domenica 17 marzo 2019

Giornalisit e scrittori - 17 marzo 2019


Maurizio De Giovanni “Buio per i bastardi di Pizzofalcone” Repubblica Italia Noir 4 euro 7,90
[A: 24/06/2016 – I: 25/09/2018 – T: 26/09/2018] - && ---
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 315; anno 2013]
Torniamo ancora ad un altro degli autori più presenti nella mia biblioteca, soprattutto perché me ne innamorai ai tempi del commissario Ricciardi e delle sue storie napoletane degli anni Trenta. Ma torniamo con la sua seconda serie, quella dei Bastardi, che tanto successo ha avuto ultimamente in TV, con l’interpretazione di Alessandro Gassman. Serie che, non avendo tubi catodici, ho bellamente saltato, ma che dicono essere di buon livello (anche se non a quelli insuperabili di Rocco Schiavone). Serie che come dicevo nella trama al primo episodio (o secondo se contiamo anche il Coccodrillo), che si inserisce nel “police procedural”, dove si prende una squadra di poliziotti, e se ne seguono le vicende. Come in quelle, inarrivabili, dell’87° distretto di New York (o come quelle delle serie di Fox Crime tipo CSI, Bones o Major Crimes, che seguo saltuariamente con l’aiuto di Alessandra). Ma qui, purtroppo, il nostro napoletano non riesce a risalire la china che avevo già scorto negli ultimi libri letti e tramati. Come penso i più attenti sanno, le caratteristiche peculiari che distinguono il “procedural” da altri sottogeneri e filoni del giallo sono: la presenza, come protagonista, non di un solo investigatore, ma di una vera e propria squadra di agenti che indaga e risolve i casi in modo corale, di modo che l'attenzione sia rivolta al gruppo di investigatori e non ad un solo ed unico protagonista; la frequente raffigurazione di indagini su più crimini in una singola storia, anche non collegati fra loro. In effetti, la squadra c’è, ci sono alcune storie di sicuro interesse (anche se probabilmente evolveranno soli nei prossimi romanzi), manca il pathos poliziesco. Certo c’è un rapimento, ben congeniato e non altrettanto ben decostruito dai nostri poliziotti. Tutto però immerso in una scrittura poco accattivante, che vaga e divaga, forse troppo. Come in tutti i romanzi di squadra, in questo terzo episodio si cominciano a delineare meglio i vari personaggio. A parte l’iniziatore della serie, il Cinese, di cui ora vediamo anche la figlia fuggita dalla madre oppressiva, ed il suo rapporto tira e molla con una procace procuratore. C’è la sua partner in una micro-indagine su di uno strano furto, la “pistolera” Alex, che ha un colpo di fulmine verso la dottoressa di medicina legale (abbastanza ricambiato, mi sembra). C’è Pizzottelli, l’anziano del gruppo, presente anche quando c’erano i veri Bastardi, quelli dediti alla droga. Memoria del quartiere ed in lotta con un cancro che lo sta portando via, ma dove vuole chiudere la sua ultima indagine, su dei suicidi che lui (e anche noi) non pensiamo lo siano. Ci saranno significativi passi avanti in questo ramo di indagine, ma per questo capitolo non si trova ancora l’omicida né il cancro vince la sua battaglia. C’è Romano, il manesco, quello che stende i sospettati a suon di sberle per farli cantare. Ma è manesco anche a casa, tanto che la moglie lo sta lasciando e lui sta andando fuori di testa. C’è Andreozzi, il bello, quello che vive in albergo per che non campa con lo stipendio, ma ha di suo. C’è Barbara, anche lei reduce dal gruppo precedente, maga del computer, con un figlio autistico, un marito poco presente, ed un tormento interiore, financo una piccola cotta per il capo. E quindi c’è Palma, il capo, vicino alla pensione, vedovo, con figlio lontano, che sta meglio in ufficio che solo in casa. E che la notte gira per vedere Barbara a passeggio con il cane. Vedremo cosa ne tirerà fuori il nostro Maurizio. Qui intanto tira fuori il rapimento di un bambino della Napoli bene, con una famiglia scoppiata alle spalle: nonno ricco e camorrista, madre rifatta e con giovane boy-friend, padre tornato al Nord, dove lavora nel mattone, ma che non campa senza i soldi del nonno. Ci sono i soliti (per me insopportabili) intermezzi in corsivo con i tormenti del piccolo Edoardo, con i rapporti con i suoi carcerieri, con il pupazzo che gli ha regalato il padre, con i pensieri che il padre lo verrà a salvare, con il buio (quello del titolo) che incombe, con i carcerieri slavi che si capisce subito essere etero-diretti. Insomma, una facile storia da tenere in sottofondo. Che si intreccia con la falsa rapina cui indaga il Cinese, che di rapina ha solo gli assegni a strozzo del padrone di casa. Per far quadrare il cerchio, il Cinese trova gli assegni, che sono intestati, guarda caso, a qualcuno coinvolto nella famiglia Bertelli. Chi, lo scoprirete se vi va di leggerlo. O lo capirete ben presto da accenni, e non vi dico quali, presenti già fin dall’inizio. Ma i Bastardi non sono di certo all’altezza del commissario Ricciardi, anche se infinitamente meglio dei Guardiani. Lascio il dubitativo sulla serie (potenziale) di Sara. Perché ormai De Giovanni si è imbarcato in una impresa alla “Cussler”. Dopo una storia di successo, altre storie, derivate direttamente o solo come tipologia, con episodi di lancio. Se vanno bene si prosegue. Se no, alle ortiche. Speriamo che i Bastardi migliorino. E che le altre serie, affondino.
