domenica 27 ottobre 2019

Una trama scontata - 27 ottobre 2019

Ebbene sì, questa settimana un poker di libri quasi tutto arrivati gratuitamente. Due graditi prestiti del mio amico Roberto, un regalo natalizio ed uno sconto niente male presso un mercatino. Peccato che Faber sia molto al di sotto delle aspettative e che Wu Ming sia a volte troppo complicato per i miei pochi neuroni. Rimangono i prestiti, per diversi versi, come vedrete, entrambi interessanti.
Michel Faber “Sotto la pelle” Einaudi euro 13,50 (in realtà, scontato a 3 euro presso il “Mercatino di San Giovanni”)
[A: 27/11/2016 – I: 27/05/2019 – T: 30/05/2019] - & ½
[tit. or.: Under the Skin; ling. or.: inglese; pagine: 268; anno 2000]
Ci sono momenti in cui mi capita la lettura di una serie di libri che non mi soddisfano, e che porto a compimento solo per parlarne (male) con voi. Sperando, magari, che la vostra percezione, se li avete letti, sia diversa dalla mia, e mi possiate convincere che no, ne vale va la pena, era un libro non dico capolavoro, ma con almeno dei punti di interesse. Peccato allora, che dopo Palahniuk, mi sia capitato questo libro dell’olandese-australiano-scozzese Faber. Di cui avevo letto, e con interesse quello che viene considerato il suo libro migliore (“Il petalo cremisi ed il bianco”), seppur ne avevo letto una decina di anni fa. Girovagando in attesa di Alessandra presso il Mercatino, ho invece scovato questa copia in ottimo stato del suo primo libro. Beh, prendiamolo, che prima o poi si legge. Purtroppo, si legge e si esce dalla lettura dicendo: ma cosa diavolo ha scritto? Una storia in cui vediamo una bella donna, Isserley, andare su e giù per le campagne scozzesi, prendere ogni tanto degli autostoppisti, e far loro una specie di terzo grado. Chiede la provenienza, la famiglia, se c’è qualcuno che li attende, poi com’è la loro vita, qualcuno che possa notare la loro scomparsa. Dopo l’interrogatorio, se si ritiene soddisfatta, li droga e li rapisce. Dopo aver subito un inizio spaesante, quasi fossimo sulle soglie di un giallo, Faber ci porta con un salto mortale in un racconto di Arthur C. Clarke (quello di 2001 per chi non fosse fantascientifico). Perché Isserley è sì bella, ma anche un po’ strana. Ha una scollatura profondissima, ma vestita con abbinamenti improbabili. Certo gli autostoppisti sono perplessi, che al posto di Isserley non avrebbero preso nessuno. Ma qui si scopre il mistero: Isserley è un’aliena con il corpo modificato per sembrare una donna attraente in modo da poter svolgere bene il suo lavoro di rapitrice. C’è tutta una banda di alieni che si è trasferita sulla Terra, in quella fattoria scozzese, ma solo lei ed il suo capo, che deve andare in giro, hanno il corpo modificato. Questa banda aliena, in realtà, seppur evoluta, viene da una razza quadrupede, vagamente canina. Nel pianeta natale, il cibo comincia a scarseggiare, ed allora, per rifornirsi di proteine, i quadrupedi prendono gli umani, li mutilano, li mettono all’ingrasso, e, una volta bistecchizzati, vengono spediti al pianeta d’origine. Tutta la storia, in sé, si trascina ripetitivamente su questo filone. Isserley va in giro, c’è la storia con l’autostoppista, a volte liscia, a volte con qualche problema, che magari l’incauto passeggero vorrebbe fare delle avances alla bella guidatrice, ma alla fine questo viene drogato e portato nella fattoria. Isserley ha qualche pensiero di ribellione, a questa routine immutabile da troppo tempo, anche perché soffre spesso di dolori articolari (d’altra parte ha subito modifiche profonde). Ci sono poi due crepe, nella banale routine. Viene il figlio del capo dallo spazio, che incautamente libera degli autostoppisti, che però vengono presto presi, e subito uccisi. La polizia, inoltre, comincia a domandarsi, anche se i rapiti sono pochi, dove finisca la gente. Il tutto porterà ad un collasso, anche perché Isserley ha dei problemi con la macchina, forse ha un incidente. Mentre arriva la polizia deve solo decidere se farsi curare o far saltare tutto in aria. Questa storia bislacca, che si legge fino alla fine senza troppa partecipazione, nella mente “politica” dell’autore, probabilmente doveva servire ad innescare appunto problemi politici: l’identità e l’autonomia corporea, sessismo e genere, rapporto uomo – animale da macello. Sul primo tema, ci si domanda quanto il corpo governi il modo di essere, la vita nostra. Se quindi ci possa essere una corrispondenza tra corpo ed identità percepita. Il secondo tema riguarda l’esterno. Isserley è vista come una donna, ed allora Faber si chiede: è possibile diventare donna? Una domanda che molti di genere incerto si domandano, senza, io credo, una risposta certa. Infine, c’è l’orrore della mutilazione e dell’ingrasso. Se i bovini fossero senzienti (o i maiali o le oche o qualsiasi animale allevato in attività), come reagirebbero al fatto di diventare carne da macello? Quello che fa la razza di Isserley agli uomini non è altro quello che noi facciamo alle vacche. Ma se Isserley ed i suoi ci indignano, quanto ci manca per diventare vegetariani? Il libro alla fine pone molte domande, e Faber evita accuratamente di fornire una sola risposta diretta. Ma la sua lettura è faticosa, non si empatizza né con Isserley né con gli umani. Si arriva in fondo a fatica e si spera di leggere qualcosa di meglio nel futuro. Come direbbe un critico migliore di me, “un libro serenamente evitabile”.
