domenica 10 marzo 2019

Gli ultimi PAS - 10 marzo 2019


Nel senso degli ultimi quattro libri dedicati dalla storica Danila a Publio Aurelio Stazio detto PAS (da me per ricordarmene nei miei appunti). Ho sentito che sia uscito un diciannovesimo volume, ma per ora ne facciamo a meno. Un livello di lettura interessante, con alcune idee per spunti storici non banali. Un quartetto di media intensità, il 15° volume un po’ sopra gli altri.
Danila Comastri Montanari “Nemesis” Mondadori euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 23/11/2016 – I: 30/10/2018 – T: 31/10/2018] && +
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 247; anno: 2007]
PAS 14
Dopo un anno e mezzo circa, eccoci di nuovo qua, ad occuparci della 14° avventura di Publio Aurelio Stazio, e della sua settantenne creatrice, la bolognese Danila Comastri Montanari. Come certo ricorderete, questo serial in questo format mi ha sempre affascinato. Per la buona resa delle descrizioni storiche dell’autrice e per un fondo di simpatia che lo scanzonato senatore romano porta con sé in tutte le sue avventure. Chi si fosse distratto avrà ora una buona occasione per rimettersi in riga. Il nostro senatore nasce a Roma il 4 novembre del 3 d.C., va soldato nelle legioni introno ai 23 anni (ed in questo episodio dirà ad un certo punto di aver prestato servizio sul Reno con la legione XIV Gemina). Intanto sui sedici anni aveva conosciuto il claudicante ed allora poco vistoso Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico, che fu suo maestro d’etrusco. Sfuggito alle congiure di Caligola, quando il suo amico assurge al rango di Imperatore nel 41, anche Aurelio fa la sua scalata nel cursus honorem. Il nostro Publio Aurelio Stazio poi ha due passioni: le donne e la soluzione dei misteri. Ad un certo punto sposa la bella Flaminia, ma la morte del figlio in fasce li allontana, divorziano nel 34, e non si incontrano più. Il senatore ha al suo servizio il greco Castore dal 31 d.C., ed è un sodalizio di mutua convenienza. Infine, c’è la simpatica non che “over size” Pomponia, la cui memoria ed ampia conoscenza dei fatti romani spesso aiuteranno il nostro senatore. Lo spunto del romanzo questa volta viene da lontano, e da ambienti militari, che non sempre sono consoni ad Aurelio. Intorno alla metà degli Anni Venti la Legio III Gallica dislocata in Asia compie massacri su civili inermi, che essi sospettano sostenere surrettiziamente i Parti, in lotta con Roma per la conquista dell’Armenia. In quella battaglia, tra l’altro muore l’erede di Gaio Ulio Papilione detto l’Asiatico, ragazzo debole che il padre militare e rude voleva fortificare con la vita militare. Tuttavia, la strage non fu completa, che c’è una ragazzina superstite, che ora, e siamo nel 47 d.C., cioè circa 22 anni dopo l’eccidio, compare in Roma, nascondendosi sotto il nome di “Nemesis”, un nome greco che etimologicamente significa “Giustizia Riparatrice”. Nemesis, comunque, in quel di Roma cerca i caporioni dell’eccidio di cui sopra, per vendicarsi. Ma, essendo straniera e donna, non ha facilità di manovra, così che, approfittando di momentanei sbandamenti religiosi di Pomponia, l’amica di Aurelio, la rapisce in modo che possa costringere Aurelio ad aiutarla nella ricerca, se non nella vendetta. Aurelio, che un rapido calcolo ci porta ad uno splendido 44enne, è ben presto coinvolto nella rete di Nemesis, anche dal punto di vista fisica, che non sia mai si sottragga ad una bella donna ed alle sue lusinghe. Tanto che ne capisce il punto di vista vendicativo, pur non approvandolo. Si mette allora, e questa volta in solitaria, a cercare le persone, i caporioni dell’eccidio. Tuttavia, li trova sempre che sono appena morti. Aurelio comprende quindi che “c’è del marcio nel Caucaso”. È vero Nemesis cerca gli autori dell’eccidio, ma forse l’eccidio serviva a nascondere qualcosa altro. Una morte? Un altro assassinio? Di certo bisognerà andare a fondo tra i reduci di quella legione. Cosa che farà, anche con l’aiuto di Castore, per portare a termine un’indagine abbastanza ben congeniata. Al solito, l’abilità della brava scrittrice è nel riportarci senza sbavature negli usi e nei costumi di quella Roma. Con i fasti gladiatorii, con i banchetti, financo con le minuzie del quotidiano: le domus dei patrizi, gli schiavi, le ancelle, le terme. Queste sono poi le qualità che fanno di una saga già abbastanza lunga, il piacere di continuarne la lettura. Che ogni volta c’è uno spunto, un nuovo rimando a temi da approfondire. L’impero di Claudio e della sua dissoluta moglie Messalina. Oppure i divorzi, che erano molto più sviluppati di quanto sembri ora. Insomma, si legge con piacere, anche se talvolta scivola via in punti poco coinvolgenti. Come le digressioni sulle paturnie dell’amministratore di Aurelio, il pavido Paride. Ma una quasi sufficienza la merita. Come merita che se ne legga ancora.
