Una settimana, sulla spinta di
Oz, dedicata a “Come fare a…”. Come fare a scrivere un brutto saggio su di un
buon argomento, come fare a ridere anche dell’invivibile situazione romana (e
italiana), come fare a viaggiare e continuare a viaggiare sempre con piacere.
Ed ovviamente, come fare a curare un fanatico delle sue turpi idee. Sempre, con
allegria ed un sorriso. Che niente disarma di più. E nell’allegato, abbiamo
anche un come fare a liberarsi con un pianto. Che settimana, ragazzi!
Roald Hoffmann “Chimica e poesia” Castelvecchi s.p. (Natalino di
Rosanna)
[A: 25/12/2017 – I: 25/12/2017 – T: 25/12/2017] - &
[tit. or.: originale; ling. or.: inglese; pagine: 40;
anno 2017]
Non stupitevi se
il titolo è originale in italiano, mentre il testo è tradotto dall’inglese. Si
tratta di una breve conferenza tenuta dal chimico e premio Nobel Roald Hoffmann
nel 2013, a Cagliari nell’ambito del festival “Leggendo Metropolitano” dedicato
al tema “Legami”. Ma mentre non posso che parlare bene del festival, che tra
l’altro ha prodotto un bellissimo pamphlet di Andrea Bajani in ricordo
dell’amico Tabucchi, dedicato ai legami amicali, non riesco a parlare bene di
queste scarne quaranta inutili pagine. Certo, l’autore è senza dubbio un
personaggio interessante. Nato in una cittadina allora polacca (ora in Ucraina)
80 anni fa, viene rinchiuso in un ghetto, da dove fugge con la madre nel ’39,
poi, dopo aver vagato fuggendo “di gente in gente”, nel ’49 la famiglia
Hoffmann riesce ad emigrare in America. Dove studia alla Columbia University,
si laurea in chimica, e nel 1981 ottiene il Premio Nobel per la spiegazione
teorico-pratica di alcune regole di reazione chimica dette “regole di
Woodward-Hoffmann”. Da sempre dedito anche alla poesia ed alla divulgazione,
dal 2007 si ritira dall’insegnamento e dalla ricerca dedicandosi solo alle
attività collaterali. Di certo non poteva che essere un esploratore di nuovi
mondi, in chimica, in poesia, o in altro una persona che viene battezzata Roald
in onore del grande norvegese Amundsen. Questo breve testo si inserisce proprio
in questa falsariga, ricerca ed altre attività, riprendendo, accanto alla
chimica, quella che per Roald è la seconda attività: il poetare. Tuttavia non
riesce a dare nessun elemento decisivo, coinvolgente, se non per alcune
affermazioni, che certo possiamo condividere, ma che sarebbero ugualmente
condivise se fossimo in un bar, con in mano un martini, ed intorno
un’apericena. Roald ci dice che la chimica è la scienza dei legami e della loro
scoperta. Roald afferma, ed io gli credo anche senza prove, che le strutture
composite dell’emoglobina hanno la bellezza di un cattedrale gotica (ed io
penso piuttosto alla “Sagrada familia” di Gaudì a Barcellona). Certo la mia
scarsa vena nei confronti di questo libretto è di certo anche dovuta al fatto
che la chimica è stata sempre una materia ostica nel mio percorso scolastico
(anche se di molto superiore al disegno in cui sono stato sempre l’ultimo in
tutti i campi). Non solo, anche la poesia, lo ammetto, se non nei facili versi
che ritornano sempre alle mie labbra con Foscolo, Leopardi e Carducci, per il
resto è un territorio oscuro, un “hic sunt leones” che difficilmente vado ad
esplorare. Credo senza discutere che sia interessante la congiunzione tra
scienza e poesia operata in alcune Epistole di Alexander Pope del Settecento.
Credo altresì che la descrizione della simmetria chimica nella struttura del
TiNiSi (supposto che qualcuno sappia cosa sia) riportata a pagina 15 sia per me
altrettanto misteriosa che per voi (ed io ho sicuramente una formazione più
scientifica di altri). Il percorso che Roald vorrebbe farci seguire in queste
poche pagine potrebbe quindi riassumersi: nei secoli d’oro delle scoperte e
della poesia (vedi Pope) era possibile usare un linguaggio comune e
comprensibile per descriverle entrambi. Durante l’Ottocento, l’avvento della
Rivoluzione Industriale nel campo economico e del Romanticismo nel campo
letterario, ha allontanato queste due anime. Che però guadagnerebbero se
potessero ricongiungersi. Ora, se posso essere d’accordo con lui che spesso e
volentieri il linguaggio scientifico è solo per iniziati (ma poi abbiamo i
Friedman o i Rovelli che riescono a capovolgerlo e farcelo capire), ed una sua
maggiore umanizzazione sarebbe utile a tutti, non credo molto nel viceversa.