Wu Ming “Proletkult” Einaudi s.p. (Natalino di Nico&Benny)
[A: 25/12/2018 – I: 28/05/2019 – T: 31/05/2019] - && e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 333; anno 2018]
Situazione complessa questa del libro e dei giudizi a lui relativi. Prima di tutto, un grazie molto esteso a chi, sprezzante del pericolo e dei miei strali, mi ha fatto questo regalo. Non credo avrei mai comprato il libro, ma sono contento di averlo letto. Secondo punto, il contesto, che è stimolante, che mi ha coinvolto, che mi ha consentito di andare alla ricerca di spunti e di apprezzamenti vari, sui protagonisti del romanzo, sulle loro azioni, su chi erano realmente e su come potessero essere disvelati in altro una volta inseriti in un contesto diverso. Terzo punto, infine, e per contrasto, la scrittura ed il testo, che invece non si sollevano in maniera palese da una lettura difficile e non coinvolgente. Il tentativo di mascheramento fantascientifico di alcuni punti della trama è forzoso e non facile, né da leggere né da decrittare. Quindi un testo che sarebbe perfetto per una disamina molto intellettuale e cerebrale, ma che, proprio per questo, rimane con un giudizio che non può essere sufficiente. Un libo deve avere la forza di ergersi sul cuore e sulla pancia, sulla testa e sugli apparati sessuali, tutto in modo armonico. Qui, purtroppo, anche se con una bella capacità e felicità di invenzione, è tutto e solo di testa. Tanto per fare un esempio, uno dei temi centrali è la “Tectologia”, cioè la “Scienza generale dell'organizzazione”, il pallino del protagonista del libro. Ed allora, Wu Ming decide di organizzare il libro stesso in maniera tectologica: il libro viene diviso in tre parti, ogni parte in undici capitoli, per portare il computo totale a 333 pagine. Qui, ad esempio vediamo la tectologia contrapposta alla matematica, perché (e non chiedetemi di farvi tutto il ragionamento, ma cercate di intuirlo), in modo corretto, Wu Ming avrebbe dovuto scrivere un libro di 363 pagine. Comunque, venendo alla trama oggetto di queste mie scritture, rileviamo come questo sia un nuovo e forse più coinvolgente capitolo delle riflessioni del collettivo bolognese intorno al concetto di “rivoluzione”. Non entro negli altri testi di Wu Ming che ne parlano (qualcuno più bravo di me lo potrà fare). Qui, rispetto ad altri contesti di riflessione, parliamo della Rivoluzione russa, di cosa poteva essere, di cosa è stato. Cioè si passa da un “periodo ipotetico dell’irrealtà”, ad un “periodo ipotetico della possibilità. Perché Proletkult fu realmente un progetto culturale imbastito agli inizi del secolo scorso dal politico, filosofo e medico russo Aleksandr Aleksandrovič Malinovskij detto Bogdanov. Il Proletkult si basava su principi organizzativi “tectologici”, vale a dire, nella formulazione teorica di Bogdanov, secondo un modello di sviluppo sociale cooperativo, collettivo e a-gerarchico. In particolare, Bogdanov non credeva che una rivoluzione proletaria potesse essere veramente efficace se non si fosse fondata sulla capacità delle classi lavoratrici di produrre una loro cultura e un differente sistema di relazioni sociali. Tale approccio fu osteggiato dalla fazione leninista del partito, proiettata verso la centralizzazione del potere negli apparati statali. Se il progetto di Bogdanov avesse prevalso sulla centralizzazione burocratica leniniana come si sarebbe evoluta la Rivoluzione Russa? La trama ideata da Wu Ming vede una trasposizione della realtà di Bogdanov, in una possibilità diversa. Bogdanov, nel 1908, scrive il romanzo di fantascienza “La stella rossa”, dove descrive l’applicazione tectologica ad una vita di comunismo realizzato, ovviamente su Marte, il “pianeta rosso”. Wu Ming ipotizza che non sia un romanzo, ma una narrazione di quanto sia avvenuto