domenica 16 dicembre 2018

Saggi di Natale - 16 dicembre 2018


Forse sarebbe stato più giusto collocare questi “saggi” la prossima settimana, ma, forse, li avreste troppo mescolati alla congerie di info che viaggiano gli ultimi giorni prima di Natale. Per cui, alla fine, ho deciso di proporveli oggi. Laddove c’è un superlativo Terzani che vi dono senza altri commenti ed un interessante ultimo Bauman. Non poteva mancare, prima che finisca il cinquantenario, un pensiero al ’68. Infine, quale miglior momento di ragionare sul consumo?
Marie-Emmanuelle Chessel “Histoire de la consommation” La Découverte s.p. (regalo di Marina)
[A: 03/04/2018 – I: 26/05/2018 – T: 30/05/2018] - &&& - 
[tit. or.: originale; ling. or.: francese; pagine: 101; anno 2012]
Un saggio interessante, anche se ad un certo punto mi aspettavo di più. Comunque iniziamo dai sentiti ringraziamenti per l’amica Marina, che, non sopportando i romanzi, continua a leggere saggi. Ed a regalarli. Inciso: tanto per i romanzi, basta che legga le mie trame. Questo saggio, intanto, discretamente agile, ha un pregio ed una difficoltà. È chiaro e lineare, e questo non è da tutti gli scritti. Tuttavia, anche se giustamente cercando di corroborare lo scritto con informazioni aggiuntive, riempie le pagine (anche) con riquadri fuori contesto. Che ovvio, possono essere tralasciati seguendo il filo del ragionamento. Ma se poi al ragionamento vogliamo dare sostanza non si può che inglobarne la lettura. Ed allora il filo si aggroviglia, si perdono riferimenti mentali che si stavano costruendo. Insomma, tutto viene reso più difficile. Soprattutto per le persone anziane, che un ragionamento alla volta sanno seguire (e spesso neanche quello). La storia del consumo dal XVII° secolo ad oggi, passando per l’inizio dei consumi di massa, per il ruolo delle donne come consumatrici onnivore o della produzione e distribuzione dei beni e delle merci, la Chessel ci accompagna gradevolmente da un mondo polveroso e da “Re Sole” dove i ricchi consumano e sprecano e gli altri barattano per sopravvivere, sino al mondo odierno, al mondo del superfluo più che dell’utile. Certo, da buona francese, si concentra sulla storia e sulle problematiche dell’esagono (ricordo che se noi chiamiamo “stivale” la nostra terra, i francesi chiamano “esagono” la loro). Ma non può, per ovvie ragioni di influenza sul mercato, dimenticare il ruolo e le scelte che operano gli Stati Uniti, per loro e (purtroppo) anche per noi. L’idea di fondo, e da cui si parte, è semplice e stimolante: consumo o società dei consumi che sia, bisogna capire cosa c’è dietro e dentro la produzione, la distribuzione, l’acquisto e l’utilizzo delle merci da parte di persone che assumono gradualmente una propria identità. Quella di “consumatori”. E nel corso delle pagine, la Chessel prova a dare una risposta a tre domande fondamentali: quando inizia la “consumazione”? In quali territori fisici si svolge questa storia? Chi ne sono gli attori? Se queste sono le domande, e se le risposte sono nelle pieghe del discorso, un altro punto fondante che mi ha fatto riflettere è la presenza attuale, ma che da lungo si profila all’orizzonte del consumo: la contrapposizione tra il consumo etico e il consumismo. Entrambe, alla fine, si pongono come scopo quello del benessere dei consumatori, soprattutto nell’attenzione (o nella mancanza di attenzione) verso il consumo operato dalle classi meno abbienti. Fondamentalmente, non è proteggendo i lavoratori e gli operai che si partecipa al loro benessere, ma considerandoli come consumatori che in quanto tali sono in grado di pretendere prezzi competitivi, poche il mercato del lavoro garantisce loro un soddisfacente potere d'acquisto. Convince, in fin dei conti, un’affermazione che contrasta teorie astratte seppur discusse ed approfondite nel corso degli anni (“la mano invisibile” di Adam Smith, il “libero mercato” di David Ricardo, e via a studiare come non faceva di tempi di “Salario, prezzo e profitto” che spero qualcuno ricordi). Non si tratta quindi di riformare il capitalismo secondo dottrine astratte, ma di impegnarci quotidianamente "consumando in modo diverso". Vero Franco? Certo, il libro non tocca né approfondisce tutto (in fondo sono solo cento pagine). Non si studia il legame tra consumo e sviluppo economico. La storia della distribuzione delle merci è solo tratteggiata. Eppur tuttavia rimangono piccoli brandelli di “nuovo” che mi hanno ancora ed ancora aiutato nelle riflessioni. Uno, se vogliamo banale, è la variazione della misura dei carrelli nei centri commerciali. Sappiamo che tali centri nascono negli Stati Uniti, dove le famiglie entrano, prendono carrelli e li riempiono di tutto, con una corsa all’acquisto (anche) del superfluo che ci fa inorridire. Ebbene, all’inizio, importato in Europa, tale modello funziona poco. I carrelli sono troppo grandi, la gente non li riempie, e si sente frustrata nel bisogno di consumo emulativo. L’idea vincente: produrre carrelli più piccoli, che più facilmente di riempiono e rendono soddisfatto il consumatore. Altri esempi minori, anche se forti nel processo produttivo, sono ad esempio la diffusione del fordismo come utilizzo della catena di montaggio per produrre beni in poco tempo, con pochi costi, così che l’utilitaria sarà per tutti. O l’introduzione della Coca-Cola nel mercato europeo, che avviene solo nel 1919 alla fine della Prima Guerra Mondiale (ma ricordo che in Italia non entrò sino al 1927), nonché dell’utilizzo di Babbo Natale come testimonial della Coca-Cola stessa a partire dal 1931. Infine, qui termino analisi e spigolature, mi ha interessato la nascita di “Big Mac”, inteso come indice del potere d’acquisto di un bene, in questo caso un prodotto McDonald’s, per misurare il potere economico di una nazione: così vediamo come lo stesso panino in Svizzera costa €5,53 mentre in Egitto costa €1,58. Cifre che si commentano da sole.