Danila Comastri Montanari “Dura Lex” Mondadori euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 23/11/2016 – I: 22/11/2018 – T: 23/11/2018] &&& +
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 247; anno: 2009]
PAS 15
Eccoci allora, a poca distanza dal precedente, ad intraprendere un nuovo viaggio nell’antica Roma, con il senatore Publio Aurelio Stazio sempre in primo piano e guidati dal nostro mentore, la “storica” Danila. Questa volta il nocciolo della storia sembra porre l’accento sulle credenze e sui riti legati alle morti infantili nell’antica Roma. Certo non doveva essere facile riuscire a superare i primi anni di vita in ambienti non particolarmente salubri, e con delle cure neanche proprio pediatricamente efficaci. Inoltre, come spesso accadeva nell’antichità, a questo si sovrapponeva l’ignoranza e la superstizione. Ma prima di entrare nel vivo della trama, bisogna rilevare una piccola incongruenza tra la datazione interna di questo libro e del precedente. Entrambi si scrive si svolgano nel 47 d.C. (e questo ci può stare che se fossimo nell’anno seguente saremmo nel pieno della crisi tra l’imperatore Claudio e la dissoluta moglie Messalina), ma viene detto nel precedente di essere nell’anno 802 a.u.c. (cioè ab Urbe Condita, pari al 753 a.C. nella tradizione storiografica). Mentre in questo, correttamente, ci si riposizione all’800 a.u.c. Piccole curiosità da ricercatore. Venendo al testo, il motore primo della vicenda, nonché delle indagini del nostro amico senatore Publio Aurelio Stazio, sono le misteriose morti che avvengono in culla per piccoli eredi dell’aristocrazia romana. Muore Sempronino Floriano figlio di Flavia Flora appartenente alla gens Bulba. Muore Postumo figlio di Dalmatica, cognata di Gaio Glabro della gens dei Gavilii Barbati. Flora accusa subito della morte del figlio il figliastro Bulbo Sempronino Gratiano detto Bulbillo, giovane di poco nerbo, che viene difeso solo dalla nonna, Urania Primigenia. La quale, benché ancora piacente pur se non più giovanissima, fu in gioventù di Aurelio una sua fiamma. Proprio nella villa dei Servili, i grandi amici di Aurelio, che si scatenano le diverse trame. Urania chiede ad Aurelio di difendere Bulbillo e Dalmatica scopre la morte di Postumo (chiamato così perché il padre fu costretto al suicidio dal nonno poco tempo la nascita del figlio, in quanto fuggito dal campo di battaglia, ed accusato quindi di codardia). Mentre si affanna nella ricerca di comprendere la morte del figlio di Flora, e viene di striscio coinvolto anche nell’indagine su Postumo, c’è un terzo delitto che scuote Roma. La nutrice Isaura è accusata della morte del picco Appio Accio. Si sta già inscenando il processo, dove Isaura dovrebbe essere difesa da Statilia Vespilla, avvocatessa idealista e piacente, che però non può esercitare nel Foro in quanto donna. Sarà il nostro Aurelio che l’aiuterà, riuscendo a discolpare Isaura, ma scoprendo allo stesso tempo un filo, logico se non fattuale, che comincia ad illuminargli la strada per la risoluzione dei diversi casi. Ovvio che la nostra brava scrittrice non perde occasione di complicare una trama già di per sé complessa, inscenando alcune vicende laterali, che servono a mettere sempre più in difficoltà Aurelio. Lui e la sua amica Pomponia hanno un fiero diverbio, che costringe Aurelio a non poter chiedere aiuto alla sua più grande amica. Inoltre, gli schiavi della sua casa, istigati dal segretario Castore entrano in sciopero per rivendicazioni di minor entità, ma che sconvolgono la domus Aurelia. Infine, il perfido collega senatore Lentulo (che probabilmente Aurelio aveva pesantemente cornificato) è deciso a fare di tutto per espellerlo dalla Curia. Perché, tornando a quanto sopra, il filo delle morti è la parentela, più o meno lasca, dei vari attori della commedia. Ma se Isaura, da brava madre, non avrebbe mai potuto uccidere Accio Junior, che si scopre in effetti essere figlio del suo seno, forse non si può aspettare altrettanto da Dalmatica, che odia profondamente il figlio avuto da gente che non ama, che non la rispetta e da cui è trattata solo come una serva? Il mistero rimane, e sarà un bellissimo “orologio ad acqua” (come quello presente a Villa Borghese, che vi prego di andare a vedere) a portare Aurelio sulle tracce delle modalità dell’uccisione di Postumo. E sempre seguendo i fili dei suoi ragionamenti, sempre indagando andando a vedere i luoghi delle morti, troverà il bandolo della matassa anche della morte di Sempronino. Le vicende, in realtà, sono ben complicate, che coinvolgono anche problemi ereditari, l’impossibilità delle donne di entrare in possesso dei beni di famiglia, ed altre belle e complicate usanze, cui la nostra brava scrittrice ci porta a conoscenza e ce ne fa decifrare pregi e difetti. Non vi dirò come anche gli altri punti andranno alo loro posto. Né se la bella Statilia avrà modo di avere qualche incontro ravvicinato con il nostro galante Aurelio. Un’ultima cosa da citare prima di chiudere anche questa storia. Lasciando Urania, che rimane scottata dalla soluzione del mistero legato a Bulbillo, e che gli chiede cosa sarà di lei, Stazio risponde con la mitica frase di Rhett Butler in “Via col Vento”: “Francamente, me ne infischio”. Una citazione degna del contesto e del nostro Senatore. Insomma, al fine, una trama ed uno svolgimento decisamente superiore al precedente, e non a caso premiato con maggior voti.
