Torniamo
con piacere alla collana artistica del Corriere, che questa volta sforna una
cinquina assolutamente degna. Sia negli autori e nella disamina di artisti noti
(Brunelleschi, Giotto, Botticelli), sia in quelli poco noti (Quarton) o
inventati (il Turchetto, talmente ben fatto che sembra vero). Insomma. Direi
una settimana che, dando inizio all’Epifania natalizia, si prospetta piena di
buoni elementi. E non è poco.
Metin Arditi “Il turchetto” Corriere della Sera Arte 27 euro 7,90
[A: 17/01/2017 – I: 23/06/2018 – T: 29/06/2018] - &&&
+
[tit. or.: Le Turquetto; ling. or.: francese; pagine: 232;
anno 2011]
Non
intrigante come il libro su Piranesi, ma anche questo di buon interesse e che
mantiene alto il gradimento di questa parte della collana. Arditi è svizzero,
anche se di origini turco sefardite, essendo nato ad Ankara. Emigrato a 7 anni
in Svizzera (siamo agli inizi degli anni Cinquanta) vive sulla sua pelle il
dramma dell’emigrazione (ne vogliamo parlare…). Poi comincia a studiare (gliene
danno la possibilità), si laurea in discipline tecniche al Politecnico, e
comincia ad insegnare. A 60 anni, pur continuando l’attività didattica,
comincia a scrivere, soprattutto saggi, ma anche romanzi. E prove interessanti,
come questa, in cui mescola vero e falso, introducendo non pochi elementi del
suo vissuto infantile. Infatti, questo libro dedicato alla vita ed alle opere
di Elias Troyanus detto “il Turchetto” è tutto giocato sulla falsariga del
falso. Ma giocato così bene, che alla fine ho faticato un po’ a trovare le
tracce giuste, che svelano il mistero del quadro intorno al quale, pur in
maniera eccentrica, ruota il romanzo. Si tratta de “L’uomo con il guanto”,
dipinto attribuito a Tiziano, laddove sulla roccia su cui si appoggia il
giovane del ritratto, c’è vergata la scritta “Ticianus” in stampatello. Con la
particolarità che la “T” è dipinta in modalità diversa dal resto della firma.
Su questo labile indizio, facendosi forte di un immaginario parere di
improbabili autorità, Arditi crea il suo grande affresco di un pittore ignoto.
Appunto l’Elia di cui sopra. Ebreo rapito in fasce, vive i primi dieci anni a
Costantinopoli nella famiglia acquisita di un turco che commercia fornendo
ragazze all’harem del sultano. Ma sin da infante, Elia è portato al disegno,
che tanti ne realizza (e con le quali guadagna qualche soldino), ma è anche
amico del sufi Djelal, che gli insegna la scrittura calligrafica araba,
soprattutto nella parte dedicata alla respirazione (e qui si potrebbe aprire un
capitolo gigante), e del mendicante Zeytine, che lo spaventa (in fondo Elia ha
dieci anni e Zeytine è senza gambe) ma cui in maniera trasversa è affezionato,
che il barbone apprezza i suoi disegni. Quando il padre putativo muore, sapendo
di non avere altre protezioni, il dodicenne Elia fugge su di una nave per
rifugiarsi a Venezia, soprattutto perché in quella città si sviluppa uno dei
maggiori poli artistici dell’epoca. Saltiamo un lungo periodo (una quarantina
d’anni) e ritroviamo Elia che è diventato Ilias, come se fosse greco, ed è uno
dei maggiori pittori sulla piazza veneta. È sposato, anche se la moglie è un
po’ ritardata, ha una figlia ed un nipotino in arrivo. Sembra arrivato alla
fama ed alla gloria cui aspirava sin da bambino. Ma… ma non ha mai detto di
essere ebreo, che gli ebrei non potevano esercitare nessun commercio in quel di
Venezia. Né ha mai abiurato la religione nativa, anche se non è che sia
particolarmente osservante, né dell’ebraismo né del cattolicesimo. L’unica sua
religione è la pittura, per cui realizza quadri mirabolanti, che contendono la
palma ai migliori dell’epoca (Tiziano e compagnia). Viene quindi, di forza,
messo in mezzo alle varie beghe di palazzo, tirato da una parte dai lacchè del
doge, dall’altra dai nunzi apostolici. Lui, ovvio, commette l’errore di
innamorarsi di una bella modella, anch’essa ebrea, che dipinge in una stupenda
“Madonna con bambino”. Chi si espone, rischia. La bella Rachele non solo è
allontanata, ma muore spinta in un canale. In quello, gli si commissiona una
“Ultima Cena”. Che lui realizza come un capolavoro religioso, mettendo in
piazza le radici ebraiche di Gesù (che giustamente era ebreo), e dipingendo
tutti gli apostoli con le fattezze dei maggiori pittori di Venezia: Tiziano
giovane e anziano, Giorgione, Bassano, Tintoretto, il Veronese, Gentile e
Giovanni Bellini, il Carpaccio, Sebastiano Del Piombo. Riservando a sé stesso
la figura di Giuda. Inciso: mi manca uno dei dodici apostoli, che suppongo
possa essere Lorenzo Lotto. Ma torni amo alla storia. Il quadro è una vendetta
per la morte di Rachele. Ma scatena reazioni incontrollate. Portando il nunzio
ed il doge a scoprire le menzogne che hanno costellato tutta la vita di Elia.