ad un sodale di Bogdanov, il buon rivoluzionario Leonid Voloch, che dopo i fallimenti delle velleità rivoluzionarie del 1905, sparisce misteriosamente, per andare a trascorrere del tempo sul pianeta Nacun, dove genera la piccola Denni. Poi Leonid scompare, ed ora Denni scende sulla terra per cercare il padre (che non troverà) e per confrontarsi con Bogdanov ed il suo scritto, proprio per fargli (e farci) toccare con mano le differenze tra il comunismo russo ed il comunismo nacuniano. Perché su Nacun si stanno esaurendo le risorse e bisogna trovare un nuovo modello di sviluppo. Perché in Russia, e più in generale sulla terra, il comunismo prende una piega di fossilizzazione che lo porterà altrove. Un esempio eclatante, quando ad esempio Bogdanov e Denni guardano il manifesto pubblicitario di “Notti Bianche”, un profumo che, per Bogdanov, rende tutti, anche i poveri, sani ed eleganti come i principi. E Denni replica: «a me pare che venda un modello di bellezza… quello dei parassiti del vecchio mondo». Saltando tutti gli avvenimenti, ma non i rimandi di cui parlerò più avanti, la conclusione, del libro di Bogdanov, dei discorsi di Denni, e dei Wu Ming riguarda proprio il motivo per cui Denni è partita da Nacun, e non solo per ritrovare il padre. La prospettiva dell’esaurimento delle risorse appartiene ad un futuro che è il nostro futuro, il futuro del nostro modello di sviluppo dominante. Domandiamoci, in maniera ridanciana, come interpretare l’affermazione di Denni “La verità è che siamo troppi, viviamo troppo a lungo, siamo troppo vecchi e abbiamo quasi esaurito le nostre risorse. Stiamo valutando la strategia migliore per espanderci nella vostra galassia, perché non si può fare il socialismo in un solo pianeta”. Cioè, domandiamoci, come farebbe WU Ming se fornisse delle soluzioni: che cosa succederà se non lavoriamo insieme per trovare forme di sviluppo più sostenibili? Ma se questo è (potrebbe essere) il senso del libro, il testo è percorso da rimandi e rinvii ad elementi di realtà, che vengono trattati come fossero un romanzo di Philip José Farmer (di cui parlerò prima o poi, magari controllate i saggi). Ad esempio, veniamo trasportati nella Villa di Capri di Maxim Gorki, dove assistiamo, tra l’altro, ad un’avvincente partita di scacchi tra Lenin e Bogdanov. La partita, realmente avvenuta e documentata da una nota fotografia, serve a rievocare la polemica filosofica tra i due rivoluzionari legata alle teorie dell’Empiriomonismo (il primo libro filosofico di Bogdanov del 1904, dove l’autore si scaglia non solo contro l’individualismo ma anche contro l’autoritarismo). Polemiche che spinsero Lenin a scrivere “Materialismo ed Empiriocriticismo”. Una polemica, che in fondo percorre tutte le idee del romanzo. Romanzo ci porta anche sui campi di battaglia dei Laghi Masuri, dove Bogdanov è dislocato come ufficiale medico e nella piazza centrale di Tifliis in Georgia (così scritta in una delle grafie dell’epoca cirillica, mentre sappiamo che il nome coretto è Tbilisi), dove assistiamo alla sanguinosa rapina, condotta dai rivoluzionari russi nel 1907. Una rapina organizzata dal Georgiano Stalin per finanziare la Rivoluzione, e che lasciò 40 morti nelle strade della capitale. Ma come detto, i passaggi fondamentali sono le discussioni, sono legati al passaggio dalla libertà e dalla sperimentazione ad un conformismo burocratico che strangola chi pensa con la propria testa. Ci sono le riflessioni tra Bogdanov, Lunaciarskij e Nadezhda Krupskaja, vedova di Lenin, sulla natura dell’arte sotto al socialismo, sul carattere “proletario” della nuova cultura statale, sul ruolo e sulla libertà dell’individuo nella produzione artistica. Sul terreno politico, il contesto è dominato dalle conseguenze del disastro della rivoluzione cinese del 1927. In