domenica 24 marzo 2019

Ma il 47 parla? - 24 marzo 2019


Torno con piacere al mio amico Bissattini ed alla sua seconda prova, che come leggerete, mi ha convinto meno della prima. Anche con quel piccolo “affronto” alla smorfia napoletana, dove il morto che parla è il 48. Ma Emanuele è in buona compagnia, in ogni caso. Distanziando di gran lunga uno stagionato Varesi ed il suo commissario Soneri, ed incollandosi alle calcagna di Emilio Martini ed il suo commissario Berté. Tanto il nostro non mette in scena né commissari né vicequestori.
Valerio Varesi “Il commissario Soneri e la strategia della lucertola” Pickwick euro 10,90
[A: 05/07/2016 – I: 01/10/2018 – T: 03/10/2018] - & +
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 312; anno 2014]
Un vero dispiacere. Un libro che mi aspettavo solcasse il mare con un suo placido andare, come gli altri di Varesi, con in mente Barbareschi-Soneri. Invece, al primo scoglio, un naufragio terribile. Capisco perfettamente il clima di disappunto che un giornalista di matrice “Repubblica” sia a disagio (e non è il solo) in questo momento storico. Capisco anche la necessità interiore di esternare questo disagio imbastendo una storia che si basi sulla scomoda realtà attuale. Tuttavia, seppur condivisibili i giudizi e le analisi, pur non approfondite, che Varesi sparge per tutto il libro. Ma alla fine, non diventa né un libro di denuncia del malaffare italico (e parmigiano in particolare) né un libro giallo con una sua trama da decifrare, da scoprire chi sono i morti e chi li ammazza. Certo, Soneri per tutto il libro non fa che parlare del contesto, di questo zibaldone estremo in cui tutto è immagine, tutto è affari, tutto è votato al benessere personale ed alla disgregazione di tutte le conquiste sociali degli ultimi cinquanta anni. Ma non se ne esce in nessun modo. Cosa ci descrive Varesi in questa Parma di finzione (che però non può scordare la Parma reale)? Un sindaco eletto per la sua immagine, manovrato da politici e affaristi. E quando non ce la fa più a mantenere il suo ruolo, bellamente fatto fuori. Affaristi capeggiati dal perfido Ugolini, strafatto di coca, che compra a più non posso quadri falsi e li rivende come veri, che fa crescere piccole aziende che operando con un impianto camorristico sbaragliano la concorrenza, diventando, in ogni ramo, leader del settore ed imponendo propri metodi e proprie soluzioni economiche. Ci sono magistrati che indagano, ma per un timbro o per una carta mal messa vengono esautorati, prima di autorità e poi di posto. C’è la polizia e ci sono i carabinieri che indagano, ma con i vertici collusi con le autorità finanziaria, ben presto si trovano inchieste insabbiate. Così che in carcere ci vanno pesci piccoli, che poco avranno di condanna, mentre da Roma si alza la canizza che continua a ripetere: tutti rubano, quindi nessuno ruba. Da cui il titolo, dove appunto si paragona il sistema affaristico malavitoso alla lucertola, che, quando è in trappola e piò essere uccisa, preferisce tagliarsi la coda e fuggire. Tanto poi la coda ricresce. Un paragone molto, troppo, semplice o semplicistico. Soneri si trova di fronte questo muro omertoso, mentre alcune piccole anomalie si presentano sul tappeto. C’è un anziano che viene ucciso con una dose elevata di medicine anti-demenza. C’è un telefonino che suona nella notte sulle rive del fiume. Ci sono cani imbottiti di droga che spariscono. C’è un canaro che risulta amico del morto, impelagato nella tratta dei cani, e che, sul più bello, si appende ad una trave. C’è il sindaco che vorrebbe ritirarsi dalla contesa, ma che sparisce anche lui sul più bello. Poi si scopre che il primo morto era anche un galoppino segreto del sindaco, che aveva perso una borsa compromettente. Trovata la quale, i cattivi di turno prima fanno fuori l’anziano, e poi anche il sindaco. Il telefonino poi si trova appartenere al capo di una cooperativa rossa, colluso con i cattivi e ben presto anche lui in prigione. Soneri scopre anche i rumeni che facevano i corrieri dei cani-cocaina, senza però essere coinvolti nella droga. E tante altre piccole microcriminalità, tutte collegate ad una grande criminalità. Avrete certo ben visto che non c’è niente di nuovo sotto il sole. A meno che Varesi voglia parlare a nuora perché suocera intenda. Ma il discorso è troppo generico e la suocera avrà vita facile dimostrando di non capire cosa dica la nuora. Anzi, dicendo che poi, alla fine, manco nuora è. L’unico motivo di allegrezza in tutto questo calderone illeggibile (perché purtroppo, preso dal furore della denuncia, il tono e lo scrivere si fanno sempre più involuti) sono i piccoli spunti del commissario con la sua Angela, le loro mangiate (soprattutto di grana fresco), le puntate alla trattoria che ancora propone piatti tipici senza il vezzo di nouvelle cuisine o altre baggianate, passeggiate sul greto del fiume, camminate notturne in una Parma cui si dovrà tornare prima o poi. Ma sono minuzie, piccoli dolcetti che non riescono a ribaltare il frittatone di trecento pagine che alla fine, come direbbe un bravo cuoco, non sono né carne né pesce. Per non dimenticare che, avendo nell’immaginario anche televisivo, associato Soneri alla faccia del bravo Barbareschi, ben difficilmente si riesce ad immaginare l’attore recitare una parte tanto distante dal suo essere e dal suo stile. Insomma, tutto da rivedere, ma tra molto tempo.
