Due, perché, a distanza di circa
un anno, siamo alla seconda tranche di libri della collana “Giallo
anglosassone” chiamata anche “I classici del giallo”. Una collana che continua
ad attestarsi poco sotto la sufficienza, con una media di due libri e ½ di
gradimento. Qui c’è anche un Penny di sufficienza piena (leggetene, è
divertente), una White che Hitchcock ha saputo rivitalizzare, un Charlie Chan
d’annata, nonché un commento di Fletcher solo per il quale andrebbe messo al
rogo chi lo ha pronunciato.
Earl Derr Biggers “Charlie Chan e il cammello nero” Corriere della Sera
Gialli 15 euro 6,90
[A: 04/05/2016– I:
01/08/2017 – T: 03/08/2017] - && +
[tit. or.: The Black Camel; ling. or.: inglese; pagine: 297; anno 1929]
Tutti,
credo, abbiamo sentito parlare del grande detective hawaiano Charlie Chan
creato dallo scrittore americano Earl Derr Biggers, nato in Ohio nel 1884 e
morti a soli 49 anni nel 1933 in California, dove si era trasferito per il
successo cinematografico del suo personaggio. In realtà, Biggers scrisse solo 6
libri su Chan, ma la sua morte non impedì che il mondo della celluloide
continuasse imperterrito a produrre film su di lui, tanto che alla fine mi
risulta siano usciti circa 50 film con Chen protagonista. Con la particolarità
che quasi nessuno fu mai interpretato da un cinese, svariando dai primi con
protagonista lo svedese Warner Oland all’ultimo interpretato da Peter Ustinov.
Non ne avevo mai letto, e ringrazio la collana del Corriere di aver colmato
questa lacuna, anche se, come detto, è americano e non inglese. Ma è della
prima ondata americana, quella precedente ai Chandler ed agli Spillane, senza
sparatorie, cattiverie, e con una buona dosa d’ironia. Qui, esaltata dalla
figura del detective, che Biggers riprese da un vero detective hawaiano, Chang
Apuna, infarcendone le storie con elementi di vita locale, e con le massime di
cui è sempre pronto ad elargire il suo pubblico. Come questa, che dà il titolo
al libro, quando l’ispettore dice: “La morte è un cammello nero che
s'inginocchia, non invitato, davanti a ogni porta”. Nato come giornalista, e
poi elzevirista umoristico, Biggers prende subito per mano il lettore,
immergendolo in un ambiente ben descritto, già pronto per il cinema. Una nave
sta attraccando al porto di Honolulu, nave che trasporta una troupe
cinematografica che lì deve girare le ultime scene di un film, prodotto per
favorire il rilancio sul grande schermo di una diva un po’ in calando, la
bellissima Shelah Fane. Veniamo così fin dai primi capitoli a conoscere i
personaggi che daranno vita a tutta la storia. L’attrice, la cameriera, il mago
indovino, dal fantasioso nome di Tarneverro il grande, un miliardario inglese,
un giovane star, il regista, ed altri “attori” di contorno. Shelah era in
calando da quando, tre anni prima, aveva assistito alla morte di un attore
Danny Mayo. Un attore come ce ne sono tanti ad Hollywood, con una moglie
ignorata e lontana (ma dov’è finita?), e gran seduttore, tanto che viveva “more
uxorio” proprio con Shelah. Tuttavia, le fortune di Shelah stavano risorgendo,
e lei, supremamente superstiziosa, si accompagna con l’indovino seguendone
tutti i consigli. Tanto che gli chiede se debba o meno sposare il miliardario.