Pietro Del Re “Giallo Umbro” Repubblica Italia Noir 30 euro 7,90
[A: 20/12/2016 – I: 30/11/2018 – T: 02/12/2018] &&& -
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 268; anno: 2012]
Sarà un caso, ma spesso i giornalisti di Repubblica hanno una loro vita (anche) come scrittori. Penso ovviamente al più famoso, Piero Colaprico (caporedattore a Milano), ma anche a Massimo Lugli (cronaca nera) o Valerio Varesi (della redazione di Bologna). Qui abbiamo l’esordio nel genere poliziesco di Pietro Del Re della redazione esteri, per la quale ha seguito per anni i conflitti intorno al mondo. Ma non ha dimenticato la laurea in biologia, ed il suo amore per gli animali (cui aveva già dedicato un libro). Benché romano, si senta nelle pagine la propensione verso i monti e le colline umbre, in special modo nei dintorni di Càmmoro, laddove molta parte del libro si svolge, in un triangolo di verde bellezza tra Foligno e Spoleto. Lì viene trovato da Peppe Brandi, un cacciatore locale, il cadavere di una ragazza, con accanto quello di un lupo. Da qui nasce il romanzo, visto che per analizzare il lupo ed i suoi comportamenti, viene coinvolto il professor Agostino Gatti, bioetologo di fama, profondo conoscitore di tutti i lemuri del Madagascar. Un simpatico signore di mezz’età, cui viene chiesto di capire se e come ci fosse stata interazione tra animali e cadaveri, visto che entrambi poi erano stati dilaniati post-mortem da cinghiali selvaggi. Mentre quindi da un lato procede l’indagine ufficiale della polizia, Gatti e Brandi decidono di intraprendere una loro indagine parallela, coinvolgendo il terzo elemento del loro trio di affiatati e scompaginati amici: Raniero Ranieri, nobile architetto gaudente e gay. I motivi che spingono i tre alla ventura, sono anche legati al fatto che la morta, Domitilla Rinaldi, figlia di un famoso notaio perugino ben noto a Gatti, era anche amica molto stretta di Beatrice, figlia non tanto frequentata dello stesso Gatti. Il professore, oltre ai lemuri, è anche un ottimo conoscitore della fauna e della flora locale, esperienza che utilizza per mettere su alcuni mattoncini dell’indagine. O meglio per eliminarne alcuni, che il comportamento degli animali non è come quello che vorrebbe la polizia, la quale spera che siano stati i lupi o i cinghiali a perpetrare il massacro. La pattuglia degli indagatori si completa al fine con Benedetta, la compagna di Peppe. Così tra un andar per boschi e pantagrueliche mangiate contadine (con Gatti che mi sta simpatico per il suo essere un po’ sovrappeso), i nostri investigatori dilettanti cominciano a scoprire piccole cose. Trovano lo zaino di Domitilla, trovano peli strani per il bosco, che non sono animali ma neanche della ragazza. Con il progredire delle notizie accumulate, parte delle indagini si trasferisce a Roma. Prima da Beatrice, che indirizza le indagini del padre verso l’ambiente delle foto osé che Domitilla aveva iniziato a fare posando per un quasi sessantenne guardone milanese, il dentista dottor Marco Narduzzi. Poi da Giulia, amica del cuore di Domi nonché fidanzata di Narduzzi, che abita in vicolo del Moro a Trastevere. Piccola parentesi personale, che ben conosco quella stradina, a soli 200 metri dalla casa natale di mio padre. Ma torniamo alla storia. Tutta una serie di