alla ricerca e al ritrovamento dei capolavori artistici razziati dai
nazisti durante il terribile periodo del Terzo Reich. E nominatamente, durante
i tempi della Seconda Guerra Mondiale. Purtroppo Edsel non è uno scrittore
accattivante, ed anche con l’aiuto di Bret Witter, uno storyteller coautore di
molti best-seller, il libro non risulta di facile lettura. Gli autori,
giustamente, concentrano la loro scrittura in un piccolo gruppo di personaggi,
che troppo sarebbe dispersivo entrare nella storia dei circa 350 elementi del
gruppo indicato come “Monuments Men”. Questa fu una task force creata da
Roosevelt nel 1943 con il preciso scopo di preservare, ma soprattutto di
ritrovare ciò che i nazisti avevano rubato in giro per l’Europa. Il gruppo
nasce sotto la spinta di conservatori museali americani, particolarmente a
valle della battaglia di Montecassino e della distruzione della locale abbazia.
Noi, appunto, seguiamo le vicissitudini di otto elementi del gruppo, più una
donna, che rivestirà un ruolo fondamentale. E di due dei capolavori maggiori
trafugati: la “Madonna di Bruges” di Michelangelo e “L’Agnello mistico” di Van
Eyck. Li ho visti entrambi ora, nelle loro collocazioni. E la pala d’altare è
sinceramente uno dei punti più alti di pittura che ho ammirato. Quindi non
entro nella facile diatriba tra bellezza e furti, tra scellerati che amano il
bello ed altro. Sono discussioni che altrove hanno più rilevanza. Qui trono
allo scritto, ed a seguire i nostri eroi. Eccoli, in ordine alfabetico. Il
capitano Robert Balfour, inglese, che si unisce al gruppo nell’aprile del 1944,
per seguire la pianificazione dell’intervento a seguito del previsto sbarco in
Normandia. Seguendo le truppe, arriverà a Bruges pochi giorni dopo la
sparizione della Madonna di Michelangelo. Dopo varie peripezie, nel marzo del
’45 ritroverà pezzi artistici a Kleve in Germania. Il 10 marzo, Balfour viene
ucciso a Kleve da una raffica di proiettili mentre lui e altri uomini stavano
tentando di mettere in salvo i pezzi di una pala d'altare medievale. Il
caporale Ettlinger era uno dei più giovani del gruppo, utilizzato soprattutto
perché, essendo nato in Germania prima di emigrare in America, parlava
correntemente tedesco. Lavorò a stretto contatto con Rorimer, soprattutto nei
ritrovamenti delle collezioni trafugate da Göring e ritrovate nel castello di
Neuschwanstein. È uno dei pochi ancora in vita. Il capitano Walker Hancock,
invece, era americano ed era un rinomato scultore. Arruolatosi dopo Pearl
Harbour, e conosciuto il gruppo, chiese di entrarvi, cosa che fece tra i primi.
E dopo l’invasione, viene immediatamente inviato a Parigi per coordinare le
attività dalla capitale. Viene ricordato per i ritrovamenti delle reliquie di Carlomagno
trafugate dalla cattedrale di Aquisgrana. Il capitano Walter J. Huchthausen,
anche lui americano, nasce architetto ma anche lui nel 1942 si arruola. Ferito
seriamente durante i bombardamenti di Londra, durante la convalescenza si
unisce al gruppo, e, nel novembre del ’44, assegnato nella vallata della Loira.
Anche lui ad Aquisgrana, quindi spostato in Olanda alla ricerca di siti
nascosti. Nell’aprile del ’45 in cerca di una pala d’altare scomparsa, si
avventura di notte con un compagno in territorio nemico, dove cade sotto il
fuoco di una compagnia tedesca. Uno degli esempi più interessanti è quello del
soldato semplice Lincoln Kirstein, che nei 35 anni prima dell’entrata in guerra
fu poeta, compositore, ma soprattutto patrono delle arti e fondatore con George
Balanchine della “School of American Ballet”. Non volle far carriera
nell’esercito, ma dall’aprile del ’44 anche lui entra nel gruppo, lavorando
come attendente di Posey, e partecipando ai ritrovamenti nella miniera di sale
di Altaussee. Il maggiore Robert Posey e il capitano James Rorimer furono i due
maggiori “ritrovatori” del gruppo. Uno come uomo militare, anche se laureato in
architettura, l’altro come direttore di museo, poi entrato nelle forze armate.