“Il falso è uno che quando incontra i suoi nemici si mette a parlare con loro e non mostra il suo odio; loda in faccia chi ha fatto a pezzi alle spalle” (141)
Danila Comastri Montanari “Pallida Mors” Mondadori euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 23/11/2016 – I: 26/11/2018 – T: 27/11/2018] &&& -
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 321; anno: 2013]
PAS 17
Dicevamo dei grappoli di storia, ed ecco allora, subito legato al precedente, un nuovo episodio della saga del senatore Publio Aurelio Stazio. In realtà, c’è un episodio in mezzo, il sedicesimo, che tuttavia è stato il primo che ho letto nella lunga frequentazione con la scrittrice bolognese, e ci cui parlai circa cinque anni fa. Quel libro era un intermezzo, essendo Stazio in trasferta nella regione dei Parti. Qui, invece, siamo di nuovo nella mia amata Roma, anche se i misteri che vengono alla luce sembrano addirittura provenire da ben più lontano, quando ancora nell’alto Lazio governano indisturbati gli Etruschi. Come al solito nelle trame costruite intorno a Stazio ci sono diversi ruscelli che scorrono nel letto di una lenta pianura. Alcuni affluiscono, altri vanno per proprio conto, tesi a formare il corpo del romanzo. La parte corposa del testo prende avvio dal ritrovamento, in seguito al crollo di una tomba molto antica dalle parti del colle Esquilino, dello scheletro di una donna inchiodata al sepolcro. La tomba era diventata la casa di un becchino, il triste Cicurio, che, salvato da Aurelio, entra nel novero dei suoi protetti. La morta era stata seviziata in seguito ad un rito barbaro, proveniente dalle lontane propaggini dell’Impero, relativo a creature leggendarie e malefiche, chiamate “Empuse”. Demoni femminili che seducono ed uccidono giovani maschi. Un po’ vampiri, un po’ mantidi. Non basta poi ucciderle ma vanno crocifisse, e controllate che non ritornino a molestare i vivi. Indagando sui misteri della tomba, Stazio scopre che è di origine etrusca, riuscendo a decifrare iscrizioni varie in seguito alle lezioni di etrusco che ebbe in gioventù proprio dall’allora studioso Claudio, ora divenuto imperatore. Scopre così che la proprietaria della tomba è Festia Velthinia, la capostipite in vita di una famiglia etrusca di antica nobiltà, e di grande ricchezza. Quella che avrebbe accumulato il fratello di Festia, Velthur, detto l’Avvoltoio. Ma quando va ad interrogarla, Stazio trova Festia morta con l’addolorata famiglia intorno: il figlio Quinto con la bellissima moglie Sofia Sofiana, i nipoti Furillo lo scavezzacollo e Quinto il Giovane, studioso ed impacciato, l’altro figlio Lucio ed una lontana cugina, Lavinia, una molto poco attenta alle convenienze pubbliche (cosa che potrebbe essere di grande interesse per il nostro galante Stazio). Cercando di comprendere meglio gli avvenimenti, Stazio si accorge, tramite indizi vari, che anche Festia è stata uccisa. Pensa allora che ci sia un legame tra le due morti, e questo allungherà di molto il brodo del racconto. Perché, al contrario, sono avvenimenti coincidenti ma disgiunti. E mentre il rebus della tomba sarà sciolto in un sottofinale di poca importanza, e di piccolo effetto, la gran parte dell’inchiesta si concentra sulla morte di Festia, su come avesse raggiunto la ricchezza attuale, sul suo testamento. Su di una cella frigidaria con strane frequentazioni, su Furillo che ha visto qualcosa e rischia anche la vita, su di una morte avvenuta forse prima di quanto ci si aspettasse. Con la sua solita perizia, e rischiando anche di suo rispetto ad altre avventure, Stazio metterà in fila tutti gli avvenimenti, magari non punendo tutti i colpevoli, ma dando a tutti, buoni e cattivi, una via d’uscita. Quasi un Maigret d’altri tempi. Tra i tanti ruscelli di contorno, uno prende molto spazio, facendo quasi da contraltare al corpo del racconto dove la superstizione porta alla violenza. Perché troviamo Pomponia ammalata di depressione e quasi incurabile, poiché però non ha fiducia nel medico di Aurelio, l’ottimo Ipparco, questi le fa somministrare un antidepressivo, l’infuso di iperico, facendole credere che sia un filtro magico. La credulità, quindi, utilizzata qui a fin di bene. Che Pomponia guarisce, ed Aurelio per gratitudine, finanzierà la costruzione di un ospedale buono per tutti gli usi, sia curativi che di bellezza e di estetica. Il termine usato nella Roma del tempo è “Valetudinarium”, il cui significato derivava dal termine latino “valetudo”, ovvero "buona salute". Nelle note finali, sempre molto ben documentate, Danila ci spiega che il termine è solitamente riferito al locale adibito ad infermeria negli accampamenti militari, come avveniva fin dai tempi di Augusto nel 14 a.C. (data in cui se ne trova per primo un resoconto storico). Mentre non si è mai trovata traccia di un edificio simile nell'Urbe. Un’ipotesi verosimile, ma completamente frutto della fantasia dell’autrice. Il tratto intrigante, è quando si parla non tanto delle cure, ma dei trattamenti a cui le fanciulle nobili e le matrone si sottoponevano. Si vedono allora citati (e documentati ci dice Danila) creme di bellezza, filtri e pozioni per poter mangiare senza prendere peso, l’uso del fucus, cioè del rossetto, ed una particolare tecnica di ricostruzione nasale “operazione di Celso”, assimilabile ad un lifting ante-litteram. Mi ripeto un po’, ma al solito buon bilanciamento tra ricostruzione storica ed indagini, piacevoli intermezzi, qualche lentezza nella parte propriamente “gialla”, ed un risultato finale poco sotto la sufficienza.