indizi porterebbero ad indicare Narduzzi come autore del delitto. Ma il dentista ha un alibi, essendo in locali, seppur umbri, con la fidanzata Giulia. Le indagini ufficiali intanto si vanno concentrando su diversi possibili altri sospetti. Un marocchino (come tutte le persone di colore, peccato che l’inquisito sia invece egiziano) spacciatore di droga, che potrebbe averne fornito (o che lo ha fatto) delle dosi mal tagliate a Domi. Lo scemo del villaggio, che qualcosa ha visto ma, essendo scemo, è di difficile interrogatorio. O Paolo l’eremita, che non ha mai toccato una donna, ma che nel suo eremo contadino ha pareti tappezzate di foto porno. I nostri invece, ognuno utilizzando al meglio le proprie caratteristiche, puntano su Narduzzi ed il suo entourage galante porno. Raniero lo aggancia tramite i suoi contatti mondani, Beatrice si fa adescare per cercare di capire lo svolgersi della notte, Gatti e Brandi si mettono sulle tracce di Giulia per capire se l’alibi regge. Non tutto sarà come sembra, ma i nostri non potranno che arrivare alla soluzione dell’enigma. Fornendoci un racconto gradevole nei personaggi e nell’ambientazione. Spiace solo qualche tirata di troppo sul versante animale, non che guasti in sé, ma a volte per seguire le parole di Gatti si perde il filo del discorso ed il ritmo del racconto. Anche perché il buon Agostino riesce a coinvolgere nei suoi discorsi i lupi, gli orsi e i cinghiali degli Appennini, il dodo delle Mauritius e il lemure del Madagascar, il leone, il cavalluccio marino, il varano, l’aquila e la cinciallegra, le mosche dei tartufi, nonché il gatto del deserto cinese. Una storia, tuttavia, che alla fine riconcilia con gli ambienti centro-italici, che sono tra l’altro a poco più di un’ora di strada tortuosa dalla mia amata Soriano. Città su cui torneremo in altri contesti. Mentre torneremo a leggere gli articoli esteri di Del Re.
Flavio Santi “La primavera tarda ad arrivare” Repubblica Italia Noir 18 euro 7,90
[A: 28/09/2016 – I: 05/12/2018 – T: 06/12/2018] &&& --
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 301; anno: 2016]
Prima scrittura da me letta di Flavio Santi di cui conosco le doti di traduttore (mi è capitato di leggere una sua traduzione di Wilbur Smith) e so, ma non conosco, che è anche poeta. Ma soprattutto è un friulano doc. Che ama profondamente la sua terra, il territorio come direbbe uno dei suoi numi, Carlo Petrini di Slow Food, e qui ce ne ripropone due elementi fondamentali: il frico, un piatto a base di formaggio di varie stagionature, patate e cipolla, e il tajut, un bicchiere di vino rigidamente da un decilitro. L’altra passione è ovvio sia il calcio, l’Udinese in particolare, ed il suo grande nume Arthur Antunes Coimbra detto Zico. Detto questo per caratterizzare lo scrittore, veniamo ora al testo che, per l’appunto usa il giallo così come vorrebbe Umberto Eco: “Il giallo nasce da una profonda esigenza conoscitiva: vogliamo capire il perché delle cose … è un’immensa distilleria di scrittura: c’è la costruzione della storia, la suspense, i personaggi, l’ambientazione, la psicologia …”. Quindi impariamo a conoscere Drago Furlan, ispettore, non commissario (che non è Montalbano, come sottolinea: “Non sono commissario ma ispettore, la differenza è la stessa che c’è tra infermiere