“Angela … diceva che mancava del senso del tempo. Lui ribatteva che non si riteneva un disadattato, piuttosto era il mondo intero ad andare male.” (2)
“Era questo il segno più inquietante dell’età di mezzo: il rarefarsi del proprio mondo, il suo sbiadire lento come un affresco assorbito giorno dopo giorno dalla calce.” (130)
“La colpa della nostra generazione è questa. Pensavamo che le conquiste fossero per sempre e invece vanno consolidate, difese. Ci è mancata la manutenzione delle nostre idee.” (201)
“Il bello di conoscersi è sapere come rendere felice l’altro.” (251)
Emilio Martini “Doppio delitto al Grand Hotel Miramare” Fanucci euro 9,90 (in realtà, gratis con l’offerta “Mondadori Store 2x3”)
[A: 15/11/2016 – I: 03/12/2018 – T: 05/12/2018] &&&
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 253; anno: 2015]
Eccomi qui, dopo ben sei anni, a riprendere in mano le avventure del commissario Berté (ma come lui ripete a piè sospinto, vicequestore). È vero che tra le prime tre puntate e questa, nella scrittura, sono passati solo quattro di anni, ma si sa che io ho anche tempi lunghi di lettura sui libri accumulati. Questo però ha fatto sì che almeno un mistero, che adombravo nella prima trama a lui dedicata, sia stato nel frattempo risolto. Emilio Martini, lo pseudonimo che pone domande oscure su chi fosse e cosa facesse, non è più un mistero. È certo uno pseudonimo, ma dietro al quale si celano le sorelle Elena e Michela Martignoni, appassionate di gialli e devo dire, con una buona riuscita nella loro produzione. Contento di aver svelato il mistero, dispiace che sia caduto quel gioco di cui parlavo nel primo libro su di un poliziotto che scrive romanzi su di un commissario che scrive racconti. Intanto, per riprendere le fila, troviamo sempre al centro Gigi Berté, calabrese di Milano confinato disciplinarmente in Liguria. Sempre alle prese con il suo progressivo innamoramento verso Marzia, la proprietaria della pensione a Lungariva, tuttavia sposata con lo spesso assente capitano Pestarino. Sempre con la sua coda di cavallo, i suoi novanta chili, il piacere della buona cucina. Ma anche un grande fiuto investigativo. Il romanzo inizia sornione, con Berté che pensa e passeggia, ma viene di corsa inviato al Grand Hotel, dove Roberto e Ornella vengono trovati in pose “sconvenienti”, ma tuttavia morti. Entrambi erano alla dipendenza della ricchissima contessa italo-sudafricana Van der Meer. Una pistola con silenziatore sul letto sta ad indicare le modalità, insieme ad un inopinato passe-partout. Al solito, Berté (un po’ Maigret ed un po’ Poirot) cerca di entrare nel mondo delle vittime. Chi sono i due? Chi è la contessa? Quali storie personali sono dietro la scena? Soprattutto è affascinato dalla seppur non più giovane ma interessante contessa. Imperturbabile ma forse con qualche altarino da celare. C’è un oscuro periodo in Argentina, prima che la nostra avventuriera sposi il magnate dei diamanti. Mentre l’inchiesta prosegue, Berté è anche alle prese con le sue vicende personali. Si sta sempre più avvicinando a Marzia, dolce e morbida ligure, dispensatrice di manicaretti ed haiku. Ma parlando e cercando, scopre la presenza di diverse persone, almeno tre, anch’esse alloggiate al Grand Hotel, che potrebbero essere attinenti al delitto. Anche perché, la contessa sembra avere più di qualcosa da nascondere. Escono fuori lettere, escono fuori documenti improbabili, escono fuori foto. Chi è questa Licia con cui sempre si accompagnava? Perché partono in due per l’Argentina e tornerà solo una? Unendo i vari pezzi del puzzle, non disgiunto dal fatto che la contessa era anche amante del Roberto ucciso, Bertè troverà le fila del delitto, scoprendo modalità, colpevolezze ed altre contingenze. Forse non tutto verrà alla luce del sole nei documenti dell’inchiesta. Ma noi siamo grati alle autrici di averci delucidato il mistero. Siamo