Vero che la poesia lavora per ellissi, per metafore che bisogna decrittare. Ma
la descrizione di un fulmine o di uno tsunami come ce li presenta nella parte
finale del libretto non riescono ad aprire nessuna breccia in questa direzione
almeno per me. Come risalta meglio le mie corde qualcosa come “sotto il
maestrale urla e biancheggia il mar”, rispetto alla citazione di Roald “you are
a wave / which will not be (Fourier) / analyzed.” [tu sei un’onda / impossibile
da (con le serie di Fourier) / analizzare], dalla poesia “Tsunami” di Roald
Hoffmann. Illeggibile. Intrasmettibile. Certo, e finisco, l’atto creativo
prescinde dalla materia utilizzate. Si è creativi in chimica, in poesia, in
letteratura. Anche nella mia adorata matematica, quando rivedo un 2017 come
numero primo e no come anno disgraziato. Ma queste quaranta paginette non mi
danno gusto di convincermi o di approfondire la materia. Le trovo inutili, con
dispiacere per il chimico che tanto forse vi ha speso. Ma più che legami chimici
(“enlaces quìmicos” come direbbero i miei amici spagnoli) parlerei di “¡Átame!”,
come direbbe il grande Pedro Almodovar. Sperando che ne cogliate il doppio
senso…
Amos Oz “How to Cure a Fanatic” Vintage s.p. (regalo di Alessandra)
[A: 09/12/2017 – I: 04/01/2018 – T: 05/01/2018] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: inglese; pagine: 102;
anno 2004-2012]
Inizio subito col
dire che Oz, quando ne leggo, parte almeno da tre libri se non di più, visto
che da anni trovo ottima la sua scrittura e lui degno di un Nobel. Se lo danno
ad Ishiguro, Oz ne può avere a decine. Secondo elemento che caratterizza questa
libro e questa lettura, è il fatto che, nel nostro Natale gerosolimitano,
Alessandra, sempre prodiga di buoni regali, me ne ha voluto fare dono, a
suggellare una visita in Terrasanta che ben si lega al tema del libro. Il terzo
elemento di interesse e curiosità e vicinanza tra libro e realtà, è dove lo
abbiamo trovato e preso. Nella libreria dello Yad Vashem, l'Ente nazionale per
la Memoria della Shoah di Israele, durante una toccante visita al Museo stesso
(e prima di una bislacca intrusione in una manifestazione – scontro tra polizia
e palestinesi, in seguito alle sciagurate parole di Trump). Già tutto questo ne
fa un libro eponimo, che è bene completare con alcune notazioni in margine. Il
nucleo originario sono due discorsi tenuti in Germania nel 2002, in inglese,
uno titolato come il libro, l’altro dal titolo “Between Right and Right”. A ciò
si è aggiunta una breve intervista riportata per sommi capi e questioni,
concessa da Oz nel 2012, e che aggiorna, in alcuni punti anche se non nel
“corpo” essenziale, le prese di posizione del libro. Infine, dopo averlo
acquistato, la sera siamo andati in centro di Gerusalemme nuova, per cenare
allo Tmol Shilshom Cafè, dove, il retro del menu è costituito da una
foto di … Oz. Bene, venendo ora alle parole dello scrittore, quali sono i punti
fondamentali che nei discorsi in Europa ha voluto sottolineare? Sottolineo in
Europa, perché il taglio degli interventi è in parte rivolto a noi europei ed
al nostro stare a guardare cosa avviene nella sua terra natale. Il primo elemento
è riconoscere, come ognuno dovrebbe anche se non è né facile né semplice, che
ci troviamo di fronte allo scontro tra due diritti. I diritti degli ebrei alla
loro terra promessa, alla terra della diaspora, alla terra vista da Mosè dal
Monte Nebo. I diritti dei palestinesi alla loro terra natale, quella dove sono
nati, quella che per duemila anni è stata vissuta come patria. Oz interpreta
quindi il conflitto che si svolge sul suo suolo come appunto tra due diritti
entrambi validi. Non sarà mai possibile fare un passo in avanti verso la
risoluzione del conflitto se entrambe le parti in causa non riconosceranno
l’esistenza di questi diritti. Che sono sì contrapposti, ma che, accettati,
potrebbero portare ad un compromesso. E come ben sappiamo, un compromesso è una
soluzione che, scontentando tutti contendenti, cerca di trovare una mediazione
accettabile. Altrettanto correttamente, Oz battezza il conflitto come
“israelo-palestinese” e non “ebreo-arabo”. Non è, se non nelle intenzioni degli
opposti estremismi, un conflitto religioso, ma è un conflitto “immobiliare”.
Come dice ad un certo punto, un conflitto che fa nascere buoni vicini quando
vengono definite buone recinzioni. Ma proprio l’accenno agli estremismi, dà il
via al secondo intervento, in cui Amos cerca di delineare il carattere dei
fanatici. Rimando, come lui rimanda, al suo bellissimo libro per adolescenti
“Una pantera in cantina” (da me discusso il 13 dicembre 2015), per una visione
del fenomeno del fanatismo con gli occhi semplici dei ragazzi. Ma quello a cui
Oz, e noi con lui, vogliamo arrivare è (come dice il titolo) una cura per tale
fanatismo. Anche qui, due e complementari azioni sono fondanti per non cadere,
nessuno di noi, nel fanatismo: il senso dell’umorismo e la letteratura. I
fanatici non hanno, proprio per la loro natura assolutista, il senso
dell’umorismo e del ridicolo. Se guardiamo all’oggi, una persona che può dire
senza ridere “Io non sono un idiota, sono un genio” (discorso epifanico di
Trump), è sicuramente un fanatico. Uno che è assolutisticamente convinto che è
nel giusto, che le sue idee sono quelle corrette (ma questo potrebbe essere
anche un buon punto) e che tuttavia vuole costringerti ad accettarle, a farle
tue. Il fanatico, senza sorridere, può dire: io ti ucciderò per salvarti dalle
tue idee che non sono le mie, perché solo le mie sono corrette. Tutto il
contrario del mio atteggiamento volterriano, io lotterò fino alla morte per
farti esprimere le tue idee, anche se non le condivido. Il punto finale di
questi discorsi, tuttavia, è quel rispetto degli accordi di Ginevra del 2003,
quelli dei “due stati” che, seppur all’epoca giusti e condivisibili, ora li
vedo, per molti motivi, datati. Perché sono passati troppi anni senza fare un
passo avanti, perché il conflitto si è impadronito di tutte le pietre di quelle
terre, e per altri motivi, forse non consoni ad una così lieve analisi. Questa
ritengo sia l’unica pecca del breve scritto, pecca che lo colloca nel tempo,
lasciando ben vedere i 15 anni trascorsi. Io che amo quelle terre, che, dopo
Roma e Parigi, ho visitato Gerusalemme maggiormente che ogni altra città al
mondo, posso dire che ora, se fossimo tutti realisti, se fossimo tutti “meno
fanatici”, dovremmo lavorare per uno stato con due popoli che convivono. E con
una città, Gerusalemme, vista come uno stato extra-territoriale da ognuno. Una
città religiosa per tutti, e dove tutti possano andare per la religione, per la
storia, per le radici di tutta l’umanità. Sono passati 25 anni dal mio primo
viaggio in Terrasanta, ma se domani tu mi dici: andiamoci! Io faccio il trolley
e vengo.