Tiziano Terzani “Un altro giro di giostra” TEA euro 7,50
[A: 05/07/2016 – I: 29/06/2018 – T: 04/07/2018] - &&&&&  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 576; anno 2004]
Per me, tutto il senso del libro, e tutto il mio senso per il libro, è chiuso in quella frase che riporto in fondo. Il più grande viaggio, quello immancabile, ad un certo punto. E se vogliamo quello che vorremmo fare con la coscienza di farlo. Un viaggio verso sé stessi, per trovarci in fondo alla strada, dopo aver girato, anche con Terzani (ma anche no) da New York all’India, dal Tamil Nadu all’Himalaya. Terzani gira il mondo e le sue diverse situazioni per cercare di capire il rapporto tra il sé stesso malato ed il cancro. All’inizio, anche, e soprattutto, per capire se e come fosse possibile una cura. Se e come si potesse uscire dal tunnel. Terzani comincia con la medicina tradizionale, con il centro anti-tumori di New York. Con i bombardamenti chemioterapici. Ci colpisce la serenità con cui inizia ad affrontare questo viaggio. E la tranquillità di affidarsi alla allopatia. Quando il primo ciclo finisce, ed i dottori gli danno tregua, Terzani decide di cominciare a spendere il suo tempo in altre ricerche. Intraprende allora anche un viaggio fisico, oltre che mentale, che lo porta in India, in Tibet, nelle Filippine. Dialoga con tutti, parla con tutti, non si tira indietro, non esaurisce mai la sua curiosità. Dalle sue pagine escono fuori maghi, saggi, santoni. Prova tutte le medicine cosiddette alternative: le diete con le erbe, i digiuni, i canti sacri, la meditazione yoga, la medicina ayurvedica, l’omeopatia, la pranoterapia, fino al Qi gong ed al Tai Chi. Sono bellissime tutte queste pagine dove il nostro fiorentino errante non mette mai il tono del ridicolo in nessuna possibile cura. Come laicamente facemmo noi, durante gli studi sugli approcci psicoterapici, la medicina buona è quella che ti fa sentire bene. Lo psicologo buono non dipende da questa o quella branca di pensiero, ma se quel pensiero arriva al tuo corpo, al tuo cuore, alla tua mente. Come diceva sempre allora uno dei miei mentori “Il corpo non mente”. Terzani è tuttavia sempre stato scettico su tutte le cose che ha incontrato nella vita, adottando sempre ed ovunque il motto di capire prima di riproporre (non di giudicare, che mi sembra sia sempre stato alieno a questo metro di espressione). Quello che trova in Oriente, non è, non sarà una cura al suo male, ma il modo di rovesciare il problema, di accettarlo. Di trovare una sua pace interiore. Quando anche l’ultima medicina ha rivelato la sua fallacità, Terzani ci fa capire che il suo viaggio attraverso tutti i possibili modi di curare il proprio corpo malato, è in realtà un viaggio che deve servire a curare LA malattia (scusate l’uso del maiuscolo ma qui ci vuole). Una malattia che colpisce tutti, la paura della morte. Quindi non siamo in cerca, soltanto, di una cura per il corpo, ma di una cura per l’anima. Una cura che devo portare a cambiare il proprio punto di vista, che ci deve portare ad essere in armonia con tutte le cose, visibili ed invisibili, animali e minerali. Terzani, con la sua barba bianca, con il dhoti gandhiano, assume un andamento “naturalmente” francescano. Dopo aver girato il mondo, dopo aver salutato i suoi amati monti himalayani, si ritira per l’ultima fase della vita ad Orsigna, nell’Appennino Toscano, chiudendo il cerchio vitale con la sua nascita fiorentina. Lui ha ritrovato il senso del vivere e del morire. E non finisce mai di esserci utile, quando continua, ricordando anche i suoi trascorsi giornalistici, a farci ragionare sui rapporti umani. Ci parla delle guerre che ha visto, sperando di portarci verso quella pace che non vede e non vedrà. La bellezza dello scritto è che in ogni elemento che incontra nella vita vede qualcosa e ce lo comunica. Dal piccolo al grande. Chi è malato, chi vede da vicino, in sé o in altri, le malattie, anche le più terribili, sente, con me, una terribile angoscia leggendo queste pagine. Non perché facciano vincere quella malattia invincibile che è la paura della morte stessa. Ma perché sappiamo, so, che non saprò mai affrontarla. Il grande merito di Terzani, ed il grande “odio” che provo per lui (e capitemi perché l’ho virgolettato), è che mi ha ricordato che non possiamo dimenticarci della morte. In questi anni, dove molte persone a me care ci hanno lasciate, papà, mamma, Gastone, Paolo, Carlo… In questi anni dove anche noi stiamo accumulando anni e mesi. E di sicuro, anche se non so come né con quale angoscia, è più vicina una fine che un inizio. Ti odio Terzani che me lo ricordi. Ti amo profondamente, perché so che non ne sarò mai capace, ma so che qualcuno ci prova e forse ci riesce. Ti voglio infintamente bene per come hai saputo mostrare il tuo amore per Angela. Così bello che non voglio parlarne di più. Caro Tiziano, infine, il tuo libro è talmente denso, che lo citerei tutto. Ma per ora tante e tante sono le frasi che mi rimangono, che solo alcune riesco a condividerle. E qualcuno leggendone ne saprà.