A loro si devono i due grandi ritrovamenti, di Neuschwanstein e di Altaussee.
George Stout, infine, fu l’anima del gruppo, anche perché fu lui ad instillare
nella mente della burocrazia americana la necessità del gruppo. Anche perché
nasce come conservatore di monumenti. Era il più anziano, e, sebbene non entra
in nessuna azione specifica, a lui si devono tutte le conservazioni dei quadri
e dei monumenti ritrovati. Grazie alla sua esperienza, riuscì a riportare al
loro posto, e quasi integri, una buona parte dei ritrovamenti. L’eroina misconosciuta,
che questo libro cerca di portare alla luce, fu poi la francese Rose Valland.
Lavoratrice volontaria ai musei francesi, viene assegnata nel ’40 al “Jeu de
Pomme”. E da lì, carpendo notizie ai tedeschi invasori, ricostruisce buona
parte della mappa dei tesori trafugati. Nel suo lungo braccio di ferro con il
capitano Rorimer, alla fine si convince ad una collaborazione estesa,
permettendo soprattutto il ritrovamento della miniera di sale di Altaussee in
Austria, l’enorme magazzino delle opere d'arte rubate dai nazisti. Solo nel
campo della pittura, ad Altaussee sono stati trovati oltre 6.500 dipinti. Tra
le opere principali trovate ci sono opere appartenenti al Belgio, come la
“Madonna di Bruges” di Michelangelo, rubata dalla Chiesa di Nostra Signora di
Bruges, “L'agnello mistico” di Gand, di Jan van Eyck, “L'Astronomo e l'arte
della pittura” di Vermeer. Purtroppo, nonostante tutti gli sforzi, molti sono
tuttora i quadri che mancano all’appello, che si ritiene in parte bruciati, in
parte nascosti in qualche caveau in giro per il mondo. Tra i più noti, con una
lacrima agli occhi perché di certo non li vedremo più, posso ricordare
“Ritratto di uomo” di Botticelli, “Ritratto di una giovane donna” di
Caravaggio, “Auvers sul fiume Oise” di Cézanne, “Manet che dipinge nel suo
giardino” di Manet, “Ritratto di un giovane” di Raffaello, “Vincent sulla
strada per Tarascona” di Van Gogh. Mi accorgo di aver parlato del tema ma non
del libro, che, ripeto, può essere letto, che è un bel documento storico anche
senza appassionare. Solo un’ultima immagine terribile rimando: la descrizione
del rogo dell’arte degenerata, dove i nazisti bruciano quadri di Klee, Picasso,
e già mi sento male. E ripenso ai Buddha afghani distrutti dai talebani. Come
diceva Schiller: “Contro la stupidità neanche gli dei possono nulla”.
Terza trama, dove, per essere
felici, possiamo dedicarci a qualche bel romanzo duro americano, ma soprattutto
alle loro trasposizioni cinematografiche.
Come ben sapete, questa seconda
metà di giugno è dedicata al completamento di due lavori: uno di cui faccio
solo la direzione (il completamento della casa di campagna) ed uno che mi vede
impegnato (e molto) nella ricerca di alloggi e spazi nella brumosa terra
scozzese. Sperando nel solito sostegno di voi tutti, vi abbraccio .
