Nel senso degli ultimi quattro
libri dedicati dalla storica Danila a Publio Aurelio Stazio detto PAS (da me
per ricordarmene nei miei appunti). Ho sentito che sia uscito un diciannovesimo
volume, ma per ora ne facciamo a meno. Un livello di lettura interessante, con
alcune idee per spunti storici non banali. Un quartetto di media intensità, il
15° volume un po’ sopra gli altri.
Danila Comastri Montanari “Nemesis” Mondadori euro 12 (in realtà,
scontato a 9 euro)
[A: 23/11/2016 – I: 30/10/2018 – T: 31/10/2018] &&
+
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 247;
anno: 2007]
PAS 14
Dopo un anno e mezzo circa,
eccoci di nuovo qua, ad occuparci della 14° avventura di Publio Aurelio Stazio,
e della sua settantenne creatrice, la bolognese Danila Comastri Montanari. Come
certo ricorderete, questo serial in questo format mi ha sempre affascinato. Per
la buona resa delle descrizioni storiche dell’autrice e per un fondo di
simpatia che lo scanzonato senatore romano porta con sé in tutte le sue
avventure. Chi si fosse distratto avrà ora una buona occasione per rimettersi
in riga. Il nostro senatore nasce a Roma il 4 novembre del 3 d.C., va soldato
nelle legioni introno ai 23 anni (ed in questo episodio dirà ad un certo punto
di aver prestato servizio sul Reno con la legione XIV Gemina). Intanto sui
sedici anni aveva conosciuto il claudicante ed allora poco vistoso Tiberio
Claudio Cesare Augusto Germanico, che fu suo maestro d’etrusco. Sfuggito alle
congiure di Caligola, quando il suo amico assurge al rango di Imperatore nel
41, anche Aurelio fa la sua scalata nel cursus honorem. Il nostro Publio
Aurelio Stazio poi ha due passioni: le donne e la soluzione dei misteri. Ad un
certo punto sposa la bella Flaminia, ma la morte del figlio in fasce li
allontana, divorziano nel 34, e non si incontrano più. Il senatore ha al suo
servizio il greco Castore dal 31 d.C., ed è un sodalizio di mutua convenienza.
Infine, c’è la simpatica non che “over size” Pomponia, la cui memoria ed ampia
conoscenza dei fatti romani spesso aiuteranno il nostro senatore. Lo spunto del
romanzo questa volta viene da lontano, e da ambienti militari, che non sempre
sono consoni ad Aurelio. Intorno alla metà degli Anni Venti la Legio III
Gallica dislocata in Asia compie massacri su civili inermi, che essi sospettano
sostenere surrettiziamente i Parti, in lotta con Roma per la conquista
dell’Armenia. In quella battaglia, tra l’altro muore l’erede di Gaio Ulio
Papilione detto l’Asiatico, ragazzo debole che il padre militare e rude voleva
fortificare con la vita militare. Tuttavia, la strage non fu completa, che c’è
una ragazzina superstite, che ora, e siamo nel 47 d.C., cioè circa 22 anni dopo
l’eccidio, compare in Roma, nascondendosi sotto il nome di “Nemesis”, un nome
greco che etimologicamente significa “Giustizia Riparatrice”. Nemesis,
comunque, in quel di Roma cerca i caporioni dell’eccidio di cui sopra, per
vendicarsi. Ma, essendo straniera e donna, non ha facilità di manovra, così
che, approfittando di momentanei sbandamenti religiosi di Pomponia, l’amica di
Aurelio, la rapisce in modo che possa costringere Aurelio ad aiutarla nella
ricerca, se non nella vendetta. Aurelio, che un rapido calcolo ci porta ad uno
splendido 44enne, è ben presto coinvolto nella rete di Nemesis, anche dal punto
di vista fisica, che non sia mai si sottragga ad una bella donna ed alle sue
lusinghe. Tanto che ne capisce il punto di vista vendicativo, pur non
approvandolo. Si mette allora, e questa volta in solitaria, a cercare le
persone, i caporioni dell’eccidio. Tuttavia, li trova sempre che sono appena
morti. Aurelio comprende quindi che “c’è del marcio nel Caucaso”. È vero
Nemesis cerca gli autori dell’eccidio, ma forse l’eccidio serviva a nascondere
qualcosa altro. Una morte? Un altro assassinio? Di certo bisognerà andare a
fondo tra i reduci di quella legione. Cosa che farà, anche con l’aiuto di
Castore, per portare a termine un’indagine abbastanza ben congeniata. Al
solito, l’abilità della brava scrittrice è nel riportarci senza sbavature negli
usi e nei costumi di quella Roma. Con i fasti gladiatorii, con i banchetti,
financo con le minuzie del quotidiano: le domus dei patrizi, gli schiavi, le
ancelle, le terme. Queste sono poi le qualità che fanno di una saga già
abbastanza lunga, il piacere di continuarne la lettura. Che ogni volta c’è uno
spunto, un nuovo rimando a temi da approfondire. L’impero di Claudio e della
sua dissoluta moglie Messalina. Oppure i divorzi, che erano molto più
sviluppati di quanto sembri ora. Insomma, si legge con piacere, anche se
talvolta scivola via in punti poco coinvolgenti. Come le digressioni sulle
paturnie dell’amministratore di Aurelio, il pavido Paride. Ma una quasi
sufficienza la merita. Come merita che se ne legga ancora.