Danila Comastri Montanari “Saxa Rubra” Mondadori euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 23/11/2016 – I: 28/11/2018 – T: 29/11/2018] && ½
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 257; anno: 2015]
PAS 18
Come le ciliegie! Come gli acini d’uva a settembre! Ecco di gran corsa anche il diciottesimo volume dedicato a Publio Aurelio Stazio. Doveva essere l’ultimo, ma mi giunge notizia che ne sia uscito un altro. Vedremo. Intanto questo nuovo episodio non è che soddisfi in modo particolare. Siamo ancora miseramente nel 44° anno del nostro Senatore, come non si riuscisse a passare al dolente 48 d.C., quello in cui l’imperatore Claudio, non potendo più sopportare i tradimenti di Messalina, la condanna a morte, sposa quindi la cugina, Agrippina minore, e ne adotta il figlio Lucio Domizio Enobarbo, che diverrà imperatore con il nome di … Nerone. Ma Stazio non è ancora in grado di affrontare tutta questa buriana, anche perché, dopo tutte le vicende narrate sembra finalmente intenzionato a seguire uno stile di vita più sobrio, lontano dagli eccessi e dai vizi che hanno contraddistinto il suo passato. Ma anche se l’uomo sembra aver fatto finalmente i conti con il passato è lo stesso passato a non aver ancora chiuso con lui: una serie di omicidi provoca scalpore e preoccupazione a Roma e proprio lui sembra essere l’elemento che collega fra loro tutti i cadaveri. Una dopo l’altra muoiono, sono minacciate di morte o simili disavventure, una serie di donne e matrone romane. La prima è la nobile Pulla Trigemina, matrona disinvolta abituata a giocare con i suoi amanti. Poi è toccato a Sabellia, la dolce e morbida poetessa che trascorreva il tempo nel suo circolo ad ascoltare e comporre versi. Quindi è stata la volta della bella schiava Tabitha, l’agile gazzella dagli occhi di ambra. Poi Lelia Soave, umile ma appassionata lettrice di romantici romanzi alessandrini (ma lei è l’unica che si salva), e infine lei, la Flaminica, Cecilia Calvisia, nobilissima e inavvicinabile moglie del Flamen Dialis, il sacerdote preposto al culto di Giove Capitolino, la più sacra delle donne di Roma. Morte di morte violenta. Ma benché siano diverse tra loro per cultura, estrazione, personalità, hanno un grave tratto in comune. Hanno tutte avuto una relazione con Stazio. Se anche non si sapesse, ogni donna ha sul corpo un biglietto che lo accusa, inclusi alcuni versi dell’Odissea, che alludono a fatti che dovrebbero essere noti solo al nostro senatore. La situazione si aggrava perché Claudio, come sappiamo da quello che succederà, non sta benissimo né in salute né in morale. Ed i tanti nemici di Stazio sembrano prendere vigore da queste disgrazie, tanto che vorrebbero un pronunciamento del Senato che lo dichiari nemico di Roma, per poterlo bandire dai territori dell’Impero. A Stazio rimangono solo i suoi veri amici, Pomponia e consorte, nonché l’aiuto sempre prezioso dello scaltro Castore. Sempre pronto ad aiutare in cambio di regali, o del sigillo per firmare cambiali, o altre regalie di natura diversa (anche qualche bella donzella, che non fa mai male). Ma le complicazioni sono all’ordine del giorno, nelle indagini e nella vita dell’Antica Roma. Se andiamo a guardare meglio il susseguirsi di posizioni di potere ed altro, troviamo una congerie di intrecci tra sposalizi parentali, adozioni strane, congiure e morti sospette. Anche qui, sebbene non voglia entrare poi nel merito, è ovvio che Stazio non è né può essere il colpevole. Ma c’è qualcuno che si vuole vendicare di lui, a torto o a ragione, qualcuno che pensa il nostro senatore implicato in un non sostegno di congiurati che volevano prendere il potere forse alla morte di Caligola, o forse in qualche altra congiura più o meno coeva. Qualcuno ne soffrì, fu esiliato, morì in quei frangenti. Ed in qualche modo ora ceca vendetta, tra l’altro intrufolandosi proprio nell’entourage del senatore, onde carpirne i più nascosti segreti. La storia però è anche piena di lotte gladiatorie, di discorsi senatoriali, ed altre romanità che, in genere fanno la fortuna dei romanzi della scrittrice bolognese. C’è anche la rivolta di Pomponia verso l’uso indiscriminato dell’acqua, con le difficoltà di potersi lavare o utilizzare le terme da parte dei nostri eroi. Tuttavia, i contorni della storia principale qui sono un po’ laschi. Dopo aver pensato di mettere in difficoltà Stazio, tutto il resto viene un po’ trascinato, rendendo il romanzo, alla fine, un buon passatempo da leggere prima di andare a dormire, dopo una giornata pesante. Non certo un libro che ti tiene sveglio ed attento al suo svolgimento. Chissà se il prossimo entrerà nella nostra biblioteca …
Dopo aver saltato, e sono felice di averlo fatto visto che si stava in un’ottima India del Sud, il mese di febbraio, ecco che in questo marzo pazzarello tornano anche i libri curativi, per ovviare al raffreddore di stagione che tutti, più o meno, attanaglia.