I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia
Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
GIUGNO 2018
Ben venga giugno, come diceva il poeta. Poiché siamo troppo
in tranquillità, ecco qualche altro stimolo adrenalinico
IL BICCHIERE DELLA STAFFA CON DUE MAESTRI DELL'HARD-BOILED
Libri citati
Dashiell Hammett “Il falcone
maltese”
Raymond Chandler “Il grande
sonno”
James M. Cain “La morte
paga doppio”
Patricia Highsmith “Sconosciuti
in treno”
Per
depurare la mente dai pensieri, ritrovare un po' di sana iniziativa e darsi una
scossa, in alternativa ai tradizionali farmaci può essere altrettanto efficace
un buon bicchiere. Maestri indiscussi dell’hard-boiled, Dashiell Hammett e
Raymond Chandler sono da considerarsi due superalcolici di ottima qualità, ideali
per proseguire la cura per veri duri iniziata con James M. Cain. Questo genere
letterario può provocare dipendenza come l’alcol ma, se bevuto
responsabilmente, ovvero centellinando le pagine, garantisce un'ebbrezza unica
nel suo genere. Come non tutti abbiamo la stessa capacità di reggere l’alcol,
non tutti i lettori hanno lo stomaco abbastanza forte per tollerare la miscela
dell’hard-boiled che si distingue innanzi tutto per una rappresentazione molto
realistica del crimine. Rispetto al giallo tradizionale in cui l’assassinio
porta un elemento di disordine che la risoluzione del caso rimette a posto, qui
si presuppone la presenza del male come parte integrante e incancellabile di
una società corrotta. Oltre a un linguaggio duro e ad ambientazioni metropolitane
la novità maggiore è rappresentata dalla figura del detective: uomo più di
“pancia” e di pugni che di testa, d’azione più che di pensiero, affronta il
pericolo a mani nude e non risolve mai i casi con la sola deduzione logica.
Siamo in America e non in Inghilterra, il gioco si fa duro e gli investigatori
diventano uomini dai modi spicci che bluffano, fanno a cazzotti, prendono
calci, si muovono nei bassifondi, frequentano bar malfamati, bevono, fumano e
amano senza mai innamorarsi veramente.
Suggerisco
di iniziare sorseggiando “Il falcone
maltese”, capolavoro di Dashiell Hammett con protagonista il mitico Sam
Spade. La trama è intricatissima, ma tanto l’obiettivo della cura scuotersi
dall’apatia e darsi una svegliata, quindi state attenti affidatevi al fiuto di
questo cinico e solitario detective priva tutto d’un pezzo alle prese con un
complicato caso da risolvei e una conturbante, intrigante e pericolosamente
sexy dark lady. Voi non dovete preoccuparvi di niente, Sam pensa a tutto (sia
all’intrigo che al vostro divertimento). La cura è efficace sole se affiancata
dalla visione de “Il mistero del falco”, l’adattamento cinematografico
realizzato da John Houston nel 1941. Anzi, è uno dei rari casi in cui si
consiglia di invertire la somministrazione anteponendo la terapia
cinematografica. Humphrey Bogart è Sam Spade, a suo agio nei panni del
detective come se si trattasse del suo pigiama preferito, e leggere il romanzo
pensando a lui ne aumenta i benefici terapeutici. Bogart ha prestato il suo
imperturbabile volto da duro di classe (che è altra cosa dal rozzo macho) anche
a Philip Marlowe, il protagonista di una serie di romanzi di Raymond Chandler.
Anche lui è il prototipo nuovo detective: onesto, ma a modo suo, impudente,
freddo e cinico, è rude ma elegante come solo gli uomini “in bianco e nero”
sanno essere, violento quando serve ma senza scomporsi più di tanto. Fuma e
beve parecchio, vizi che non lo rendono una ciminiera puzzolente ma solo sexy.