Danila Comastri Montanari “Dura Lex” Mondadori euro 12 (in realtà,
scontato a 9 euro)
[A: 23/11/2016 – I: 22/11/2018 – T: 23/11/2018] &&&
+
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 247;
anno: 2009]
PAS 15
Eccoci
allora, a poca distanza dal precedente, ad intraprendere un nuovo viaggio
nell’antica Roma, con il senatore Publio Aurelio Stazio sempre in primo piano e
guidati dal nostro mentore, la “storica” Danila. Questa volta il nocciolo della
storia sembra porre l’accento sulle credenze e sui riti legati alle morti
infantili nell’antica Roma. Certo non doveva essere facile riuscire a superare
i primi anni di vita in ambienti non particolarmente salubri, e con delle cure
neanche proprio pediatricamente efficaci. Inoltre, come spesso accadeva
nell’antichità, a questo si sovrapponeva l’ignoranza e la superstizione. Ma
prima di entrare nel vivo della trama, bisogna rilevare una piccola
incongruenza tra la datazione interna di questo libro e del precedente. Entrambi
si scrive si svolgano nel 47 d.C. (e questo ci può stare che se fossimo
nell’anno seguente saremmo nel pieno della crisi tra l’imperatore Claudio e la
dissoluta moglie Messalina), ma viene detto nel precedente di essere nell’anno
802 a.u.c. (cioè ab Urbe Condita, pari al 753 a.C. nella tradizione
storiografica). Mentre in questo, correttamente, ci si riposizione all’800
a.u.c. Piccole curiosità da ricercatore. Venendo al testo, il motore primo
della vicenda, nonché delle indagini del nostro amico senatore Publio Aurelio
Stazio, sono le misteriose morti che avvengono in culla per piccoli eredi
dell’aristocrazia romana. Muore Sempronino Floriano figlio di Flavia Flora
appartenente alla gens Bulba. Muore Postumo figlio di Dalmatica, cognata di
Gaio Glabro della gens dei Gavilii Barbati. Flora accusa subito della morte del
figlio il figliastro Bulbo Sempronino Gratiano detto Bulbillo, giovane di poco
nerbo, che viene difeso solo dalla nonna, Urania Primigenia. La quale, benché
ancora piacente pur se non più giovanissima, fu in gioventù di Aurelio una sua
fiamma. Proprio nella villa dei Servili, i grandi amici di Aurelio, che si
scatenano le diverse trame. Urania chiede ad Aurelio di difendere Bulbillo e
Dalmatica scopre la morte di Postumo (chiamato così perché il padre fu
costretto al suicidio dal nonno poco tempo la nascita del figlio, in quanto
fuggito dal campo di battaglia, ed accusato quindi di codardia). Mentre si
affanna nella ricerca di comprendere la morte del figlio di Flora, e viene di
striscio coinvolto anche nell’indagine su Postumo, c’è un terzo delitto che
scuote Roma. La nutrice Isaura è accusata della morte del picco Appio Accio. Si
sta già inscenando il processo, dove Isaura dovrebbe essere difesa da Statilia
Vespilla, avvocatessa idealista e piacente, che però non può esercitare nel
Foro in quanto donna. Sarà il nostro Aurelio che l’aiuterà, riuscendo a
discolpare Isaura, ma scoprendo allo stesso tempo un filo, logico se non
fattuale, che comincia ad illuminargli la strada per la risoluzione dei diversi
casi. Ovvio che la nostra brava scrittrice non perde occasione di complicare
una trama già di per sé complessa, inscenando alcune vicende laterali, che
servono a mettere sempre più in difficoltà Aurelio. Lui e la sua amica Pomponia
hanno un fiero diverbio, che costringe Aurelio a non poter chiedere aiuto alla
sua più grande amica. Inoltre, gli schiavi della sua casa, istigati dal
segretario Castore entrano in sciopero per rivendicazioni di minor entità, ma
che sconvolgono la domus Aurelia. Infine, il perfido collega senatore Lentulo
(che probabilmente Aurelio aveva pesantemente cornificato) è deciso a fare di
tutto per espellerlo dalla Curia. Perché, tornando a quanto sopra, il filo
delle morti è la parentela, più o meno lasca, dei vari attori della commedia.
Ma se Isaura, da brava madre, non avrebbe mai potuto uccidere Accio Junior, che
si scopre in effetti essere figlio del suo seno, forse non si può aspettare
altrettanto da Dalmatica, che odia profondamente il figlio avuto da gente che
non ama, che non la rispetta e da cui è trattata solo come una serva? Il
mistero rimane, e sarà un bellissimo “orologio ad acqua” (come quello presente
a Villa Borghese, che vi prego di andare a vedere) a portare Aurelio sulle
tracce delle modalità dell’uccisione di Postumo. E sempre seguendo i fili dei
suoi ragionamenti, sempre indagando andando a vedere i luoghi delle morti,
troverà il bandolo della matassa anche della morte di Sempronino. Le vicende,
in realtà, sono ben complicate, che coinvolgono anche problemi ereditari,
l’impossibilità delle donne di entrare in possesso dei beni di famiglia, ed
altre belle e complicate usanze, cui la nostra brava scrittrice ci porta a
conoscenza e ce ne fa decifrare pregi e difetti. Non vi dirò come anche gli
altri punti andranno alo loro posto. Né se la bella Statilia avrà modo di avere
qualche incontro ravvicinato con il nostro galante Aurelio. Un’ultima cosa da
citare prima di chiudere anche questa storia. Lasciando Urania, che rimane
scottata dalla soluzione del mistero legato a Bulbillo, e che gli chiede cosa
sarà di lei, Stazio risponde con la mitica frase di Rhett Butler in “Via col
Vento”: “Francamente, me ne infischio”. Una citazione degna del contesto e del
nostro Senatore. Insomma, al fine, una trama ed uno svolgimento decisamente
superiore al precedente, e non a caso premiato con maggior voti.