Ed il Turchetto, il cui unico scopo è dipingere, non fa nulla per discolparsi.
Solo il cardinale ne prende a cuore le sorti. Sia ricevendo un quadro del
Turchetto che questi aveva donato a Tiziano (firmandolo solo con la “T”), sia
cercando di salvargli vita e quadri. Solo la prima riesce, a costo però della
vita del cardinale stesso. Mentre i quadri vengono bruciati in un rogo “coram
populo”, motivo per cui non abbiamo nessun quadro di Elia a noi rimasto.
Comunque, Elia riesce a tornare a Costantinopoli, ritrovando l’unica persona
con cui potesse dire di aver un rapporto amicale: il mendicante Zeytine. Come
andrà a finire tra i due, e come si svolgerà la fine del libro, non è cosa di
interessa qui (leggetene che in ogni caso rilassa). Qui si torna sul concetto:
un libro costruito su una menzogna talmente ben fatta da farti domandare fino a
che punto sia menzogna. Un libro godibile, che fa anche riflettere
sull’assurdità, ebraica ed islamica, verso la pittura, o comunque attraverso
l’iconoclastia. Quando c’è un divieto talmente forte e banditesco, io mi vado a
mettere subito dalla parte del torto come Brecht.
Ross King “La cupola di Brunelleschi” Corriere della Sera Arte 14 euro
7,90
[A: 18/10/2016 – I: 19/07/2018 – T: 22/07/2018] - &&&
[tit. or.: Brunelleschi’s
Dome; ling. or.: inglese; pagine: 241; anno 2000]
Ecco un’altra buona riuscita dei
libri del Corriere sull’Arte come Romanzo. Anche se preferivo il sottotitolo
inglese (“The Story of the Great Cathedral in Florence”) al prolisso
commentario italiano (“La nascita avventurosa di un prodigio dell’architettura
e del genio che lo ideò”). Non conosco in modo particolare l’autore, il
canadese King, che, trentenne, si sposta in Inghilterra dove vive tuttora e
dove negli ultimi 20 anni ha cominciato a scrivere di arte e problematiche
connesse. Cominciando proprio da questo Brunelleschi, poi proseguendo con
Michelangelo, Machiavelli, Leonardo, per arrivare a Monet e li Impressionisti.
Comunque la sua scrittura è di facile lettura, e tutto sommato abbastanza
coinvolgente. Come in questa storia, che, abbracciando una cinquantina d’anni,
ci fa piombare nella Firenze tra il 1396 ed il 1450, circa. Con una sapiente
scelta di mescolanza tra descrizione storico-ambientale, presentazione dei
comprimari, focus sul grande “Pippo”, e descrizione, particolareggiata ed anche
un tantino difficile, della ideazione e della realizzazione della cupola di
Santa Maria in Fiore, il capolavoro architettonico italiano, ineguagliato nel
mondo, e dovuto, appunto, al genio meccanico ed architetturale di Filippo di
ser Brunellesco di Lippo Lapi. Devo dire subito che non conoscevo quasi per
nulla la storia di Brunelleschi, e, seppur non indagata a fondo, quanto ne
emerge dallo scritto è piacevole ed ha meritato dei piccoli approfondimenti. Ma
iniziamo dalle parti “migliori”, entrando di soppiatto nella Repubblica
Fiorentina, un po’ gaudente ed un po’ trasandata. Guidata, a tratti, dai
Medici, tra cui l’illuminato Cosimo. Ma anche assediata periodicamente dalle
truppe milanesi dei Visconti, da Gian Galeazzo prima e da Filippo Maria (il
pazzo nevrotico) poi. Era anche al limitare per i costumi sessuali, tanto che i
tedeschi indicavano gli omosessuali con il termine “Florenzer” (e su questo ci
si tornerà). Quindi, tra guerre e pestilenze, si muoveva la scena artistica
fiorentina. Con i tre grandi (e mezzo) che segnarono la nascita del
Rinascimento fiorentino: Donatello (e con lui Lorenzo Ghiberti) per la
scultura, Masaccio per la pittura e appunto il Brunelleschi per l’architettura.
