Michel
Faber “Sotto la pelle” Einaudi euro 13,50 (in realtà, scontato a 3 euro presso
il “Mercatino di San Giovanni”)
[A: 27/11/2016 – I: 27/05/2019 – T: 30/05/2019]
- & ½
[tit. or.: Under the Skin; ling. or.: inglese; pagine: 268; anno 2000]
Ci
sono momenti in cui mi capita la lettura di una serie di libri che non mi
soddisfano, e che porto a compimento solo per parlarne (male) con voi.
Sperando, magari, che la vostra percezione, se li avete letti, sia diversa
dalla mia, e mi possiate convincere che no, ne vale va la pena, era un libro
non dico capolavoro, ma con almeno dei punti di interesse. Peccato allora, che
dopo Palahniuk, mi sia capitato questo libro dell’olandese-australiano-scozzese
Faber. Di cui avevo letto, e con interesse quello che viene considerato il suo
libro migliore (“Il petalo cremisi ed il bianco”), seppur ne avevo letto una
decina di anni fa. Girovagando in attesa di Alessandra presso il Mercatino, ho
invece scovato questa copia in ottimo stato del suo primo libro. Beh, prendiamolo,
che prima o poi si legge. Purtroppo, si legge e si esce dalla lettura dicendo:
ma cosa diavolo ha scritto? Una storia in cui vediamo una bella donna,
Isserley, andare su e giù per le campagne scozzesi, prendere ogni tanto degli
autostoppisti, e far loro una specie di terzo grado. Chiede la provenienza, la
famiglia, se c’è qualcuno che li attende, poi com’è la loro vita, qualcuno che
possa notare la loro scomparsa. Dopo l’interrogatorio, se si ritiene
soddisfatta, li droga e li rapisce. Dopo aver subito un inizio spaesante, quasi
fossimo sulle soglie di un giallo, Faber ci porta con un salto mortale in un
racconto di Arthur C. Clarke (quello di 2001 per chi non fosse
fantascientifico). Perché Isserley è sì bella, ma anche un po’ strana. Ha una
scollatura profondissima, ma vestita con abbinamenti improbabili. Certo gli
autostoppisti sono perplessi, che al posto di Isserley non avrebbero preso
nessuno. Ma qui si scopre il mistero: Isserley è un’aliena con il corpo
modificato per sembrare una donna attraente in modo da poter svolgere bene il
suo lavoro di rapitrice. C’è tutta una banda di alieni che si è trasferita
sulla Terra, in quella fattoria scozzese, ma solo lei ed il suo capo, che deve
andare in giro, hanno il corpo modificato. Questa banda aliena, in realtà,
seppur evoluta, viene da una razza quadrupede, vagamente canina. Nel pianeta
natale, il cibo comincia a scarseggiare, ed allora, per rifornirsi di proteine,
i quadrupedi prendono gli umani, li mutilano, li mettono all’ingrasso, e, una
volta bistecchizzati, vengono spediti al pianeta d’origine. Tutta la storia, in
sé, si trascina ripetitivamente su questo filone. Isserley va in giro, c’è la
storia con l’autostoppista, a volte liscia, a volte con qualche problema, che
magari l’incauto passeggero vorrebbe fare delle avances alla bella guidatrice,
ma alla fine questo viene drogato e portato nella fattoria. Isserley ha qualche
pensiero di ribellione, a questa routine immutabile da troppo tempo, anche
perché soffre spesso di dolori articolari (d’altra parte ha subito modifiche
profonde). Ci sono poi due crepe, nella banale routine. Viene il figlio del
capo dallo spazio, che incautamente libera degli autostoppisti, che però
vengono presto presi, e subito uccisi. La polizia, inoltre, comincia a domandarsi,
anche se i rapiti sono pochi, dove finisca la gente. Il tutto porterà ad un
collasso, anche perché Isserley ha dei problemi con la macchina, forse ha un
incidente. Mentre arriva la polizia deve solo decidere se farsi curare o far
saltare tutto in aria. Questa storia bislacca, che si legge fino alla fine
senza troppa partecipazione, nella mente “politica” dell’autore, probabilmente
doveva servire ad innescare appunto problemi politici: l’identità e l’autonomia
corporea, sessismo e genere, rapporto uomo – animale da macello. Sul primo
tema, ci si domanda quanto il corpo governi il modo di essere, la vita nostra.