“In Ladakh le malattie di cuore sono pressoché sconosciute perché la gente vive all’aria aperta, mangia cibi biologici e non ha bisogno di andare in palestra per tenersi in forma.” (62)
“La distanza che si crea fra i sani e i malati mette alla prova i rapporti tra le persone.” (70)
“La caotica, indiscriminata valanga di informazioni prodotta da internet ha creato quell’ormai diffusissimo sapere a metà che è la peggiore e la più pericolosa forma di ignoranza.” (90)
“Chi ama l’India lo sa: non si sa esattamente perché la si ama. … L’India … fa sentire ognuno parte del creato.” (153)
“Viaggiare mi esaltava, mi ricaricava, mi dava da pensare, mi faceva vivere.” (196)
“Non c’è felicità per chi non viaggia.” (204)
“L’apparente indifferenza [degli indiani] mi colpì ricordandomi quello che mi è sempre sembrato il buco nero dell’induismo: l’assenza di compassione.” (223)
“Nel corso della ita tante cose possono andarci storte, e di solito lo fanno.” (297)
“Il problema sono io e io sono la soluzione … L’onda non ha bisogno di diventare oceano, deve solo rendersi conto di essere oceano.” (350)
“Il Kathakali [è] la vecchia forma teatrale del Kerala … Sulla sinistra del palcoscenico stavano i tamburisti, capaci con le mani o le bacchette di ricreare il frastuono di una battaglia, lo scorrere di un torrente o il quieto tic-tic di una goccia d’acqua che cade su una foglia. Sulla destra stavano i cantanti. Con l’aiuto di cimbali, di un gong e di un’orchestra d’una ventina di uomini, tutti a torso nudo, allineati dietro, loro raccontavano la storia e pronunciavano le battute dei vari personaggi, perché nel Kathakali gli attori sono muti, al massimo emettono dei suoni gutturali. Gli attori «parlano» coi loro movimenti; comunicano pensieri ed esprimono stati d’animo coi gesti delle mani; ‘dicono’ con le smorfie e con gli occhi.” (400)
“La malattia è una forma di disarmonia con l’ordine cosmico.” (450)
“Se uno non ha niente dentro, non troverà mai niente fuori. È inutile andare a cercare nel mondo quel che non si riesce a trovare dentro di sé.” (516)
“Viaggiare era sempre stato per me un modo di vivere e ora avevo preso la malattia come un altro viaggio: un viaggio involontario, non previsto, per il quale non avevo carte geografiche, per il quale non mi ero in alcun modo preparato, ma che di tutti i viaggi fatti fino ad allora era il più impegnativo, il più intenso.” (Prologo)
Micromega “1 e 2 – 2018 / Il Sessantotto” Repubblica editore euro 19,50
[A: 26/01/2018 – I: 24/09/2018 – T: 28/09/2018] - &&& e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 431; anno 2018]
Comprato all’inizio delle “celebrazioni” del cinquantenario e letto quasi alla fine, ma letto. Non sono particolarmente amante di MicroMega né tanto meno del suo direttore Paolo Flores d’Arcais (anche se ricordo con piacere l’amicizia giovanile con Alberto), tuttavia questo numero speciale non ho potuto fare a meno di comprarlo. E di leggerlo. Non è omogeneo, non ha pretese (e sono contento di questo) di analisi dotte (ci sono altri luoghi ed altri spazi, secondo me). Tuttavia ha due elementi sicuramente positivi: alcune testimonianze, o meglio ricordi, del periodo, ed alcuni documenti contestuali alla data. E se su questo secondo punto torneremo più avanti, non posso fare a meno di rilevarne alcuni aspetti “estremi”, come le righe che riporto in finale. Indubbiamente, pur nella loro disomogeneità, dovuta anche alla diversa età dei narranti, una delle parti che più mi hanno attratto è la “memoria” di chi ha partecipato a quegli anni cruciali. Ribadisco subito: plurale, che il ’68 in Italia è stato uno degli anni più lunghi che conosco, partendo dall’aprile del ’66 quando muore Paolo Rossi sulla scalinata di Giurisprudenza e finendo il maggio del ’78 con l’uccisione di Aldo Moro. Un anno durato 13 anni! Cruciali, poi, che la vita in Italia, bene o male, è stata diversa prima o dopo quegli anni. Dove molti dei protagonisti hanno fatto strade e percorsi diversi, dove la stessa politica, lo stesso modo di intrecciare rapporti tra forza lavoro e capitale economico ha avuto impennate e cambiamenti. E dove lo stesso vivere sociale è mutato. Senza l’anno cruciale, non credo ci sarebbe stato il divorzio, l’aborto, il sindacalismo sfrenato, i colletti bianchi, l’assistenzialismo, il culto del minimale. Forse una serie di conquiste avrebbero impiegato più tempo ad entrare nelle coscienze. Forse una serie di arretramenti sarebbero stati vissuti in modo diverso. Forse, e sottolineo molte e molte volte il dubitativo, non saremmo in questa contingenza invivibile di questi anni 2000. Ma torniamo al testo ed ai suoi contenuti. Dicevo delle memorie, di cui si legge con piacere, con le loro varie esperienze e che elenco in ordine discendente di età nell’anno fatidico: Camilleri (43 anni), Luciana Castellina (39 