e medico, a pulir la merda ci mandano l’infermiere, a prendersi l’onorificenza di cavaliere del lavoro mandano il medico”. Con le identiche passioni dell’autore, ed il nome che deriva dalla passione del padre per un mitico calciatore jugoslavo, Dragan Džajić, quello che vidi segnare nella prima finale dell’Europeo del 1968 contro l’Italia (una delle tre partite che ho visto allo stadio in vita mia). Drago ed il suo aitante Orfeo Moroder vengono coinvolti in un caso di omicidio. Cosa ben rara in quel di Montefosca, dove appunto Furlan è più dedito ad elevare multe che risolvere omicidi. Anche perché del morto non si sa nulla. E faremo fatica a saperne, che tutta la prima parte serve più a caratterizzare l’ambiente e Furlan, aggiungendo ai caratteri di cui sopra la passione per la sua Moto Guzzi, l’amore (lento ed un po’ ondulante) con Perla e la mamma oppressiva come tutte le mamme furlane (e non solo). Tra visite in montagna, passaggi in osteria e giornate prese a pensare come sfuggire alla mamma, Drago comincia a fare qualche passo avanti. Collegamenti ed agnizioni vari il caso del morto ignoto lo porta dalla tranquilla Cividale, prima a Lignano, poi in Baviera, per terminare in un paesino friulano dell’entroterra su cui torneremo. Così, dall’inizio ironico e giocosa, la ricostruzione dell’identità del morto porta l’atmosfera ad incupirsi, porta il territorio a tirar fuori storie che sembrano sepolte e dimenticate. Si scopre che il morto è un tedesco, di nome Gottlieb von Petrus, per anni in vacanza a Lignano dove incontra tal Ermes Sberz, fascistone e sodale di Gottlieb durante la Guerra. I due cominciano a scambiarsi cartoline natalizie, ma quando Sberz ha un ictus le stesse vengono recapitate all’unico che se ne prendeva cura, il maestro Cesare Bujat. Ma Cesare era antifascista anche se non partigiano (classe 1936). Incuriosito dalla strana corrispondenza, scava nella memoria sua e dei luoghi, risalendo ad una strage dimenticata proprio in quel paesino suddetto: Avasinis. Il 2 maggio 1945, uno squadrone tedesco in ritirata, comandato da von Petrus, passando per Avasinis uccide 51 abitanti, compresi donne e bambini, pare senza motivo alcuno. Dalla ricostruzione dei fatti, si uniscono i puntini della vicenda, puntini che riaprono vicende che la memoria dei sopravvissuti (giustamente) non chiuderà mai. La parte finale riserva ancora qualche sorpresa che lascio ai lettori scoprire e gustare. Io torno a sottolineare la verve di Santi, il gusto dell’intreccio, la nascita di storie parallele (di cui neanche parlo che sarebbero dispersive). Per chi ha letto “Morte di una gazza ladra” di Emilio Martini troverà degli echi con il racconto nel racconto del vicequestore Berté. Altri acuti lettori, capiranno le parentele non tanto con Montalbano (anche se Livia e Perla si danno la mano) quanto con l’ambiente di Pineta di Malvaldi o con quello di Bellano uscito dalla penna di Vitali. Ma tutti noi sappiamo che scrivere è riscrivere, perché dopo la Bibbia, l’Iliade e l’Odissea tutto è una copia. Io, che non so scrivere, ma so leggere comunque ne sono moderatamente contento. Uscendo magari con un digestivo tipo una grappa monovitigno di Ribolla. Potremmo vedere di non lasciare andare Santi nel dimenticatoio (anche se quella partita dell’Udinese…).