Se quindi ci possa essere una corrispondenza tra corpo ed identità percepita.
Il secondo tema riguarda l’esterno. Isserley è vista come una donna, ed allora
Faber si chiede: è possibile diventare donna? Una domanda che molti di genere
incerto si domandano, senza, io credo, una risposta certa. Infine, c’è l’orrore
della mutilazione e dell’ingrasso. Se i bovini fossero senzienti (o i maiali o
le oche o qualsiasi animale allevato in attività), come reagirebbero al fatto
di diventare carne da macello? Quello che fa la razza di Isserley agli uomini
non è altro quello che noi facciamo alle vacche. Ma se Isserley ed i suoi ci
indignano, quanto ci manca per diventare vegetariani? Il libro alla fine pone
molte domande, e Faber evita accuratamente di fornire una sola risposta
diretta. Ma la sua lettura è faticosa, non si empatizza né con Isserley né con
gli umani. Si arriva in fondo a fatica e si spera di leggere qualcosa di meglio
nel futuro. Come direbbe un critico migliore di me, “un libro serenamente
evitabile”.
Wu
Ming “Proletkult” Einaudi s.p. (Natalino di Nico&Benny)
[A:
25/12/2018 – I: 28/05/2019 – T: 31/05/2019] - &&
e ½
[tit.
or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 333;
anno 2018]
Situazione complessa questa del libro e dei
giudizi a lui relativi. Prima di tutto, un grazie molto esteso a chi,
sprezzante del pericolo e dei miei strali, mi ha fatto questo regalo. Non credo
avrei mai comprato il libro, ma sono contento di averlo letto. Secondo punto,
il contesto, che è stimolante, che mi ha coinvolto, che mi ha consentito di
andare alla ricerca di spunti e di apprezzamenti vari, sui protagonisti del
romanzo, sulle loro azioni, su chi erano realmente e su come potessero essere
disvelati in altro una volta inseriti in un contesto diverso. Terzo punto,
infine, e per contrasto, la scrittura ed il testo, che invece non si sollevano
in maniera palese da una lettura difficile e non coinvolgente. Il tentativo di
mascheramento fantascientifico di alcuni punti della trama è forzoso e non
facile, né da leggere né da decrittare. Quindi un testo che sarebbe perfetto
per una disamina molto intellettuale e cerebrale, ma che, proprio per questo,
rimane con un giudizio che non può essere sufficiente. Un libo deve avere la
forza di ergersi sul cuore e sulla pancia, sulla testa e sugli apparati
sessuali, tutto in modo armonico. Qui, purtroppo, anche se con una bella
capacità e felicità di invenzione, è tutto e solo di testa. Tanto per fare un
esempio, uno dei temi centrali è la “Tectologia”, cioè la “Scienza generale
dell'organizzazione”, il pallino del protagonista del libro. Ed allora, Wu Ming
decide di organizzare il libro stesso in maniera tectologica: il libro viene diviso
in tre parti, ogni parte in undici capitoli, per portare il computo totale a
333 pagine. Qui, ad esempio vediamo la tectologia contrapposta alla matematica,
perché (e non chiedetemi di farvi tutto il ragionamento, ma cercate di
intuirlo), in modo corretto, Wu Ming avrebbe dovuto scrivere un libro di 363
pagine. Comunque, venendo alla trama oggetto di queste mie scritture, rileviamo
come questo sia un nuovo e forse più coinvolgente capitolo delle riflessioni
del collettivo bolognese intorno al concetto di “rivoluzione”. Non entro negli
altri testi di Wu Ming che ne parlano (qualcuno più bravo di me lo potrà fare).