“Il falso è uno che quando incontra i suoi
nemici si mette a parlare con loro e non mostra il suo odio; loda in faccia chi
ha fatto a pezzi alle spalle” (141)
Danila Comastri Montanari “Pallida Mors” Mondadori euro 12 (in realtà,
scontato a 9 euro)
[A: 23/11/2016 – I: 26/11/2018 – T: 27/11/2018] &&&
-
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 321;
anno: 2013]
PAS 17
Dicevamo
dei grappoli di storia, ed ecco allora, subito legato al precedente, un nuovo
episodio della saga del senatore Publio Aurelio Stazio. In realtà, c’è un
episodio in mezzo, il sedicesimo, che tuttavia è stato il primo che ho letto
nella lunga frequentazione con la scrittrice bolognese, e ci cui parlai circa cinque
anni fa. Quel libro era un intermezzo, essendo Stazio in trasferta nella
regione dei Parti. Qui, invece, siamo di nuovo nella mia amata Roma, anche se i
misteri che vengono alla luce sembrano addirittura provenire da ben più
lontano, quando ancora nell’alto Lazio governano indisturbati gli Etruschi.
Come al solito nelle trame costruite intorno a Stazio ci sono diversi ruscelli
che scorrono nel letto di una lenta pianura. Alcuni affluiscono, altri vanno
per proprio conto, tesi a formare il corpo del romanzo. La parte corposa del
testo prende avvio dal ritrovamento, in seguito al crollo di una tomba molto
antica dalle parti del colle Esquilino, dello scheletro di una donna inchiodata
al sepolcro. La tomba era diventata la casa di un becchino, il triste Cicurio,
che, salvato da Aurelio, entra nel novero dei suoi protetti. La morta era stata
seviziata in seguito ad un rito barbaro, proveniente dalle lontane propaggini
dell’Impero, relativo a creature leggendarie e malefiche, chiamate “Empuse”.
Demoni femminili che seducono ed uccidono giovani maschi. Un po’ vampiri, un
po’ mantidi. Non basta poi ucciderle ma vanno crocifisse, e controllate che non
ritornino a molestare i vivi. Indagando sui misteri della tomba, Stazio scopre
che è di origine etrusca, riuscendo a decifrare iscrizioni varie in seguito
alle lezioni di etrusco che ebbe in gioventù proprio dall’allora studioso
Claudio, ora divenuto imperatore. Scopre così che la proprietaria della tomba è
Festia Velthinia, la capostipite in vita di una famiglia etrusca di antica
nobiltà, e di grande ricchezza. Quella che avrebbe accumulato il fratello di
Festia, Velthur, detto l’Avvoltoio. Ma quando va ad interrogarla, Stazio trova
Festia morta con l’addolorata famiglia intorno: il figlio Quinto con la
bellissima moglie Sofia Sofiana, i nipoti Furillo lo scavezzacollo e Quinto il
Giovane, studioso ed impacciato, l’altro figlio Lucio ed una lontana cugina,
Lavinia, una molto poco attenta alle convenienze pubbliche (cosa che potrebbe
essere di grande interesse per il nostro galante Stazio). Cercando di
comprendere meglio gli avvenimenti, Stazio si accorge, tramite indizi vari, che
anche Festia è stata uccisa. Pensa allora che ci sia un legame tra le due
morti, e questo allungherà di molto il brodo del racconto. Perché, al
contrario, sono avvenimenti coincidenti ma disgiunti. E mentre il rebus della
tomba sarà sciolto in un sottofinale di poca importanza, e di piccolo effetto,
la gran parte dell’inchiesta si concentra sulla morte di Festia, su come avesse
raggiunto la ricchezza attuale, sul suo testamento. Su di una cella frigidaria
con strane frequentazioni, su Furillo che ha visto qualcosa e rischia anche la
vita, su di una morte avvenuta forse prima di quanto ci si aspettasse. Con la
sua solita perizia, e rischiando anche di suo rispetto ad altre avventure,
Stazio metterà in fila tutti gli avvenimenti, magari non punendo tutti i
colpevoli, ma dando a tutti, buoni e cattivi, una via d’uscita. Quasi un
Maigret d’altri tempi. Tra i tanti ruscelli di contorno, uno prende molto
spazio, facendo quasi da contraltare al corpo del racconto dove la
superstizione porta alla violenza. Perché troviamo Pomponia ammalata di
depressione e quasi incurabile, poiché però non ha fiducia nel medico di
Aurelio, l’ottimo Ipparco, questi le fa somministrare un antidepressivo,
l’infuso di iperico, facendole credere che sia un filtro magico. La credulità,
quindi, utilizzata qui a fin di bene. Che Pomponia guarisce, ed Aurelio per
gratitudine, finanzierà la costruzione di un ospedale buono per tutti gli usi,
sia curativi che di bellezza e di estetica. Il termine usato nella Roma del
tempo è “Valetudinarium”, il cui significato derivava dal termine latino
“valetudo”, ovvero "buona salute". Nelle note finali, sempre molto
ben documentate, Danila ci spiega che il termine è solitamente riferito al
locale adibito ad infermeria negli accampamenti militari, come avveniva fin dai
tempi di Augusto nel 14 a.C. (data in cui se ne trova per primo un resoconto
storico). Mentre non si è mai trovata traccia di un edificio simile nell'Urbe.