“Pur non conoscendo l’opera di Claude Lévi-Strauss … mettevano in pratica la lezione dell’illustre antropologo: il cibo come massima espressione di cultura.” (196)
Gianfrancesco Turano “Contrada Armacà” Repubblica Italia Noir 17 euro 7,90
[A: 20/09/2016 – I: 14/12/2018 – T: 17/12/2018] && --
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 329; anno: 2016]
Non è che sia un brutto libro, né che sia scritto male o altro. Avrebbe senz’altro meritato più e meglio se fosse stato concepito e realizzato in altro contesto, credo. Turano è un ottimo giornalista d’inchiesta, cresciuto tra “Il Mondo” e “L’Espresso”, specializzato in vicende economiche e finanziarie, che però non dimentica né la sua terra calabra né il suo vissuto in quelle terre. In questo che dovrebbe essere un giallo, inserito nella generalmente interessante collana “Italia Noir” di Repubblica, ci porta proprio in Calabria. Anzi a Reggio Calabria. Anzi a Contrada Armacà, piccola strada tra la ferrovia e il mare, da dove si vede a occhio la Sicilia e Messina. Tuttavia, invece di un giallo classico (e poteva farlo, con la storia che imbastisce tra le righe) si lancia in un lungo pamphlet sulla malavita calabra, sulla ‘ndrangheta, e sulle sue ramificazioni locali, nazionali e internazionali. Non dico non siano interessanti, né che non siano documentate e piene di rimandi e riscontri. Ma se volevo un libro sulla ‘ndrangheta avrei comperato un libro sulla ‘ndrangheta. Se proprio Turano voleva inzeppare una storia “bassa” con un racconto “alto” di corruzione e malaffare, poteva ancora farlo. Ce n’erano i presupposti, si poteva seguire la storia e farne degli esempi o delle chiarificazioni in corso d’opera. Invece, pur cercando di portare avanti la piccola storia di bassa criminalità, infarcisce ogni capitolo di lunghe digressioni sulla ‘ndrangheta. Non solo, ma com’è ovvio per una persona documentata, su come la ‘ndrangheta abbia sfidato e vinto lo Stato, su come si sia infiltrata al Nord, su come si sia ramificata, differenziata, e diventata quasi una lobby finanziaria ed economica a tutti gli effetti, a partire dai famosi moti di Reggio del ’70, quelli di Ciccio Franco e del “Boia chi molla”, alleandosi, dividendosi, facendosi guerra. Le lunghe premesse di ogni capitolo permettono a Turano di afre questi excursus, sulla storia della ‘ndrangheta, sulle ‘ndrine, sugli omicidi eccellenti, a partire da quello del magistrato Antonio Scopelliti, che segnò agli inizi degli anni ’90 un’alleanza tra Cosa Nostra e la ‘ndrangheta. Ma dove, secondo Turano, fu proprio la ‘ndrangheta in seguito ad avere la meglio. Anche perché, mentre Cosa Nostra vantava legami esteri forti, ma datati (si risalirebbe alla liberazione del Sud italiano durante la Seconda Guerra mondiale, ed al ruolo di Lucky Luciano e Vito Genovese), mentre la ‘ndrangheta ha legami attuali, ad esempio, sempre secondo Turano, avendo favorito e/o permesso l’invio di armi tra USA e rivoltosi a vario titolo del mondo asiatico pre e post Bin Laden. Come vedete, ci sarebbe tutta da leggere la storia della “mafia” (uso le virgolette perché anche sulla parola stessa ci sarebbe da discettare a lungo) ed altro ancora. Dato che, seppur non provati giuridicamente, legami forti ci sono tra malavita organizzata e potere politico. Ma qui dovremmo parlare di altro, non di malaffare. Torniamo quindi ai piccoli spunti che permettono a Turano di parlare d’altro. La storia cioè del sessantenne Malara, ex-insegnante di Educazione Fisica, professore di molti ora malavitosi o quasi. Della morte, una ventina d’anni prima della storia attuale, del figlio, ucciso per uno sgarbo di centomila lire. Della morte attuale del nipote Rosario, ucciso in un agguato perché vicino ad una corrotta dirigente del comune, a sua volta giustiziata per qualche sgarbo poco chiaro. Malara, che sembra molto onesto, ma forse no, coinvolge un suo ex-studente nonché amico del figlio, tal Fortunato Amato detto Natino, nelle indagini. Natino, ex-praticante di studio ora fotografo e organizzatore di book per matrimoni e funerali, ha molti contatti, conosce molto della malavita. Ha anche un grosso pendant verso il lato femminile, dove vediamo prima circuire l’ex di Rosario, poi andare spavaldamente a letto con una o più “fimmine” di poco costume. Infine, prendersi anche di Natalia, una quarantina che ha un lungo rapporto proprio con Malara. Nel tentativo di chiarire le morti di Michele Malara e di Rosario, Natino si invischia in situazioni complesse, coinvolgendo poi anche Natalia e suo figlio Basilio. La fine, che fine non è, vedrà sparire, senza che si sappia come né perché, Malara, Natalia e Basilio. Scappati in Ucraina? Uccisi di malavitosi? Rimane Natino, con le sue ubbie ed i suoi dubbi e le sue finte rivolte. Ma non si comprende come vada a finire. Forse Natino fuggirà in Spagna con una nuova signorina. Forse morirà. Forse… Insomma, una storia senza mordente e soprattutto senza conclusioni. Ma forse era questo il tentativo finale della storia gialla. Che la ‘ndrangheta ancora c’è e governa. Che forse è meglio che Turano dedichi le sue ottime capacità al giornalismo d’inchiesta.