Tarneverro tra l’altro, sa molto di quanto succede nel mondo della carta
patinata, avendo piazzato una persona di sua conoscenza, Anna, proprio a
servizio da Shelah. Durante la festa per il lancio del film, tuttavia, Shelah
viene uccisa. Qui entra in scena il grande Charlie Chen. Pacato, lento,
ossequioso, eppur tuttavia attento ed in grado di leggere negli avvenimenti e
nei comportamenti. Questa, in pratica, era stata poi l’idea vincente di
Biggers: quella di creare un personaggio cinese “buono”, mentre erano anni che
imperversavano cinese cattivi, esemplificati alla grande dal super-cattivo Fu
Manchu. Allora, Chen il buono, Chen il paziente, Chen dai quattordici figli
(!!), comincia la sua indagine. Parla, interroga, studia, si allea con
qualcuno, si inimica qualcun altro. Con un po’ di fatica (questo il limite di
questo libro di novant’anni) ci si avvicina alla soluzione finale. Che rispecchia
in ogni caso i canoni del giallo degli Anni Venti, per cui Chen fa una lunga
carrellata sugli avvenimenti, mostrandoci il come ed il perché dei piccoli
misteri che l’autore aveva seminato durante il corso della narrazione. Vi ho
detto poco della trama, che è molto di sensazioni. E molto di ricordi. Non
tanto e non solo dei pochi libri, e dei tanti film, ma per me, nella grande e
magistrale interpretazione parodistica di Peter Sellers in “Invito a cena con
delitto”. Ricostruendo tra il filo delle recensioni la vita di Chan secondo
Biggers, il nostro detective è comunque nato in Cina, a Canton, intorno al
1875, ed entra in polizia dopo un inizio da cameriere per mantenersi una volta
emigrato a Honolulu. Si sposa alla veneranda età di 37 anni e da questa unione
nasceranno 14 figli. Ma se volete sapere di Chan leggetene in rete. Qui si
torna a parlare di Biggers, che, insieme al detective, ci porta la soluzione,
che anche il lettore attento potrebbe individuare, visto che gli indizi che ci
svela Chan nell’ultimo capitolo sono alla visione di tutti. Un discreto
racconto, purtroppo datato, che ho avuto piacere di leggere per poter parlare
anche di questo famoso personaggio. Un giorno o l’altro se ne farà una
galleria, forse.
Joseph Smith Fletcher “Assassinio nella brughiera” Corriere della Sera
Gialli 4 euro 6,90
[A: 15/02/2016– I:
04/10/2017 – T: 07/10/2017] - &&
[tit. or.: The Yorkshire Moorland Mystery; ling. or.: inglese; pagine: 244; anno 1930]
Nella serie del Corriere, di
Fletcher, sono stati pubblicati due libri, di cui io, fortunatamente ho letto
prima il secondo, tramato lo scorso settembre. Un libro di media intensità, che
mi ha comunque dato modo di parlare dell’autore, su cui non ritorno. Questo è
uscito prima, e mi ha convinto meno del primo, e credo che nell’inversione di
lettura abbiamo guadagnato l’autore. Anche perché questo è comunque scritto 7
anni dopo, dove, probabilmente la vena di Fletcher si andava esaurendo
(l’autore ha già 67 anni e cinque anni dopo morirà, ed i suoi scritti, a poco a
poco, cadranno nell’oblio). Tra l’altro, l’andamento del libro è discretamente
confusionario, e la soluzione, benché spiegata come ben si usava al tempo,
lascia qualcosa di sospeso, che il colpevole non confesserà, andrà in giudizio
e sarà condannato, il tutto scritto in quindici righe nell’ultima pagina! Tra
l’altro, mi sembrava interessante (e ne ho cominciato la lettura con interesse)
perché parlava di libri. Poi ho capito che parlava di libri rari, prime
edizioni ed altre diavolerie che non capisco (“Pilgrim’s Progress” e “Libro
delle Ore” ...) e mi sono raffreddato. Cercando di seguire l’inchiesta, anche
se pure lì non si andava per vie calde, anzi si gira e si rigira per molto
tempo. ma andando con ordine, il libro è in soggettiva del capitano Mannering,
reduce dalla Grande Guerra e desideroso di un impiego “tranquillo e
rilassante”. Siamo a Londra, ed il nostro si presenta al Carlton Hotel in Pall
Mall per un colloquio con Charles Essenheim, bibliofilo americano famoso nonché
(ovvio) molto ricco. Essenheim capita spesso in quel di Londra e dintorni, dove
è ovvio sia più facile reperire i suoi libri d’antiquariato. L’americano ha
bisogno di un segretario, il capitano di un datore di lavoro. Anche se non ha
esperienza di libri rari, dovendo fare solo il segretario passacarte, Mannering
è assunto. Anche se il loro rapporto dura poco. Pochi giorni dopo, lunedì 21
ottobre, Essenheim riceve due telegrammi, li legge, ritira dalla sua banca 5000
sterline e si allontana. Anzi, scompare. Certo, Mannering ha già capito che il
suo padrone è un tipo eccentrico, per cui non si meraviglia più di tanto.