La Spagna va e viene, sperando sia più stabile. Gli amici girano. I giorni passano e la campagna comincia a fiorire. Se son rose… 

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
MARZO  2019
Con il tempo che fa, mi sembra corretto dedicarvi un rimedio contro un male di stagione.

RAFFREDDORE COMUNE

Non esiste una cura per il raffreddore comune. Ma è un’ottima scusa per avvolgersi in una coperta insieme alla borsa dell’acqua calda e a un romanzo che possa darci un po’ di sollievo.

I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER QUANDO SI HA IL RAFFREDDORE

John Barth               “L'opera galleggiante”
Heinrich Boll            “E non disse nemmeno una parola”
Nikolaj Gogol           “Il cappotto”
Francesco Jovine       “Le terre del sacramento”
Sue Monk Kidd         “La vita segreta delle api”
John Le Carré           “La spia che viene dal freddo”
Nancy Mitford           “Amore in climi freddi”
Zadie Smith             “Denti bianchi”
Kurt Vonnegut             “Ghiaccio nove
Edith Wharton          “L’età dell’innocenza”

Bugiardino

Vonnegut ne lessi l’opera omnia quando avevo vent’anni, e qui non ci torno (a parte sottolineare che se non ne avete letto, ne dovete leggere). Invece, Boll, Barth e Gogol fanno parte di un piccolo bagaglio degli anni ’90. Il solo Jovine manca all’appello: né letto, né memorizzato in qualche recesso bibliografico. Gli altri cinque libri li riporto in ordine di anzianità (di lettura)
Zadie Smith “Denti bianchi” Mondadori euro 8,40
[tramato il 3 agosto 2007]
Anche questo (come altri libri in precedenza) un gran bel polpettone. Forse, un po’ troppo lungo. E quando si allunga, il brodo perde un po’ di sapore. Fin quando si mantiene a livello narrativo sugli incontri-scontri interrazziali in una lunga Londra (lunga nel tempo, dalla seconda guerra mondiale al 2000) si riesce a seguire. Poi deve finire e non avendo le idee chiarissime ingarbuglia un po’. Si ritrova la sua atmosfera di casa (questo misto di culture, un po’ di Giamaica e l’immancabile India), si perde alla fine un po’ di magia.
“Sono le lettere, più ancora dei baci, ad unire le anime.”
“Se fossi un indù, penserei che ci siamo incontrati in una vita precedente.”
Edith Wharton “L'età dell'innocenza” Repubblica Novecento euro 4,90
[tramato il 31 luglio 2011]
Una classica ed interessante lettura, ed un bel confronto con l’ottimo film di Scorsese. L’americana Wharton, lei stessa discendente dell’aristocrazia newyorchese che tanta parte avrà nei suoi libri migliori, rifugiatasi nel buon ritiro francese, dopo il non facile matrimonio, da lì un po’ da lontano, scrive e tratteggia il mondo d’oltre oceano. Figura intellettuale, amica di Henry James e Jean Cocteau, ma anche crocerossina durante la Guerra, è in Francia che sul doppiar la boa dei cinquanta, scrive questo puro saggio sull’adolescenza della sua nazione. Sulle difficoltà di crescere e di lasciare i vecchi cliché, quelli bene o male imposti dall’essere una nazione popolata da emigrati europei, che si portano appresso, decennio dopo decennio, tutta la rigidità europea. Certo, è un romanzo, ma ben le valse, prima donna ad ottenerlo, il Premio Pulitzer nel 1921. Ovvio, che io, innamorato perso di Michelle Pfeiffer, ne rivedo ad ogni pagina il risvolto del film. E non solo con la bella Michelle nel ruolo della contessa Olenska, ma anche di Winona Ryder in quello di May, nonché Daniel Day-Lewis nelle vesti, dubbiose ed indecise, di Newland Archer. Newland che nel libro è il fulcro della vicenda (che invece Scorsese tende a spostare sul versante Pfeiffer). Cresciuto nella rigidità delle forme, dove si va a teatro per vedere chi c’è, chi indossa cosa, ed altre superficialità. E che vede la sua vita tracciata nel solco della sua classicità: il fidanzamento ed il matrimonio con la giovane May, anche lei “di buona famiglia”, il lavoro (abbastanza superfluo) nello studio di un avvocato perché “qualcosa si deve pur fare”, l’inverno a Newport e l’estate in Florida, inframmezzata da un lungo viaggio di nozze in Europa (“un gran tour”). Ma un viaggio, ad esempio, dove non si parla con nessuno, non si vede nessuno, che noi “gli aristocratici americani” siamo gente superiore. Tutto questo bel disco, girato ormai da anni ed anni, si vede interrotto dall’arrivo della variabile impazzita, la bella contessa Ellen Olenska, in realtà cugina di May, ma prima fuggita in Europa per sposare il conte Olenski, e poi fuggita dall’Europa per sfuggire allo stesso conte. Qui la Wharton gioca sui due registri: la rigidità di Newland e la morbidezza anticonvenzionale di Ellen. Ma il mondo di New York non è ancora pronto a tutto ciò. E sarà proprio Newland a riportare nei ranghi Ellen, convincendola a non divorziare “per non fare scandalo”. Ma Ellen è comunque una ventata di aria pulita, che Newland però non saprà (non vorrà, non riuscirà) a cogliere. Così Michelle ritorna in Europa, e Daniel rimane lì, con la moglie che subito si adegua alla piatteria del mondo americano degli anni ’70 (certo quelli del 1800), che crescerà i tre – quattro figli, per poi morire ancor giovane. Lasciando il non ancora sessantenne Newland a riflettere sul cambiamento del mondo. Senza uscirne. Certo, si vede che il libro ha novanta anni, e che descrive un mondo di centocinquanta anni fa. Ma ha la forza di farci capire la difficoltà di affrontare il nuovo. E di essere sinceri con sé stessi. Qui c’è la contrapposizione tra ragione (stare accanto ad una donna gentile, affettuosa ma noiosa) e sentimento (stare accanto ad una donna autonoma e anticonvenzionale). Fino a che punto si possono sfidare le convenzioni per seguire sé stessi? Newland non ce la fa. E noi? Alla fine, non è eccelso, è una buona lettura. Ma soprattutto un buon rimando al film, che avrebbe meritato maggior successo.