Un’ipotesi verosimile, ma completamente frutto della fantasia dell’autrice. Il
tratto intrigante, è quando si parla non tanto delle cure, ma dei trattamenti a
cui le fanciulle nobili e le matrone si sottoponevano. Si vedono allora citati
(e documentati ci dice Danila) creme di bellezza, filtri e pozioni per poter
mangiare senza prendere peso, l’uso del fucus, cioè del rossetto, ed una
particolare tecnica di ricostruzione nasale “operazione di Celso”, assimilabile
ad un lifting ante-litteram. Mi ripeto un po’, ma al solito buon bilanciamento
tra ricostruzione storica ed indagini, piacevoli intermezzi, qualche lentezza
nella parte propriamente “gialla”, ed un risultato finale poco sotto la
sufficienza.
Danila Comastri Montanari “Saxa Rubra” Mondadori euro 12 (in realtà,
scontato a 9 euro)
[A: 23/11/2016 – I: 28/11/2018 – T: 29/11/2018] &&
½
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 257;
anno: 2015]
PAS 18
Come
le ciliegie! Come gli acini d’uva a settembre! Ecco di gran corsa anche il
diciottesimo volume dedicato a Publio Aurelio Stazio. Doveva essere l’ultimo,
ma mi giunge notizia che ne sia uscito un altro. Vedremo. Intanto questo nuovo
episodio non è che soddisfi in modo particolare. Siamo ancora miseramente nel
44° anno del nostro Senatore, come non si riuscisse a passare al dolente 48
d.C., quello in cui l’imperatore Claudio, non potendo più sopportare i
tradimenti di Messalina, la condanna a morte, sposa quindi la cugina, Agrippina
minore, e ne adotta il figlio Lucio Domizio Enobarbo, che diverrà imperatore
con il nome di … Nerone. Ma Stazio non è ancora in grado di affrontare tutta
questa buriana, anche perché, dopo tutte le vicende narrate sembra finalmente
intenzionato a seguire uno stile di vita più sobrio, lontano dagli eccessi e
dai vizi che hanno contraddistinto il suo passato. Ma anche se l’uomo sembra
aver fatto finalmente i conti con il passato è lo stesso passato a non aver
ancora chiuso con lui: una serie di omicidi provoca scalpore e preoccupazione a
Roma e proprio lui sembra essere l’elemento che collega fra loro tutti i
cadaveri. Una dopo l’altra muoiono, sono minacciate di morte o simili
disavventure, una serie di donne e matrone romane. La prima è la nobile Pulla
Trigemina, matrona disinvolta abituata a giocare con i suoi amanti. Poi è
toccato a Sabellia, la dolce e morbida poetessa che trascorreva il tempo nel
suo circolo ad ascoltare e comporre versi. Quindi è stata la volta della bella
schiava Tabitha, l’agile gazzella dagli occhi di ambra. Poi Lelia Soave, umile
ma appassionata lettrice di romantici romanzi alessandrini (ma lei è l’unica
che si salva), e infine lei, la Flaminica, Cecilia Calvisia, nobilissima e
inavvicinabile moglie del Flamen Dialis, il sacerdote preposto al culto di
Giove Capitolino, la più sacra delle donne di Roma. Morte di morte violenta. Ma
benché siano diverse tra loro per cultura, estrazione, personalità, hanno un
grave tratto in comune. Hanno tutte avuto una relazione con Stazio. Se anche
non si sapesse, ogni donna ha sul corpo un biglietto che lo accusa, inclusi
alcuni versi dell’Odissea, che alludono a fatti che dovrebbero essere noti solo
al nostro senatore. La situazione si aggrava perché Claudio, come sappiamo da
quello che succederà, non sta benissimo né in salute né in morale. Ed i tanti
nemici di Stazio sembrano prendere vigore da queste disgrazie, tanto che
vorrebbero un pronunciamento del Senato che lo dichiari nemico di Roma, per
poterlo bandire dai territori dell’Impero. A Stazio rimangono solo i suoi veri
amici, Pomponia e consorte, nonché l’aiuto sempre prezioso dello scaltro
Castore. Sempre pronto ad aiutare in cambio di regali, o del sigillo per
firmare cambiali, o altre regalie di natura diversa (anche qualche bella
donzella, che non fa mai male). Ma le complicazioni sono all’ordine del giorno,
nelle indagini e nella vita dell’Antica Roma. Se andiamo a guardare meglio il
susseguirsi di posizioni di potere ed altro, troviamo una congerie di intrecci
tra sposalizi parentali, adozioni strane, congiure e morti sospette. Anche qui,
sebbene non voglia entrare poi nel merito, è ovvio che Stazio non è né può
essere il colpevole. Ma c’è qualcuno che si vuole vendicare di lui, a torto o a
ragione, qualcuno che pensa il nostro senatore implicato in un non sostegno di
congiurati che volevano prendere il potere forse alla morte di Caligola, o
forse in qualche altra congiura più o meno coeva. Qualcuno ne soffrì, fu
esiliato, morì in quei frangenti. Ed in qualche modo ora ceca vendetta, tra
l’altro intrufolandosi proprio nell’entourage del senatore, onde carpirne i più
nascosti segreti. La storia però è anche piena di lotte gladiatorie, di
discorsi senatoriali, ed altre romanità che, in genere fanno la fortuna dei romanzi
della scrittrice bolognese. C’è anche la rivolta di Pomponia verso l’uso
indiscriminato dell’acqua, con le difficoltà di potersi lavare o utilizzare le
terme da parte dei nostri eroi. Tuttavia, i contorni della storia principale
qui sono un po’ laschi. Dopo aver pensato di mettere in difficoltà Stazio,
tutto il resto viene un po’ trascinato, rendendo il romanzo, alla fine, un buon
passatempo da leggere prima di andare a dormire, dopo una giornata pesante. Non
certo un libro che ti tiene sveglio ed attento al suo svolgimento. Chissà se il
prossimo entrerà nella nostra biblioteca …
Dopo
aver saltato, e sono felice di averlo fatto visto che si stava in un’ottima
India del Sud, il mese di febbraio, ecco che in questo marzo pazzarello tornano
anche i libri curativi, per ovviare al raffreddore di stagione che tutti, più o
meno, attanaglia.
