Settimana … italiana, ma sul
versante nero. E come dice il titolo, si può fare di più. C’è la pattuglia
Mondadori, dove solo Annamaria Fassio rimane a buoni ed accettabili livelli.
Luceri continua a non piacermi, mentre Lanzotti ha una buona trama, ma non
sempre alla stessa altezza. Tra loro, l’italiano che parla solo di Francia, con
la pattuglia degli “italiani” di Pandiani, che dopo le prime prove non torna
più agli stessi livelli.
Enrico Luceri “L’ora più buia della notte” Mondadori euro 5,90
[A: 12/12/2017 – I: 01/02/2018 – T: 08/02/2018] - & e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 173;
anno 2017]
Questo
è il quarto libro dell’esimio Luceri che, inavvertitamente o meno, entra nella
mia biblioteca e nelle mie letture. Ed a parte il primo (“Il mio volto è uno
specchio”) letto una decina di anni fa con un normale gradimento, gli altri due
(“Buio come una cantina chiusa” e “Le colpe dei figli”) non fanno che ribadire
il giudizio che colpisce anche quest’ultimo: perché continuo a leggerne? Credo
che la mia componente masochista sia insaziabile. In fondo speravo che Luceri
riprendesse le fila dall’ultimo letto e mettesse in campo il bel poliziotto
Angela Garzya. Invece nulla di tutto ciò, ci spostiamo dal Sud al Nord, o forse
al centro visto il risvolto che prende la storia. L’unica nota positiva (ben
magra consolazione) è l’ispettrice di polizia, che alla fine mette un po’
d’ordine alla storia, che si chiama Ivana …Zani. E quando c’è “Zani” di mezzo,
non si può che aumentare il giudizio (ecco perché quel mezzo punto in più). Per
il resto una storia veramente risibile, scontata, ed anche neanche tanto ben
scritta e gestita come altre volte le scritture di Luceri. L’ambientazione
quasi teatrale prevede per lunghi tratti la descrizione delle avventure di casa
Roselli, archeologo di grido, ora avanti con gli anni e dedito più alla divulgazione
che alla ricerca. Con lui sono la giovane moglie Roberta, spesso lasciata sola
durante le campagne di scavi, ma ora vicina e presenta al personaggio
principale. Vicino ai due Vanni, architetto scalcinato e forse in guai
economici, che da un lato conta molto sui lavori di casa Roselli per rimettersi
in sesto, dall’altro ha avuto un “piccola storia” con Roberta, che lei vuole
dimenticare ma lui Vanni non riesce. Infine c’è Irene, giovane collaboratrice
di Roselli, che Luceri dipinge a tratti quasi innamorata a tratti quasi capace
di odi profondi verso tutta casa Roselli. Sullo sfondo la vecchia tata di
Roberta, ora governante della casa, ed il di lei figlio, coetaneo di Roberta,
ora sbandato e drogato. Per tutta una gran parte del libro assistiamo allo svolgersi
dei rapporti interni alla casa. Roselli, invecchiato e dedito, per rimanere in
forma, a medicine varie. Roberta nel rapporto complicato sia con Vanni che con
la tata. Irene, che invece il rapporto complicato ce l’ha con Roberta (che
invece sembra ignorarla). Nonché la tata che sembra vedere qualcosa di losco ma
non si decide a parlare. Così, ecco che si verificano una serie di piccoli
incidenti, potenzialmente mortali per Roselli, ma che, per fortuna, per
sbadataggine o altro, riesce sempre ad evitare. Luceri tenta di far montare la
tensione, ma non riesce a far altro che allungare un brodo già di per sé
insipido. La svolta si ha quando uno di questi tentativi coinvolge
drammaticamente la tata che rimane, lei sì, uccisa. Ecco allora che finalmente
entra in scena la polizia, con il poco utile commissario Di Crescenzo e la
simpatica poliziotta Zani. I due interrogano, e cominciano ad elucubrare vari
tentativi di spiegazione. Riescono anche a far nascere una specie di filone
parallelo, che Roselli, una ventina di anni prima, aveva provocato un incidente
automobilistico, dove perirono la moglie e la figlia di un pover’uomo, che
giurò di vendicarsi su di lui. Nonché i genitori di una ragazzina, che poi
viene data in adozione. La polizia fa luce sulla vicenda, che potrebbe portare
alla vendetta da parte dell’uomo o della ragazza (che per età e misteriosità
potrebbe essere proprio Irene). L’uccisione del figlio della tata, porta Luceri
a dover stringere verso il finale. Che si annuncia annunciato, scontato, e già
ipotizzabile dalle prime righe della premessa, se letta attentamente. Non c’era
certo bisogno di menarla lunga per più di 150 pagine, che mi hanno stancamente
accompagnato per la Patagonia argentina, e che avrei volentieri lasciato
laggiù, se fossi stato meno amante della carta. Laggiù ho lasciato altro,
mentre questo libro, discretamente inutile, l’ho riportato per segnalarne
l’inutile lettura. Sperando che Mondadori si dedichi ad altri e più promettenti
autori italiani (e ce ne sono).