Ma se di Masaccio, Ross tace, e di Donatello rileva solo il sodalizio con il
nostro, suggellato da un dotto viaggio in Roma ai primi del secolo, Ghiberti è
ben presente sulla scena artistica. Perché Brunelleschi e Ghiberti
parteciparono alla gara per le porte del Battistero, aggiudicata ex-aequo, ma
da cui Filippo si ritira non sopportando di lavorar con altri. Ed anche quando
Brunelleschi vince l’appalto della cupola, lui e Ghiberti sono nominati
capomastri della costruzione, anche se poi è sempre il nostro che agirà in
prima persona. Ed ancora son loro due a combattere per la “lanterna” che
sovrasta la cupola. Anche qui, vinta da Filippo, che però muore poco prima del
completamento. Anche se ben narrata, la centralità del testo è dedicata a tutte
le vicissitudini della costruzione della cupola. Ricordo ai meno addentro all’architettura
del tempo (sperando nella benevolenza di mio cugino), che la Basilica venne
progettata da Arnolfo di Cambio nel 1296, iniziatane la costruzione, per poi
arrivare all’impianto centrale, laddove doveva ergersi la cupola. Ma non ne
vide mai una pietra. Tanto che progetto e cupola vennero ridisegnati da Neri di
Fioravanti, con un progetto che, nel 1367, l’Opera del Duomo mise come
irrinunciabile per l’edificazione finale. Ma ancora si doveva andare avanti per
circa 50 anni, arrivando alla grande gara del 1418, che vide trionfare il
progetto avveniristico e futuristico di Filippo Brunelleschi. Il quale era di
formazione orafo ed orologiaio, dedito alla costruzione ed ideazione di
marchingegni meccanici (tra cui macchine da guerra). Avendo tuttavia la bottega
che affacciava proprio al Duomo, nel suo animo sempre fu presente l’idea di
diventare l’artefice della cupola. Così che riuscì ad imporre il suo progetto,
per la costruzione di quella che è, tuttora, la più ampia cupola in mattoni
costruita al mondo. Una cupola fatta di otto spicchi a “quinto acuto”, con un
diametro interno di circa 45 metri. Con una serie enorme di problemi di statica
e di realizzazione, che Filippo interpretò e realizzò interamente. Ideò un
argano per portare i mattoni ai 45 metri d’altezza del tamburo. Nonché altri
macchinari per il trasporto del marmo pesante tonnellate sino alle altezze
dovute. Eliminò le antiestetiche centine che fino ad allora avevano rette
cupole simili, utilizzano catene di pietra e legno di castagno che raccordassero
i lavori. Sfruttando infine la statica dei mattoni a “spinapesce”, utilizzando,
pare, calcoli matematici dell’amico Paolo dal Pozzo Toscanelli (inciso: grande
matematico e cartografo misconosciuto, autore di una lettera ai regnanti
portoghesi dove calcolava, erroneamente, la distanza verso ovest delle Indie,
ma che fu di base delle discussioni che portarono al viaggio di Cristoforo
Colombo alla fine del secolo). Pur se poco aduso alle costruzioni
architettoniche, ho seguito con piacere le descrizioni di King, sia delle
soluzioni adottate, sia dei metodi per realizzarle. Per questo do un pieno voto
all’opera. Anche se poi, meno risalto viene dato alla vita del Brunelleschi
stesso. Di cui alla fine sappiamo solo, oltre al grande ingegno, che era brutto
di faccia, grande di cranio, basso di statura (pare secondo il calcolo delle
ossa si aggirasse su 1 metro e 53), e probabilmente “Florenzer” anche lui.
Comunque un libro gradevole. Un solo appunto per i revisori degli scritti.
Mentre la prima metà scorre tranquilla, a pagina 103 comincia ad apparire un
“argino” invece che “argano”. Poi a pagina 175 si profilano all’orizzonte
“conine” invece che “colline”. Infine, da pagina 200 in poi ci sono una serie
quasi infinita di refusi per pagina. Un po’ di attenzione non guasta, perbacco.
Giovanni Iudica “Il pittore e la pulzella – Un fiammingo ai tempi di
Giovanna d’Arco” Corriere della Sera Arte 35 euro 7,90
[A: 14/03/2017 – I: 26/08/2018 – T: 29/08/2018] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 188;
anno 2007]
Ecco uno degli
esempi tipici di come mi aspettavo si sviluppasse la collana. Disamina di un
pittore, della sua vita e del contesto in cui è vissuto. Con un autore che,
professore di Diritto Civile, si appassiona all’arte e ne fa uno degli scopi
della propria vita. Producendo diversi libri, per altro a me non noti. Ma
riuscendo a riversare in questo due ottime qualità: l’atmosfera del tempo ed
un’analisi (anche se spesso breve) dei quadri che denotano passione e capacità.
Tra l’altro, cimentandosi con un pittore non dico poco noto, ma probabilmente
sconosciuto ai più. Sarei curioso di saperne di più dal grande mio esperto
personale, mio cugino Alessandro. Viene infatti trattata la vita e le opere di Enguerrand
Quarton. Il nostro nasce nella cittadina di Laon, nel nord della Francia, verso
i confini dell’attuale Belgio, da povera famiglia. Portato alle arti, si
trasferisce nelle Fiandre, a Tournai, nella bottega di Robert Campin. Costui,
per chi non è aduso alle arti del tempo, è uno dei due iniziatori della pittura
fiamminga, che tanto è nota attraverso l’altro “fondatore” Jan van Eyck (che mi
fece conoscere la mia amica Chiara quando mi illustrò, centimetro dopo
centimetro, il “Polittico dell’Agnello Mistico” di Gand). Nella bottega di Campin,
oltre ai rudimenti della miniatura e della genesi dei colori, il nostro si lega
a Barthélemy d'Eyck (lontano parente di Jan), con cui si accompagnerà a lungo.