Jean-Yves Ferri & Didier Conrad “Asterix e la Corsa d’Italia”
Panini euro 12,90
[A: 03/04/2018 – I:
08/04/2018 – T: 08/04/2018] - &&& -
[tit. or.: Asterix
et la Transitalique; ling. or.: francese; pagine: 48; anno 2017]
Trentasettesimo episodio della
saga di Asterix e terzo senza più i “padri fondatori”. Rispetto ai due
precedenti, pur con qualche sicuro episodio di discreta ironia, perde un po’ di
mordente. Soprattutto la storia in sé non è sostenuta benissimo da una trama
valida. Una corsa a tappe per l’Italia (su cui torniamo più avanti), cattivi
che vogliono vincere barando, intervento di Giulio Cesare quasi fosse un
Mattarella nostrano, e solita buona riuscita dei nostri. Non molto di più,
nella trama. Dicevo corsa a tappe, ma più che altro una specie di mini-mille
miglia rivisitata. Non è infatti un “Giro d’Italia”, come il famoso quinto
album “Asterix e il giro di Gallia” avrebbero fatto sperare, perché la corsa
dura solo cinque tappe. Ripeto Millemiglia, con partenza da Monza invece che da
Brescia (dove poi si tronava dopo essere scesi fino a Roma), per poi scendere
lo stivale attraverso Parma, Siena, Tivoli ed arrivo finale a Napoli. In
francese poi, non si parla giustamente di “tour” ma di “transitalique”. Il
punto di partenza rilevante è poi l’accusa palese allo stato delle strade
italiane, in seguito anche alla vicenda Raggi – buche di Roma, che ha presa
anche nell’immaginario d’Oltralpe. Il resto sono piccole gag che comunicano
comunque il benvolere degli intellettuali francesi se non per l’Italia attuale,
per quanto l’Italia e gli italiani hanno fatti. Il libro, infatti, è costellato
di citazioni e rimandi che al solito fa piacere cogliere. Vediamo due
giornalisti che commentano la gara con i tratti di Roberto Benigni e Bud
Spencer (pagine 15 e 22). Da pagina 22 a 24 l’anfitrione che accoglie i
corridori e fa il canto del gallo per la partenza al mattino ha i tratti di
Luciano Pavarotti. Non essendoci macchine fotografiche, qualcuno fa disegni volanti
dei corridori, ed appare così a pagina 26 Leonardo da Vinci. Nella folla a
pagina 28, con un cesto pieno d’uva appare Monica Bellucci. Nella stessa
pagina, da una finestra della campagna toscana, sorride ad Asterix Monna Lisa.
Poi, a pagina 41, una cameriera di un albergo-spa di Tivoli riprende il fisico
di Sophia Loren. Infine, per chiudere il conto con le citazioni politiche,
Crésus Lupus, magnate che sponsorizza la corsa, non è altro che Silvio
Berlusconi, che a pagina 44 fa un’offerta ad Obelix “che non può rifiutare”
(nemesi di un avvertimento mafioso?). Inoltre, citazione di Monza per la
partenza in onore del bellissimo autodromo, una scena ilare in Piazza del Campo
che rimanda alla nascita del Palio di Siena. Infine, un lancio di un menhir da
parte di Obelix tappa il Vesuvio impedendo con più di cento anni di anticipo
una possibile catastrofica eruzione. Ovvio poi che non solo di italiani si
prende in giro. Ricordando i più palesi, abbiamo le principesse Kush, regno
africano al sud dell’Egitto, con i tratti delle sorelle Williams. Mentre
l’auriga campione romano, che non è cattivo ma solo traviato, viene nominato
come Testus Sterone, ed ha la faccia di Alain Prost. Qui abbiamo un buon
intervento di Vania Vitali e Andrea Toscani, i traduttori, dove, quando Alain
Prost, ripensando alla perdita della villa di Capri, in francese canta “Pour
moi, Capri c’est fini!” celebre canzone di Hervé Vilard, in italiano viene
riprodotta invece “Luna caprese” celebre hit nostrana di Peppino di Capri.