Paolo Lanzotti “La voce delle ombre” Mondadori euro 5,90
[A: 11/11/2016 – I: 13/02/2018 – T: 15/02/2018] - &&&
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[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 246;
anno 2016]
Non
un giallo eccezionale, né una scrittura fantasmagorica, tuttavia un onesto prodotto,
ben confezionato e sicuramente degno del premio ottenuto. Lanzotti, infatti,
dopo anni dediti alla fantascienza, si cimenta nel giallo storico, vincendo nel
2016 il Premio Tedeschi, dedicato a gialli inediti. Da buon veneziano,
ricostruisce con fedeltà e dignità i primi giorni dell’agosto 1849, in quel di
Venezia, durante gli ultimi giorni della Repubblica di San Marco e del
tentativo di affrancamento dall’Impero Asburgico operato da Daniele Manin.
Inoltre è ben bilanciata questa parte storica, in cui velocemente agiscono,
oltre a Manin che invece ha un ruolo centrale, i ben noti Niccolò Tommaseo e
Guglielmo Pepe, ma anche i meno noti (almeno fuori delle mura venete), Giuseppe
Sirtori (grande difensore repubblicano della milizia veneta, poi generale
garibaldino), Francesco Baldisserotto (ex-tenente di vascello austriacante, poi
capo della difesa militare di Venezia con Sirtori e Ulloa), Girolamo Ulloa
(vedi nota precedente), Jacopo Monico (patriarca di Venezia), Graziani, Gian
Francesco Avesani (negoziatore della resa del 22 agosto) e Teresa Perissinotti
(patriota e moglie di Manin). Ma il quadro storico è lo sfondo, benché
presente, dell’azione, che coinvolge in prima battuta proprio Manin. Un
patriota repubblicano, Alvise Scarpa, oppositore di Manin, viene trovato
ucciso. Manin, per non essere coinvolto nelle eventuali beghe, si affida ad un
maturo ex-poliziotto asburgico, Teodoro Valier, ora, durante la Repubblica,
senza arte né ruolo, affinché risolva il caso, affiancandogli il suo aiutante
principale, Simone Poli. Da qui in poi è Valier che diventa il fulcro della
vicenda e delle indagini. Scarpa è in genere in compagnia di tre suoi sodali,
Visentin, Costanzi e Bellomo. Tutti e quattro presenti nella casa abbandonata
teatro dell’omicidio. Con una lentezza degna del migliore Maigret, Valier
analizza il luogo dell’omicidio, escludendo subito che qualcuno, oltre i
quattro sunnominati, possa essere entrato nella notte per commettere il
delitto. Nonché, avallato dal medico patologo, fa risalire la morte alla notte
stessa. Durante l’indagine vengono fuori un bel po’ di marachelle, che, al
lettore meno attento, farebbe dirottare altrove il pensiero. Scarpa, benché
sposato con Lucetta, la tradisce ad ogni piè sospinto, utilizzando la casa di
cui sopra come garçonnière. Inoltre, i quattro “patrioti” hanno anche alle
spalle qualche furto non poco lineare, motivo per cui sono anche sotto
l’attenzione delle guardie repubblicane. Dei tre, inoltre, Bellomo sembra il
più pavido, con qualche oscura voglia di rivincita verso il più famoso Scarpa.
Altrettanto per Visentin, cui Scarpa, in una rissa, ha procurato una brutta
cicatrice in faccia. E che dire di Costanzi che invece sembra avercela con
Scarpa, ma non sono subito chiari i motivi. Dicevo che Valier ha un andamento
“alla Maigret”, anche perché, nonostante la situazione precaria di Venezia,
quello che tenta, e con successo, di fare, è interrogare abilmente i tre
superstiti e la vedova, con domande che sembrano slegate, ma che alla fine, per
lui più che per noi, riescono a dipanare il mistero. In questo aiutato, anche
se all’inizio poco volentieri, proprio da Simone Poli, che alla fine dovrà
ricredersi su Valier e sul passato di questi, nonostante tutto integerrimo.