La
Spagna va e viene, sperando sia più stabile. Gli amici girano. I giorni passano
e la campagna comincia a fiorire. Se son rose…
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i
“bugiardini” di Giovanni
MARZO 2019
Con il tempo che fa, mi sembra
corretto dedicarvi un rimedio contro un male di stagione.
RAFFREDDORE
COMUNE
Non esiste una cura per il
raffreddore comune. Ma è un’ottima scusa per avvolgersi in una coperta insieme
alla borsa dell’acqua calda e a un romanzo che possa darci un po’ di sollievo.
I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER
QUANDO SI HA IL RAFFREDDORE
John
Barth “L'opera galleggiante”
Heinrich
Boll “E non disse nemmeno una
parola”
Nikolaj
Gogol “Il cappotto”
Francesco
Jovine “Le terre del sacramento”
Sue
Monk Kidd “La vita segreta delle
api”
John
Le Carré “La spia che viene dal
freddo”
Nancy
Mitford “Amore in climi freddi”
Zadie
Smith “Denti bianchi”
Kurt
Vonnegut “Ghiaccio
nove”
Edith
Wharton “L’età dell’innocenza”
Bugiardino
Vonnegut ne lessi l’opera omnia
quando avevo vent’anni, e qui non ci torno (a parte sottolineare che se non ne
avete letto, ne dovete leggere). Invece, Boll, Barth e Gogol fanno parte di un
piccolo bagaglio degli anni ’90. Il solo Jovine manca all’appello: né letto, né
memorizzato in qualche recesso bibliografico. Gli altri cinque libri li riporto
in ordine di anzianità (di lettura)
Zadie Smith “Denti
bianchi” Mondadori euro 8,40
[tramato
il 3 agosto 2007]
Anche questo (come altri libri in
precedenza) un gran bel polpettone. Forse, un po’ troppo lungo. E quando si
allunga, il brodo perde un po’ di sapore. Fin quando si mantiene a livello
narrativo sugli incontri-scontri interrazziali in una lunga Londra (lunga nel
tempo, dalla seconda guerra mondiale al 2000) si riesce a seguire. Poi deve
finire e non avendo le idee chiarissime ingarbuglia un po’. Si ritrova la sua
atmosfera di casa (questo misto di culture, un po’ di Giamaica e l’immancabile
India), si perde alla fine un po’ di magia.
“Sono le lettere, più ancora dei baci, ad unire le anime.”
“Se fossi un indù, penserei che ci siamo incontrati in una vita
precedente.”
Edith Wharton “L'età dell'innocenza” Repubblica Novecento
euro 4,90
[tramato
il 31 luglio 2011]
Una classica ed interessante
lettura, ed un bel confronto con l’ottimo film di Scorsese. L’americana
Wharton, lei stessa discendente dell’aristocrazia newyorchese che tanta parte
avrà nei suoi libri migliori, rifugiatasi nel buon ritiro francese, dopo il non
facile matrimonio, da lì un po’ da lontano, scrive e tratteggia il mondo
d’oltre oceano. Figura intellettuale, amica di Henry James e Jean Cocteau, ma
anche crocerossina durante la Guerra, è in Francia che sul doppiar la boa dei
cinquanta, scrive questo puro saggio sull’adolescenza della sua nazione. Sulle
difficoltà di crescere e di lasciare i vecchi cliché, quelli bene o male
imposti dall’essere una nazione popolata da emigrati europei, che si portano
appresso, decennio dopo decennio, tutta la rigidità europea. Certo, è un
romanzo, ma ben le valse, prima donna ad ottenerlo, il Premio Pulitzer nel
1921. Ovvio, che io, innamorato perso di Michelle Pfeiffer, ne rivedo ad ogni
pagina il risvolto del film. E non solo con la bella Michelle nel ruolo della
contessa Olenska, ma anche di Winona Ryder in quello di May, nonché Daniel
Day-Lewis nelle vesti, dubbiose ed indecise, di Newland Archer. Newland che nel
libro è il fulcro della vicenda (che invece Scorsese tende a spostare sul
versante Pfeiffer). Cresciuto nella rigidità delle forme, dove si va a teatro
per vedere chi c’è, chi indossa cosa, ed altre superficialità. E che vede la
sua vita tracciata nel solco della sua classicità: il fidanzamento ed il
matrimonio con la giovane May, anche lei “di buona famiglia”, il lavoro
(abbastanza superfluo) nello studio di un avvocato perché “qualcosa si deve pur
fare”, l’inverno a Newport e l’estate in Florida, inframmezzata da un lungo
viaggio di nozze in Europa (“un gran tour”). Ma un viaggio, ad esempio, dove
non si parla con nessuno, non si vede nessuno, che noi “gli aristocratici
americani” siamo gente superiore. Tutto questo bel disco, girato ormai da anni
ed anni, si vede interrotto dall’arrivo della variabile impazzita, la bella contessa
Ellen Olenska, in realtà cugina di May, ma prima fuggita in Europa per sposare
il conte Olenski, e poi fuggita dall’Europa per sfuggire allo stesso conte. Qui
la Wharton gioca sui due registri: la rigidità di Newland e la morbidezza
anticonvenzionale di Ellen. Ma il mondo di New York non è ancora pronto a tutto
ciò. E sarà proprio Newland a riportare nei ranghi Ellen, convincendola a non
divorziare “per non fare scandalo”. Ma Ellen è comunque una ventata di aria
pulita, che Newland però non saprà (non vorrà, non riuscirà) a cogliere. Così
Michelle ritorna in Europa, e Daniel rimane lì, con la moglie che subito si
adegua alla piatteria del mondo americano degli anni ’70 (certo quelli del
1800), che crescerà i tre – quattro figli, per poi morire ancor giovane.