Qui, rispetto ad altri contesti di riflessione, parliamo della Rivoluzione
russa, di cosa poteva essere, di cosa è stato. Cioè si passa da un “periodo
ipotetico dell’irrealtà”, ad un “periodo ipotetico della possibilità. Perché
Proletkult fu realmente un progetto culturale imbastito agli inizi del secolo
scorso dal politico, filosofo e medico russo Aleksandr Aleksandrovič
Malinovskij detto Bogdanov. Il Proletkult si basava su principi organizzativi
“tectologici”, vale a dire, nella formulazione teorica di Bogdanov, secondo un
modello di sviluppo sociale cooperativo, collettivo e a-gerarchico. In
particolare, Bogdanov non credeva che una rivoluzione proletaria potesse essere
veramente efficace se non si fosse fondata sulla capacità delle classi
lavoratrici di produrre una loro cultura e un differente sistema di relazioni
sociali. Tale approccio fu osteggiato dalla fazione leninista del partito, proiettata
verso la centralizzazione del potere negli apparati statali. Se il progetto di
Bogdanov avesse prevalso sulla centralizzazione burocratica leniniana come si
sarebbe evoluta la Rivoluzione Russa? La trama ideata da Wu Ming vede una
trasposizione della realtà di Bogdanov, in una possibilità diversa. Bogdanov,
nel 1908, scrive il romanzo di fantascienza “La stella rossa”, dove descrive
l’applicazione tectologica ad una vita di comunismo realizzato, ovviamente su
Marte, il “pianeta rosso”. Wu Ming ipotizza che non sia un romanzo, ma una
narrazione di quanto sia avvenuto ad un sodale di Bogdanov, il buon
rivoluzionario Leonid Voloch, che dopo i fallimenti delle velleità
rivoluzionarie del 1905, sparisce misteriosamente, per andare a trascorrere del
tempo sul pianeta Nacun, dove genera la piccola Denni. Poi Leonid scompare, ed
ora Denni scende sulla terra per cercare il padre (che non troverà) e per
confrontarsi con Bogdanov ed il suo scritto, proprio per fargli (e farci)
toccare con mano le differenze tra il comunismo russo ed il comunismo
nacuniano. Perché su Nacun si stanno esaurendo le risorse e bisogna trovare un
nuovo modello di sviluppo. Perché in Russia, e più in generale sulla terra, il
comunismo prende una piega di fossilizzazione che lo porterà altrove. Un
esempio eclatante, quando ad esempio Bogdanov e Denni guardano il manifesto
pubblicitario di “Notti Bianche”, un profumo che, per Bogdanov, rende tutti,
anche i poveri, sani ed eleganti come i principi. E Denni replica: «a me pare
che venda un modello di bellezza… quello dei parassiti del vecchio mondo».
Saltando tutti gli avvenimenti, ma non i rimandi di cui parlerò più avanti, la
conclusione, del libro di Bogdanov, dei discorsi di Denni, e dei Wu Ming
riguarda proprio il motivo per cui Denni è partita da Nacun, e non solo per
ritrovare il padre. La prospettiva dell’esaurimento delle risorse
appartiene ad un futuro che è il nostro futuro, il futuro del nostro modello di
sviluppo dominante. Domandiamoci, in maniera ridanciana, come interpretare l’affermazione
di Denni “La verità è che siamo troppi, viviamo troppo a lungo, siamo troppo
vecchi e abbiamo quasi esaurito le nostre risorse. Stiamo valutando la
strategia migliore per espanderci nella vostra galassia, perché non si può fare
il socialismo in un solo pianeta”. Cioè, domandiamoci, come farebbe WU Ming se
fornisse delle soluzioni: che cosa succederà se non lavoriamo insieme per
trovare forme di sviluppo più sostenibili? Ma se questo è (potrebbe essere) il
senso del libro, il testo è percorso da rimandi e rinvii ad elementi di realtà,
che vengono trattati come fossero un romanzo di Philip José Farmer (di cui
parlerò prima o poi, magari controllate i saggi). Ad esempio, veniamo
trasportati nella Villa di Capri di Maxim Gorki, dove assistiamo, tra l’altro,
ad un’avvincente partita di scacchi tra Lenin e Bogdanov. La partita, realmente
avvenuta e documentata da una nota fotografia, serve a rievocare la polemica
filosofica tra i due rivoluzionari legata alle teorie dell’Empiriomonismo (il
primo libro filosofico di Bogdanov del 1904, dove l’autore si scaglia non solo
contro l’individualismo ma anche contro l’autoritarismo). Polemiche che
spinsero Lenin a scrivere “Materialismo ed Empiriocriticismo”. Una polemica,
che in fondo percorre tutte le idee del romanzo. Romanzo ci porta anche sui
campi di battaglia dei Laghi Masuri, dove Bogdanov è dislocato come ufficiale