Capiamo subito che nessun, oltre i cosiddetti amici, può essere entrato nella
casa (controllate il guano sulle finestre), e capiamo, ma non subito, che
ognuno ha detto qualcosa di poco chiaro, che potrebbe portare sulle tracce
dell’uno o dell’altro. Valier, che prima di noi ha già capito tutto, ci mostra (anche
se non apertamente) la soluzione, per cui, tuttavia, non ha prove. Allora tenta
il solito colpo da maestro (forse un po’ troppo sfruttato). Provoca i tre,
cercando di fare uscire allo scoperto il colpevole ed inducendolo a cercare di
far fuori proprio Valier. La fine sarà positiva per la soluzione del caso, per
l’incolumità di Valier, nonché per il buon nome di Manin, che dalla vicenda
esce giustamente senza macchia. Peccato che dodici giorni dopo dovrà guidare la
capitolazione della Repubblica ormai allo stremo, e ritirarsi in esilio a
Parigi. In fondo un gradevole romanzo, con spunti storici che ho apprezzato, ed
una soluzione poliziesca non banale (abbiamo tutti gli indizi, e potremmo
risolvere il caso, ma io avevo puntato sull’uomo sbagliato). Un giusto premio
quindi meritato dalla buona scrittura di Lanzotti.
Enrico Pandiani “Pessime scuse per un massacro” Rizzoli euro 16 (in
realtà, scontato a 7,20 euro)
[A: 15/12/2016 – I: 01/03/2018 – T: 03/03/2018] - &&
+
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 379;
anno 2011]
Veramente
deboluccio, nella trama, nello svolgimento, nelle conclusioni. Ci si aspetta
più mordente dall’inventore della saga de “Les Italiens”. Pandiani, con le sue
prime avventure della brigata composta da oriundi italiani (con l’aggiunta
magari di qualche corso), aveva creato una epopea di poliziotti che ben
conoscono la malavita parigina, che la combattono a tutto spiano. Indagando,
sparando e molto amando (quando ad uno gli piacciono i gerundi…). Anche se un
po’ sfortunato con le donne (gli ne muore una a episodio) abbiamo seguito con
piacere le vicende in soggettiva del commissario Mordenti. Nonché del suo aiuto
Serandoni. In questo nuovo episodio, invece, non solo la trama esce dalla
“ville Lumière”, ma si connota (velatamente) anche come scontro verso le sfere
politiche, senza purtroppo (o con molti pochi) pathos amatori e/o sessuali. La
testa della brigata si sposta infatti a 60 km. da Parigi, nella cittadina di
Barbizon, dove, con una mitragliatrice, viene trucidato un sentore in pensione.
Indagine delicata, con pochi appigli. E con discreti attriti con i poliziotti
locali, anche se tra questi si stacca (unico momento del “vecchio” Pandiani) il
bel capitano di origine vietnamita Mai Linh, che Mordenti cercherà di abbordare
per tutto il libro (e di certo non vi dico se ci riesce o meno). Con una
facilità degna di miglior inchiesta, si capisce ben presto che ci deve essere
un appiglio con il passato. Dopo il senatore si scopre un nuovo morto,
anch’esso sulla via dell’ottantina. Tutti uccisi con armi d’epoca. Tutti con
una statuina di Babar vicino ed una foto di occhi femminili. Per chi non fosse
addentro alle storie di fumetti, Babar è un elefantino in veste d’uomo, creato
dal francese Jean de Brunhoff nel 1931. I nostri, tra armi datate e storie
locali, aiutati da foto ed altri collegamenti che escono durante il racconto,
devono per forza immergersi nella vita locale. Soprattutto in quella durante la
guerra. Il senatore, infatti, era un agente segreto di collegamento tra le truppe
francesi di stanza in Inghilterra e la resistenza locale. I morti che si
scoprono durante il percorso, dopo ricerche che vi risparmiano, si scopre non
siano francesi, ma ex-aviatori americani dati per dispersi in un’azione
bellica, ma al contrario salvi, rigenerati a nuova vita, e con discreti
patrimoni da sfruttare. Patrimoni che si fa presto a collegare a due filoni:
gli ebrei deportati in guerra ed i nazisti espatriati di nascosto dopo la
guerra stessa. Mordenti trova quindi i collegamenti con la famiglia Dreyfuss
(certo Pandiani, se volevi un collegamento razziale, mi sembra un nome un po’
facile da tirar fuori), sterminata e deportata. Che aveva affidato i suoi averi
al notaio Peyroux, anche lui trucidato, e dove trova la morte la splendida ventenne
Madeleine Peyroux (inciso, anche qui, fantasia da vendere, utilizzare il nome
di una cantante di jazz franco-americana, per non dire di altri domi evocativi,
come una comparsa che si chiama Bernard Rieux, come il protagonista de “La
peste” di Camus). Per tirar fuori l’altra parte della storia, Mordenti ed i
suoi devono anche entrare in contatto, cercare, a volte stanare anche i
“maquis”, nome con il quale si indicavano gli appartenenti alla resistenza
organizzata francese. Qui si imbattono in un oste che ricorda molto, in una
coppia della resistenza molto alternativa (nonostante appunto sia sulla
settantina), in una dama che era anche la migliore amica di Madeleine. Con i
loro racconti, Mordenti ricostruisce l’altra parte della storia. I partigiani
francesi che battevano la campagna, una colonna di locali, che utilizzava i
soprannomi dei fumetti per celare le vere identità. Colonna cui faceva parte un
soprannominato Babar. Una possibile storia d’amore di qualche “maquisard” o
simpatizzante con la bella Madeleine. Mordenti si domanda solo perché ci siano
voluti sessanta anni ad un ventenne (o una ventenne) d’allora per ricostruire
tutte le fila. Una volta trovato questo filo, tutto diventa facile. Si scoprono
tutte le figure ed i loro comportamenti. Certo, e qui interverrà la politica,
il senatore è uomo ben in vista quindi non se ne può macchiare l’onore con la
sua vera storia di assassino e delatore, per cui alla fine le morti saranno
coperte da ondate di altra terra. Ma noi sapremo per filo e per segno come si
svolsero i fatti durante la guerra. E come si perpetrò la vendetta. Un
massacro, come dal titolo. Una pessima scusa? Boh, mi sembra un titolo un po’
poco aderente. Nel complesso allora, poca suspense, poche sparatorie (una
soltanto significativa a Parigi, ma messa lì come per giustificare il fatto che
Pandiani ci aveva abituato ad un morto ogni due o tre pagine), poco afflato
amoroso (qualche rivolo, con qualche storia laterale, anche ben dosata e
dolente, ma sempre marginale). Sarà stanco il nostro autore? Trova pochi nuovi
stimoli per queste avventure? Insomma, “les italiens” sono sempre simpatici, il
libro meno, la storia di conseguenza. Se vogliamo anche un po’ banale, riletta
a posteriori. Speriamo sempre in meglio, nel futuro, che l’ottimismo è la
nostra natura profonda.
“Essere fedeli è un lavoro come un altro, ti
ci devi applicare.” (33)
Annamaria Fassio “La morte e l’oblio” Mondadori euro 5,90
[A: 06/12/2016 – I: 06/03/2018 – T: 08/03/2018] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 214;
anno 2016]
Era
da tempo che aspettavo il ritorno sulla scena di Annamaria Fassio e delle sue
storie genovesi. Direte voi, certo potevi leggere prima un libro acquistato un
anno e più fa, ma, ripeto, un giorno scoprirete i miei algoritmi di lettura, ed
allora se ne riparlerà. Per ora mi sono abbastanza gustato il ritorno sulle
scene del Commissario Capo Erica Franzoni e del Vice Questore Antonio Maffina.
Un giorno, se ne avrò tempo e voglia, dovrò ricostruire tutti i vari passaggi
delle loro storie, che a volte la buona Fassio mi sorprende andando avanti ed
indietro nel tempo, e buttando là avvenimenti che si pensa noi si debba sapere,
ma non sempre è così. Anche in questo nuovo episodio, io mi aspettavo una
“consecutio sermonum” (che come ogni buon latinista sa, indica una concordanza,
temporale, degli eventi) più stringata. Invece, qualche buco affiora qua e là.