Lasciando il non ancora sessantenne Newland a riflettere sul cambiamento del
mondo. Senza uscirne. Certo, si vede che il libro ha novanta anni, e che
descrive un mondo di centocinquanta anni fa. Ma ha la forza di farci capire la
difficoltà di affrontare il nuovo. E di essere sinceri con sé stessi. Qui c’è
la contrapposizione tra ragione (stare accanto ad una donna gentile, affettuosa
ma noiosa) e sentimento (stare accanto ad una donna autonoma e
anticonvenzionale). Fino a che punto si possono sfidare le convenzioni per
seguire sé stessi? Newland non ce la fa. E noi? Alla fine, non è eccelso, è una
buona lettura. Ma soprattutto un buon rimando al film, che avrebbe meritato
maggior successo.
“Quando uno aveva vissuto facendo il proprio dovere c’era un guaio: che
non riusciva più a vivere diversamente” (340)
“D’un tratto, davanti a uno splendido Tiziano, disse dentro di sé: ‘Ma
ho soltanto cinquantasette anni…’ e poi si volse per andare via.” (345)
John le Carré “La spia che venne dal freddo” Repubblica Giallo euro 5,90
[tramato
il 1° luglio 2012]
Dopo anni (forse decenni) di
resistenza finalmente mi decido a leggere qualcosa di David John Moore
Cornwell. Mi ero sempre bloccato per un senso di repulsione (parola forse un
po’ forte) che mi ispiravano le storie di spie ed affini. Certo, vi domanderete
come mai un appassionato di intrecci, di gialli ed altro, abbia questa
sensazione di non vicinanza. Ma la risposta, in un certo senso, è banale. Un
giallo, prendiamo a caso un libro di Maigret, è ben più di un intreccio. È una
piccola lampada accesa sul passaggio di qualche persona in questa che chiamiamo
vita. Una sensazione che le storie di spie non mi hanno mai dato. E continuano
a non darmi anche dopo questa, che, per altro, è una degna lettura ed un libro
meritevole di essere letto. Si sentono i sessanta anni trascorsi, ma più per le
atmosfere generali che per la scrittura (come invece succede ad altri libri
coevi e tardi). Quanta acqua è passata sotto i ponti della storia. Lì eravamo a
pochi momenti dalla nascita del Muro di Berlino. Or son passati più di venti
anni e tutto il panorama mondiale è mutato. Ma John le Carré ha avuto il merito
di fare una fotografia talmente efficace del mondo della guerra fredda, che il
suo libro diventa quasi un libro di storia più che un libro di finzione. Ed i
suoi personaggi assurgono paradossalmente un ruolo eponimo, diventano dei
simboli di posizioni e ragionamenti. Comunque, vincendo la resistenza di cui
sopra, mi sono immerso nelle atmosfere brumose dell’ex - Germania Est. Rivivendo
quasi in sogno momenti passati tra Lipsia e la Polonia or son quasi quaranta
anni. La vicenda è lineare nella sua complessità, e magistralmente orchestrata
dall’autore. Si è nel tempo delle grandi reti spionistiche, dell’Intelligence
di Bondiana memoria. E dei tentativi di creare reti di informatori nel cuore
degli apparati “nemici”. Prendiamo conoscenza quindi di Leamas, e della sua
sconfitta quando l’intera rete che ha messo su a Berlino Est viene debellata e
(quasi) tutti gli esponenti uccisi. Per colpa (o merito) del controspionaggio
tedesco guidato dal truce Mundt e dal suo accolito Fiedler. Tornato in patria,
Leamas viene convinto dal suo capo ad organizzare una complicata trama per far
fuori Mundt. Comincia così una finta deriva dell’ex-spia. Che si finge
sbandato, ubriacone, deluso, tanto per farsi abbordare dalle spie dell’Est.
Cosa che ben presto avviene, e tra un’ammissione ed una fuga, il nostro si
ritrova ben presto di nuovo a Berlino, ma dall’altra parte del muro. Intanto il
suo capo ha messo in piedi il resto degli intrecci per far cadere i tedescacci
nel trappolone. Che riesce talmente bene da porre l’un contro l’altro armati
Mundt e Fiedler. In un lungo momento di svelamenti e riconoscimenti, si arriva
alla catarsi finale. Chi era la spia che faceva il doppio gioco? Era Mundt
realmente come sostiene Fiedler o era una trappola per far cadere lo stesso
Mundt cui Fiedler casca in pieno? Non vi svelerò il finale, benché sia ormai arcinoto.
Né vi dirò della storia d’amore di Leamas con la bella Liz, quella che rimane
nella testa per chi, non avendo letto il libro, si ricorda però del bel film
con Richard Burton e Claire Bloom (ma perché nel film, Liz viene rinominata
Nancy? Forse per evitare imbarazzi a Burton, rispetto alla sua più volte moglie?).