“Quando uno aveva vissuto facendo il proprio dovere c’era un guaio: che non riusciva più a vivere diversamente” (340)
“D’un tratto, davanti a uno splendido Tiziano, disse dentro di sé: ‘Ma ho soltanto cinquantasette anni…’ e poi si volse per andare via.” (345)
John le Carré “La spia che venne dal freddo” Repubblica Giallo euro 5,90
[tramato il 1° luglio 2012]
Dopo anni (forse decenni) di resistenza finalmente mi decido a leggere qualcosa di David John Moore Cornwell. Mi ero sempre bloccato per un senso di repulsione (parola forse un po’ forte) che mi ispiravano le storie di spie ed affini. Certo, vi domanderete come mai un appassionato di intrecci, di gialli ed altro, abbia questa sensazione di non vicinanza. Ma la risposta, in un certo senso, è banale. Un giallo, prendiamo a caso un libro di Maigret, è ben più di un intreccio. È una piccola lampada accesa sul passaggio di qualche persona in questa che chiamiamo vita. Una sensazione che le storie di spie non mi hanno mai dato. E continuano a non darmi anche dopo questa, che, per altro, è una degna lettura ed un libro meritevole di essere letto. Si sentono i sessanta anni trascorsi, ma più per le atmosfere generali che per la scrittura (come invece succede ad altri libri coevi e tardi). Quanta acqua è passata sotto i ponti della storia. Lì eravamo a pochi momenti dalla nascita del Muro di Berlino. Or son passati più di venti anni e tutto il panorama mondiale è mutato. Ma John le Carré ha avuto il merito di fare una fotografia talmente efficace del mondo della guerra fredda, che il suo libro diventa quasi un libro di storia più che un libro di finzione. Ed i suoi personaggi assurgono paradossalmente un ruolo eponimo, diventano dei simboli di posizioni e ragionamenti. Comunque, vincendo la resistenza di cui sopra, mi sono immerso nelle atmosfere brumose dell’ex - Germania Est. Rivivendo quasi in sogno momenti passati tra Lipsia e la Polonia or son quasi quaranta anni. La vicenda è lineare nella sua complessità, e magistralmente orchestrata dall’autore. Si è nel tempo delle grandi reti spionistiche, dell’Intelligence di Bondiana memoria. E dei tentativi di creare reti di informatori nel cuore degli apparati “nemici”. Prendiamo conoscenza quindi di Leamas, e della sua sconfitta quando l’intera rete che ha messo su a Berlino Est viene debellata e (quasi) tutti gli esponenti uccisi. Per colpa (o merito) del controspionaggio tedesco guidato dal truce Mundt e dal suo accolito Fiedler. Tornato in patria, Leamas viene convinto dal suo capo ad organizzare una complicata trama per far fuori Mundt. Comincia così una finta deriva dell’ex-spia. Che si finge sbandato, ubriacone, deluso, tanto per farsi abbordare dalle spie dell’Est. Cosa che ben presto avviene, e tra un’ammissione ed una fuga, il nostro si ritrova ben presto di nuovo a Berlino, ma dall’altra parte del muro. Intanto il suo capo ha messo in piedi il resto degli intrecci per far cadere i tedescacci nel trappolone. Che riesce talmente bene da porre l’un contro l’altro armati Mundt e Fiedler. In un lungo momento di svelamenti e riconoscimenti, si arriva alla catarsi finale. Chi era la spia che faceva il doppio gioco? Era Mundt realmente come sostiene Fiedler o era una trappola per far cadere lo stesso Mundt cui Fiedler casca in pieno? Non vi svelerò il finale, benché sia ormai arcinoto. Né vi dirò della storia d’amore di Leamas con la bella Liz, quella che rimane nella testa per chi, non avendo letto il libro, si ricorda però del bel film con Richard Burton e Claire Bloom (ma perché nel film, Liz viene rinominata Nancy? Forse per evitare imbarazzi a Burton, rispetto alla sua più volte moglie?). La parte meno sostenibile del libro risiede in tutta una serie di affermazioni e sparate sulle spie, sulle motivazioni, e su altri ragionamenti similari, molto, troppo legati allo spirito del tempo. Per questo, benché piacevolmente letto, il mio rimane un giudizio mediano sulla bellezza e consistenza del libro stesso. Una trama esemplare sorretta da una scrittura decente, che sottolinea la quotidianità di certi comportamenti spionistici (per fare da contraltare alle rutilanti missioni alla Bond), ma che non mi invoglia particolarmente a leggere altro del nostro. Come un buon bicchiere di gin olandese, molto profumato, ma alla fine ne basta un bicchiere. E non ci si torna su.