Qui, Iudica effettua un’operazione lecita dal punto di vista cronologico,
seppur ardua dal punto di vista storico. Quarton, che dovrebbe essere nato
intorno al 1410, ha circa 19 anni, quando scoppia la rivolta verso i dominatori
inglesi, guidata da una ragazza nativa di Domrémy-la-Pucelle, tale Giovanna. I
giovani della bottega di Campin sono infiammati d’ardore patriottico (Tournai
era comunque nel dominio Borgognone, che sosteneva di Delfino di Francia). Con
una lettera di presentazione a Renato d’Angiò, mecenate ed amico di Campin, si
presentano sui campi di battaglia. Non se ne sa di molto, se non che, alla
disfatta di “roi René”, con lui riparano in Provenza. Qui, da circa il 1440 in
poi, si hanno notizie più certe. Anche se sembra ragionevole che i due abbiano
seguito il conte di Valois nella spedizione napoletano dal 1435 al 1440
(circa). Spedizione dove, a maggior lustro delle loro opere, incontrarono gli
esempi della nascente scuola italiana, incontrando quasi sicuramente Antonello
da Messina. Dal 1445 in poi, Enguerrand e Barthélemy rimangono in Provenza
(come attestato da contratti ed altri documenti latini, che Iudica, con
scrupolo veramente degno riporta in coda al volume). Anche se i due scelgono
due carriere diverse. Barthélemy diviene il pittore di corte, mentre
Enguerrand, forte di notevoli commesse, apre una bottega indipendente. Da dove
usciranno i suoi capolavori, di cui quattro sono arrivati sino a noi: la
“Vergine della Misericordia della famiglia Cadard” (ora nel Museo Condè di
Chantilly), l’”Incoronazione della Vergine” (ora nel museo Pierre di
Lussemburgo a Villenueve-les-Avignon), il “Retablo Requin” (al Museo del Petit
Palais di Avignone) e la “Pietà di Villenueve-les-Avignon” (ora al Louvre).
Altri sono descritti nei documenti, molte anche le miniature e le illustrazioni
di libri di devozione. Poi, il nome di questo considerato uno dei maestri di
congiunzione tra i fiamminghi e gli italiani, disegnatore di una via francese
all’arte dell’epoca, a poco a poco scompare. Dovrebbe aver trovato la morte in
una delle due grandi epidemie di peste che sconquassarono la regione, tra il 1466
ed il 1474. Purtroppo, l’usanza di non firmare le pale d’altare, e la
distruzione delle stesse nel corso del tempo, hanno fatto sparire o dimenticare
il suo nome. Se ne salvarono appunto quei quattro esemplari nominati, in un
primo tempo attribuiti al suo mentore, il conte di Valois. Poi, documenti
ritrovati ed analisi stilistiche, ne hanno ricondotto la paternità al maestro
fiammingo-provenzale. Di cui sottolineerò solo l’Incoronazione che ritengo,
personalmente, la sua opera centrale. Una pala a tre strati, con sotto
l’inferno ed il purgatorio, sormontati da una parte centrale con a destra Roma
a sinistra Gerusalemme ed al centro la croce, che si allungo verso la parte
superiore, toccando il manto della Vergine. Parte superiore riempita di figure
e rimandi a personaggi storici e dell’epoca. Quello che sottolinea Iudica è la
possibilità che, nel viso della Vergine, il nostro abbia ritratto quanto
ricordava delle fattezze di Giovanna d’Arco, laddove, ad esempio, gli occhi
allungati non sono di certo caratteristiche mediorientali, mentre erano di
certo (almeno nelle descrizioni pervenuteci) proprie della pulzella. Due soli
appunti mi perito di portare avanti. Uno riguarda il nome di Enguerrand, che
Iudica non esplica, ma che è di interessante genesi, derivante dal germanico
Ing- e -hramn. Il primo connotato degli appartenenti alla tribù degli Angli,
tedeschi di antica stirpe. Il secondo significante “corvo” nel tardo germanico
(come da Beltramo). Per cui Enguerrand sarebbe per “Corvo degli Angli”. Il secondo
è l’editing del testo che ha lasciato refusi sparsi di dubbio gusto, e che un
bravo linotipista avrebbe di sicuro corretto. Come “mimare” invece che
“miniare”, “Prancia” invece di “Francia” o “fame” invece di “farne”. Chi sa di
caratteri a stampa mi avrà già capito. Comunque, un volume agile, che si legge
velocemente, e che lascia la voglia di andare a visitare un discreto numero di
musei cosiddetti “minori”.