Rimanendo ai traduttori, infine notiamo la trasformazione del venditore di
carri da corsa da Pocatalitix nel solo Catalitix. Le due principesse Kush, poi,
che in originale suonano Toutunafer e Niphéniafer, per renderne le fattezze
vengono ribattezzate Tutakosh e Tutanpeth. Altri accenni di ironia
plurinazionale: il bretone (inglese) chiamato Ecotax, i concorrenti lusitano
(portoghesi) Micafés e Pescelés. Difficile rendere il povero concorrente belga
Nonantesix miseramente tradotto con Vanbrusselix (il calembour francese si basa
sul fatto che in Belgio per dire “novanta” non usano la locuzione
“quatre-vingt-dix” ma “nonante”). I sarmati che quando parlano hanno alcune
lettere scritte allo specchio (E, F, N, R) per ricordare l’alfabeto cirillico.
Per ultimi abbiamo anche i cimbri (danesi) Zerøgluten et Betåkårøten, con le
scritte piene delle strane lettere nordiche (le “Ø” e le “Å”, per esempio). Qui
purtroppo si perde un po’ l’ironia nella traduzione, che i cimbri sono schiavi
del maneggione che organizza la corsa, Lactus Bifidus. Ed i nostri autori non
perdono tempo ad imbastire una serie di gag sull’assonanza tra “cimbres” e
“timbres” (francobolli), come “facciamo parte della sua collezione” o in cambio
del tradimento Bifidus “aveva promesso di affrancarci”. Infine, una battuta di
Giulio Cesare che per spronare il cattivone all’azione gli intima “Bifidus sois
actif”, con evidente allusione allo yogurt. Ripromettendomi sempre di entrare
anche più a fondo nell’ironia di Asterix, termino con la costatazione che
comunque a me questo fumetto piace, solletica i miei pochi neuroni. Tanto che
difficilmente, anche nelle prove non maiuscole come questa, riesce a scendere
sotto la sufficienza. Anche se non credo che riuscirò mai a riprendere la vetta
del terzo album, quando il buon Marcello Marchesi, traducendo il fumetto,
vedendo i goti battersi contro i goti, fa esclamare ai nostri “Che goturia!”.
Federico Pace “Controvento – Storie e viaggi che cambiano la vita”
Einaudi euro 14
[A: 05/10/2017 – I: 14/04/2018 – T: 16/04/2018] - &&&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 167;
anno 2017]
Uno dei libri nati
dall’urgenza di aggiornare le letture sull’onda di buone uscite recenti. Libro
ben venduto nel ramo saggistica e che concordo nel ritenere di interessante
lettura. Che nelle scarne 167 pagine ripropone 27 bozzetti di personalità
famose colte in momenti di viaggio, che siano lungi viaggi in nave o brevi
passeggiate in montagna. Ognuno con un momento fondante che lo lega a
quell’istante, a quella storia. Trovando in quel momento, in quell’istante un
motivo per l’affermazione, a volte soltanto e fortemente personale, del proprio
sé. Per mettersi controvento e navigare, anche se faticosamente, nell’ampio
mare della cultura a tutto tondo. Sono 27 mini-ritratti, che hanno un pregio ed
un difetto: sono corti e riferiti, a parte uno o due, a persone note, o ben
note, che seguiamo in uno scampolo di vita, breve e intenso. Sono al 95%
preceduti da un paragrafo più o meno lungo che svaria liricamente, cercando di
dare, nella volontà dell’autore, il senso del tipo di cambiamento che quel
viaggio, quel momento ha portato alla persona in oggetto. Purtroppo questo
paragrafo è lirico ma rompe i ritmi della lettura. Meglio sarebbe un attacco
secco, si va al punto, si parla del nostro, si dice anche che viaggio sta
facendo, perché, cosa porta. Prendere subito per le corna Oscar Niemeyer
ed il suo viaggio in macchina verso dove costruirà Brasilia. Ma perché non
ricordare che il nostro architetto morirà a ben 105 anni? Vedere Milena
Jesenská che torna a Praga, dopo l’intensa storia con Kafka, per scoprire un
nuovo amore; ma poi morirà nel ’44 in un campo di concentramento. E poi
l’amicizia tra Bioy Casares e Borges. I viaggi per mare di Gauguin e quelli per
terra di Van Gogh. La lunga trasferta in macchina dal Maine alla California di
Joni Mitchell, e quella più breve, ma che porterà ad un concerto irripetibile,
di Keith Jarrett dalla Svizzera a Colonia. E la lunga ricerca in macchina di
Brodskij sulle tracce di Auden. Le passeggiate a piedi di Erik Satie verso il
centro di Parigi (ma che dire della sua stanza piena di ombrelli mai aperti?).
L’autobus verso il centro ed il mestiere di “coiffeur” di Richard Luchini, che
lì diventerà Fabrice. Il trano Transiberiano di David Bowie e quello
transandino di Garcia Márquez. La nave di Einstein che solca l’Oceano e lascia l’Europa
e la barbarie naziste ed il mar Mediterraneo di Charles-Edouard Jeanneret detto
Le Corbusier, che trova ispirazioni tra le onde, e che morirà di infarto mentre
vi nuota a 78 anni. E poi la nave di Frenando Pessoa quando torna verso la sua
Lisbona dall’esilio paterno in quel di Sudafrica. O l’analogo viaggio, ma in
aereo, del medico scrittore Antonio Lobo Antunes, sempre verso Lisbona, ma
dall’Angola. I diversi ritorni: Anna Maria Ortese, o Naipul in India, Marc
Chagall in Bielorussia o Frida Kahlo in Messico per la morte della madre. Per
non dimenticare il bellissimo approccio di Cortazar nella studiosa Mendoza.