medico e nella piazza centrale di Tifliis in Georgia (così scritta in una delle
grafie dell’epoca cirillica, mentre sappiamo che il nome coretto è Tbilisi),
dove assistiamo alla sanguinosa rapina, condotta dai rivoluzionari russi nel
1907. Una rapina organizzata dal Georgiano Stalin per finanziare la
Rivoluzione, e che lasciò 40 morti nelle strade della capitale. Ma come detto,
i passaggi fondamentali sono le discussioni, sono legati al passaggio dalla
libertà e dalla sperimentazione ad un conformismo burocratico che strangola chi
pensa con la propria testa. Ci sono le riflessioni tra Bogdanov, Lunaciarskij e
Nadezhda Krupskaja, vedova di Lenin, sulla natura dell’arte sotto al
socialismo, sul carattere “proletario” della nuova cultura statale, sul ruolo e
sulla libertà dell’individuo nella produzione artistica. Sul terreno politico,
il contesto è dominato dalle conseguenze del disastro della rivoluzione cinese
del 1927. In quel periodo il Partito Comunista Cinese fu costretto da Mosca e
dalla Terza Internazionale ad allearsi con i propri aguzzini del partito
nazionalista del Kuomintang. Questo fallimento spinse la nascente burocrazia
sovietica ad attuare una decisa virata a destra e a teorizzare definitivamente
l’impostura del “socialismo in un paese solo” (vediamo allora come rileggere la
frase di Denni sopracitata). In quei giorni, l’opposizione unificata, che aveva
in Trotsky, Zinoviev e Kamenev i suoi esponenti principali, vede i suoi comizi
dispersi a randellate e i suoi militanti dispersi o perseguitati. I vecchi
bolscevichi e i militanti rivoluzionari dell’epoca d’oro sembrano impotenti ad
arrestare l’ondata controrivoluzionaria. Alcuni di loro come Alexandra
Kollontaj scelgono l’esilio volontario in Norvegia altri sono spediti nelle
regioni più inospitali come Smilga, altri ancora come il protagonista del
romanzo, si alienano dall’attività politica e si concentrano su studi
scientifici. Bogdanov dirigerà infatti l’istituto di trasfusioni di Mosca dove
studia e applica il “collettivismo fisiologico”. Poi, poco dopo le
celebrazioni, nella realtà cercando di salvare un malato di tubercolosi, nel
libro cercando di salvare Denni, Bogdanov cerca di utilizzare le sue capacità
trasfusionali, con il risultato finale, in entrambi i casi, di lasciarci le
penne. Insomma, come detto, un libro dal contesto affascinante, ma non sempre
sorretto da un testo all’altezza.
[A: 22/12/2017 – I: 01/06/2019 – T: 04/06/2019]
- &&& e ½
[tit. or.: A Supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again; ling. or.: inglese; pagine: 149; anno 1997]
Confesso che
continuo ad avere difficoltà nella lettura di Wallace. Non per la scrittura, né
per i libri in sé, ma per il modo in cui ci ha lasciato, e che non mi fa
affrontare serenamente la lettura. Cercando allora di estraniarmi il più
possibile, devo subito dire che questa è stata una lettura decisamente
rilassante. Leggera, eppure sempre con qualche spunto (o più fi qualche,
forse). Leggendone, mi veniva in mente il tentativo di Francesco Piccolo, in
“Allegro occidentale”, di rinverdirne i fasti pochi anni dopo, anche senza
crociera, ma con uno spirito affine. Ma veniamo al libro. Intanto, rilevo la
solita poca cura nella titolazione italiana. Perché leggendo il titolo sembra
che quanto faccia Wallace nel libro sia “divertente”, e che quindi per lui sia un
dispiacere non farla più. Il titolo originale parla invece di una cosa “presumibilmente
divertente”, cioè che è divertente per molta gente, non certo per lui, che dopo
questa esperienza non la ripeterà più. E lo posso capire. Che personalmente
sono assolutamente concorde: la crociera è una cosa che molti trovano
interessante, e non io. Che ho fatto anni fa in Norvegia, e che, come Wallace,
non ripeterò. Wallace intraprende una crociera “7 notti ai Caraibi” per conto
della rivista Harper’s. Guarda con la sua acuta intelligenza, scrive, appunta,
elabora. Ovviamente la rivista non pubblicherà il resoconto, che risulta
tutt’altro che “attirevole” per i mondani lettori. Allora, Wallace riprende,
allarga e ne fa un breve libro (questo) dove riesce a farci entrare nello
spirito del 7NC, ed a farcene uscir presto. Perché sulla nave (e siamo nel
1995) bisogna divertirsi, bisogna rilassarsi. Quindi i gitanti sono in spirito
per farlo, e tutto il personale si adopera per farvi sentire a vostro agio.
