Perché
dopo un’esaltante trama di saggi, ci volgiamo, per questa antivigilia di
Natale, a scrittrici al femminile, che tuttavia non mi hanno molto rallegrato.
Vanno da una possibile sufficienza, seppur ancora non piena, di Sue Monk Kidd e
le sue storie anti-razziste, alla scarsa efficienza di Allison Pearson con il
suo inno al femminile del mondo maschile, sino alla decisa insufficienza di
Helen Fielding e gli ultimi epigoni di Bridget Jones (che era meglio restasse
sullo schermo, dove, pare, abbia avuto più successo). Meglio babbo Natale
allora.
Sue Monk Kidd “La vita segreta delle api” Mondadori euro 6,90 (in
realtà, scontato a 5,18 euro)
[A: 12/04/2016 – I:
01/08/2018 – T: 03/08/2018] - &&
+
[tit. or.: The secret life of bees; ling. or.: inglese; pagine: 291; anno 2002]
Dovrò
capire perché questo libro veniva consigliato dalle libroterapuete di “Curare
con i libri”, perché, seppur non esaltante, ha comunque qualche punto a suo
favore. Leggendolo in modo trasversale sembra quasi un fratello minore de “Il
buio oltre la siepe” o un lontano cugino de “Il colore viola”. Eppur tuttavia,
ha anche una serie di piccole frecce rivolte alla cristianità con qualche
risvolto verso una “teologia femminile”, di cui conosco poco, ma che è, da come
leggo, uno dei pallini dell’autrice. Sue Monk Kidd, iniziatasi come infermiera,
svolge tutto il suo percorso di vita, ora che tra una settimana compirà
settanta anni, seguendo una sua luce di misticismo cristiano. Sui trenta anni
comincia a scrivere di percorsi cristiani, verso i quaranta si volge alla
teologia femminile, e quindi, svoltati i cinquanta produce questo libro, che
qualche freccia al suo arco ce l’ha. Ha però un andamento forse troppo
“juvenilia”, quasi fosse quella la platea maggiore cui si rivolge. Dicevo molte
frecce perché affronta i problemi della crescita di una circa quindicenne con
padre violento e segnata dal fatto di aver, involontariamente, all’età di
quattro anni, ucciso con un colpo di pistola la madre. Affronta i problemi
dell’emancipazione negra, dato anche che l’azione si svolge nel 1964, quando il
presidente Johnson firma il decreto sui diritti civili della gente di colore.
Si impelaga nei rapporti bianchi – neri quando la protagonista Lily, scappando
di casa con la tata negra Rosaleen, si trova a vivere le sue crisi presso la
famiglia delle sorelle di colore August, June e May. Ed ancora di più quando
Lily scopre la dolcezza e l’intelligenza dell’amico Zach, ovviamente anche lui
di colore. E poi la devozione, cui viene dedicato forse troppo spazio, delle
sorelle e delle loro amiche verso una Madonna Nera. Certo, ce ne sono molte in
giro per il mondo, e questa, in particolare, è la Madonna Nera di Breznichar in
Boemia, che è inventato come posto, ma che riflette l’iconicità delle Madonne
di colore (vedi Chestokova, ma questo esula dal libro e dalle mie capacità).
Per poi non tacere l’uso della metafora delle api come contraltare della
vicenda (o forse della vita stessa): la regina triste, solitaria, ma
indispensabile; le operaie, alacri e servizievoli; i fuchi; l’alveare senza
regina muore; la dolcezza del miele; la sensitività delle api al mondo esterno,
funerali compresi. Ma facendo un passo indietro, o ricominciando da capo,
vediamo, o meglio seguiamo, la storia di Lily, madre scomparsa tragicamente
come sopra detto, tata nera, padre manesco e meglio quando assente. Per salvare
la tata da pestaggi bianchi stile KKK (ricordo che siamo nel 1964), e sé stessa
dal padre, Lily fugge da casa con lei. Per andare a cercare un certo posto
nella Carolina, trovato sul retro dell’unico ricordo lasciatole dalla madre:
una scatola di miele con la faccia della Madonna Nera. Non facilmente, arriva
lì, trova la famiglia delle api, dove lei e Rosaleen si installano. Da lì
comincia tutto il percorso di crescita / maturazione di Lily. Inframezzato
dagli inserti femministi, teologici e mariani che tralascio perché, per me,
appesantiscono senza costrutto il racconto, seguiamo ancora Lily che apprende a
curare le api, che, dopo una dura lotta, apre una breccia nel cuore di June,
che ha un’empatia immediata per May che soffre “tutti i dolori del mondo”, che
vede la bellezza negli occhi di Zach. E come motivo di fondo, il “duello”
metaforico (forse avrei detto meglio, “ballo”?) tra lei ed August. Dove alla
fine, ma noi lo si pensava dall’inizio, August rivela tutto quanto sa della
madre alla sconcertata Lily. Cominciando dal fatto che August fu per alcuni
anni proprio la tata della madre. Non entro nei particolari, né in quelli
melensi né in quelli dolorosi. Non possiamo non aspettarci che, attraverso un
percorso pur difficile, Lily comprenda il bene ed il male della propria vita.