La parte meno sostenibile del libro risiede in tutta una serie di affermazioni
e sparate sulle spie, sulle motivazioni, e su altri ragionamenti similari,
molto, troppo legati allo spirito del tempo. Per questo, benché piacevolmente
letto, il mio rimane un giudizio mediano sulla bellezza e consistenza del libro
stesso. Una trama esemplare sorretta da una scrittura decente, che sottolinea
la quotidianità di certi comportamenti spionistici (per fare da contraltare
alle rutilanti missioni alla Bond), ma che non mi invoglia particolarmente a
leggere altro del nostro. Come un buon bicchiere di gin olandese, molto
profumato, ma alla fine ne basta un bicchiere. E non ci si torna su.
Nancy Mitford “L’amore in un clima freddo” Adelphi euro 12 (in realtà,
scontato a 9 euro)
[tramato
il 23 settembre 2018]
Certo è consigliato dalle mie
libropeute come coadiuvante per il raffreddore, ma se non avessi letto
“Inseguendo l’amore” non credo che avrei avuto voglia di affrontare questo
secondo libro di Nancy Mitford, né tanto meno il raffreddore (che poi sarebbe
un po’ duro usarlo come fazzolettino…). Infatti, questo libro ha un senso
proprio perché lei ha scritto e noi abbiamo letto “Inseguendo l’amore”. Questo
infatti è il volume centrale di una ipotetica trilogia che verrà conclusa con
“Non dirlo ad Alfred” (che tuttavia non è al momento tra i miei piani di
lettura). Qui, la nostra signorina di buona famiglia (anche se all’epoca della
scrittura già quarantacinquenne) continua a mostrarci il lato fatuo del mondo
snobissimo inglese tra le due guerre. Ma se nel primo c’era afflato, c’era
pathos sia umano che politico, qui si va tutto molto più sul leggero. C’è, ed è
ovvio nella storia della Mitford, la feroce critica al mondo fatuo e senza
prospettive della nobiltà inglese. Con tutta la grande famiglia che viene
rappresentata, cugini, zii, cognati, suoceri, perfino vicini di casa o di
castello. Tutti belli, tutti pieni di gioielli in cassaforte, tutti senza una
sterlina da spendere per la casa. La narratrice qui diventa Fanny, che dal suo
punto di incontro con i parenti (più o meno tali) ci narra le gesta della
famiglia Montdore. Una famiglia da poco tornata dall’India, dove il Lord signor
padre aveva pur un incarico di prestigio, ma dove c’è la figlia Polly, che
ormai è in odore di matrimonio. E non si può farla sposare con un meticcio
indiano. La madre, volenterosa e senza un briciolo di cervello, continua ad
organizzare balli e ricevimenti affinché Polly metta la testa a posto e faccia
girare la testa ai giovani di buon partito che ronzano intorno a tutto ciò. Tuttavia,
Polly non metterà proprio la testa a posto. Anzi, con un colpo di testa decide
di sposare il vecchio e super sciocco zio. Un altro essere che gravita in quel
mondo fatiscente, che aveva l'unico pregio di essere stato per anni l’amante
della madre. Nancy ci descrive allora tutta una sequela di avvenimenti, che ci
lasciano non dico freddi, come l’amore del titolo, ma addirittura gelati per lo
scarso coinvolgimento. Feste, scenate, cacce, abiti da giorno ed abiti da sera,
chiacchiere e pettegolezzi (sembra quasi di assistere al matrimonio di Harry e
Megan …), adulteri a ripetizione. Nonché lunghe pagine dedicate alla pesca
delle trote, che è una delle attività che a me hanno sempre fatto una
repulsione fisica (a meno di non parlare del libro di Richard Brautigan, ma
quella è tutta un’altra cosa). La nostra riesce a riempire pagine e pagine con
i dialoghi tra questi nobili carichi di una geniale stupidità. Ma alla fine,
Polly non viene perdonata per il suo colpo di testa. Anzi viene diseredata ed
allontanata da casa. Così, il bel patrimonio cui avrebbe avuto diritto, unica
figlia di Lord Montdore, viene a cadere sulla testa di un lontano cugino, unico
erede maschio, che vive in Nuova Scozia (che per i non informati non è in
Inghilterra ma in Australia). Rintracciato e convinto a venire, l’erede sarà la
sorpresa finale della vicenda: bello, frivolo, allegro. Ma soprattutto, molto,
ma molto gay. Proprio questa sua non coinvolgibilità, fa in modo di dare nuova
linfa a Lady Montdore, che al suo braccio riprende la vita mondana ripudiata
per la vergogna di Polly. Vi lascio, se vi interessa, gustare gli ultimi
intrecci e la fine della fiaba. A me, ripeto, il primo libro era sembrato
interessante ed esemplificativo. Questo invece solo ripetitivo. Ma come detto
c’è un legame forte tra i due, pur nel mutare dei nomi. O anche nel non
cambiarli, laddove vediamo ad esempio Fabrice de Sauveterre (che nel primo ha
un suo ruolo ma che non ripetiamo qui) a colloquio con Fanny, dove, esemplificando
la leggerezza mondana del libro, la Mitford gli fa descrivere come le donne
francesi sappiano meglio tenersi i loro amanti vicino, rispetto all’insipienza
delle donne inglesi. Lettura fuori di metafora, che Fabrice è nient’altro che
la trasposizione di Gaston, amante per anni entrato e uscito dalla vita di
Nancy, e ultimo uomo cui la nostra diede la mano stringendola mentre moriva del
linfoma di Hodgkin. Grazie per le lezioni di snobismo, cara sorella Mitford, ma
penso che la nostra frequentazione finisca qui.
“Ti ho preparato per il matrimonio, che a mio parere … è di gran lunga
il lavoro migliore per una donna.” (115)
“I cani e gli esseri umani non sono la stessa cosa … ma per … invece lo
erano, anzi, per loro i cani erano tutto sommato più reali delle persone.”