Studio per studio, mentre non mi muove molto la gita in montagna di Beckett con
il padre (e ritengo più significativo il suo viaggio mentale, quando in una
lezione universitaria tenne una dotta conferenza su di un autore da lui
inventato). La tristezza di Elizabeth Bishop per il suicidio della sua amante
Maria Carlota de Macedo Soares, per cui lascerà per non tornarci più il
Brasile. E quella di Jacqueline Du Pré, che si è felice dell’avventura musicale
con il marito Daniel Barenboim, ma si accorge anche di essere afflitto da
sclerosi multipla, che le impedisce presto di continuare a suonare l’amato
violoncello. Tralascio perché sono parti che non mi hanno coinvolto, María
Zambrano, J. M. Coetzee e Salman Rushdie, per finire con Dmitrij Šostakovič, la
musica nella splendida Leningrado, la parabola di alti e bassi che costeggiò
tutta la sua vita, dai tronfi trionfi dell’apologia dello spirito russo, alle
rivolte musicali, ai lavori su testi di Evgenij Evtušenko. Dove ho notato
l’unica imprecisione (o almeno, l’unico che ho visto essere imprecisione)
laddove Pace indica la dedica a Stalin della dodicesima sinfonia, che invece a
me risulta essere dedicata a Lenin. Un sbaglio non da poco. Spero che questo
viaggio tra i nomi vi abbia convinto non tanto a leggere il libro, che comunque
è interessante, ma a leggere delle persone citate, delle loro opere, delle loro
vite. Ed anche, ovvio per me, della loro musica: Joni Mitchell e Keith Jarrett,
su tutti e tutto. Per me.
“Non c’è mai cosa che accada … nel modo in
cui ce la siamo prefigurata.” (37)
“Nessuno sa mai come reagirà a ciò che sta
per accadere … Ciascuno, in fondo, è davvero quel che è solo quando viene
costretto a misurarsi … con un avvenimento che lo può travolgere.” (97)
“I viaggi aprono varchi su ciò che stiamo
diventando.” (147)
Seconda trama, dedicata al
bisogno di un bel pianto per uscire da cattive situazioni, per scordarsi delle
brutte cose, per andare avanti, per stare con gli amici e gli amori. Com’è
difficile piangere, invero.
Continua il giugno di lavori, ma
si è anche conclusa, almeno numericamente, la vicenda scozzese. Abbiamo in
giugno 15 persone che verranno con me in una volta tra Edimburgo ed Inverness.
Staremo a vedere.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i
“bugiardini” di Giovanni
GIUGNO 2018
Sarà l’aria che gira, ma dopo due
mesi “in positivo”, eccoci a parlare di bisogno di piangere. Un bisogno vitale,
a volte, per uscire da situazioni senza sbocco. E spesso non è così facile come
si crede.
PIANTO, BISOGNO DI UN BEL
A
volte dobbiamo solo sfogare tutto il dolore, che si tratti di un cuore
spezzato, di un cimelio di famiglia che si rompe o di ormoni fuori controllo.
Prendete questi romanzi, con un pacco di fazzoletti e un brandy.
I DIECI MIGLIORI ROMANZI CHE VI FARANNO
PIANGERE
Carlo
Cassola “La ragazza di
Bube”
Gabriel
García Márquez “L’amore ai tempi del
colera”
Alberto
Moravia “La ciociara”
David
Nicholls “Un giorno”
Juan
Carlos Onetti “Gli addii”
Pier
Paolo Pasolini “Ragazzi di vita”
Boris
Pasternak “Il dottor Zivago”
Edmond
Rostand “Cyrano de Bergerac”
Antonio
Skàrmeta “Il postino di Neruda”
William
Styron “La scelta di Sophie”
Bugiardino
A parte Pasolini, tra letture e
cinema, nove libri che ho attraversato nella mia vita. Ricordo Claudia
Cardinale ne “La ragazza di Bube”, Sophia Loren ne “La ciociara”, Julie Christie
ne “Il dottor Zivago” o Meryl Streep ne “La scelta di Sophie”. Ricordo molto
nebulosamente di aver letto, una quarantina d’anni fa, il libro di Onetti.
Ricordo, e posso citarne a memoria, il duello nella sala Borgogna tra il signor
di Bergerac e “un buffone”. Gli altri, oltre al ricordo, sono presenti nelle
mie trame.
Gabriel Garcia Marquez “L’amore ai tempi del colera” Mondadori euro 9,50
[tramato
il 18 giugno 2017]
Mi
ero accostato con un po’ di timore ad un ulteriore libro di Gabo, dopo che le
ultime letture mi avevano sinceramente deluso. Non che volessi tornare
all’epifania interna che mi sconvolse con “Cento anni”, ma mi sarebbe bastato
tornare al piacere di una bella lettura come quella del giovanile “Racconto di
un naufrago”, dopo aver passato le pene a sopportare la candida Erendira o il
tramonto del patriarca. Timore che era un po’ mitigato dalla spinta verso la
lettura che mi stavano dando sia le libropeute di “Curarsi con i libri”, che lo
consiglia ai settantenni o per farsi un bel pianto, sia l’allegra Giulia Fiore
che lo consiglia come antidoto a “Il grande Gatsby”. Buoni consigli, ed
altrettanto buona lettura. Qui, il quasi sessantenne Gabo riprende il bandolo
dei suoi giri infiniti, dei suoi mille personaggi, che poi a ben vedere si
riducono a due o tre, e ci trascina in meno di quattrocento pagine alla ricerca
di uno sbocco ad una vicenda che, bene o male, durerà una sessantina di anni.