Coltivi il primo ed accetti che esista il secondo. Con un finale da impossibile
happy end (cioè, l’autrice si ferma qualche passo prima del finale suggerendoci
un lieto fine che noi, smaliziati lettori, sappiamo impossibile). Alcuni passi
del romanzo possono essere utili a qualche “salviniano” per ripensare a prese
di posizione che già erano da censurare 50 anni fa. Ma la confezione finale non
mi lascia gran che soddisfatto.
“Le storie devono essere raccontate,
altrimenti muoiono, e quando muoiono, noi non ricordiamo più chi siamo o perché
siamo qui.” (109)
“Tutti … siamo umani. … Non c’è niente di
perfetto … C’è solo la vita.” (248)
Allison Pearson “Ma come fa a far tutto?” Mondadori euro 6,90 (in
realtà, scontato a 5,20 euro)
[A: 12/04/2016 – I: 05/08/2018
– T: 07/08/2018] - &&
[tit. or.: I don’t know how she does it; ling. or.: inglese; pagine: 376; anno 2002]
Tipico
esempio di letteratura nata all’epoca dei “Baby Boomers” americani. Tipico
esempio di scrittura anglosassone. Certo, non ha proprio solo elementi
negativi, visto che, ogni tanto, mi ha fatto anche sorridere, anche se poco.
Nella grande ondata delle idee alla Bridget Jones, all’inizio del nuovo secolo,
molta letteratura di lingua anglosassone si interrogava sul rapporto tra vita
privata e vita pubblica (detto così sembra quasi un argomento importante). E su
queste tematiche escono film e libri che ne parlano. Con un piglio, come in
questo caso, fintamente femminista, ma ancora pieno (anche se forse non colmo)
di modi ed espressività più maschili che femminili. Si nota, dallo scrivere, la
provenienza giornalistica dell’autrice. Che sicuramente dà un tono spigliato
alla scrittura, ma che a me, a volte, lascia un tantino freddo. Il libro è una
sorta di diario della protagonista, Kate Reedy, e delle sue vicissitudini
familiari e lavorative. Ha un posto di responsabilità in una grande azienda di
gestione fondi (mestiere tipicamente anglosassone anch’esso), con un alto grado
di conoscenza del mercato, e con una grande abilità organizzativa e
previsionale (non disgiunta da un po’ di fortuna che non guasta mai) che le
consente di arrivare a posti di responsabilità aziendale. Fornendo molto
materiale di invidia ai colleghi maschi. Con inoltre la necessità di frequenti
spostamenti in giro per il mondo, al fine di seguire i suoi clienti. Una
situazione che ho ben presente (anche se con molte responsabilità in meno)
avendone avuto assaggi nella mia vita precedente. Ed avendo visto come, in
situazioni analoghe, le donne abbiano (ed hanno) da superare enormi difficoltà:
di credibilità, di disponibilità, ed altro. Insomma, tutto il bagaglio che è
ben noto in ambienti di lungo corso maschile, dove le donne venivano (vengono)
viste al massimo come segretaria di rara efficienza, non come colleghe a volte
(spesso) più brave e capaci dei colleghi maschi. La nostra Kate è contornata da
un marito architetto, che quindi avrebbe più facilità a disporre del proprio
tempo. Ma che, come tutti gli ometti analoghi, si aspetta di essere servito e
riverito. Non solo, ma non è in grado, non conosce, nessuno dei meccanismi di
funzionamento di una casa moderna. Non sa fare lavatrici, non sa cambiare
lampadine, non conosce i posti degli alimenti o dei vestiti. Per rendere il
tutto più completo e complicato, alla famiglia si aggiungono due bambini: Ellen
di cinque-sei anni e Ben di uno-due. Ovviamente, la gestione dei figli ricada
tutta su Kate. E per fortuna che a sostegno dei fanciulli c’è la tata Paula. Certo
anche lei con i suoi problemi, ma almeno presente (discretamente) quando serve.