(127)
“Passare il tempo a leggere libri va bene per gentucola come voi.”
(194)
Sue Monk Kidd “La vita segreta delle api” Mondadori euro 6,90 (in
realtà, scontato a 5,18 euro)
[tramato
il 23 dicembre 2018]
Dovrò
capire perché questo libro veniva consigliato dalle libroterapuete di “Curare
con i libri”, perché, seppur non esaltante, ha comunque qualche punto a suo
favore. Leggendolo in modo trasversale sembra quasi un fratello minore de “Il
buio oltre la siepe” o un lontano cugino de “Il colore viola”. Eppur tuttavia,
ha anche una serie di piccole frecce rivolte alla cristianità con qualche
risvolto verso una “teologia femminile”, di cui conosco poco, ma che è, da come
leggo, uno dei pallini dell’autrice. Sue Monk Kidd, iniziatasi come infermiera,
svolge tutto il suo percorso di vita, ora che tra una settimana compirà
settanta anni, seguendo una sua luce di misticismo cristiano. Sui trenta anni
comincia a scrivere di percorsi cristiani, verso i quaranta si volge alla
teologia femminile, e quindi, svoltati i cinquanta produce questo libro, che
qualche freccia al suo arco ce l’ha. Ha però un andamento forse troppo
“juvenilia”, quasi fosse quella la platea maggiore cui si rivolge. Dicevo molte
frecce perché affronta i problemi della crescita di una circa quindicenne con
padre violento e segnata dal fatto di aver, involontariamente, all’età di
quattro anni, ucciso con un colpo di pistola la madre. Affronta i problemi
dell’emancipazione negra, dato anche che l’azione si svolge nel 1964, quando il
presidente Johnson firma il decreto sui diritti civili della gente di colore.
Si impelaga nei rapporti bianchi – neri quando la protagonista Lily, scappando
di casa con la tata negra Rosaleen, si trova a vivere le sue crisi presso la
famiglia delle sorelle di colore August, June e May. Ed ancora di più quando
Lily scopre la dolcezza e l’intelligenza dell’amico Zach, ovviamente anche lui
di colore. E poi la devozione, cui viene dedicato forse troppo spazio, delle
sorelle e delle loro amiche verso una Madonna Nera. Certo, ce ne sono molte in
giro per il mondo, e questa, in particolare, è la Madonna Nera di Breznichar in
Boemia, che è inventato come posto, ma che riflette l’iconicità delle Madonne
di colore (vedi Chestokova, ma questo esula dal libro e dalle mie capacità).
Per poi non tacere l’uso della metafora delle api come contraltare della
vicenda (o forse della vita stessa): la regina triste, solitaria, ma
indispensabile; le operaie, alacri e servizievoli; i fuchi; l’alveare senza
regina muore; la dolcezza del miele; la sensitività delle api al mondo esterno,
funerali compresi. Ma facendo un passo indietro, o ricominciando da capo,
vediamo, o meglio seguiamo, la storia di Lily, con la madre scomparsa
tragicamente come sopra detto, la tata nera, il padre manesco e meglio quando
assente. Per salvare la tata da pestaggi bianchi stile KKK (ricordo che siamo
nel 1964), e sé stessa dal padre, Lily fugge da casa con lei. Per andare a
cercare un certo posto nella Carolina, trovato sul retro dell’unico ricordo lasciatole
dalla madre: una scatola di miele con la faccia della Madonna Nera. Non
facilmente, arriva lì, trova la famiglia delle api, dove lei e Rosaleen si
installano. Da lì comincia tutto il percorso di crescita / maturazione di Lily.
Inframezzato dagli inserti femministi, teologici e mariani che tralascio
perché, per me, appesantiscono senza costrutto il racconto. Seguiamo ancora
Lily che apprende a curare le api, che, dopo una dura lotta, apre una breccia
nel cuore di June, che ha un’empatia immediata per May che soffre “tutti i
dolori del mondo”, che vede la bellezza negli occhi di Zach. E come motivo di
fondo, il “duello” metaforico (forse avrei detto meglio, “ballo”?) tra lei ed
August. Dove alla fine, ma noi lo si pensava dall’inizio, August rivela tutto
quanto sa della madre alla sconcertata Lily. Cominciando dal fatto che August
fu per alcuni anni proprio la tata della madre. Non entro nei particolari, né
in quelli melensi né in quelli dolorosi. Non possiamo non aspettarci che,
attraverso un percorso pur difficile, Lily comprenda il bene ed il male della
propria vita. Coltivi il primo ed accetti che esista il secondo. Con un finale
da impossibile happy end (cioè, l’autrice si ferma qualche passo prima del
finale suggerendoci un lieto fine che noi, smaliziati lettori, sappiamo
impossibile). Alcuni passi del romanzo possono essere utili a qualche
“salviniano” per ripensare a prese di posizione che già erano da censurare 50
anni fa. Ma la confezione finale non mi lascia gran che soddisfatto.
“Le storie devono essere raccontate,
altrimenti muoiono, e quando muoiono, noi non ricordiamo più chi siamo o perché
siamo qui.” (109)
“Tutti … siamo umani. … Non c’è niente di
perfetto … C’è solo la vita.” (248)
Conclusioni
Devo dire che non so se
serviranno a curare il raffreddore, sicuramente hanno qualche possibilità di
tenerci al caldo, sotto le coperte. Anche se non sono di certo tra i miei
preferiti. A parte forse il buon vecchio Le Carré e la Michelle della mia
memoria.
Nessun commento:
Posta un commento