Ogni momento è riportato con lo spirito con cui anch’io lo vedrei: le enormi
masse, quasi greggi votate al macello, che attendono in una specie di hangar a
duemila gradi di essere chiamati verso la propria nave e la propria crociera.
Con un’età media elevata (e conseguenti malori ed altre avversità). Ed è un
bene che Wallace la faccia 25 anni fa, che ora avrebbe anche un’invasione
insopportabile dei neoricchi ex-sovietici. Wallace analizza il dépliant che
magnifica il benessere ed il lusso atteso. Ma non ne troverà traccia, per lui,
nei sette giorni. Anche se gli anziani, e tutti quelli che salendo a bordo
lasciano a terra cervello e remore, si sentiranno coccolati. Anche se faranno
la fila ai ristoranti, la resse alle piscine, brontolii e lamentale se si
decide di fare una gita a terra. Badate bene, e lo sappiamo ora che le
crociere sono diventate un oggetto del desiderio anche per una fascia di noi
europei, ogni cosa, ogni azione, ogni spazio è stato pensato, calcolato e
installato affinché il “ricco” passeggero (o almeno, anche se non ricco, tale
che la servitù lo faccia sentire così) si riduca ad uno stato di vizio quasi
materno, quasi si fosse ancora nella culla. Non è neanche il caso di cercare
chi siano i membri dell’equipaggio che vi servono, come il professionale Àgoston,
cameriere del tavolo di Wallace, serio, impeccabile, anti-umoristico,
refrattariamente ironico. Wallace si domanda, nei suoi ritiri in cabina lontano
da tutti chi siano i personaggi alla Àgoston
e si ripete che forse non è proprio il caso di porsi simili domande.
Sono lì per coccolarvi, anche se, e Wallace lo sente, forse siete loro neanche
tanto cordialmente antipatici. Anzi, Wallace ha la sensazione che tutto tenda a
farlo sentire così. Ne escono fuori pagine di una tristezza unica, con degli
spunti di feroce ironia, che, purtroppo, sono anche molto datati. Certo, si
legge, certo siamo con Wallace a detestare tutta la massa intorno. Ed
ovviamente apprezziamo il suo stile, fatto anche di tante note 8quasi alla
Nabokov) che sono una parte integrante e complementare al testo. A me, tra
tante spigolature, è rimasta impressa, e ne ho cercato per approfondire, tutta
la disquisizione sull’angolo di Brewster, con quella particolare incidenza
della luce sul piano del mare, che ne permette la polarizzazione, con effetti
visuali notevoli sulla superficie marina. Se capita, si leggerà ancora di
Wallace, anche se non lo andrò a cercare direttamente. Troppa è la tristezza,
ed il rimpianto.
“Il modo migliore
per descriverlo … è questo: perennemente in posa per una fotografia che nessuno
sta scattando.” (131)
Imre
Kertész “Essere senza destino” Feltrinelli s.p. (prestito di Fako)
[A: 22/12/2017 – I: 05/06/2019 – T:
16/06/2019] - &&&--
[tit. or.: Roman eines Schicksallosen; ling. or.: tedesco; pagine: 220; anno 1975]
Nonostante tutte
le premesse, ed anche una serie di considerazioni che andrò facendo, questo pur
bel libro non riesce a superare lo scoglio dei libri di gradimento. Perché alla
fine risulta un po’ lento ed irrisolto nel finale. Forse sono anche io che mi sono
legato troppo alla pagina che scorre poco, rispetto ad un contenuto che invece
è un continuo pugno nello stomaco. Intanto, penso che una parte della colpa sia
nella scellerata scelta della Feltrinelli sulla traduzione del libro. Kertész
lo scrive nel 1975, ma in Ungheria ancora nel turbine sovietico ha poco spazio.
Spazio che avrà dopo la caduta del muro, spazio che l’autore prenderà con
questo ed altri scritti. Che convincerà l’editore a pensare, 24 anni dopo
l’uscita, alla sua pubblicazione in Italia. Peccato che invece di “Sorstalanság”
(senza destino in ungherese) che era il titolo originale, Feltrinelli ne
traduce la versione uscita in Germania con il titolo “Romanzo di un indigente”.