Distaccato e stropicciato dalla vita sembra perfino insensibile al fascino
femminile, che nel linguaggio del noir vuol dire che non disdegna le bellissime
e disonestissime donne che gli cadono ai piedi, ma sa benissimo che non può
fidarsi di loro. Solitario e misterioso, Philip Marlowe è più complesso dei casi
che deve risolvere, spesso così ingarbugliati che si consiglia di assumere la
medicina tutta d'un fiato. Sarebbe preferibile cominciare con il primo romanzo
la serie, “Il grande sonno”, per poi
continuare con gli altri. Tra gli effetti collaterali può manifestarsi la
comparsa di una specie d’invidia per la pacata sicurezza e la padronanza
verbale di Marlowe: anche quando ricorre alle mani lo fa senza perdere la
calma, quando viene tradito non si dispera e ha sempre la battuta pronta. Per
prolungare l’ebbrezza della lettura si consiglia vivamente l’adattamento
cinematografico del romanzo, “Il grande sonno”, realizzato da Howard Hawks nel
1946 con la conturbante Lauren Bacali al fianco di Humphrey Bogart (una coppia
da brivido). Grazie al suo stile diretto e ai dialoghi brillanti e serrati,
Chandler ha spesso collaborato con il cinema partecipando come sceneggiatore a
capolavori quali “La fiamma del peccato” di Billy Wilder (tratto dal romanzo di
James M. Cain “La morte paga doppio”)
e “Delitto per delitto” (“L’altro uomo”) di Alfred Hitchcock (tratto dal primo
romanzo di Patricia Highsmith “Sconosciuti
in treno”). Dal momento che è la tensione che cerchiamo, questi film sono
da considerarsi un ottimo coadiuvante della cura. Non ve ne pentirete.
Avvertenza:
in caso di sovradosaggio da Sam Spade, Philip Marlowe e Humphrey Bogart, il
rischio è di diventare così spavaldi da indossare l’impermeabile con il bavero
alzato e il cappello a falda. Tenete presente che solo Humphrey Bogart può
farlo senza sembrare ridicolo. Tra gli effetti collaterali più comuni, causati
soprattutto dalla visione dei film, c’è anche il desiderio di fumare una
sigaretta, sempre alla maniera di Humphrey. Anche chi non fuma può essere
sfiorato dalla tentazione, ma fumare alla Bogart nuoce gravemente alla salute
(e non vi renderà mai uguali a lui).
Se
la cura risultasse troppo dura e la dose di tensione eccessivamente massiccia,
provate a rilassarvi come Philip Marlowe che, per addormentarsi, ricorre a un
bel bicchiere di whisky. Ma se non riuscite a prendere sonno vuol dire che
avete superato l’apatia e quindi siete guariti. Brindiamo! Con il bicchiere
della staffa, ovviamente.
Commenti
Ho letto e visto il film del falcone e degli sconosciuti in
treno (stupendo Alfred) veramente tanti anni fa (credo a metà degli anni ’80).
Mentre mi manca l’esimio libro di Cain. Quindi parlerò solo del grande sonno.
Raymond Chandler “Il
grande sonno” Repubblica Giallo euro 5,90
[pubblicato il 3 agosto 2011]
La nascita di un mito. Chandler ha cinquanta anni ed è al
suo primo romanzo. Certo, sono cinque – sei anni che scrive racconti. E la sua
vita non è stata “pipe e pantofole” sino ad allora. Americano emigrato in
Inghilterra, dove studia e si accosta ai classici, partecipa alla prima guerra
mondiale combattendo in Francia, e poi mille altri mestieri di ritorno in
America. Da qui, in poi, il successo. Hollywood, fama, denaro, e alcool molto
alcool, sino alla morte settantenne per polmonite alla fine degli Anni
Cinquanta. Ma è qui, in questo romanzo, che getta le basi non solo della sua
fortuna, ma di tutta una letteratura che allora sembrò solo di genere (hard
boiled veniva chiamata, per la crudezza delle rappresentazioni della vita
quotidiana, le morti, la vita al limite e spesso al di là della legge), ma che
riletta attentamente è stata anche giustamente accostata al modernismo. Quel
filone di rinnovamento del romanzo mondiale che nei primi 40 anni del secolo
scorso aveva come alfieri Pirandello, Kafka, Hemingway, la Woolf e tanti altri.