un po’ meno grati del racconto intramezzato all’inchiesta, come è tratto caratteristico della serie. Che Berté appunto si sente più scrittore che questore. Il racconto è un “a sé” che serve a Berté per chiarirsi le idee durante l’inchiesta, ma che non ha un suo vissuto autonomo, come in altre interpunzioni. Anche perché sono personalmente un po’ stufo di queste scritture a singhiozzo, come i discorsi di Rocco e la sua bella nei libri di Manzini ed altre interruzioni delle emozioni narrative (questo, ripeto, è una mia presa di posizione molto particolare e forse scarsamente condivisa da altri). Rimaniamo in attesa che Berté decida del suo futuro personale, che la strada è chiara (per noi) ma non per lui, né forse per le autrici che magari vogliono tenere qualche nuova sorpresa in serbo. Un ultimo accenno ad una chicca di cui ringrazio le sorelle Martignoni. La citazione, a pagina 33 del libro “L’albergo delle Tre Rose” uno dei migliori e più interessanti gialli italiani di epoca pre-mondadoriana, scritta dall’ottimo Augusto De Angelis nel 1933 e recentemente ripubblicata da Sellerio. Un giallo complesso, pieno di nomi e di rimandi. Ma che, se lo conoscete, potete vedere facilmente i rimandi tra i due libri, e cercare di tirare le fila di questo romanzo sin appunto da pagina 33.
“Si matura e i gusti cambiano. Invecchiava e aveva voglia di semplicità.” (86)
Emilio Martini “Il mistero della gazza ladra” TEA euro 9 (in realtà, scontato a 7,65 euro)
[A: 27/05/2017 – I: 06/12/2018 – T: 07/12/2018] &&&
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 227; anno: 2016]
Come al solito i Martini vengono a grappoli (o meglio ad olive snocciolate, come direbbe un barman) ed eccoci subito al quinto episodio della serie. Non penso di tornare sui contorni del libro, sul suo contesto direi, visto che ne ho appena parlato. Niente di nuovo sulle autrici. E niente di nuovo sul personaggio centrale, il vicequestore Luigi (Gigi) Berté. Due soli elementi che non avevo rilevato o sottolineato precedentemente. Il nostro Gigi, oltre alle altre sue caratteristiche fisiche e morali, propende per una netta incapacità sia nello scegliere i regali per le sue donne, sia nel tentativo sempre vano di consolare la gente. L’altro elemento deriva dall’unione dei due cognomi: il commissario Berté e l’autore Martini (anche se pseudonimo), di libri scritti da due sorelle. Qualcuno subito pensa (ed io con lui) a Loredana e Mia. Ma veniamo al testo. Sempre su tre binari: l’inchiesta, la vita privata e la scrittura, anche se gli ultimi due qui si avvicinano pericolosamente. Che Marzia, per amore, cerca di trovare un editore per i racconti di Gigi. Ma lo scontro con l’editoria ufficiale sarà per il nostro duro e perdente. Tanto che il racconto che infioretta le pagine e le riflessioni del commissario durante l’inchiesta, con molta ironia espone alcuni aspetti legati al mondo dell’editoria, dei lettori e degli scrittori, anche se il risultato “letterario” non mi convince (quello del racconto, ovvio). Quindi del racconto ho poco interesse a narrare, tornando così ai binari che, come si addice alla realtà, risultano correttamente due. Tuttavia, la parte “sentimentale” risulta sempre più farraginosa. Gigi si fa un po’ avanti, poi si ferma, Marzia lo innervosisce con gli editori, con il marito in nave. Berté risponde pensando e non dicendo (errore sempre in amore e nella vita). Fino ad affittare una casa per ipotizzare un futuro a due. Ma Milano? Ma la vita errabonda? Bene che ci siano complicanze lungo la strada, che porteranno ad un finale semiaperto, di cui, c’è da scommettere, vedremo nuovi sviluppi nel sesto episodio. Veniamo allora al binario principale, l’omicidio. La morta è Luciana Saturno, commercialista, uccisa con un piede di porco, e lasciando sul luogo del delitto dei tarocchi (Morte, Torre e Diavolo) e la bocca riempita di monete. Come