Sarà forse perché buona parte della trama è basata, o incentrata, intorno ad
avvenimenti legati all’Alzheimer, in modo vero o fittizio. Malattia che ha
colpito da tempo (e lo sappiamo) il padre dell’agente Ida; malattie cui molti
personaggi girano intorno per cercarne un rallentamento; malattia che sappiamo
ora colpisce anche Aurora. Ora, vi siete di certo domandati, com’è che salta fuori
questa Aurora? Io non ricordo di averne sentito parlare, ma qui scopro essere
stata moglie di Maffina, prima che questi divorziasse, si mettesse con Annalisa
Benvenuti, lasciasse anche questa seconda per mettersi, forse definitivamente,
con la più giovane Erica (non dite che avete sentito altrove un eco di queste
storie che non vi rivolgo più la parola). Con la solita capacità di mescolare
un po’ tutto, e con l’abilità di non perdersi nelle trame, la nostra imbastisce
quindi una storia che vede da un lato ricercatori che provano a sintetizzare
molecole anti-malattia, e clan mafiosi (in questo caso la ‘ndrangheta) che
cercano di entrare nel gioco per i loro affari. Non è semplicissimo, almeno per
un po’, star dietro a tutte le pietre che mette in campo la scrittrice: un
omicidio di mafia avvenuto anni prima, una fabbrica di medicinali in Spagna che
salta per aria, Mimmo, un “omo de panza” che da Milano tira (o dovrebbe tirare)
le fila del business per conto dei calabresi, un omicidio all’apparenza fuori contesto
al centro di Milano. La brava scrittrice incarta il tutto anche con cartine
personali: Aurora che prima di morire vuol rivedere Maffina, il vice-questore
che va in Spagna e, oltre ad assistere gli ultimi tempi della ex, si imbatte
nella fabbrica di cui sopra. Dove avevano lavorato sia Adele (la ragazza uccisa
a Milano) sia Omar, biologo calabrese che gira laboratori di ricerca in tutta
Europa. Abbiamo anche avvisaglie che il rapporto tra Erica e Antonio abbia dei
sussulti. Scontentezza di Erica, un po’ di remi in barca di Maffina. Certo
ricordiamo che Erica aveva pensato all’agente Rigon, che qui si defila e si
fidanza altrove. Un primo grosso bandolo della matassa lo scopriamo quando
viene alla luce che il 90% dei personaggi implicati viene da Melito, dove regna
incontrastata Filomena Scopesi, parente di Saro, inutile marito di Rosaria,
sorella di Adele. E da Milito vengono anche Mimmo e Omar. Un caso? Non sembra
possibile. Il clan Scopesi cerca di entrare nel business dell’Alzheimer,
mettono in difficoltà i laboratori che producono farmaci alternativi. Peccato
che Saro sbaglia la mira, uccidendo in Spagna tre persone. Peccato che Filomena
voglia far piazza pulita non del cugino ma degli altri che in Spagna e altrove
sembrano aver sbagliato. Come anche di Mimmo che, arrestato, pare voglia aprire
il sacco, ma che muore prima di poterlo fare. La Fassio cerca anche di
imbrogliare un po’ le carte, mettendo in mezzo anche gli strani personaggi che
girano intorno alla clinica di Milano, imbrogli cui noi guardiamo ma non
caschiamo. La trasferta di Erica a Melito, sulle tracce dello scomparso Omar,
darà fuoco alle polveri, scatenando l’anello debole della cosca in una vendetta
personale, utile a far piazza pulita dei cattivi, ma poco utile a fermare i
giochi. Che vedranno altre puntate? Non lo sappiamo, per ora ci basta aver
seguito il mondo della Fassio, con tutti i suoi personaggi, piccoli ma ben
delineati, grandi che comunque, anche marginalmente, continuano ad esserci
nelle sue storie. Peccato che Maffina sia un po’ defilato, anche se utile.
Peccato che Erica continui a farsi troppe pippe mentali sul passare del tempo e
sul rapporto con gli altri (e non è un caso che ci siano qua e là i suoi
colloqui con lo psicologo). Comunque, anche se con pochi inserti musicali, un
buon libro, costruito con un discreto ritmo, anche utilizzando mezzi diversi
(narrazione, posta elettronica, verbali, deposizioni ed altro materiale
eterogeneo). La quasi ottantenne signora del giallo genovese continua a
deluderci poco, e noi continuiamo a leggerne.
Che dire di altro? Domani arriva
la cucina, e speriamo non ci siano altre sorprese campagnole. Continua
l’organizzazione del viaggio scozzese, con pochi scossoni (ma forse troppi
partecipanti).
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