Ecco allora che anche in questo mese di marzo ci pregiamo di allegare altre informazioni librarie, questa volta dedicata anch’essa a libri di genere, da godere magari quando farà un po’ più caldo (e lo capirete dai titoli).
Invece l’Andalusia va, ed anche forte. Ora ci dedichiamo alla sua organizzazione, ad organizzare i viaggi che verranno e la campagna che c’è ed è sempre più attirante. 

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
MARZO 2019
Riprendiamo a parlare di libri “felici”, con una piccola anticipazione dell’estate che verrà.

CUBETTI DI GHIACCIO PER BRIVIDI ESTIVI

L’afa estiva non ti fa respirare? L’aria condizionata è rotta? Perfino il ghiaccio nel vostro drink si è sciolto prima di tintinnare nel bicchiere? Vi offro come rimedio naturale un paio di letture da brivido, due thriller al femminile ambientati d’estate che avranno l’effetto di altrettanti freschi cubetti di ghiaccio. Sono ideali per rinfrescare le idee, ammazzare la noia e risollevare l’umore, trovando riparo dal sole con un’immersione nelle zone d’ombra dell’animo umano.
Estate assassina è il primo romanzo pubblicato in Italia da Gilda Piersanti, scrittrice che da vent’anni vive in Francia dove la serie di libri dedicata alle indagini dell’ispettore Mariella De Luca ha riscosso molto successo. In un afoso agosto romano la protagonista si trova costretta a indagare su inquietanti omicidi collegati da una fitta trama di richiami artistici, mitologici e archeologici. Sullo sfondo di un’assolata Roma, è un incalzante noir che vi inchioderà alla sdraio. Il ghiaccio del vostro drink si scioglierà perché vi dimenticherete di bere.
Una lunga estate crudele di Alessia Gazzola è il quinto romanzo della fortunata serie con protagonista Alice Allevi, giovane specializzanda in medicina legale. Solare, pasticciona, sfortunata in amore, con la passione dello shopping e il pallino per l’investigazione, Alice è l’opposto della tradizionale figura ombrosa e tormentata dell’investigatore. Praticamente è Bridget Jones ma con le doti di Sherlock Holmes. Curiosa brava a risolvere enigmi, è chiacchierona, assillante e combina immancabilmente qualche guaio, ma senza di lei moli casi rimarrebbero irrisolti. Come l’omicidio su cui si trovai a investigare in questo romanzo: in una Roma immersa in un caldo atomico, il ritrovamento del cadavere di un attore morto ventiquattro anni prima mette in moto un’intricata indaghi nel mondo del teatro. Per Alessia Gazzola il giallo è solo un pretesto per raccontare le storie di Alice e il suo percorso di crescita tra lavoro, amore e un po’ di mistero. Una lunga esta crudele è una lettura fresca e divertente, gradevole come sorseggiare una limonata ghiacciata.

Commenti

Non ho ancora letto nulla di Gilda Piersanti, e si vedrà se e quando. Mentre di Alessia ho la librografia completa. Compresa questa estate lunga, forse un po’ troppo.