anni), Nicola Piovani (32 anni), Renzo Piano (31 anni), Piera Degli Esposti (30 anni), Francesco Guccini (28 anni), Gian Carlo Caselli (29 anni), Paolo Flores d’Arcais (24 anni), Massimo Cacciari (24 anni), Paolo Mieli (19 anni), Carlo Verdone (18 anni). Sono anche ripotati ricordi e memorie di vari esponenti della lotta di quegli anni provenienti da tutta Europa e dall’America (in fondo, un altro inizio si ebbe alla Columbia University a New York e ne parla Paul Auster, un altro nel maggio francese con Daniel Cohn-Bendit, uno in Germania con Rudy Dutschke, e via discorrendo). Ma io ritornavo sempre alle memorie italiane, a gli Uccelli di Architettura, a “La Zanzara” del Parini di Milano, e Bologna, a Torino. Ripensando ai miei di quegli anni. Io, giovane liceale, scaraventato in questo mondo in folgorante ascesa. Io che manifestavo contro i colonnelli davanti all’Ambasciata Greca a Piazza Ungheria, alle assemblee dl mio liceo, il Righi di via Sicilia (sempre surclassato dai vicini del Tasso), alle prese di posizione con Piervittorio, con Fabrizio. Ma anche alle discussioni con mio padre, che in quegli anni stava mettendo su l’impresa della sua vita, quell’agenzia di stampa, coordinamento tra i cattolici di base, con cui tornerà a fare politica, e con cui andrà avanti lottando e soffrendo sino alla morte, quaranta anni dopo il ’68. L’altra parte molto interessante invero dell’operazione MicroMega è la ripresentazione di alcuni documenti dell’epoca. Alcuni che avevo perso e di cui avevo sentito vagheggiare, li ho letti con estremo interesse. La poesia di Pasolini “Il PCI ai giovani” sui fatti di Valle Giulia, ed il successivo dibattito pubblicato dall’Espresso nel giugno del ’68. La stessa cronaca della battaglia di Architettura, in un articolo firmato da Giampaolo Bultrini e Mario Scaloja, ma scritto sulla base della testimonianza di prima mano di Paolo Mieli. Anche se non coevo, il dibattito a vent’anni dal ’68, che coinvolgeva in una tavola rotonda protagonista dell’anno mirabile, ma che già avevano fatto scelte diverse: Adriano Sofri e Paolo Flores d’Arcais, ancora a discutere, Fabio Mussi, entrato e restato a piè pari nel PCI, Gianni De Michelis, rampante del PSI, Roberto Formigoni, passato al tempo in Comunione e Liberazione, e poi con tutto il percorso che si conosce. Ma ancora più interessanti, e con una difficoltà enorme di lettura sono gli estratti di una rivista che ben si conosceva, “Servire il popolo” con il suo maoismo estremo, e l’articolo già del ’64 di Mario Tronti, intitolato “Lenin in Inghilterra” e di cui riproduco alcune righe di una chiarezza estrema (!!). Di certo, tanto altro si può dire su questo scritto. Tanti spunti che sobbollano nella mente: la classe operaia, il rapporto operai-studenti, le contraddizioni della borghesia. Tanto si può anche dire di come il disgregarsi in momenti e rivoli vari (da quelle lotte, come non ricordare “Lotta Continua” di Sofri, “Potere Operaio” di Oreste Scalzone e Franco Piperno, "Avanguardia Operaia" di Silverio Corvisieri, ed a cui aderì in gioventù anche Claudio Bisio) che portarono (anche) alla lotta armata, di cui nulla so se non di quello che si diceva in assemblea negli anni ’70. E di cui il vero e forte ricordo è la mia avversione all’etichetta “compagni che sbagliano”. Ma non voglio tornare sopra queste macerie. Voglio solo tornare alle idee di quegli anni, forti, coinvolgenti. Ed ai fari che illuminarono la mia strada buia e tortuosa. In primis, Mario Mineo che mi diede un sentiero che seguii per molti anni. E poi, subito dopo, quelli che sono ancora tra i miei amici più cari. Luciano, Ciccio, Giuzzo. Ed altri che ho perso per strada, sia per scelte diverse sia, purtroppo, perché gli anni passano e qualcuno ci lascia. Corradino, Massimo, Cesare. Non sono mai stato un teorico, solo un ricercatore di tante cose. Forse la definizione più azzeccata è quella che mi si attaccò alla scrivania di Praxis in quegli anni. Io ero il “funZioMario”. E forse, in fondo, lo sono ancora. Per finire però con lo scritto, dicevo, non sempre ha una sua compattezza, non sempre riporta quello che ci si aspetta, e spesso le omissioni sono più pesanti delle presenze. Tuttavia un numero di rivista che, con tutte le difficoltà del caso, ho letto, anche molto lentamente. Per tornare, ogni tanto, alle mie vicende di cinquanta anni fa. A quando si lottava, certo, ma anche si cercava un’identità, sociale e personale. Ed ai rapporti liberi che tutti avevano (o dicevano di avere), ed io che cercavo ancora di uscire dall’adolescenza. Non dico altro, e vado a ripensare ai miei amici ed alle mie amiche di allora.
PS: varie volte citati negli articoli, per ragioni di formato non possono essere inclusi in un libro, ma vanno, andrebbero e saranno visti gli spezzoni cinematografici girati dal grande Silvano Agosti.