Al contorno familiare si unisce il contorno sociale di Kate. La collega Cole,
single e sodale, che a metà libro rimane incinta. La neoassunta Maomao, di
origini asiatiche e colma di illusioni lavorative. Seguiamo allora l’andamento
di questo grande carrozzone, con tutte le crisi che possono capitare. Colleghi
pseudo-pornografi con le loro battute insopportabili. Bambini da prendere a
scuola, portare a feste. Bambini che si ammalano a Londra, sempre quando Kate
magari è per lavoro a New York. Tutto quello che possiamo immaginare come
difficoltà della vita di Kate si presenta, compresa la crisi coniugale con il
marito Richard e l’innamoramento virtuale con l’americano Jack. Kate, da
super-mamma e super-donna, affronta tutto l’affrontabile, riuscendo, con un
filo di sorriso sulle labbra, a sconfiggere nemici e mulini a vento. Ma tutto
ha un prezzo, e dopo un paio d’anni di questa vita, Kate getta la spugna sul
lavoro. Tuttavia, dopo un po’ di casalinghitudine, eccola di nuovo sulla
breccia, con nuove idee imprenditoriali, con nuove sfide. La morale, un po’
maschile (forse?), è che se Kate fosse un uomo avrebbe vinto sul fronte del
lavoro, e si sarebbe trovato una donna per gestire la casa. Non ritengo che sia
una morale vincente, come non la ritengo la morale opposta, che una donna per
fare carriera e far valere le sue capacità debba negare il suo essere donna.
Non conosco soluzioni, solo tentativi in cui una coppia cerca di gestire la
propria vita paritariamente. Ci vuole coraggio e capacità da entrambe le parti,
e qualche passo avanti si può fare. Ho tralasciato tutti gli episodi a margine
della storia, il capo, le amiche, i colleghi. Ognuno con qualche elemento di
riflessione. Ma mi premeva sottolineare il filone principale della storia. Ed
il mio non concordare con le decisioni che prende Allison, la scrittrice, per
descrivere e decifrare (anche) il suo mondo. Sono curioso, infine, di conoscere
i motivi che ne consigliano la lettura, e per quale malattia.
Helen Fielding “Che
pasticcio, Bridget Jones!” BUR euro 9,90 (in realtà, scontato a 8,42
euro)
[A: 04/05/2016– I:
24/08/2018 – T: 27/08/2018] - & e ½
[tit. or.: Bridget Jones: The Edge of Reason; ling. or.: inglese; pagine: 396; anno 1999]
Tre
anni dopo il successo planetario del “Diario”, Helen prova a rinverdire la sua
fama con questo secondo capitolo della saga. Un tentativo veramente poco
riuscito ed alquanto prevedibile. Se nel primo romanzo c’era la freschezza
della novità, l’ingenuità delle situazioni (con Bridget sempre leggermente
fuori fase rispetto a quanto le capita intorno), questo secondo romanzo, non
variando molto lo stile, risulta ripetitivo ed anche un po’ noioso. La maggior
parte dei protagonisti del primo si ripresentano qui con immutato stile,
ripercorrendo senza troppe variazioni quanto di scellerato (dl punto di vista
dell’attività umana quotidiana) facevano nel primo. Fortunatamente sparisce
quasi del tutto “il bastardo Daniel”, con una puntatina dimenticabile. Dispiace
invece la quasi totale assenza del “gay” Tom, troppo preso dai suoi amori
americani. Invece le pagine sono piene di Jude e Shaz, con le loro improbabili
ricette derivate dai libri di auto-aiuto (che la quarta di copertina lascia
nell’inglese self-help). Sempre pronte a dare il consiglio sbagliato nel
momento giusto. Precipitando sempre più in basso la stima e l’autocomprensione
di Bridget. Grande spazio, invece, prende l’odiosa Rebecca, subito pronta a
cercare di soffiare il buon Mark alla nostra. Organizzando cene, viaggi, e
quant’altro riesca a mettere in difficoltà la nostra eroina. Ma prima di
passare a Mark, c’è la solita tirata sui genitori di Bridget. Con la madre con
non vuole crescere, e questa volta passa dall’improbabile indiano al fasullo
keniota. Fortunatamente non viene ripreso a lungo, anche perché ripercorrerebbe
la stessa solfa del primo. Wellington invece appare, fa delle stupidate, dice
cose sagge inascoltate e se ne torna tranquillo e felice nella sua Africa.