Giuliano Pisani “I volti segreti di Giotto” Corriere della Sera Arte 32
euro 7,90
[A: 21/02/2017 – I: 03/09/2018 – T: 06/09/2018] - &&&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 313;
anno 2008]
Devo dire che
queste ultime letture della collana su “L’arte come romanzo” stanno facendo
risalire una iniziale china scivolosa, che mi aveva fatto dubitare sull’idea
per cui avevo comperato e poi iniziato a leggere questa collana. Qui, il
professor Pisani mi ha sorpreso e coinvolto in un viaggio di una bellezza
inaudita. Con la sua cultura di filologo classico, con la sua conoscenza delle
lingue antiche (in quanto anche professore di latino e greco in quel di
Padova), nonché con l’appassionato amore per l’arte e la sua storia. In questo
denso eppur scorrevolissimo libro, Pisani ci fa fare un giro completo in una
delle (mie) meraviglie del mondo: la Cappella degli Scrovegni in Padova e le
impagabili pitture dell’inventore della pittura, Giotto di Bondone. Pisani non
è solo un profondo conoscitore della Cappella (che visitai una decina di anni
fa, ma che dopo questa lettura devo rivisitare), ma con sapienti tocchi ci fa
fare alcuni impagabili viaggi. Il primo nella storia della Cappella stessa,
dalla sua costruzione poco dopo il Giubileo del 1300 sino alle terribili
distruzioni dovute all’incuria dei proprietari. Per arrivare, finalmente, alla
sua acquisizione cittadina, ed alla sua rimessa in sesto (credo avvenuta nei
primi anni di questo secolo). Il secondo è con Giotto e la sua pittura, anche
se poco si concede alla vita del pittore illustre. Vita di cui poco sapevo, ed
anzi pensavo fosse di poco risalto in vita. Alla fine scopro che Giotto è un
eccellente amministratore di sé stesso e delle sue fortune. Ed un fine
distributore delle sue opere. Il terzo e definitivo avviene passo dopo passo,
quadro dopo quadro, per l’intera Cappella. Scoprendone i segreti, le interne
alchimie, la bellezza e la molteplicità dei messaggi. Con due punti
fondamentali, che ormai tutti riconoscono a Pisani stesso di aver portato alla
luce. Il primo è l’idea teologica di tutta la cappella. Un’idea che fin
dall’inizio scopriamo essere agostiniana, piuttosto che dantesca. Ma Pisani va
oltre, e nel superbo quadro finale, dell’offerta della Cappella da parte di
Enrico Scrovegni alla Madonna, ci fa intravedere la mente teologica che ha
disegnato il percorso giottesco. Non ne abbiamo certezze sicure, che non vi
sono altre figurazioni dello stesso, ma nel frate inginocchiato che sorregge la
Cappella, Pisani individua il dotto patavino Alberto da Padova. Teologo poco
noto, ma, ad uno studio approfondito, risalta come una delle figure di spicco
dell’epoca, predicatore apostolico di Bonifacio VIII per il Giubileo, ed
interprete fino della teologia agostiniana. Come risalta dal modo in cui Giotto
raffigura l’Annunciazione, nei dieci quadrilobi delle prefigurazioni del Nuovo
Testamento, nella posizione contrapposto dei Vizi e delle Virtù, nonché nelle
figure antropomorfe del Giudizio Universale. Dove Alberto da Padova utilizza
non solo i testi agostiniani, ma anche i Vangeli apocrifi dello Pseudo-Matteo,
la “Legenda Aurea” di Jacopo da Varazze, ed altro ancora. Ma sono le figure
antropomorfe il secondo punto forte di Pisani. Che ad una analisi attenta del
quadro, demistifica la presenza dei quattro evangelisti sotto il mantello del
Cristo giudicante del Giudizio Universale, ponendo invece la rappresentazione
dei simboli allora in voga del passaggio dall’umano al divino con le quattro
figure (un'orsa con un luccio, un centauro, un'aquila/fenice e un leone,
immagini che rappresentano allegoricamente il battesimo, il dono
dell'immortalità, la vittoria sulla morte, la giustizia). Tuttavia questi sono
i punti forti e nuovi. Ma tutto il ciclo della Cappella, come ci viene porto
dall’autore, è da seguire con il fiato sospeso. Le Storie di Anna e Gioacchino,
di Maria, di Gesù, Allegorie dei Vizi e delle Virtù e Il Giudizio Universale rappresentano
un capolavoro assoluto della storia della pittura. Non ho la capacità, né la
voglia, di entrare nella descrizione puntuale di tutto il ciclo, che vi esorta
a leggere proprio nel libro di Pisani. Mi interessa soffermarmi invece sulle
allegorie monocrome che simboleggiano i Vizi e le Virtù. I primi nella parete
nord, i secondi in quella sud, rappresentati quindi in coppie contrapposte: Stultitia/Prudencia,
Inconstantia/Fortitudo, Ira/Temperanza, Iniusticia/Iusticia, Infidelitas/Fides,
Invidia/Karitas, Desperatio/Spes. Dove, unica reminiscenza di passate
giovinezza, aveva anche io colto la differenza tra l’interpretazione tomistica:
fede, speranza e carità, con le novità agostiniane: fede, carità e speranza. La
bellezza della contrapposizione è proprio laddove, superando gli ostacoli dei
vizi attraverso la cura delle virtù, si mette in moto il processo di
raggiungimento del Paradiso, che deflagra davanti a noi nell’ultimo,
impareggiabile quadro del Giudizio Universale. C’è un ultimo elemento di
messaggio giottesco nel frontone che portava gli Scrovegni, dopo la messa, a tornare
nelle proprie stanze. Due figure contrapposte, che non sto qui ad analizzare
puntualmente, che ci vorrebbero pagine e pagine, ma che, sinteticamente, Giotto
ci mostra come inizio e fine del nostro percorso. Sulla sinistra lo stolto che
siamo entrando nella Cappella, che non sappiamo ancora le Verità rivelate, e
sulla destra la conoscenza che ci deriva dall’aver fatto tutto il percorso
dalla riconciliazione di Dio con l’uomo al Giudizio Universale. Giotto ci ha
fatto vedere, noi, se abbiamo capito, non possiamo essere alieni dal perseguire
la virtù. Per questo chiudo con un lungo estratto del libro, quello che per me
ha rappresentato la sua lettura, ed il percorso che con Alberto da Padova, con
Giotto, con Pisani, ho cercato di fare. Alessandro e Roberto spero nella vostra
empatia perché questi dipinti e queste storie entrino in tutti i cuori ed in
tutte le menti.