“Sofri (gennaio 1988): Dico tre cose. La prima: il protagonista di ‘Qualcuno volò sul nido del cuculo’, dopo il fallimento del suo tentativo di fuga dice ‘perlomeno ci ho provato’. … La seconda: mi piace molto il verso di quella poesia [di Kafavis nota mia] che dice ‘felice chi come Ulisse ha fatto un bel viaggio’, anche se poi deve tornare a casa. La terza: … non è detto che l’esser stati sconfitti provochi per forza rabbia. Si può anche fare un buon uso della sconfitta.” (1/227)
“Comprai una cinepresa … me la vendette Isabella Rossellini … così cominciai a fare i miei primi film … non erano parlati, c’era solo una colonna sonora strumentale, spesso di Iannis Xenakis” [allora forse non sono il solo a conoscerlo… dai ricordi di Carlo Verdone] (2/116)
“Si contraddicono … il momento politico della tattica e il momento teorico della strategia, in un rapporto complesso e molto mediato tra organizzazione rivoluzionaria e scienza operaia” [dall’articolo di Mario Tronti “Lenin in Inghilterra”, gennaio 1964] (2/165)
Zygmunt Bauman “L’ultima lezione” Laterza euro 9
[A: 03/04/2018 – I: 01/11/2018 – T: 05/11/2018] - &&&&
[tit. or.: mixed title see below; ling. or.: inglese; pagine: 75; anno 2018]
Un libro, pur nella sua complessità, imperdibile e fortuitamente breve. Prima di tutto perché, appunto, contiene la brevissima, eppur tuttavia densa di riflessioni, ultima lezione di Bauman, morto or quasi sono due anni. Lezione tenuta al Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato nell’ottobre 2016 (Bauman morirà a gennaio del 2017), nel corso della manifestazione intitolata “La fine del mondo”. Inciso: ricordo con piacere la mia visita al Centro nel momento dell’inizio dell’opera di riqualificazione di Valdemaro Beccaglia nel 2005. E chi sa sappia. Il veloce libro, oltre alla lezione, contiene un saggio inedito di Bauman dal titolo “L’eredità del XX secolo e come ricordarla” [tit. or. “Categorial Murder, or the Legacy of the Twentieth Century and How to Remember It”] ed un lavoro sull’autore a firma Wlodek Goldkorn, per anni responsabile culturale de “L’Espresso”. Tutti e tre I pezzi sono ben degni di nota. Intanto, Goldkorn serve, a chi conosce poco l’autore, ad inquadrare Bauman nel suo tempo e nel suo ruolo di intellettuale pubblico. Goldkorn ci fa rivivere la storia di Bauman dalla natia Polonia (ove nacque nel 1925), alla guerra che segnò una svolta epocale nel suo pensiero, al dopo guerra difficile oltre cortina fino all’emigrazione in Inghilterra nel 1956 (dopo i fatti d’Ungheria) ed agli ultimi 50 anni di pensiero pubblico sempre coerente e curioso. Con quell’accento sulla liquidità della vita moderna, ben sviscerato in molti suoi scritti di cui spesso ho parlato. Vita che sfugge ad imbrigliamenti, ma che scorre, fluisce, inarrestabile. I testi sono talmente brevi che si farebbe prima a leggerne che a parlarne. Vorrei solo tirarne fuori delle impressioni a caldo. L’ultima lezione fonda la “paura” della fine del mondo (o del proprio mondo), sulla impossibilità, rispetto al passato, che abbiamo di controllare le nostre vite. Con tre esempi folgoranti: il crollo degli istituti di credito, che ha drasticamente ridimensionato le spinte al consumo; l’afflusso degli stranieri nel nostro quotidiano, inducendoci a pensare che potrebbe succedere anche a noi; e per ultimo l’aspetto ambientale, i terremoti e gli tsunami che distruggono inaspettatamente la nostra vita. Tutto ciò distrugge la fiducia nel futuro, ci fa rivolgere all’oggi, e ci fa “consumare” il presente, producendo ogni volta catastrofi più ampie. Eppure non sarebbe difficile pensare a controllare le banche, ad impedire, sul nascere, guerre ed esodi, ad operare affinché la natura sia di nuovo benigna. Chiuderei questa prima parte ricordando il detto cinese spesso citato dallo stesso Bauman: “Se pensi all’anno prossimo, semina il granturco. Se pensi ai prossimi 10 anni, pianta un albero. Se pensi ai prossimi 100 anni, istruisci le persone”. Questo ci fa transire al secondo saggio, che si basa su premesse identiche: la sfiducia del futuro reca le premesse degli sconquassi presenti. Ci si ricorda di Hobbes che confidava nello Stato perché il cittadino potesse avere fiducia nella vita. Ma lo Stato deve eliminare i rami secchi, e le conseguenze, fettina di salame dopo fettina, sono presenti e precipitate in quello che Bauman non chiama “Olocausto” (che etimologicamente è un sacrificio offerto a qualcosa o qualcuno) ma “Omicidio categoriale”, cioè omicidi che colpiscono una categoria di persone: gli ebrei sotto il nazismo, gli armeni da parte dei turchi, e via uccidendo. Quindi, non possiamo, non dobbiamo dimenticarci che lo Stato sono le persone che lo guidano, che tutti hanno responsabilità, nel bene e nel male. Non c’è soltanto, come diceva Hannah Arendt “La banalità del male”, ma c’è, ci deve essere, presente sempre nella nostra mente la possibilità di operare. E ricollegando i due scritti, operare per fermare catastrofi immani che rendono inguardabile il nostro futuro, lavorando come nella prima delle frasi che ho riportato. Certi che la conseguenza della non operatività verso queste catastrofi porta sempre più ognuno ad isolarsi, ad essere “soli con il proprio cellulare” (e non vorrei riprendere vecchie a sempre nuove storie sui social media). Le piccole cose ci permettono di uscire dalla conseguenza più detrimente di queste catastrofi: la solitudine. Che non vuol dire essere soli, ma non interagire con il mondo. Una riflessione che faccio pienamente e completamente mia.