Lo fa con la sua vecchia maestria, cominciando da un punto A, spostandosi a B,
poi a C e D, ed intessendo tutto un intreccio di situazioni e di svolgimenti,
che mi hanno tenuto incollato alla pagina più di quanto mi aspettassi.
All’inizio ero un po’ dubbioso, seguendo le pagine sulla morte dello strano
Jeremiah de Saint-Amour, starno personaggio, piombato all’improvviso nella
cittadina teatro della vicenda, ricucitosi uno spazio di vita come fotografo e
di relazioni come giocatore di scacchi. Personaggio che decide di non dover
invecchiare ed a sessanta anni si uccide. Morte che coinvolge e sconvolge il
suo compagno di scacchi, il dottor Juvenal Urbino. Di cui vediamo i turbamenti
per la morte, che cominciamo a seguire con le sue manie di vita, con le sue
esuberanze sociali, conosciamo di sfuggita la moglie Fermina Daza. Veniamo ben
presto coinvolti nella vita del dottore, nel ricordo dei suoi viaggi giovanili
a Parigi, delle sue dotte lezioni di medicina, delle sue letture. Venendo
all’improvviso coinvolti nella sua morte, lo stesso giorno dell’amico, per una
caduta accidentale e ben ridicola. Prende allora il centro della scena la
moglie Fermina, che sembrava sino ad allora vissuta nell’ombra del marito
importante, ma che esegue i giusti passi per il funerale, per il ricordo, per
il rapporto con il figlio Urbino Daza, anche lui dottore, e con la figlia
Ofelia. E nel momento culminante di questo inizio pirotecnico abbiamo lo
squarcio che farà girare tutto il romanzo. L’anziano a sua volta Florentino
(sia lui che Fermina sono poco oltre i 70), che alla fine del funerale dichiara
il suo imperituro amore a Fermina. Un amore che dura quasi nascosto da 53 anni,
7 mesi ed 11 giorni. Dichiarazione che permette all’autore una capriola appunto
di più di cinquanta anni all’indietro, dove ritroviamo la giovane Fermina,
assediata dalle lettere e dalle poesie di Florentino. Siamo nella fine
dell’Ottocento, non facili sono i rapporti tra maschi e femmine. Inoltre
Fermina è figlia di un oscuro malversatore, che finirà i suoi giorni tornando
scornato in Spagna, mentre Florentino è figlio naturale di uno dei maggiorenti
locali. Ma non riconosciuto, quindi di poco peso sociale. Inoltre Florentino ha
un suo aspetto triste, è aiuto-telegrafista, miope. Ha solo la parola dalla
sua, novello Cyrano di sé stesso. Seguiamo allora Fermina che decide di
lasciarlo per sposare senza amarlo il ricco Juvenal, con cui costruirà un
rapporto bene o male felice nel corso degli anni, con picchi di bellezza e di
amore e con abissi non proprio di dolore, ma di crisi. Che verranno superate,
avendo sempre ormai la nostra buona Fermina seppellito il ricordo del giovane
amore con Florentino. Che invece non si rassegna, che decide, lì sui venti anni
che quella sarà sempre e per sempre la sua donna. E che comincerà la sua
scalata sociale, aiutato dalle sue capacità e dal padre naturale che gli offre
la possibilità di sfruttarle. Vediamo Florentino perdere la verginità del corpo
su di un battello fluviale. Ma anche salire, gradino dopo gradino, proprio le
fortune dei battelli, di cui alla fine diventerà il capo e padrone indiscusso.
Avrà anche la capacità di soddisfare i suoi ardori, andando a letto con 622
donne come puntigliosamente registra nei suoi diari. Il funambolismo di Gabo ci
fa quindi saltare di donna in donna, seguendone brevemente il fugace rapporto
con Florentino, ma dipingendole a tutto tondo. Anche l’ottima Leona, l’unica
con cui non andrà a letto, ma che sarà il motore segreto della sua ascesa. Dopo
questa lunga cavalcata, allora ritroviamo i nostri due eroi, anziani ma non
vecchi. Dove vediamo Florentino riprendere il leggero corteggiamento, delicato
e pieno di un tatto sempre presente nelle sue manifestazioni, anche quando
sembra non essere capace di mantenersi centrato. Vediamo Fermina leggere le sue
lettere, capire i percorsi suoi e del suo amor di gioventù. Gabo ci infioretta
tutta una bella parte su queste basi, mettendoci dentro anche i corpi di questi
due settantenni, il loro scivolare verso la inevitabile morte, che
fortunatamente non vedremo. Fino però ad imbarcarsi su una delle navi della
flotta di Florentino, quasi a ripercorrere una fuga giovanile di Fermina verso
parenti che le facessero passare i dolori e quel momento d’amore di Florentino.
Cosa succederà sulla nave, dovrete leggerlo, perché è il momento chiave del
libro. E non ve lo anticipo. Tutto il libro è corso via su questi binari, l’ho
letto legato alla pagina nei pochi momenti liberi di queste giornate ad altro
dedicate. E vi confesso che avrei anche dato maggior punteggi, se non ci
fossero alcuni passi che mi hanno lasciato un po’ di dubbi. Uno su tutti, il
famoso diario di Jeremiah, di cui tanto si parla nelle prime pagine, che mi
aveva solleticato, ma di cui poi se ne perde traccia. Con dispiacere. Un libro
sulla vecchiaia e sull’amore e sul fatto che comunque possano convivere. A
dispetto di tutti.