Lasciando mamma Jones alle prese con l’alcolismo di papà Jones. Unico momento
esilarante: il rifiuto di rinnovare il passaporto da parte di mamma Jones,
perché dovrebbe mettere una foto aggiornata, quindi “più matura”. Mark, per
riprendere il filo, sembra sempre uguale a sé stesso. Molto imbranato, molto
innamorato, ma incapace a) di mostrare a Bridget quanto la ami e b) altrettanto
incapace di capire il modo di comportarsi di Bridget. Ma se ami qualcuno, non
puoi stare solo lì sulla porta a vedere passare quello che succede, senza mai
una volta intervenire, dire, fare qualche cosa. Solo quando Bridget passa un
brutto momento sembra rinsavire e capisce che sia bene fare qualcosa. E
facendolo, tira finalmente fuori dai guai la nostra eroina. In tutto questo
Bridget prende al solito il centro della scena, ma continua a ripetere i suoi
stereotipi: ingrassare/dimagrire, fumare/smettere di fumare, ubriacarsi, avere
una fiducia cieca dell’altro che la porta ai tre momenti topici del libro. Il
primo, unico, positivo ed esilarante, è l’intervista romana con il “vero” Colin
Firth (e suggerisco di tornare ai film che ne sono tratti, con il momento
double face: intervista con Colin e rapporti con Mark interpretato da Colin;
gustoso). Il secondo è il conflitto con Gary il muratore, con la
ristrutturazione di casa, con i soldi che mancano, e con la finale scoperta che
Gary non è altro che un piccolo topo d’appartamenti, che ha l’unico intento di
rubacchiare dove può (anche poco, vista l’imbranataggine palesata). Il terzo, e
punto forte del libro, è invece il viaggio in Thailandia. Con tutto lo sballo
di alcolici e funghi “eccitanti”, con la comparsa del perfido Jed, e con
l’incastro che questi le procura nascondendole della droga nel trolley. Qui
Helen fa un’operazione che vorrebbe essere ridanciana, ma che, per chi legge
giornali e sa del mondo, risulta quanto meno improbabile. Il possesso di droga
in Thailandia è perseguito con una durezza estrema. E le descrizioni della
settimana nelle carceri thailandesi sono una discreta presa in giro, per chi sa
che, una volta finito in quel girone, difficilmente se ne esce prima di un
congruo lasso di tempo (anni!). E non se ne esce mai bene. Visto che siamo
(almeno nello scorrere temporale) nel 1997, non poteva mancare l’accenno alla
morte di Diana. Che tuttavia avrei omesso per rispetto del personaggio. Il
tutto finisce poi come cominciato con Mark e Bridget che tornano insieme. Un
po’ scontato. E non capsico, ne leggerò poi, perché i miei libri guida
continuano a citare la Fielding nelle loro terapie. Un’ultima considerazione:
il titolo. Perché modificare l’originale “limite della ragione” con questo
“pasticcio”? Certo, Bridget continua a non combinarne una buona, come abbiamo
visto, ma credo che l’idea dell’autrice sia stata invece di procedere su quel
solco fra razionale ed irrazionale, per continuare a sostenere la sua idea di
fondo. Tutti siamo un po’ sbalestrati in questo mondo, ed è difficile procedere
perseguendo una razionalità che non ci è propria. Così come non è propria per
la nostra povera Bridget. Ne vedremo ancora, di sue avventure? Ai postumi
l’ardua sentenza.
Helen Fielding “Bridget Jones: Un amore di ragazzo” BUR euro 9,90 (in
realtà, scontato a 8,42 euro)
[A: 04/05/2016– I:
30/08/2018 – T: 02/09/2018] - &
[tit. or.: Bridget Jones: Mad about the Boy; ling. or.: inglese; pagine: 463; anno 2013]
Ed ecco che dopo quasi quindici anni la
creatrice del “fenomeno” Bridget cerca di reinventarsi proponendo una nuova
tappa della saga. Super-scontata! Non nel senso che costa poco, ma le situazioni,
l’impianto e tutto il resto è visto, rivisto e senza nessuna innovazione.
Certo, gli anni passano per tutti: per Helen, per Bridget e per Renée che
continua ad interpretarla sullo schermo. Ma la formula del diario-verità,
inaugurata venti anni or sono sul Telegraph e su Indipendent era vincente.