“Mi permetto di suggerire che … le piccole cose che possiamo fare nei limiti delle nostre capacità … sono moltissime, tanto da poterci impegnare per l’intera nostra esistenza.” (18)
“Stalin proclamò che la fine dell’ingiustizia … era dietro l’angolo.” [e Di Maio, allora?] (32)
“La memoria seleziona e interpreta … tenere vivo il passato è un obiettivo che può essere raggiunto solo mediante l’opera attiva della memoria … ricordare è interpretare il passato … raccontare una storia significa prendere posizione sul corso degli eventi passati.” (42)
Visto che siamo alla terza settimana, e si avvicina il “dolce” Natale, non può mancare l’allegato dedicato ai libri che di rendono felici.
Credo di aver detto già molto in questa trama prenatalizia. Non avendo altro da condividere, che viaggi ed altre piacevolezze sono ancora ferme al palo, prendo l’occasione natalizia per rinverdire i legami amicali con tutti voi e abbracciarvi forte.

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni

DICEMBRE 2018
Direi che ci sta tutto: un po’ di cioccolato sotto Natale!

RIMEDI GHIOTTI (II)

DOLCE COME IL CIOCCOLATO di LAURA ESQUIVEL (1989)
Un pizzico di trama  
Tra Tita e Pedro è amore a prima vista, ma a causa di un’assurda tradizione non possono sposarsi, perché la ragazza è costretta a badare alla (terribile) madre. Se il destino è beffardo, però, i due sfortunati e passionali amanti provano a loro volta a beffare il destino e, pur di rimanere accanto a Tita, Pedro sposa la sorella Rosaura. Ma non è anche questa una beffa per Tita? Alla ragazza non resta che sfogare ai fornelli la sua focosa passione, trasformando il cibo nel veicolo di un’inusuale comunicazione erotica.
Un cucchiaio di saggezza
Il sottotitolo di “Dolce come il cioccolato” è «romanzo piccante in dodici puntate con ricette, amori e rimedi casalinghi». Ogni capitolo, infatti, inizia con una ricetta, dodici in tutto, la cui spiegazione viene interrotta dal racconto della vita di Tita. Ognuna aggiunge un ingrediente a quel piatto piccante, dolce e amaro rappresentato dalle vicende della protagonista e della sua travagliata storia d’amore, imbevuta di magico realismo e ambientata negli armi della rivoluzione messicana. Ma non vi aspettate uno zuppone di latte su cui versare calde lacrime di tristezza, perché il romanzo è sì dolce come il cioccolato, ma non stucchevole come un marshmallow. A fare la differenza stemperando i toni dolciastri è quel pizzico di magia surreale e di originale ironia che sono ingredienti tipici della cultura sudamericana, a cui si mescola una buona dose di piccante passione che neanche il dolore per un amore negato può mettere a tacere. Il titolo originale, che ne restituisce il vero sapore, è “Como agua para chocolate”. In Messico la cioccolata calda si fa con l’acqua e non con il latte, quindi l’autrice allude alla fusione perfetta di due ingredienti che diventano una cosa sola: una voluttuosa, dolce e sensuale cioccolata bollente, e il paragone culinario è messo in relazione non tanto all’amo-re di Tita quanto alla sua rabbia di avere la felicità a portata di mano senza poterla afferrare. Ciò che sente la protagonista alla vista di Pedro è ciò che prova una frittella quando entra a contatto con l’olio bollente, altro che sdolcinatezze zuccherose in cui sciogliersi, quindi, qui si frigge di pulsioni erotiche per una storia che, raccontata con uno stile carico d’ironia, scorre “veloce come il desiderio” (titolo di un altro romanzo di Laura Esquivel). L’autrice è una raffinata cuoca e così trasforma la vicenda amorosa di Tita e Pedro in un appetitoso ménage à trois in cui la punta del triangolo è il cibo, non un piatto di contorno, ma la portata principale, un modo per esprimere stati d’animo e scatenare forti emozioni. Come ogni chef sa bene, in cucina non si butta via niente e così Tita trasforma i sentimenti per Pedro in ingredienti che inavvertitamente aggiunge alle sue ricette, sublimando in succulenti manicaretti la sua passione. Spesso le emozioni riversate nei piatti che prepara sono così forti da provocare surreali effetti collaterali, come quando, nella torta nuziale per il matrimonio del suo amato mette amarezza e lacrime, provocando un’ondata di malinconia e rimpianto per gli amori perduti, che intristisce tutti gli invitati causando loro una memorabile intossicazione; o quando nelle quaglie con salsa ai petali di rosa riversa passione erotica mista a sangue e sua sorella viene contagiata da una travolgente eccitazione sessuale che la costringe a correre nuda per le strade fino a sfogare tale ardore in un amplesso epocale. Ma sono inconvenienti che capitano in cucina. Nel romanzo il cibo non è inteso come surrogato del sesso ma come sensuale linguaggio dell’anima che può rivelarsi più eloquente e nutriente di molte parole, unico modo possibile in cui i due protagonisti possono concedersi insolite relazioni erotiche. Quando si dice “fare l’amore con il sapore”. Ma l’inaspettato finale rivela che la consumazione di nessun cibo, per quanto gustoso, potrà mai competere con la consumazione di una vera passione che incendia il cuore come un piatto flambé. L’amore fa perdere la testa ma in cucina non ci si può distrarre, basta un niente e il flambé si trasforma in un incendio. Così Tita si distrae con Pedro, il fuoco della passione divampa, i due amanti s’incendiano come una scatola di fiammiferi e.… mi fermo qui per non rovinare il dessert.