Finché, la settimana successiva, arriva in Inghilterra Frank, il nipote.
Americano fino al midollo, Frank è uomo d’azione, e questo silenzio non lo
convince. Comincia a girarsi, a coinvolgere l’avvocato Heddelston, loro legale
inglese. Il quale gli comunica che il cadavere di uno sconosciuto è stato
ritrovato nella desolata brughiera dello Yorkshire (come dice giustamente il
titolo originale). Per la precisione in un crepaccio chiamato Harlesden, tra le
città di Kirkenmore e Rievesley. Una volta riconosciuto il cadavere, Mannering,
Heddelston ed il nipote Frank cominciano una serrata indagine, in questo
aiutati prima dai poliziotti della campagna inglese, poi da ispettori di
Scotland Yard. Ma saranno sempre loro a collegare le varie fila. Prima
rintracciando una signorina che aveva venduto “Il Libro delle Ore” (una
raccolta di preghiere casalinghe, sempre presente nelle case di campagna) di
una sua antica parente, libro sembrerebbe molto ambito. Tramite altri
collegamenti, attraverso peripezie ferroviarie su e giù per lo Yorkshire, poi
tra lo Yorkshire e Londra, ed altri luoghi (noto che tra un treno e l’altro, i
tre visitano York, Leeds, Bournemouth), Mannering rintraccia altri due
personaggi: il campagnolo Lomas, possidente in evidente caduta libera, che ha,
ha avuto, o forse ha intravisto, un altro libro “sacro” del Settecento inglese,
tal “Pilgrim’s Progress”, o, come riportato per esteso nell’edizione italiana
dello stesso, “Il pellegrinaggio del cristiano da questo mondo a quello che
verrà, mostrato come un sogno”, e scritto da tal John Bunyan, seicentesco
predicatore cristiano. L’altro è lo scommettitore sui cavalli Lambert,
personaggio sempre ai limiti della legalità, ma anche altrettanto sfuggente e
sempre uscito in modo pulito da varie piccole vicende giudiziarie. Le attente
indagini di Frank e Mannering, alla fine restringono proprio a questi tre
sospetti la possibilità di un coinvolgimento nell’assassinio. I due con la “L”
inziale, presente in un monogramma su di un fazzoletto, e la signorina
dell’altro libro. Per duecento pagine Fletcher tenta di costruire colpi di
scena che forse erano graditi negli anni Trenta, ma che ora sono leggermente
poco coinvolgenti. Tuttavia, i nostri investigatori in erba arrivano alla
soluzione del caso, che, come detto, alla fine è presentata in modo
insoddisfacente in una quindicina di righe. L’unico altro elemento di
interesse, è che, benché giustamente dimenticato, nell’economie librarie
dell’epoca, questo può essere considerato una specie di trait d’union tra i
calmi gialli da poltrona alla Van Dine, ed i prossimi, temporalmente, gialli
adrenalinici dell’hard boiled americano. Ma se il cervello segue il
ragionamento fatto, il libro non prende, non coinvolge, e rimane lì, come un
libro raro ed antico, di quelli da bibliofili. Se poi leggiamo la frase
riportata sotto e pronunciata dall’insulso Lomas, siamo dispiaciuti che sia
morto Essenheim e non Lomas.
“Non so niente di libri, non ne ho mai letto neppure uno.” [lo
uccidiamo subito? Nota mia] (49)
Ethel Lina White “La signora scompare” Corriere della Sera Gialli 2
euro 6,90
[A: 01/02/2016– I:
08/10/2017 – T: 12/10/2017] - && e ½
[tit. or.: The Wheel Spins; ling. or.: inglese; pagine: 281; anno 1936]
Una
grande misconosciuta scrittrice, almeno per il grande pubblico dei lettori. E
tuttavia autrice di due capolavori assoluti. Tanto che due impareggiabili
cineasti ne trassero due film, che ne resero le due vicende immortali. Ethel
nasce in Galles nel 1874, e fino ai 50 anni, pur dedicandosi saltuariamente
alla scrittura, fa altro. In particolare, è impiegato in un Ministero. Sino a
che, negli anni ’20 si licenzia, diventa scrittrice professionista e sui
sessanti ci regala queste due meraviglie: “Some must watch” (“Qualcuno deve
guardare”) e “The Wheel Spins” (“La ruota gira”). Vi vedo già pronti a dire: e
chi ne ha mai sentito parlare? Rimanete dello stesso parere se i dico che i due
registi sono Robert Siodmak e Alfred Hitchcock? Ancora niente? Beh, e se vi
dicesse che il tedesco dal primo girò nel ’45 il film “La scala a chiocciola”?
e che il grande Alfred dal secondo trasse lo spunto per “La signora scompare”?