“La Cappella degli Scrovegni ci ha chiamato a
vivere un’esperienza complessa in un luogo che non ha uguali al mondo. Ci ha
chiesto di leggere dentro di noi, di meditare sulla nostra essenza di uomini.
Ci ha posto interrogativi profondi sul significato della vita.
In senso laico e religioso.
Siamo stati invitati a rafforzare la nostra
volontà, a curare le passioni, a vincere le tentazioni che minacciano il nostro
equilibrio, a riflettere sul fatto che i nostri comportamenti dipendono
esclusivamente da noi. Questo richiamo al senso di responsabilità vale per noi,
uomini d’oggi, più ancora forse che in passato. Il cuore della concezione della
Cappella degli Scrovegni è il concetto etico di giustizia. Non occorre essere
credenti per seguire un percorso che ha per obiettivo la felicità in terra. Il
libro di Giotto contiene in sé i principi e i valori indispensabili per la vita
spirituale e civile dell’uomo: parla di libertà, di giustizia, di pace. Ci dice
che la pace è frutto della giustizia e che tutto, compresa la felicità, deriva
dalle nostre scelte e dalla valutazione che diamo degli eventi. Ci addita i
valori della riconciliazione, della fraternità, dell’umiltà. Ci indica la
terapia per renderci migliori.
L’altra felicità necessita di fiducia nella parola
di Dio, passa attraverso la scelta dell’amore e si alimenta della beata
speranza.
La via maestra è l’amore.” (249)
Marina Fiorato “La ladra della Primavera” Corriere della Sera Arte 26
euro 7,90
[A: 10/01/2017 – I: 07/09/2018 – T: 13/09/2018] - &&&--
[tit. or.: The Botticelli
Secret; ling. or.: inglese; pagine: 455; anno 2010]
La prima sorpresa
è che l’autrice, Marina Fiorato, non è italiana, ma inglese, sebbene di padre
italiano. E che il libro, piuttosto che l’anodino titolo italiano, meritava più
consonamente il titolo inglese “Il segreto di Botticelli”. Ma il divino Sandro
è un “intoccabile” del Rinascimento italiano, quindi, pur parlando di un suo
dipinto è meglio usare vie traverse. La seconda è che, benché pieno di
personaggi, con un mixage degno del miglior Dan Brown, di Botticelli si parla
poco. O meglio, si parla molto della Primavera, il quadro al centro del libro.
Ma poco dell’autore e della sua vita. Autore che di nome faceva Alessandro di
Mariano di Vanni Filipepi, che verrà detto Botticelli dal nome della
professione del fratello, orafo, o come si diceva al tempo “battiloro” o
“battigello”. Da cui con facili passaggi… Allievo di Filippo Lippi, il nostro
Sandro, già a 25 anni si mette in proprio. Poi gira per l’allora disunita
penisola italica, lavora alla Cappella Sistina, per poi diventare, dai trenta
anni in su, il pittore ufficiale della famiglia Medici. In auge per una decina
d’anni, dopo il 1490 incomincia il declino, prima per i problemi morali indotti
dalle predicazioni del Savonarola, poi per la difficoltà di mantenere alta una
produzione in quella che per l’epoca era una tarda età, anche per la
competizione con l’astro nascente Michelangelo (di trent’anni più giovane) o
con il multiforme Leonardo (quasi coevo). Ma di tutto ciò nulla ci dice la pur
simpatica, in scrittura, Marina, che imbastisce invero un bel pastiche
adottando una delle interpretazioni, tra le tante, dell’opera botticelliana, e
seguendo ovviamente tutt’altra strada. Quella, più divertente, della vita e
delle “Opere” di Luciana Vetra, modella part-time e prostituta a tempo pieno.
Poiché il dipinto de “La Primavera” viene commissionato a Botticelli per la
celebrazione delle nozze del ramo cadetto della famiglia Medici, quel Lorenzo
di Pierfrancesco che stava per contrarre matrimonio con una delle più belle
donne dell’epoca, Semiramide Appiani, l’autrice, seguendo l’interpretazione che
ne dà il prof. Guidoni, sposa la tesi “storica”. Tesi che vedrebbe
rappresentate nelle figure le città dell’epoca: Mercurio come Milano, Cupido
come Roma, le Tre Grazie come Pisa, Napoli e Genova, Venere come Venezia
e Borea come Bolzano. L’idea è che una serie di queste città, con l’avallo di
Roma (cioè del Papa Sisto IV) volevano consorziarsi, con l’aiuto dell’asburgico
Sigismondo ‘Austria, reggente del Tirolo, per creare già alla fine del 1400, il
Regno d’Italia. Tenendo questa interpretazione sullo sfondo, quello che
interessa alla scrittrice, invece, è il percorso sociale di Luciana, le sue
vicissitudini, il suo incontrarsi con la Storia. Lei, veneziana, arrivata in
modo strano in quel di Firenze, accolta dalle suore, da dove, quattordicenne
(più o meno), scappa. Per introdursi nel mondo delle prostitute, e con discreto
successo. Per la bellezza e per la spigliatezza. Tanto da essere scelta da
Botticelli come figura per la rappresentazione di Flora nel dipinto del titolo.