Posologia
“Dolce come il cioccolato” è un rimedio casalingo, una piccante ricetta alternativa per curare più di un malessere. Formulata per animi sensibili all’amore, ma ben tollerata anche da chi manifesta forme di dermatite da contatto per storie eccessivamente sdolcinate, è una crema dalle speciali proprietà lenitive utile a medicare i disagi causati da vuoti d’amore, amori ostacolati e amori noiosi. Ma i maggiori benefìci si ottengono nel caso in cui la propria vita sessuale sia piuttosto insipida o desolante, come un frigo vuoto, se non per quello squallido pezzo di formaggio ammuffito che non è gorgonzola. Con la sua formulazione speciale, quasi magica, a base di cibo e amore, rafforza la convinzione che cucinare con sentimento (o cucinare i sentimenti) sia una validissima medicina per esaltare il gusto della vita e trovare conforto quando tocca ingoiare bocconi amari. Il libro è risolutivo per curare la frigidità culinaria che solitamente corrisponde a un atteggiamento freddo e poco passionale anche nei confronti della cita. Con il suo potenziale afrodisiaco dovrebbe stimolare il desiderio di cedere alla passione anche per il buon cibo.
Se come Tita siete infastiditi da un buco nero nel petto dentro il quale s’insinua un freddo infinito, frizionare con energia il romanzo sul petto vi riscalderà rapidamente; se vi sentite svuotati come un piatto su cui rimangono soltanto le briciole di una torta prelibata, Laura Esquivel vi offrirà un’altra porzione di dolce riempiendo di nuovo il vostro piatto (e il vostro vuoto emotivo); se pensate che niente riuscirà più a far ardere di passione la vostra anima, troverete tra le righe un fiammifero per riaccendere il fuoco. A proposito, si raccomanda l’assunzione di “Dolce come il cioccolato” soprattutto quando si presenta il bisogno di infiammarsi d’amore. Secondo l’autrice, infatti, ognuno di noi ha dentro di sé una scatola di cerini. Per accenderli abbiamo bisogno di una candela, che può essere il cibo, la musica o una qualunque passione, ma soprattutto è necessario il fiato della persona amata. La combustione nutre la nostra anima tenendoci vili. Ciascuno deve scoprire ciò che innesca la propria personale combustione per tenere sempre accesa la fiamma prima che la scatola di fiammiferi si inumidisca così come la nostra energia vitale. La domanda è: ma se manca il fiato della persona amata come lo accendiamo questo cerino? Suggerisco di prendere fiato dalla lettura di amori altrui. I libri sono la candela, le storie l’ossigeno.
Avvertenza: si consiglia di evitare il contatto con le persone dal fiato gelido perché cercheranno in tutti i modi di spegnere la vostra fiamma. Ma fate attenzione anche a non accendere i cerini tutti insieme. La passione è un sentimento da maneggiare con cura.
Effetti collaterali
L’effetto collaterale più frequente è il desiderio di chiudersi in cucina per riversare la propria eventuale tempesta emozionale in una serie di manicaretti. Viste le controindicazioni segnalate nel romanzo, si consiglia di procedere con cautela. Soprattutto i lettori affetti da quel disagio piuttosto comune che consiste nell’incapacità di esprimere i propri sentimenti a parole, potrebbero essere tentati di provare a farlo con il cibo. Ma se in cucina non siete pratici, evitate di lanciarvi nella preparazione di piatti troppo elaborati per evitare il rischio di essere fraintesi e accusati di tentato omicidio quando volevate solo dichiarare il vostro amore.
Consigli dello chef
Potrebbe giovare alla salute cimentarsi nella preparazione dei gustosi piatti messicani di Tita: focaccine di Natale, chilaquiles, torta chabela, champandongo, torrejas di panna, fagioli alla tezcucana e peperoni in salsa di noci. Ma tengo a precisare che la ricerca degli ingredienti potrebbe non essere facile e l’esecuzione lunga ed elaborata. Se volete un consiglio spassionato, per rendere più confortevole la cura può essere più che sufficiente un’inebriante tazza di cioccolata calda preparata con l’acqua, come vuole la tradizione messicana. Da gustare leggendo il libro rigorosamente sotto una bella, lunga c calda coperta (durante la cura capirete il perché della coperta).
Terapia cinematografica sostitutiva
Con la cucina e l’eros come ingredienti principali, “Dolce come il cioccolato” non poteva non ingolosire il cinema. Nel 1992 Alfonso Arau ha portato sullo schermo la storia di Laura Esquivel, che ha collaborato alla sceneggiatura. Il risultato è “Come l’acqua per il cioccolato”, in cui il regista messicano è riuscito a mantenere lo stesso sapore del romanzo muovendosi tra toni da fiaba, atmosfere calde e quel pizzico di realismo magico (che ogni tanto vira verso il soprannaturale) che è la cifra narrativa sudamericana. Il film è decisamente dolce come il cioccolato, cioccolato al latte, ma come nel romanzo il finale lascia quel sapore amaro che non ne intacca il gusto.

Commenti

Il cioccolato, purtroppo, come tutti i cibi, invecchia. Va mangiato e gustato nel gusto tempo. Questo libro, invece, forse l’ho letto quando un po’ di patina imbiancava i quadratini.