Questi sono diventati poi i nomi con cui vengono ricordati. E del secondo
stiamo ora leggendo idee ed intrecci, ricordando che la grande Ethel morì a
Londra poco prima della fine della Seconda Guerra Mondiale. Certo, questo libro
di 80 anni fa è un po’ involuto, eppur tuttavia godibile. Quello che ne frena
la piena sufficienza è il vezzo dell’epoca di evocare trame misteriose, scenari
spionistici improbabili, ed altri elementi che sono, purtroppo, molto datati.
Mentre fresca ed apprezzata è l’idea di base del romanzo, dove, anche qui,
alcuni momenti che potrebbero essere altamente drammatici vengono resi con un
po’ di scrittura d’epoca che limita l’adesione totale al puro piacere. Seguiamo
quindi la vicenda della giovane, ricca e scombinata donna inglese Iris Carr
che, dopo aver lasciato partire i suoi amici, sale il giorno dopo su di un
treno per tornare a Londra e sposarsi. Prima di salire sul treno subisce un
colpo alla testa che la sbalestra un po’, dandole un mal di testa di certo non
alleviato dall’aria pesante che si respira nel suo scompartimento. Dove sono
accalcati un chirurgo tedesco, un’arcigna baronessa slava, una chiassosa
famigliola. Fortunatamente c’è anche un’anziana signorina inglese, miss Froy,
con cui Iris si accompagna per alleviare il mal di testa. Anzi le due vanno a
prendere qualcosa al bar: lei un whiskey e miss Froy un tè messicano. Nel via
vai del treno incontrano due gentlemen inglesi appassionati di cricket, il
giovane studioso di musica Max Hare ed il suo mentore, una coppia di sposini
molto discreta (ma forse sono amanti) e due autentiche zitelle inglesi molto
snob. Al ritorno nello scompartimento Iris si addormenta, e quando si sveglia
miss Froy è scomparsa. Qui inizia tutta la vicenda thriller del romanzo. Iris
sa, è convinta di quello che ha visto, anche se il mal di testa potrebbe averle
portato delle visioni. L’unico che le dà retta è Max, anche se con momenti
alterni, che la donna non riesce a trovare prove di quello che dice. Anche
perché tutti, baronessa in testa, negano di aver mai visto tale miss Froy. Il
bello (e forse l’idea che convinse Hitchcock) è proprio tutta la parte centrale
con Iris che tenta di trovare prove e tutti che si affannano a demolirle. Solo
la baronessa ed il medico tedesco sembrano altezzosi nel loro atteggiamento,
anche perché il medico sta scortando a Trieste una malata che deve operare di un
grave male. Sarà la bustina del tè che svolazza fuori del finestrino a
convincere Max delle parole di Iris, e da quel punto in poi i due faranno
fronte comune. Troveranno alla fine miss Froy liberandola da una situazione
incresciosa ed intricata, dovuta al fatto che, nel suo soggiorno nel paese
slavo aveva avuto modo di conoscere una persona in un momento in cui questa non
doveva essere lì. Altro non dico, e forse ho detto troppo. Se non che,
ovviamente, Iris non sposerà il bellimbusto inglese, ma andrà in giro per il
mondo con il suo bel Max. Da questa trama vedete bene come si discosta il film
del grande maestro, che ne fa anche un elemento di propaganda antinazista (il
film viene girato nel 1938, durante i patti di Monaco). Ma il bello del libro
come detto è tutta nella parte centrale, sostenuta da una scrittura di alto
livello, come forse non è nel finale un po’ di maniera. Tuttavia, noi cinefili,
non possiamo che finire ricordando la bellissima trama del film di Hitchcock,
dove miss Froy diventa non una povera istitutrice, ma una spia
dell’Intelligence inglese. Dove il ruolo di Max (diventato Gilbert nel film) è
sostenuto da Michael Redgrave (il padre di Vanessa). E dove c’è
l’impareggiabile scena del bicchiere avvelenato, girata dal grande tutta attraverso
il bicchiere stesso (utilizzandone uno gigante). Mirabile!