“Era ancora troppo giovane per sapere che la
memoria del cuore elimina i brutti ricordi e magnifica quelli belli, e che
grazie a tale artificio riusciamo a tollerare il passato.” (116)
“Un uomo sa quando comincia a invecchiare
perché comincia ad assomigliare a suo padre.” (183)
“Con lei … aveva imparato quello che aveva
già provato più volte senza saperlo: che si può essere innamorati di diverse
persone al contempo … senza tradirne nessuna.” (293)
“È incredibile come si possa essere tanto
felici per così tanti anni, in mezzo a tante baruffe, a tante seccature … senza sapere in realtà se è amore o se non lo
è.” (356)
David Nicholls “One day” Hodder euro 11,90
[tramato
il 1 novembre 2011]
Nei
giorni scandinavi, pur avendo portato una buona riserva, a causa comunque delle
limitazioni di peso, ad un certo punto i libri sono finiti. Certo, mi sarebbe
piaciuto leggere qualche autore locale, ma nessuna delle tre lingue scandinave
è alla mia portata. E mi sembra tuttora un controsenso leggere un autore
scandinavo tradotto in inglese. Allora ho optato per un libro che (secondo i
giornali locali) è in testa a tutte le classifiche di vendita dei paesi freddi.
Perché lì l’inglese lo usano, e fanno anche la Top Ten dei libri in lingua
originale. La mia scelta è quindi caduta su questo giorno di David Nicholls.
Non conoscevo l’autore inglese, che ho scoperto quarantacinquenne ex-attore e
sceneggiatore (studiò in gioventù con Colin Firth). Ed ho scoperto anche
(tornando in Italia) che questo suo libro era uscito (tradotto per Neri Pozza)
ed era anche piaciuto a qualche mio amico. Buon segno? Probabilmente sì, anche
perché l’idea di base, forse già sfruttata altrove, è ben resa da Nicholls.
Seguiamo le vicende dei nostri due protagonisti, Dexter ed Emma, in un unico
giorno dell’anno, per venti anni dal 1988 al 2007. Sempre e soltanto il 15
luglio. Ci vuole un po’ di tecnica, e questa Nicholls ce l’ha, per farci entrare
nel giorno dell’anno seguente, e riassumere (per sommi capi, ma mai in modo
pedante) cosa sia successo nell’anno passato. A partire da quel primo venerdì,
in cui c’è l’incontro d’amore e di sesso fra i due giovani quasi ventenni. Poi
li seguiamo, quasi come alter ego sdoppiati dello stesso Nicholls, nel corso
degli anni. Che Dexter entra in televisione, ne viene buttato fuori (come
Nicholls dopo la cancellazione dei suoi programmi nel 2002). Che Emma tenta di
scrivere per il teatro e recitare, poi comincia a scrivere libri (come David
sempre nel 2002). E seguiamo il loro intrecciarsi, perdersi e ritrovarsi. Le
vicende dei loro amori, matrimoni e nascite (metto tutto al plurale, così non
si sa se parlo di uno di loro o di tutti e due, lasciamo un po’ di suspense).
Sempre due facce di una medaglia, con l’aspetto forte, determinato ma fragile,
e l’aspetto sbruffone ma insicuro. Un po’ perdenti entrambi, ma anche vincenti
nel trovare, nel corso degli anni e nella difficoltà di crescere, una loro
strada. Ci si domanda se convergerà, ma questo non ve lo posso svelare. Quello
che posso dire sono alcune annotazioni lungo il corso del libro: l’inglese
discretamente difficile, pieno non tanto di slang (che sarebbe possibile
trovare con qualche buon traduttore) ma di neologismi derivanti dalla vita
quotidiana in rapporto con i mezzi di comunicazione; la fotografia (o forse il
video) di una generazione inglese che passa dagli anni duri della Teacher al
boom laburista per ritrovarsi di nuovo in difficoltà nel nuovo millennio; il
carattere di Dexter, che non mi piace, non perché sia molto (troppo)
auto-indulgente (chi è che non lo è un po’ con sé stesso?), ma perché sembra
sempre trascinato dagli eventi, senza mai prendere una decisione forte, senza
mai avere uno straccio di fermezza. Certo è dolce, e fa ridire molto, ma a
volte mi sono domandato, perché tutte quelle donne si innamoravano di lui? O
facevano sesso con lui? Solo per la sua aura di fama televisiva? E certo
ancora, mi è molto più piaciuto quando mette su il suo locale di caffè ed altri
alimenti. E la figura di Emma, decisa, determinata, ma che non fa mai un passo
per cercare di toccare la sua felicità con mano. Aspetta, aspetta, aspetta.
Forse perché lo scrittore è maschio e non sa che anche le donne possono
attivarsi alla ricerca della loro anima gemella. Ultima annotazione, la parte
finale l’ho trovata un po’ moscia e forse troppo “mocciana”. Avrebbe fatto
bene, il nostro buon David, a leggersi qualche pagina di Daria Bignardi su
amore e felicità, e forse avrebbe raddrizzato le ultime 80 pagine che mi sono
sembrate la parte più debole. Tuttavia, un libro interessante, che consiglio di
cercare nell’edizione italiana e di leggere.