Laura Esquivel “Dolce come il cioccolato” Garzanti euro 9,90
[pubblicato il 29 settembre 2015]
Finalmente leggo questo antico (nel senso di trentennale, ma che sono molti per una simile scrittura) libro, presente da anni nelle mie famose liste, sollecitatomi dalle mie amate-odiate libropatiche non che spinto sulla cresta dell’onda anche dalla collezione di libri legati alla cucina in uscita con il “Corriere della Sera”. Intanto, una bella tirata d’orecchi agli editor della Garzanti che stravolgono in “Dolce” uno sfogo della protagonista che ad un certo punto si sente ribollire “come l’acqua per il cioccolato”, che si dice essere di poco sapore, ma che, come Dario Bressanini insegna ed io riporto in calce, è l’occasione per una gustosissima mousse. Inoltre, non ho neanche visto il film che nel ’92 ne fece il messicano Arau, anch’esso di buon successo come il libro. Che uscì in Messico a puntate, ognuna delle quali con una ricetta, e solo così se ne può gustare il filo conduttore, che nel libro sembra perdersi. La storia è semplice e molto messicana. Abbiamo la bella Tita de la Garza, la minore delle figlie di Donna Elena, acida vedova messicana. Che fin da piccola vive in cucina, e ne capisce e carpisce i segreti più intimi. Di lei si innamora il bel Pedro, amore ostacolato da Donna Elena, in quanto ancora non maritate le figlie maggiori, Rosaura e Gertrudis. Messo alle corde da Donna Elena, pur di rimanere vicino a Tita, Pedro decide di sposare Rosaura. Da quel momento, Tita riverserà il suo amore nella cucina, producendo manicaretti elaborati e con effetti sorprendenti. Tanto che in uno particolarmente pieno di affetto si trasfigura Gertrudis, che scappa nuda nella prateria insieme ad un rivoluzionario messicano. Noi però rimaniamo nel ménage familiare, con la madre tiranna, Pedro e Rosaura che fanno un figlio che però muore giovane. Pedro è sempre lì, tra l’essere vicino e fare il tontolone, che una qualsiasi donna normale (non Tita, purtroppo) l’avrebbe mandato a ramengo molto presto. Poi muore Donna Elvira, Tita esce allo scoperto e Rosaura si fa prendere da crisi di nervi ed altre strampalitudini. Ritorna anche Gertrudis alla testa di manipoli rivoluzionari (in fondo siamo nel Messico dell’epoca di Pancho Villa) che cerca di svegliare Tita. Che forse sembra avere un sussulto di indipendenza quando anche Rosaura ci lascia, insalutata salma. Ma l’ombra di Donna Elena aleggia sulla casa, e dopo un’unica notte d’amore (in fondo abbiamo aspettato quasi 150 pagine che succedesse “o’ miracolo”), ecco un’altra catastrofe. Senza nessun preavviso si accendono fuochi strani e Pedro e Tita bruciano insieme al loro amore. La storia è durata tanti anni, ci sono stati intermezzi, c’è stato l’amore di John per Tita, che molto le insegnò ma che non le tolse Pedro dal cuore, ci sono stati figli (che non sono morti), c’è la bella nipote Esperanza che sposerà Alex, il figlio di John. E c’è questa storia, narrata dalla figlia dei due. La storia di un grande amore, ma soprattutto di tanti belle. Dalle focaccine di Natale alla torta Chabla, dalle quaglie ai petali di rosa ai peperoni in salsa di noci. Ma seppur queste sono belle (e ne consiglio la lettura a chi sa di cucina), il resto del libro, con quel “realismo magico” latino-americano che mi lascia assai freddo, quelle situazioni inspiegabili, e soprattutto l’indecisione di tutti i protagonisti ad essere sul serio protagonisti e non vittime della vita che passa, non mi ha fatto amare in particolar modo questo libro. Con tutte le metafore che poi il libro porta con sé, sia a livello sentimenti che della rappresentazione della realtà messicana. Sui primi, c’è una correlazione quasi ingenua (le cipolle che sono cagione di lagrime, i petali di rosa che risvegliano passioni, ed altre similitudini di piccolo livello). Sull’altra, per rappresentare il grande affresco del Messico dei primi anni del XX secolo (pieno di oppressi, oppressori, rivoluzioni) si fa un semplice traslato con i personaggi: Tita e Pedro sono gli oppressi, Donna Elena e Rosaura gli oppressori, Gertrudis la rivoluzione). Ma è molto datato come scrittura e come descrizione delle atmosfere. Insomma, mi aspettavo di più da come se ne parlava negli anni del suo maggior successo.
“La verità vera è che la verità non esiste, dipende dal punto di vista di ognuno.” (141)
Ricetta del cioccolato con acqua presa dal blog di Dario Bressanini:
“Sono partito da 100 g di fondente 70%. Ho sciolto il cioccolato in un pentolino antiaderente di buon spessore su fuoco bassissimo. Mescolate il cioccolato con una spatola per facilitare la fusione. Fuso il cioccolato si deve aggiungere l'acqua. Ho versato nel pentolino i 115 grammi di acqua, tutta in una volta. Ora mescolate bene, a fuoco spento, sino a quando il cioccolato è completamente emulsionato. Quando il cioccolato è ben emulsionato versate la miscela in una bacinella raffreddata esternamente con del ghiaccio. Un paio di minuti di frusta elettrica (o a mano se preferite) e il risultato è cioccolato puro, ma con la consistenza di una mousse. Una vera delizia per chi ama il fondente.”

Finalino

Non mi ripeto, ribadendo quanto sopra: cioccolato approvato, libro bocciato.


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