Rupert Penny “L’assassino invisibile” Corriere della Sera Gialli 5 euro
6,90
[A: 24/02/2016– I:
09/02/2018 – T: 12/02/2018] - &&&
[tit. or.: Sealed-Room Murder; ling. or.: inglese; pagine: 315; anno 1941]
Prima
di essere invisibile l’assassino (orrido utilizzo del titolo per prendere fasce
di lettori “ignari”, visto che il titolo inglese recita “L’assassino della
camera chiusa”), devo dire che è abbastanza invisibile (e stranamente) anche il
suo autore. Sappiamo che il suo vero nome era Ernest Basil Charles Thornett,
che nasce il 20 marzo del 1909, probabilmente inglese, anche se alcune fonti lo
riportano come australiano. Grande esperto di fiori (fu presidente della
società inglese degli Iris) ma soprattutto di enigmistica, tanto che si dice
lavorò con Turing al progetto Enigma, per poi rimanere nei servizi segreti
inglesi sino al 1968, ed infine morire il 5 dicembre 1970. In questi sessanta
anni di attività varia, c’è una parentesi dal 1936 al 1941, in cui scrive 8
romanzi gialli a chiave, tutti con protagonista (in prima o seconda linea, ma
sempre presente) l’ispettore capo di Scotland Yard Beale. Ritorno sullo
stranamente, perché questo, che è anche l’ultimo giallo scritto dall’autore,
viene da tutti i conoscitori inserito come uno dei 50 migliori libri dedicati
al “mistero della camera chiusa”. Quei misteri in cui viene ucciso qualcuno e
si ritrova il cadavere in una stanza chiusa, senza possibilità (almeno
apparente) che l’assassino sia uscito in qualche modo lecito. Certo è ancora
imbevuto delle atmosfere degli anni ’40 inglesi, e certo è anche molto simile,
nell’andamento, ai classici misteri di ragionamento di Ellery Queen. Tuttavia,
ha anche qualche elemento gradevole e ben costruito. Anche se la soluzione
finale sarà poi affidata all’Ispettore Beale, tutto il romanzo ruota sulle
indagini del giovane detective Douglas Merton. Inviato dallo zio presso una di
lui vecchia fiamma, Harriet Rice, vedova di Andrew Steele, ricco ed antipatico
personaggio. Che scrive nel testamento che la vedova potrà usufruire del
patrimonio solo se ospiterà nella loro grande casa gli altri parenti del
defunto. Harriet, che non è proprio la simpatia fatta persona, accoglie, con
molti mugugni e pugno di ferro, la nonna Mrs. Glenn, e le sue tre figlie,
Caroline vedova Whitehead con i suoi due figli Linda e Henry, Olive e Violet.
Per bilanciare il quadro l’odiosa Harriet ospita anche il fratello George Rice,
ubriacone e scommettitore impenitente. La nostra megera chiede aiuto a Douglas
perché nell’ultimo periodo è vittima di odiosi scherzetti: biancheria intima
rovinata da una boccetta d’inchiostro, pelliccia di valore tagliuzzata, parquet
rovinato. Douglas si trasferisce a casa Steele, e tutta la prima (quasi due
terzi in realtà) parte del libro è dedicata ad illustrarci i meccanismi interni
della casa, gli odi palesi o sotterranei, i disagi, le personalità degli
abitanti della casa. A parte George, di cui si è detto, c’è Henry dedito solo a
costruire aggeggi elettromeccanici, più che altro per sentire la radio. C’è
Olive, la sorella anziana, tutta dedita al giardino (e qui Penny ha buon gioco,
vista la sua esperienza floreale). C’è Violet incantata dal soprannaturale, e
da poco fidanzata con un insignificante avvocato. C’è Caroline, quasi un
sottocapo della casa stessa, che nasconde molto poco sia l’astio verso Harriet,
sia il fastidio di avere tra i piedi Douglas che indaga. Rimane fuori la
giovane Linda, che si capisce ben presto essere attratta da Douglas, ma con
l’autore che fa di tutto per farci intravedere la possibilità che ci sia lei
dietro gli scherzi di cattivo gusto. In un crescendo di battibecchi,
l’atmosfera si fa pesante, tanto che Douglas stesso suggerisce di mettere
lucchetti a tutte le porte. Si arriva così al momento topico. Linda e Douglas