Alessia Gazzola “Una lunga estate crudele” TEA euro 12 (in realtà, scontato a 10,20 euro)
[pubblicato il 25 novembre 2018]
Mi incuriosisce capire perché l’esimia Giulia Fiore lo metta tra i libri che potrebbero renderci felici. Intanto, per me è solo un nuovo capitolo della saga dell’allieva anatomo-patologa Alice Allevi (ricordo che in un mio precedente scritto avevo sviscerato l’uso di mono-lettere per i suoi personaggi). Un serial che prosegue con una sua scrittura di facile presa, con un buon successo di vendite, anche sostenuto dalla serie televisiva, con la nostra Alice interpretata da Alessandra Mastronardi. Purtroppo, però, dopo le prime prove più interessanti, questo quinto libro si trascina un po’, certo mescolando al solito pubblico e privato. Ma Alice non ha più il piglio arrembante da allieva di Tempe Brennan (ricordo che, nel mio immaginario, niente mi toglie dalla testa fino ad ora, che questo sia un tentativo di fare un “Bones in salsa di pomodoro”). Tra l’altro, il lato pubblico, quello dell’indagine, è molto diluito, non ci vengono date più le notizie su come, su cosa, su ricerche che Alice (ma forse sarebbe meglio dire il suo capo Claudio) effettua sui morti. Con un prologo ed un epilogo che spiegano tutto quello che c’è da spiegare e capire 8tanto che forse li avrei eliminati; leggi questi e lasci perdere le restanti 300 pagine). In una stanza segreta di un teatro di periferia dedicato al teatro shakespeariano (un po’ come il Globe Theatre di Villa Borghese) viene trovato un corpo. Si tratta di Flavio, un attore scomparso una ventina di anni prima. Attore promettente, molto gay ed un poco etero. La compagnia del tempo si sfasciò, ma non Sebastian, l’altro attore promettente, che invece sfonda. Ed è da lui che l’ispettore Calligaris parte, portandosi a rimorchio la nostra Alice. Si scava nella vita familiare di Sebastian, con moglie Stella, figlio Matteo e tata Nicole. Flavio era gay ed innamorato di Sebastian, che stava un po’ qui ed un po’ lì. Nel cast c’era Diana, innamorata persa di Flavio, con cui andò a letto e generò una figlia. Poi anche Diana entra in depressione, cerca di risalire la china teatrale, ma l’ostruzionismo di Sebastian le sbarra la strada. E lei si uccide. Come si era uccise una giovane promettente attrice, anche lei sedotta e abbandonata da Sebastian. Poi qualcuno tenta di uccidere Stella, ma non porta a termine il lavoro. Poi Nicole sparisce. Ma da metà romanzo si poteva capire che Nicole era proprio la figlia di Flavio e Diana. Ma chi ha ucciso veramente Flavio con il cianuro? Sebastian spaventato dall’avventura gay o Diana imbestialita dall’essere abbandonata? Questo ve lo lascio scoprire se volete leggere quelle decine di pagine di cui sopra. Il resto, magari un po’ più polposo, anche perché così meglio si addice alla televisione, con quell’andatura tipo “Tutto può succedere”, è la storia delle persone. La solita Alice sempre presa dalla sua vita sentimentale. Un po’ circuita dal perfido (sentimentalmente parlando) Claudio, che vorrebbe con lei solo una storia di sesso. Allettata da un nuovo personaggio, il tossicologo Sergio (quello che scopre il cianuro), un quarantenne (almeno) divorziato con figlia ed una casa da sogno a Filicudi. Gentile, poco invadente, sicuro della sua età e dei suoi comportamenti signorili, ma senza quell’afflato di passione che potrebbe permettere ad Alice di lanciarsi in nuove avventure. Poi c’è sempre l’Innominabile, l’amore profondo di Alice, Arthur che l’ha miseramente lasciata in precedenti libri, per fare il corrispondente di guerra. E che qui ritorna, provato da un’esperienza a Gaza e con il compito di riportare la piccola Nur al padre emigrato a Spoleto. Arthur che sembra rientrare dalla finestra dopo essere uscito sbattendo la porta. Che chiede di tornare in Italia, e che ne vedremo delle belle (credo) nelle prossime puntate. Sesso, sicurezza o amore? Cosa sceglierà Alice? Per ora, attraversa tutta la storia sempre un po’ tirata qua e là dagli avvenimenti. Ci sono poi i “caratteristi” di contorno: la coinquilina Cordelia (sorellastra di Arthur), aspirante attrice, nonna Amelia, con le sue belle parole ed il suo spigliato carattere, l’ispettore Calligaris, sempre pronto a coinvolgere Alice nelle indagini, e la nuova entrata Erica, una dottoranda molto preparata che credo troverà più spazio nel futuro. Tuttavia, le due parti non sono bilanciate, come dicevo. E la confezione finale non porta i frutti che ci si poteva aspettare. Ultimo carattere distintivo degli scritti di Alessia sono le epigrafi posti a mo’ di titoli dei vari capitoli. Anche qui, con un tentativo di indirizzare la lettura “a chiave”, ma che non sono particolarmente significativi, a parte l’unico che riporto sotto come frase che rimane alla mente (anche se non è della penna di Alessia). Aspettiamo tempi migliori, anche se le parti teatrali, sia di Shakespeare, ma soprattutto le frasi di Yasmine Reza, sono apprezzabili.
“I viaggi sono i viaggiatori. Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo (Fernando Pessoa)” (243)

Finalino

La buona Alessia continua a scrivere in modo “televisivo” e noi ci godiamo i suoi libri per aspettare il prossimo caldo.




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