Accostata, che Chandler non è “solo” modernista. Mette in scena quello che vede
(e che sente) nei bar e nei bassifondi di Los Angeles, ma anche nelle ville
dorate della California con gli stanchi ricchi che non sanno come spendere il
loro non sudato denaro. E segue il tutto con gli occhi di un investigatore
privato. Non tanto uno che cerca di guadagnarsi la vita inseguendo divorzi e
piccole frodi. Ma qualcuno che vive la vita quotidiana della città, ne conosce
gli alti e i bassi. E soprattutto, mette in campo questo Philip Marlowe che ci
sorprende ad ogni piè sospinto per la presenza di una sua etica. Non diciamo
una dirittura morale, che sarebbe impropria, ma un’etica sì, basata sul
rispetto del cliente, sulla convinzione che, pur esistendo un lato in ombra in
ognuno, non si possa andare oltre un certo limite. Ed imbastisce una storia,
forse datata in alcune parti, ma certo molto meno confusa, leggendola, di
quello che se ne dice senza conoscerla. O conoscendo solo i suoi risvolti
cinematografici. Certo, Marlowe è molto Bogart, con l’impermeabile beige e la
sigaretta in bocca, e la non curanza con cui guarda una donna senza vestiti ma
che non tocca (etica, etica, ed altro). Ma, per me, è anche stemperato da una
punta di Elliot Gould, piuttosto che intristito nella vecchiaia di Robert Mitchum.
E molta della confusione viene proprio dal film, che, sì, è quello confuso,
perché nel film vengono fusi due romanzi di Chandler, e se ne affida la
sceneggiatura a quel mostro di bravura letteraria che era William Faulkner. E
viene messa più in positivo di quanto sia nel libro la figura di Vivian, che è
stupendamente interpretata da Lauren Bacall, al tempo del film ancora moglie di
Humphrey. Con l’invenzione del finale pirotecnico della morte del cattivo Eddie
Mars. Tutto questo non c’è nel libro. Che parte dalla ricerca della soluzione
di un ricatto ai danni del padre di Vivian da parte di Marlowe, prosegue con la
ricerca dello scomparso marito di Vivian stessa, e con la soluzione di questi
due misteri. Certo, compare Eddie Mars, che comunque è il re dei cattivi di Los
Angeles, e compare la lotta senza quartiere tra lui e Marlowe. Ma qui, nel
libro, non si va oltre la soluzione dei misteri proposti. Lasciando ad altri
libri cosa succederà, forse, dopo. Nel libro non possiamo far altro che seguire
Marlowe che, passo dopo passo, svela le magagne che si presentano, fa un po’ il
buon samaritano con la bionda che si sta perdendo ma forse no, beve a tutto
spiano. E seguiamo l’uso sapiente del dialogo, questo puro elemento di novità
che Chandler maneggia benissimo, un po’ sulla falsariga di come scriveva il
giovane Hemingway (che aveva 10 anni meno di lui). E l’uso asciutto delle
descrizioni, un po’ paradossali ma efficaci (come quella che cito sotto),
inseguendo le citazioni trasversali che l’intellettuale Chandler mette qua e
là, anche se pochi se ne accorsero al tempo. Come, quando, mirabilmente, per
spiegare il comportamento poco ortodosso della sorellina Carmen, risponde,
mozartianamente, “Così fan tutte”.
“Un uomo grasso, di
mezza età, con un paio di occhi color cielo che si ingegnavano a far passare
una mancanza d’espressione per un’aria amichevole.” (107)
Finalino
Premetto che non sono un amante del whisky cui preferisco
sempre un rhum o una grappa. Ma sono da sempre “innamorato” di Humphrey (come
si chiama il mio amico di pezza che mi regalò la mia amica Rosa). Ed anche se
l’hard-boiled americano non sempre mi convince, John Houston e Howard Hawks
sono imperdibili. Così come il grande Alfred, anche se lì c’è zero hard.
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