Quindi, eccoci di nuovo ad un anno vissuto spericolatamente. Dall’inizio però
abbiamo subito l’impatto con le novità. Come ci si aspettava dalla fine del
precedente libro (sottolineo qui, che da un certo punto in poi libri e film
divergono in modo marcatissimo), Bridget e Mark si sposano. Ed hanno due figli:
William detto Billy e Mabel. Poi, con Mabel di pochi mesi, Mark muore in una
missione di pace in Afghanistan. Per quattro anni Bridget fa la vedova inconsolabile,
cercando di portare ordine alla sua vita: tata per i figli, impeccabile e molto
simpatica, lavoro di sceneggiatrice (anche se non riesce a far uscire neanche
una produzione), e solita routine con gli amici storici (in particolare Tom il
gay, Shaz e Jude). Visto che sono passati un botto di anni, sono morti anche il
padre di Bridget ed il suo amico Geoffrey. Così mamma Jones con l’amica Una
sono a riposo in una casa che si prende cura di loro, e dove loro cercano di
portare avanti l’invenzione di una giovane vecchiaia. La zeppa in tutto il
meccanismo è l’introduzione dei social network, così come nei primi Bridget
c’era il telefono con annessa segreteria. Qui si fa un uso sproposito e
malaccorto di Twitter. Ma solo perché, usando frasi corte, è più gestibile sia
degli SMS (che sono in parte presenti) sia di Facebook (che invece è
praticamente assente). Però non c’è sugo, non c’è ironia, non c’è comicità in
questo uso dei nuovi media. Jude e Shaz continuano ad entrare ed uscire da siti
di incontri altamente improbabili, riuscendo a coinvolgere Bridget in alcune
loro uscite. In una di queste, Bridget si imbatte in Roxter, giovane quasi
trentenne, spigliato e con un grande bisogno di sicurezze, che Bridget, con la
sua età matura riesce a dargli. Bridget, in realtà, si avvia ai cinquanta.
Questo, anche se non in modo esplicito, lo deduciamo incrociando il film
“Bridget Jones’s Baby” dove partorisce Billy a 43 anni, e qui dove Billy di
anni ne ha sei. Lunghi sproloqui sull’ansietà di Bridget di aver un rapporto
con un ragazzo così giovane, tanto che le amiche le parlano di “toy boy” (da
Devoto-Oli: “uomo giovane, spesso molto attraente,
che ha una relazione con una donna più avanti di lui negli anni”), altrettanto
lunghi giri di pagine su Roxter e sulla sua gioventù (ma anche sulla freschezza
di ridere, cosa che Bridget è sempre disposta a fare). Giri di frasi sui
bambini di Bridget (anche se Helen non sembra saper gestire l’età infantile,
sia nei due bimbi sia nei rapporti con gli altri bimbi coevi). Alcuni momenti
di finta ilarità si avranno nei momenti scolastici, con l’introduzione di un
nuovo personaggio, Mr. Wallaker. Che capiamo ben presto avrà un peso ed un
ruolo determinante. Perché sembra serio, determinato, maturo. Insomma quello
che poteva essere Mark se Mark non fosse morto. Ma con alcuni punti in più: più
ironia, più atletismo, più sicurezza. Bridget e Roxter faranno un piccolo
percorso insieme, tanto per uscire ognuno dalle proprie paranoie. Poi, ognuno
per la sua strada. Dove quella di Bridget incontrerà … Vi lascio aperta
l’ultima parte del libro, con l’unica avvertenza che, finalmente, mamma Jones
deciderà di diventare nonna Jones. Senza neanche lamentarsi troppo. Allora, tra
i vari libri di suggerimenti, mi erano arrivati questi tre tomi di Helen
Fielding. Li ho letti, diligentemente. E diligentemente li metto da parte. Se
volete vedere i film, tanto per rilassare la mente, ben venga. Ma credo che non
sia il caso di insistere su questo filone. Come si dice, una lettura veloce, e
poi in libreria a prendere la polvere.
Come detto, settimana natalizia, con una strenna poco
avvincente ma che andava scritta. Che a volte si leggono cose che non sempre
piacciono. A volte si fanno azioni che non sempre soddisfano. Spiace che
nell’anno di molte mancanze, quest’anno manchi anche il Natale aventiniano, ma
ce ne faremo una ragione. Forse per andare verso altri promettenti e duraturi Natali.
Quindi, dato che vediamo sempre il bello in quel che ci succede, siamo certi in
un prossimo passaggio di bellezza e bontà. Non sapendo poi se riuscirò a
scrivere ancora per quest’anno, vi mando tutti i miei auguri, per un 2019 come
voi lo desiderate.
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