Luciana, ignara e maltrattata da Botticelli, fugge trafugando lo studio
preparatorio al dipinto. Da lì le sue sventure: vengono via via uccise tutte le
persone che le stanno intorno, tanto che l’unico modo per salvarsi è chiedere
la protezione di un frate, il mite Guido della Torre. I due, con molta
difficoltà, fanno sodalizio. E cominciano una specie di giro d’Italia, per le
città del dipinto, per decifrare il “vero” messaggio contenuto nel quadro. Ci
metteranno più di 400 pagine, e non so quanti morti. Guido avrà anche una crisi
religiosa, dopo che scopre essere anche il Papa all’interno della congiura, e
acquiescente alle uccisioni perpetrate. Ovviamente ci saranno sorprese, che
Luciana si scopre essere la figlia di una facente funzioni di moglie del Doge
di Venezia, chiamata familiarmente “la Dogaressa”. Si scopre che Guido è
l’erede di una delle grandi famiglie pisane, essendo il suo nome per intero
Guido della Gherardesca della Torre. Ci saranno incontri, tra il divertito ed
il divertente, con diversi personaggi. In primis, il maestro di navigazione
messa a disposizione dalla ritrovata madre, che si scopre essere Cristoforo
Colombo. Poi le macchine da guerra nascoste nel Castello Sforzesco di Milano,
realizzate dal giovane Leonardo. Non vi darò tutti i dettagli della congiura
(che alla fine è divertente scoprire nella decrittazione finale del quadro). Ma
non ci sorprenderà il lieto fine che già si annunciava a pagina 10 del testo.
Insomma, poche sorprese. E molti rimpianti di non aver seguito per nulla le
storie di Botticelli, delle sue avventure e dei suoi bellissimi dipinti. Ma in
particolare, la mancanza, nel testo italiano, di alcune riproduzioni del quadro
che avrebbero di certo aiutato a seguire la trama.
“Amore è quando qualcuno ti piace talmente
tanto che devi dargli un altro nome.” (425)
Seconda
domenica del mese, e piccola digressione, ma non molto intensa, dedicata ai
libri che dovrebbe leggere un quarantino (come direbbe Camilleri).
Il
Natale avvicina i suoi giorni a grandi passi, portando tutti a riflettere su
molte cose. Io mi dico alle mie riflessioni personali, alle “piccole cose di
tutti i giorni” (cit. Gozzano) e agli orizzonti collinari pirandelliani.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i
“bugiardini” di Giovanni
DICEMBRE 2018
Seppur lontani nel mio tempo,
pensavo che queste ricorrenze meritassero libri a me più vicini.
QUARANT’ANNI, AVERE
I DIECI
MIGLIORI ROMANZI PER QUARANTENNI
Vittorio
Alfieri “Autobiografia”
J.
G. Ballard “La gentilezza
delle donne”
Saul
Bellow “La resa dei conti”
Nikolaj
Gogol' “Taras Bulba”
L.
P. Hartley “L'età incerta”
A.
M. Homes “Che Dio ci perdoni”
Jack
London “Martin Eden”
Mario
Vargas Llosa “La zia Julia e lo
scribacchino”
Stephen
Vizinczey “Elogio delle donne mature”
Evelyn
Waugh “Una manciata di polvere”
Bugiardino
Allora, e come non ricordarne
seppur fugacemente, ricordo momenti giovanili passato sul Bellow di mio padre,
sul Gogol’ di mia nonna e sul mio Jack London. Come ricordo il da me non molto
amato Vargas Llosa. Altri non ne lessi né ricordo granché, di modo che la mia
attenzione riposa solo su Evelyn Waugh.
Evelyn Waugh “Una manciata di polvere” Bompiani euro 9,50
[tramato il 24 gennaio 2016]
Mi
aveva sempre incuriosito (e ne avevo accennato parlando di quel libro che mi
aveva preso di lui, “Quando viaggiare era un piacere”) il nome dello scrittore
Waugh. Che ho scoperto, primo chiamarsi per esteso Evelyn Arthur St. John. E
poi, anche se non molto usato, essere un nome ambivalente, maschile (poco) e
femminile. Tanto ambivalente che la prima moglie del signor Waugh si chiamava
Evelyn Gardner, e che, per distinguerli, gli amici li chiamavano He-Evelyn e
She-Evelyn. E non è solo un gossip questo inizio, che in questo che è considerato
il capolavoro dell’agre scrittore britannico, pare che molta parte del
personaggio di Brenda Last deriva proprio dalla prima signora Waugh, sposata
nel 1928 e divorziata nel 1930. Possiamo così passare a parlare di questo
libro, considerato un capolavoro d’ironia e di satira. Senza dubbio Waugh ha
una scrittura graffiante, per l’epoca della scrittura (siamo nel 1934), ma sono
graffi che sentono il passare del tempo, almeno in gran parte. La storia ruota
intorno alla famiglia Last, erede della tenuta degli Hetton nella campagna
inglese. Abbiamo Tony, il marito; Brenda, la moglie; e John Andrew, il figlio.