vengono attratti con l’inganno in cantina, e messi fuori combattimento (tra
l’altro legando Douglas e denudando la povera Linda, dove ci becchiamo anche
qualche pagina “quasi” pruriginosa). E contemporaneamente, Harriet muore. Viene
trovata nella sua stanza, ovviamente chiusa a chiave dall’interno con un
catenaccio difficilmente muovibile, con un pugnale nella schiena, che si è
inserito profondamente e con molta forza. Nello stesso tempo, tutti i
componenti della casa si addormentano, drogati. Meno George che scompare e
Henry, dedito a qualche passatempo sollazzevole in dolce compagnia. Qui entra
in scena Beale, che ripercorre tutti i momenti della vicenda, dagli inizi degli
scherzi a tutte le altre vicende che non vi narro. Per arrivare, al terz’ultimo
capitolo, dove Penny si palesa in prima persona, apostrofando il lettore: ti ho
dato tutti gli elementi per capire come sia possibile uccidere Harriet nella
stanza sigillata, ora ti sfido ad arrivare alla soluzione prima di Scotland Yard.
Un intervento inusuale, e carico di quel piccolo humor trasversale, che, anche
se in maniera lieve, percorre tutto il libro. Confesso che, sfidato da Penny,
questa volta ho miseramente perduto. Devo anche confessare che la soluzione
finale è ingegnosa e costruita bene, con molta pazienza. Ed è anche vero, che
si ha bisogno di tutti gli indizi per arrivare alla prova finale. Insomma,
seppur datato, ed a volte non proprio scorrevole, un buon meccanismo, una buona
idea finale (tanto che leggendo mi veniva in mente che se ne poteva trarre un
buon testo teatrale).
David Frome “Mr. Pinkerton ha un indizio” Corriere della Sera Gialli x
euro 6,90
[A: 30/03/2016– I:
21/07/2018 – T: 23/07/2018] - && e ½
[tit. or.: Mr. Pinkerton Has the Clue; ling. or.: inglese; pagine: 310; anno 1936]
A
dispetto del nome, il buon David si chiamava in realtà Zenith Jones Brown,
essendo inoltre una donna, americana, e non inglese. Anche se la serie di libri
che pubblicò con questo pseudonimo, nota come “La serie Pinkerton”, è ambientata
in Inghilterra, dove comincia a scrivere il primo libro quando vi si
trasferisce per qualche anno con il marito, visiting professor all’Università
di Oxford. Nei suoi lunghi 85 anni, Zenith pubblica molti altri libri, con
svariati pseudonimo. Durante la Seconda Guerra Mondiale è anche corrispondente
di guerra. Ma qui ci occupiamo del simpatico ometto gallese, e delle sue
involontarie inchieste. Perché Evan Pinkerton si trova spesso al centro di
piccoli (o grandi) gialli suo malgrado. Nelle inchieste maggiori, funge spesso
da spalla all’ispettore Bull di Scotland Yard. Anche qui, in un certo senso,
sebbene l’inizio ed il corpo centrale della vicenda lo vedono protagonista
autonomo. Intanto, è curioso l’utilizzo del nome, in quanto come ognuno ben sa,
Pinkerton è stato un famoso investigatore americano operante dal 1845 circa in
poi, noto per la famosa Agenzia, e per fornire le guardie del corpo ai
Presidenti degli Stati Uniti. Volontà di sfruttare il nome? In fondo, non
credo, dato che i gialli della scrittrice con Pinkerton ebbero forse più
successo in Inghilterra. In particolare, per due motivi: l’ambientazione ed il
fatto che sono gialli di ragionamento, e non di azione come più si addice ai
“noir” americani. Un’ambientazione colta con l’occhio leggermente ironica da
Zenith, prima perché Evan è gallese, e si trova spesso ad affrontare “very
British”, creando situazione leggermente divertenti, spesso più per i locali
che per noi umili lettori che con difficoltà ne cogliamo le sfumature. Come in
questo caso, dove Pinkerton, ormai vedovo dalla tirannica moglie, e con un
piccolo capitale a disposizione, decide di passare dei giorni di riposo nella
cittadina termale di Bath (che come sappiamo significa bagno, e deve il suo