a voler significare che la morta era un’arpia che rubava soldi e che per questo viene uccisa. Ed in effetti, la bella commercialista pare non avesse tanta voglia di mettersi al servizio egli altri, quanto di accumulare soldi per sé. O per qualche sua storia. Procedendo nelle indagini, comunque, Berté mette in fila tutta una serie di personaggi come possibili autori del delitto: Enzo Carraro ex convivente della Saturno da lei mollato da poco e con qualche sassolino nelle scarpe, l’autista di Luciana Fred Donadei, che occasionalmente si prodigava anche nel ruolo di amante, la sua convivente Roberta, che sembra essere un poco gelosa, i fratelli Torre, Linda, l’amica più stretta e Folco fratello emigrato in Brasile, ma che ha fatto breccia nel cuore di Luciana, il pizzaiolo Sandrino, che Luciana ha rovinato, così come ha rovinato la signora Piccinelli moglie di un imprenditore, la domestica romane Irina Radu, che sa qualcosa ma che non parla ed il suo fidanzato Dimitri, che come tutti gli slavi è subito sospettato di essere violento e coinvolto. Diciamo subito anche che Linda Torre è anche cartomante, fornendo (sempre un po’ a caso, secondo il mio parere agnostico) numeri da giocare al lotto. E che, ricordo, c’era il tarocco della Torre sul delitto. Come c’era la Morte (e Luciana è morta) ed il Diavolo (come si stava comportando Luciana truffando i suoi clienti). Dopo un primo momento in cui sembra tutto molto misterioso, ben presto, per imbrogliare le carte, si scopre che tutti i sospettabili hanno incontrato Luciana la sera del delitto, e nessuno ha un vero alibi di ferro. Ad aiutare (cioè a non mettere i bastoni tra le ruote) Berté ora c’è anche il pubblico ministero, la graziosa Irene Graffiani, che riesce a far colmare i vuoti dell’indagine di cui Berté ha già intuito i contorni. Come pare chiara dalla descrizione della morte, Luciana veniva vista dai suoi frequentatori e clienti un po’ come rondine leggiadra che svolazza per portare cibo per i suoi rondinini, un po’ come gazza ladra (da cui il titolo) che come vede luccicare qualcosa lo prende per sé. Il nostro commissario alla fine riesce a separare il grano dal loglio e trovare il bandolo della matassa poliziesca. Come detto forse anche di quella sentimentale, ma “lo sapremo solo vivendo” (citazione Battisti-Mogol). Ebbene sì, penso che alla fin fine ne leggerò ancora.
“Tra gli uomini ci sono i vivi, i morti e quelli che vanno per mare.” (9) [vista anche a Porto Ercole, e da sempre dedicata al mio amico Renato]
Emanuele Bissattini “47 – L’oscurità del Golem” Round Robin euro 16 (in realtà, scontato a 12 euro)
[A: 07/12/2018 – I: 08/12/2018 – T: 13/12/2018] - && e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 316; anno 2018]
Come detto nel tramare il primo libro della trilogia, aspettavo il Bis. Che non si è fatto attendere molto. Ero andato, per pura curiosità, senza molte idee in testa, all’appuntamento annuale della piccola editoria, quel “Più libri, più liberi” che mi fece conoscere anni ed anni fa l’amica Cecilia, ed a cui sono tornato a volte. Trovando però sempre meno interesse e sempre più mercato. Tanta carne a fuoco per gli addetti al settore, ma poco interesse ai consumatori ultimi, a noi lettori senza cui tutto questo castello di foreste amazzoniche abbattute avrebbe poco senso. Prima di uscire però, discretamente deluso, ho voluto fare un salto al padiglione Round Robin dove ho avuto la piacevole sorpresa di trovare Emanuele, il suo nuovo libro, e due chiacchiere senza impegno e molto rilassate. Ecco allora che posseggo il secondo tassello della trilogia, impreziosito da una disgrafica dedica molto gradita. Meno gradito, purtroppo, è stato il libro, che trovo di sicuro inferiore al primo tassello. Non che sia di molto cambiata la scrittura, anche se sono aumentati i periodi come dire, per me, un po’ sospesi. Quelli in cui si sta per dire