Nancy Mitford “L’amore in un clima freddo” Adelphi euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[tramato il 23 settembre 2018]
Certo è consigliato dalle mie libropeute come coadiuvante per il raffreddore, ma se non avessi letto “Inseguendo l’amore” non credo che avrei avuto voglia di affrontare questo secondo libro di Nancy Mitford, né tanto meno il raffreddore (che poi sarebbe un po’ duro usarlo come fazzolettino…). Infatti, questo libro ha un senso proprio perché lei ha scritto e noi abbiamo letto “Inseguendo l’amore”. Questo infatti è il volume centrale di una ipotetica trilogia che verrà conclusa con “Non dirlo ad Alfred” (che tuttavia non è al momento tra i miei piani di lettura). Qui, la nostra signorina di buona famiglia (anche se all’epoca della scrittura già quarantacinquenne) continua a mostrarci il lato fatuo del mondo snobissimo inglese tra le due guerre. Ma se nel primo c’era afflato, c’era pathos sia umano che politico, qui si va tutto molto più sul leggero. C’è, ed è ovvio nella storia della Mitford, la feroce critica al mondo fatuo e senza prospettive della nobiltà inglese. Con tutta la grande famiglia che viene rappresentata, cugini, zii, cognati, suoceri, perfino vicini di casa o di castello. Tutti belli, tutti pieni di gioielli in cassaforte, tutti senza una sterlina da spendere per la casa. La narratrice qui diventa Fanny, che dal suo punto di incontro con i parenti (più o meno tali) ci narra le gesta della famiglia Montdore. Una famiglia da poco tornata dall’India, dove il Lord signor padre aveva pur un incarico di prestigio, ma dove c’è la figlia Polly, che ormai è in odore di matrimonio. E non si può farla sposare con un meticcio indiano. La madre, volenterosa e senza un briciolo di cervello, continua ad organizzare balli e ricevimenti affinché Polly metta la testa a posto e faccia girare la testa ai giovani di buon partito che ronzano intorno a tutto ciò. Tuttavia, Polly non metterà proprio la testa a posto. Anzi, con un colpo di testa decide di sposare il vecchio e super sciocco zio. Un altro essere che gravita in quel mondo fatiscente, che aveva l'unico pregio di essere stato per anni l’amante della madre. Nancy ci descrive allora tutta una sequela di avvenimenti, che ci lasciano non dico freddi, come l’amore del titolo, ma addirittura gelati per lo scarso coinvolgimento. Feste, scenate, cacce, abiti da giorno ed abiti da sera, chiacchiere e pettegolezzi (sembra quasi di assistere al matrimonio di Harry e Megan …), adulteri a ripetizione. Nonché lunghe pagine dedicate alla pesca delle trote, che è una delle attività che a me hanno sempre fatto una repulsione fisica (a meno di non parlare del libro di Richard Brautigan, ma quella è tutta un’altra cosa). La nostra riesce a riempire pagine e pagine con i dialoghi tra questi nobili carichi di una geniale stupidità. Ma alla fine, Polly non viene perdonata per il suo colpo di testa. Anzi viene diseredata ed allontanata da casa. Così, il bel patrimonio cui avrebbe avuto diritto, unica figlia di Lord Montdore, viene a cadere sulla testa di un lontano cugino, unico erede maschio, che vive in Nuova Scozia (che per i non informati non è in Inghilterra ma in Australia). Rintracciato e convinto a venire, l’erede sarà la sorpresa finale della vicenda: bello, frivolo, allegro. Ma soprattutto, molto, ma molto gay. Proprio questa sua non coinvolgibilità, fa in modo di dare nuova linfa a Lady Montdore, che al suo braccio riprende la vita mondana ripudiata per la vergogna di Polly. Vi lascio, se vi interessa, gustare gli ultimi intrecci e la fine della fiaba. A me, ripeto, il primo libro era sembrato interessante ed esemplificativo. Questo invece solo ripetitivo. Ma come detto c’è un legame forte tra i due, pur nel mutare dei nomi. O anche nel non cambiarli, laddove vediamo ad esempio Fabrice de Sauveterre (che nel primo ha un suo ruolo ma che non ripetiamo qui) a colloquio con Fanny, dove, esemplificando la leggerezza mondana del libro, la Mitford gli fa descrivere come le donne francesi sappiano meglio tenersi i loro amanti vicino, rispetto all’insipienza delle donne inglesi. Lettura fuori di metafora, che Fabrice è nient’altro che la trasposizione di Gaston, amante per anni entrato e uscito dalla vita di Nancy, e ultimo uomo cui la nostra diede la mano stringendola mentre moriva del linfoma di Hodgkin. Grazie per le lezioni di snobismo, cara sorella Mitford, ma penso che la nostra frequentazione finisca qui.