nome proprio ai bagni termali ivi costruiti dai romani nel 43 d.C.). A causa di
tutta una serie di piccoli inconvenienti, da cui non sa come tirarsi fuori, il
nostro si trova a dimorare in un albergo di proprietà di Dama Ellen Crosby, a
suo tempo rinomata attrice ora ritiratasi dalle scene. Con un temperamento
molto “duro” con il quale tiene “sotto il pacchero” (come dicono a Napoli) la
sua famiglia ed altri comprimari presenti sulla scena. Tutto nasce da una
conversazione che Pinkerton sente mentre aspetta il treno, tra Cecily, nipote
di Ellen, e tal Verdon che la zia vuol fargli sposare. Mentre Cecily è
innamorata di Twistelton, che invece la zia ha destinato a Gillan, sua sorella
maggiore (e bruttina). La conversazione induce il nostro a seguire i due, e ad
alloggiare nell’albergo della Dama. Dove conosce il fratello, il maggior
Peyton, sempre tiranneggiato dalla Dama. E poi Dakin, l’autista che da trenta
anni la segue ovunque. Miss Frambory, che gestisce l’albergo nonché la
misteriosa presenza di Mrs. Margulis, silenziosa e sempre in qualche angolo a
guardare, e di cui nessuno sembra sapere nulla. Dopo una buona dosa di
piacevole ambientazione coreografica della vita nella stazione termale,
comprese le usanze locali, si entra nel vivo con la scoperta della morte della
padrona di casa. Morte complicata da decifrare, tanto che viene richiamato
dalle ferie, il sodale di Pinkerton, l’ispettore Bull. Saranno gli sforzi
congiunti delle osservazioni di Evan e delle analisi deduttive di Bull che,
velo dopo velo, ci porteranno al disvelamento della complicata trama criminale.
La donna viene trovata di notte, ma nella sua stanza sono passati varie persone
sospettabili, e non tutte con alibi che reggono. Con discrete complicazioni
dovute al passato di attrice della morta, ed a tutta una serie di travestimenti
che ancora erano presenti nei suoi ampi guardaroba. Tanto che tutti potevano
farsi passare per qualche d’un altro. Una persona truccata da maggior Peyton
viene vista da Miss Frambory uscire dalla stanza della morta. Ellen, o una
persona truccata da Ellen, fa un giro in macchina con Pinkerton. La stessa
rientra in casa anzi tempo, benché Mrs. Margulis, vedendola camminare, abbia
dei sospetti. Tanto fondati che anche lei (di cui ci viene narrata la storia e
che poteva essere un possibile movente per l’assassinio) viene trovata uccisa.
Mentre non si trova il testamento, cosa che fa scoccare accuse incrociate tra
le due sorelle. Le impronte di Peyton vengono trovate nella stanza, ma sembrano
essere state messe posticciamente da qualcuno che lo vuole accusare. O forse
no? O forse è stato Dakin, che scopriamo anche lui avere motivi di
risentimento. Il bel castello della nostra scrittrice regge bene a tutta una
serie di colpi di scena, che di volta in volta ribaltano la scena del delitto.
E che alla fine portano Pinkerton ha trovare l’indizio del titolo e ad accusare
il vero colpevole. Che ovvio non vi dico chi sia, né vi dico se le storie
d’amore al contorno avranno un “lieto fine” oppure no. Anche se con più di
ottanta anni sulle spalle, è comunque una degna lettura, che riscatta
ampiamente il non sempre accurato panorama della raccolta.
Purtroppo, dato lo sconclusionato
mese passato (ed il prossimo non sarà da meno) vi trovate con dei libri
“felici” in meno, che spero di recuperare presto.
Ci sono momenti in cui va tutto
storto ma il nostro innato ottimismo ce ne fa vedere il risvolto positivo. Poi
ci sono momenti in cui va tutto bene, ed il nostro pessimismo dell’intelligenza
ci fa intuire che qualcosa di negativo ci aspetta dietro l’angolo. Infine, ci
sono momenti come questi, in cui, metà e metà, tutto va storto e noi siamo
pessimisti. Come speriamo ci consigli il grande Edoardo, “a da finì, a
nottata”.
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