qualcosa, si sta per fare qualcosa, ma che rimangono nella testa del soggetto agente. Quindi, rinnovo il piacere di leggere un libro di una persona che sa in ogni caso usare la scrittura stessa. Ma la trama, ed il modo di porgerla, si è un po’ involuta. Anche perché, rispetto ad un libro tutto incentrato sulle vicende di Ercole Gatto, sul suo percorso di vita, sulla sua riscoperta delle vicende che hanno portato alla morte del padre, e sul tentativo di vendicarlo, anche con l’aiuto del suo alter-ego, Sigmund il Tedesco, qui si aggiunge questa figura inquietante, Tiberio detto il Golem. La scrittura e la trama si alternano tra i due personaggi, e nel passare al Golem la scrittura stessa diventa difficile, quasi si riuscisse con difficoltà a maneggiare il personaggio. La storia discende direttamente dalla fine precedente, dove il Gatto qui riesce a terminare la sua vendetta, trovando il modo di eliminare il malavitoso colpevole della morte del padre. Inoltre, riesce a far sparire la figlia dello stesso, insieme ad una donna di vita che a lui deve molto. Il cattivone, però, prima di tirare le cuoia, incarica il Golem di ritrovare la figlia, ed ucciderla. Assistiamo quindi ad una corsa contro il tempo, tra il Golem che cerca la giovane, ed il Gatto che cerca il Golem. Anche perché sembra che in un primo tempo Ercole non abbia capito la pericolosità del nuovo nemico. Che il Golem è furbo, oltre che psicopatico. Che il Golem è ammanicato, è forse un ex-poliziotto traviato, o un fuorilegge cui viene ucciso l’amico del cuore. Uno che si tinge la faccia un po’ come “Guy Fawkes” per chi ha in mente “V come Vendetta”. Uno che non esita a far fuori tutti quelli che incontra pur di riuscire nel suo intento. Così fa con i falsari che hanno procurato i documenti nuovi alle due ragazze. Una volta trovate cerca anche di ucciderle, ma riesce solo a tramortire l’ex-prostituta ed a ferire, seppur in modo molto serio, la giovane. Il Gatto, e Sigmund in sottordine, salvano la giovane, ma si trovano poi di fronte ad un problema. Teresa, la donna di vita, si sente in colpa di non aver protetto la giovane, il Gatto gliene fa colpa, e lei pensa bene di farci uccidere dal Golem per espiare. A questo punto, avendo il Gatto raggiunto lo scopo della sua vita, quello di vendicare il padre, si domanda se sia giusto vendicare anche Teresa. Sigmund ne è convinto, e la sua forza morale convince anche il Gatto. Così che si ingaggia una battaglia senza esclusione di colpi per trovare traccia dell’inafferrabile Golem. Riuscirà nel suo intento? Riuscirà ad uscire fuori dalle sue paranoie? Lucilla, la giovane in coma, riuscirà a salvarsi? E che fine farà il lungo inciso con Momo e le battaglie sul ring senza esclusione di colpi (un racconto nel racconto, che forse c’entra e forse no). Beh, questo ve lo dovrete leggere, sapendo che ci sarà anche un terzo tassello, almeno così ci assicura Emanuele. Forse sarà anche l’ultimo, che non bisogna fossilizzarsi in uno stile. Ed io sono d’accordo con lui. Bisogna intanto ritrovare un po’ di fluidità, ma non ne siamo molto lontani. E bisogna convincere l’editore a rivedere meglio il testo, visto che anche qui si trova un piccolo refuso. Un punto in cui un “non voglio” si trasforma in un “nono voglio”. Peccato, che invece i caratteri di stampa, come al solito per Round Robin, sono molto leggibili. Un appunto finale per l’autore. Nella quarta è riportato il dialogo sul numero “47”, che tuttavia non è, come viene detto, “morto che parla”. Nella smorfia originale “47” è “il morto” e “48” è “il morto che parla”.
“Lo so che lo fai per me … Anche io faccio qualcosa per te.” (296)
Ultima trama di marzo, ma anche un salto per le prossime settimane, che ci aspettano Granada e Siviglia e le altre meraviglie andaluse. Spero non soffriate troppo per questa piccola cesura.

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