“She was discovering once again that reading and writing were not the
same – you couldn’t just soak it up then squeeze it out again.” [Stava
scoprendo ancora una volta che lettura e scrittura non sono la stessa cosa –
non si poteva semplicemente assorbirla e poi spremerla fuori.] (183)
Antonio Skármeta “Il postino di Neruda” Einaudi euro 9,50
[tramato
il 7 settembre 2014]
Un
altro bello anche se non eccellentissimo romanzo. Di quelli che una volta
farebbero piangere lacrime a fiumi. Per la storia in sé. E per il suo contesto,
cioè quel bello e dolentissimo film che segnò l’ultima apparizione di Troisi,
morto poche ore dopo la fine delle riprese. Sono 20 anni che Massimo c’ha
lasciato, ma il suo ricordo è sempre lì, o qui nella memoria. Ma il contesto è
anche il Cile dell’85, dodici anni dopo il colpo di stato militare. Ed allora,
dimentichiamoci il film (anche se quella prima apparizione della Cucinotta…), e
veniamo al veloce romanzo breve. Sicuramente torneremo sulla sciagurata
traduzione del titolo alla fine di questa trama. La storia in realtà è breve
come il romanzo. C’è Mario, ragazzo di 17 anni, sognatore, senza arte né parte.
Siamo nel 1969, e siamo ad Isla Negra (che non è un’isola ma una località ad un
centinaio di chilometri da Santiago), dove per decenni ha eletto la sua
residenza Pablo Neruda (che in realtà non si chiamava né Pablo né Neruda, ma
Ricardo Neftalì Reyes Basoalto). Mario ha solo una bicicletta, e per questo
viene assunto come postino. Con un unico cliente, appunto il poeta, dato che
nessuno riceve lettere ad Isla. Il rapporto tra i due si fa prima di sguardi,
poi di timide avances di Mario, affascinato dalla poesia. Il sessantacinquenne
poeta non è molto incline alla confidenza, ma viene poi preso dall’innocenza di
Mario, dal suo entusiasmo. E diventano grandiose le discussioni tra i due sulle
metafore e sul loro uso in poesia. Parallelamente al rapporto di conoscenza, se
non di amicizia, tra i due, si sviluppano due momenti importanti per Isla
Negra, uno interno ed uno esterno. Dall’esterno, si avvicinano le elezioni del
settembre del 1970, quelle che portarono al Governo Allende, con la grande
spaccatura del popolo cileno, anche sotto la spinta delle manovre
nordamericane. Dall’interno, Mario conosce la giovane Beatriz e se ne innamora
perdutamente. Tanto che chiede al poeta di aiutarlo a conquistare il cuore della
donna. Neruda non lo fa direttamente, ma rinfocola la via di Mario alla
metafora, e con le parole, le azioni, e vincendo la resistenza della futura
suocera, finalmente i diciottenni convolano a giuste nozze. Intanto Neruda è
nominato ambasciatore in Francia e lascia Isla Negra. Dove la vita procede,
anche con la nascita del piccolo Pablo Neftalì. Mario aiuta l’osteria, ma nel
1971 è chiamato da Neruda ad una missione personale. Pieno di nostalgia, il
poeta vuole sentire i suoni di Isla Negra, e Mario gira con un registratore per
la zona, cogliendo le campane, la risacca del mare, i gabbiani che si alzano in
volo, ed il pianto del piccolo Pablito. È uno dei momenti più belli la
descrizione dei suoni del nastro. E poi Mario riunisce tutta Isla Negra, di destra
e di sinistra, persino il fascista Labbé, per vedere alla televisione il
conferimento del Premio Nobel a Neruda. Ma se la storia di Mario e Beatriz
prosegue con passione (e tanta) non altrimenti avviene nel Cile, che passo dopo
passo si avvicina al baratro. Nell’agosto del ’73 Neruda torna a Isla Negra
malato. Mario cerca di confortarlo, ma anche la moglie del poeta, Matilde, è
preda ad oscuri presentimenti. Poi, il settembre nero, il golpe di Pinochet
pagato dalla CIA, la morte di Allende, l’occupazione militare di Isla Negra. Ed
il poeta viene prelevato, portato nella capitale, dove, 12 giorni dopo il golpe
muore. Amato da tutto il paese, i generali negano i funerali. Solo Mario, nella
cittadina, ne fa l’orazione, internamente, ricordando il passaggio della poesia
di Rimbaud citata da Neruda al Nobel (“armati di ardente pazienza entreremo
nelle città splendide”), verso che il poeta riprende nella sua bellissima
poesia “Lentamente muore”. Il giorno dopo Labbé arresta Mario, che
“desaparece”. Rimango quindi sul testo (scordando definitivamente il film),
sottolineando la dolenza estrema che Skármeta infonde nelle delicate
descrizioni della vita di Mario. Della sua presa di coscienza, e della sua
scomparsa a soli 21 anni, insieme alla migliore gioventù cilena (quella dei
Victor Jara, delle Violeta Parra, dei Miguel Littin, e di tanti altri). Un
libro triste, ma con la speranza che “Solamente l’ardente pazienza porterà al
raggiungimento di una splendida felicità”. Perché “Arente pazienza” è il titolo
originale del libro, che ci viene propinato con il titolo del film, dove gli
intenti pubblicitari sono talmente ovvi che neanche ne parlo.
Conclusioni
Si, si fanno bei pianti in questo
decalogo. Ma non sono pianti migliori. Sono pianti anche di rabbia. Sono pianti
di ribellione. Pianti, in realtà, di cui avremo bisogno per uscire e
combattere. Non per tornare a guardare il nostro povero ombelico.
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