E tutta la prima parte direi che è ancora discretamente godibile. Entriamo,
infatti, nelle stanze della residenza gotica di Tony, trentenne che dopo alcuni
anni di godibile vita mondana in quel di Londra, con matrimonio con la bella
Brenda e nascita del figlioletto, si ritira in campagna, elemento più consono
alla sua natura. E fin dalle prime battute, e poi per tutto il libro, andremo a
sbattere con la sua incapacità totale di adeguarsi e capire il mondo. Pensa che
tutti siano felici di vivere in campagna, senza accorgersi che Brenda ormai se
n’è stufata. Pensa che Brenda voglia un pied-à-terre a Londra per studiare
economia, mentre lei lo usa per le sue avventure mondane. Pensa che John Beaver
sia uno scocciatore poco sopportato dalla moglie, mentre Brenda usa il suo
localino londinese per le sue scappatelle proprio con il suddetto John (che poi
risulterà comunque soltanto un arrampicatore sociale, e non sarà né di aiuto né
di conforto quando Brenda avrà difficoltà). Pensa che la principessa (finto)
araba sia un’amica di Brenda, quando è proprio Brenda che la assolda per
cercare di dare un’alternativa a Tony, visto che ormai lei è presa da John. La
prima parte finisce tragicamente quando John Andrew muore cadendo da cavallo. E
qui vorrei rilevare che questo è il terzo libro in pochi mesi in cui c’è un
ragazzo che muore ed intorno alla cui morte si dipanano le parti forti della
vicenda (oltre a questo, vi ricordo “Quello che ho amato” di Siri Hustvedt e
“Sportwriter” di Richard Ford). Qui si dimostra tutta l’intensa cattiveria di
Waugh. Quando a Brenda si comunica la morte di John, pensa alla morte
dell’amante, e quando scopre che è “solo” il figlio, tira un sospiro di
sollievo. Tony poi non riesce neanche ad organizzare un funerale decente. In
seguito alla morte, Brenda lascia definitivamente Tony. Ed anche qui, il nostro
imbecille ne combina di tutti i colori. Pensa che Brenda voglia un divorzio
amichevole, e cade dalle nuvole quando scopre l’ammontare degli alimenti
richiesti. Pensa di poter inscenare un divorzio per colpa, ma fa una pessima
figura assoldando una signorina per far finta che sia la sua amante e questa si
presenta con … la figlia. Deluso ed irretito da un ciarlatano finto
viaggiatore, Tony decide di partire per il Brasile. In nave fa la sua ultima
figura da niente, non capendo i sentimenti che per lui sta provando una
signorina di Trinidad, e la lascia bellamente andar via. Ritrovandosi poi nella
selva, dove il ciarlatano muore, lui prende la malaria, e viene curato da un
eremita analfabeta. Anche qui Tony non capisce nulla, pensando al signor Todd
come ad un benefattore, quando questi lo sequestra, lo usa per fargli leggere
il suo amato Dickens, e informa Londra che il signor Last è morto. Brenda
intanto, senza aver ottenuto alimenti, viene lasciata dal misero John, e si
consola con il deputato Jock (altra figura barbina, che per tutto il tempo, per
fortuna poco, in cui compare, non pensa altro che a fare un’interpellanza
parlamentare sui suini; ovviamente altra macchietta di Waugh). Ed il maniero
degli Hetton rimane nelle mani dei cugini di Tony. Insomma, Tony per tutto il
libro non ne fa una giusta. Brenda è simpatica nella prima parte, poi, dal
tentato divorzio (anche perché in questo Waugh tiranneggia l’altrettanto da
poco divorzianda prima moglie) perde sempre più colpi. La parte finale poi, è
molto appicciata. Tanto che non mi sono meravigliato quando ho scoperto essere
una novella pubblicata in precedenza da Waugh, e poi adattata a romanzo. Con un
andamento che mi sembra ripreso molto da quel posteriore (ed anch’esso a me
poco piaciuto) libro di Saul Bellow “Il re della pioggia”. Insomma, una serie
di frecciate, molto legate agli anni Trenta della Swinging London, ma ora
abbastanza spuntate. Sì, bel libro, bella scrittura, anche bell’adattamento
cinematografico (ne uscì pochi anni fa un film dal titolo “Il matrimonio di
Brenda” con un bel cammeo di Alec Guinness). Ma molto poco di più di così.
Meglio Waugh quando parla dei suoi viaggi.
Conclusioni
Come detto, pensavo ad altri e
più vicini libri per i miei lettori quarantenni. Questo (e gli altri citati)
non mi convincono molto. Una cura poco efficace ad una malattia che si cura
solo con il passar del tempo.
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