Per quanto poco sappia delle lingue, il doppio passaggio ha fatto di certo
perdere qualcosa al libro. Non all’autore, che 3 anni dopo riceverà
meritatamente il Premio Nobel. Con una lucida chiarezza, ed un linguaggio
veramente senza punte di orrore, l’autore ci racconta dei campi di sterminio e
dell’Olocausto. La cosa che colpisce è la scorrevolezza delle ruote del destino
del quindicenne protagonista, alter-ego dell’autore che si proietta nel corpo e
nella mente di Gyurka, l’io narrante, che passo dopo passo, da una vita diciamo
normale (anche se sembra difficile etichettare normale vivere in Ungheria
occupata dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale) rotola verso i campi
di concentramento. Gyurka ha quindici anni ed è ebreo, ma non capisce cosa
voglia dire “essere ebreo”. Non ha una particolare propensione religiosa,
sembra vivere una vita, pur in tempo di guerra, da quindicenne in crescita.
Vorrei riportare l’attacco del libro per mostrare il modo piano con Gyurka
racconta e poi affronta quanto gli capita: «Oggi non sono andato a scuola. O
meglio, ci sono andato, ma solo per farmi esonerare dal nostro professore. Gli
ho portato la lettera di mio padre, in cui richiede il mio esonero per motivi
famigliari. Il professore ha chiesto quali fossero questi motivi famigliari. Io
gli ho risposto che mio padre è stato chiamato al periodo di lavoro
obbligatorio; a quel punto lui non ha più fatto obiezioni». Lavoro obbligatorio
nel senso di campo di concentramento. Per sostenere la famiglia allora Gyurka
comincia a lavorare alla Shell, indossando la stella gialla (è pur sempre
ebreo) e sottostando a tutte le possibili difficoltà di lavoro per un ebreo in
terra nazista. Poi una mattina avvengono controlli in fabbrica, e lui con altri
ebrei viene avviato ad Auschwitz. Con una lucidità allucinante, Gyurka ci fa
passare le visite di controllo, l’avviamento verso le docce che puliscono di
lui e di alcuni sui compagni, mentre altri, non in buone condizioni, vanno
verso le docce “a gas”. La fatica del quotidiano, il capire che il pezzo di
pane ricevuto al mattino sarà anche la sua cena, l’adagiarsi, giorno dopo
giorno, a routine insensate, perché quello gli viene chiesto. Con l’unica
preoccupazione di arrivare al giorno dopo, di evitare di essere morso dagli
animali, di avere incidenti che lo porterebbero verso le “altre docce”. Il trasferimento
di campo in campo, fino a Zeitz, un campo di concentramento piccolo dove più
facile sembra poter sopravvivere. Ma quella che tormenta maggiormente Gyurka,
nell’anno trascorso nei campi di concentramento tra la primavera del ’44 e
quella del ’45, furono i problemi del quotidiano, quelli affrontati ad uno ad
uno, per cercare di essere vivi il giorno successivo: le fatiche quasi
insopportabili del lavoro quotidiano, la fame, il freddo, ed infine la scabbia,
che lo ridusse in condizioni pietose e gli fece passare giorni e giorni in
ospedale, con la paura di essere avviato alle famose “altre docce”. Poi la
liberazione, il ritorno alla vita di quelli rimasti lì, e la difficoltà, quasi
l’impossibilità di comunicare cosa sia stato questo anno terribile a chi non
l’ha vissuto, a chi non è ebreo. Una impossibilità che i sopravvissuti
porteranno dentro per sempre, e che li porterà, vedi Primo Levi, anche a gesti
estremi. Gyurka si scontra con chi non crede alle camere a gas. Poi con chi
parla di “atrocità” come se Auschwitz fosse “un errore, un incidente”. Invece
era una scelta operata da uomini, cui altri uomini non sono riusciti ad
opporsi. Come non pensare allora, agli armeni del 1915 o ai curdi di oggi? Un
libro imperdibile, dunque, che non riscatta tutte le premesse, che a volte è
stato di lenta lettura, che, e forse questo l’autore lo voleva fortemente,
lascia un senso di amaro in bocca, che non si toglierà mai.
Mi
sembrava troppo “easy” questo fine ottobre. Ovvio che si è andato complicando,
per colpa di una quadrotta che non sa guardare e che speriamo si riesca a
portare a buon fine. Per il resto, tanta confusione sotto il cielo. Quindi la
situazione è eccellente.
Nessun commento:
Posta un commento