“Ti ho preparato per il matrimonio, che a mio parere … è di gran lunga il lavoro migliore per una donna.” (115)
“I cani e gli esseri umani non sono la stessa cosa … ma per … invece lo erano, anzi, per loro i cani erano tutto sommato più reali delle persone.” (127)
“Passare il tempo a leggere libri va bene per gentucola come voi.” (194)
Sue Monk Kidd “La vita segreta delle api” Mondadori euro 6,90 (in realtà, scontato a 5,18 euro)
[tramato il 23 dicembre 2018]
Dovrò capire perché questo libro veniva consigliato dalle libroterapuete di “Curare con i libri”, perché, seppur non esaltante, ha comunque qualche punto a suo favore. Leggendolo in modo trasversale sembra quasi un fratello minore de “Il buio oltre la siepe” o un lontano cugino de “Il colore viola”. Eppur tuttavia, ha anche una serie di piccole frecce rivolte alla cristianità con qualche risvolto verso una “teologia femminile”, di cui conosco poco, ma che è, da come leggo, uno dei pallini dell’autrice. Sue Monk Kidd, iniziatasi come infermiera, svolge tutto il suo percorso di vita, ora che tra una settimana compirà settanta anni, seguendo una sua luce di misticismo cristiano. Sui trenta anni comincia a scrivere di percorsi cristiani, verso i quaranta si volge alla teologia femminile, e quindi, svoltati i cinquanta produce questo libro, che qualche freccia al suo arco ce l’ha. Ha però un andamento forse troppo “juvenilia”, quasi fosse quella la platea maggiore cui si rivolge. Dicevo molte frecce perché affronta i problemi della crescita di una circa quindicenne con padre violento e segnata dal fatto di aver, involontariamente, all’età di quattro anni, ucciso con un colpo di pistola la madre. Affronta i problemi dell’emancipazione negra, dato anche che l’azione si svolge nel 1964, quando il presidente Johnson firma il decreto sui diritti civili della gente di colore. Si impelaga nei rapporti bianchi – neri quando la protagonista Lily, scappando di casa con la tata negra Rosaleen, si trova a vivere le sue crisi presso la famiglia delle sorelle di colore August, June e May. Ed ancora di più quando Lily scopre la dolcezza e l’intelligenza dell’amico Zach, ovviamente anche lui di colore. E poi la devozione, cui viene dedicato forse troppo spazio, delle sorelle e delle loro amiche verso una Madonna Nera. Certo, ce ne sono molte in giro per il mondo, e questa, in particolare, è la Madonna Nera di Breznichar in Boemia, che è inventato come posto, ma che riflette l’iconicità delle Madonne di colore (vedi Chestokova, ma questo esula dal libro e dalle mie capacità). Per poi non tacere l’uso della metafora delle api come contraltare della vicenda (o forse della vita stessa): la regina triste, solitaria, ma indispensabile; le operaie, alacri e servizievoli; i fuchi; l’alveare senza regina muore; la dolcezza del miele; la sensitività delle api al mondo esterno, funerali compresi. Ma facendo un passo indietro, o ricominciando da capo, vediamo, o meglio seguiamo, la storia di Lily, con la madre scomparsa tragicamente come sopra detto, la tata nera, il padre manesco e meglio quando assente. Per salvare la tata da pestaggi bianchi stile KKK (ricordo che siamo nel 1964), e sé stessa dal padre, Lily fugge da casa con lei. Per andare a cercare un certo posto nella Carolina, trovato sul retro dell’unico ricordo lasciatole dalla madre: una scatola di miele con la faccia della Madonna Nera. Non facilmente, arriva lì, trova la famiglia delle api, dove lei e Rosaleen si installano. Da lì comincia tutto il percorso di crescita / maturazione di Lily. Inframezzato dagli inserti femministi, teologici e mariani che tralascio perché, per me, appesantiscono senza costrutto il racconto. Seguiamo ancora Lily che apprende a curare le api, che, dopo una dura lotta, apre una breccia nel cuore di June, che ha un’empatia immediata per May che soffre “tutti i dolori del mondo”, che vede la bellezza negli occhi di Zach. E come motivo di fondo, il “duello” metaforico (forse avrei detto meglio, “ballo”?) tra lei ed August. Dove alla fine, ma noi lo si pensava dall’inizio, August rivela tutto quanto sa della madre alla sconcertata Lily. Cominciando dal fatto che August fu per alcuni anni proprio la tata della madre. Non entro nei particolari, né in quelli melensi né in quelli dolorosi. Non possiamo non aspettarci che, attraverso un percorso pur difficile, Lily comprenda il bene ed il male della propria vita. Coltivi il primo ed accetti che esista il secondo. Con un finale da impossibile happy end (cioè, l’autrice si ferma qualche passo prima del finale suggerendoci un lieto fine che noi, smaliziati lettori, sappiamo impossibile). Alcuni passi del romanzo possono essere utili a qualche “salviniano” per ripensare a prese di posizione che già erano da censurare 50 anni fa. Ma la confezione finale non mi lascia gran che soddisfatto.
“Le storie devono essere raccontate, altrimenti muoiono, e quando muoiono, noi non ricordiamo più chi siamo o perché siamo qui.” (109)
“Tutti … siamo umani. … Non c’è niente di perfetto … C’è solo la vita.” (248)

Conclusioni

Devo dire che non so se serviranno a curare il raffreddore, sicuramente hanno qualche possibilità di tenerci al caldo, sotto le coperte. Anche se non sono di certo tra i miei preferiti. A parte forse il buon vecchio Le Carré e la Michelle della mia memoria.

  

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