quel periodo il Partito Comunista Cinese fu costretto da Mosca e dalla Terza Internazionale ad allearsi con i propri aguzzini del partito nazionalista del Kuomintang. Questo fallimento spinse la nascente burocrazia sovietica ad attuare una decisa virata a destra e a teorizzare definitivamente l’impostura del “socialismo in un paese solo” (vediamo allora come rileggere la frase di Denni sopracitata). In quei giorni, l’opposizione unificata, che aveva in Trotsky, Zinoviev e Kamenev i suoi esponenti principali, vede i suoi comizi dispersi a randellate e i suoi militanti dispersi o perseguitati. I vecchi bolscevichi e i militanti rivoluzionari dell’epoca d’oro sembrano impotenti ad arrestare l’ondata controrivoluzionaria. Alcuni di loro come Alexandra Kollontaj scelgono l’esilio volontario in Norvegia altri sono spediti nelle regioni più inospitali come Smilga, altri ancora come il protagonista del romanzo, si alienano dall’attività politica e si concentrano su studi scientifici. Bogdanov dirigerà infatti l’istituto di trasfusioni di Mosca dove studia e applica il “collettivismo fisiologico”. Poi, poco dopo le celebrazioni, nella realtà cercando di salvare un malato di tubercolosi, nel libro cercando di salvare Denni, Bogdanov cerca di utilizzare le sue capacità trasfusionali, con il risultato finale, in entrambi i casi, di lasciarci le penne. Insomma, come detto, un libro dal contesto affascinante, ma non sempre sorretto da un testo all’altezza.

[A: 22/12/2017 – I: 01/06/2019 – T: 04/06/2019] - &&& e ½
[tit. or.: A Supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again; ling. or.: inglese; pagine: 149; anno 1997]
Confesso che continuo ad avere difficoltà nella lettura di Wallace. Non per la scrittura, né per i libri in sé, ma per il modo in cui ci ha lasciato, e che non mi fa affrontare serenamente la lettura. Cercando allora di estraniarmi il più possibile, devo subito dire che questa è stata una lettura decisamente rilassante. Leggera, eppure sempre con qualche spunto (o più fi qualche, forse). Leggendone, mi veniva in mente il tentativo di Francesco Piccolo, in “Allegro occidentale”, di rinverdirne i fasti pochi anni dopo, anche senza crociera, ma con uno spirito affine. Ma veniamo al libro. Intanto, rilevo la solita poca cura nella titolazione italiana. Perché leggendo il titolo sembra che quanto faccia Wallace nel libro sia “divertente”, e che quindi per lui sia un dispiacere non farla più. Il titolo originale parla invece di una cosa “presumibilmente divertente”, cioè che è divertente per molta gente, non certo per lui, che dopo questa esperienza non la ripeterà più. E lo posso capire. Che personalmente sono assolutamente concorde: la crociera è una cosa che molti trovano interessante, e non io. Che ho fatto anni fa in Norvegia, e che, come Wallace, non ripeterò. Wallace intraprende una crociera “7 notti ai Caraibi” per conto della rivista Harper’s. Guarda con la sua acuta intelligenza, scrive, appunta, elabora. Ovviamente la rivista non pubblicherà il resoconto, che risulta tutt’altro che “attirevole” per i mondani lettori. Allora, Wallace riprende, allarga e ne fa un breve libro (questo) dove riesce a farci entrare nello spirito del 7NC, ed a farcene uscir presto. Perché sulla nave (e siamo nel 1995) bisogna divertirsi, bisogna rilassarsi. Quindi i gitanti sono in spirito per farlo, e tutto il personale si adopera per farvi sentire a vostro agio. Ogni momento è riportato con lo spirito con cui anch’io lo vedrei: le enormi masse, quasi greggi votate al macello, che attendono in una specie di hangar a duemila gradi di essere chiamati verso la propria nave e la propria crociera. Con un’età media elevata (e conseguenti malori ed altre avversità). Ed è un bene che Wallace la faccia 25 anni fa, che ora avrebbe anche un’invasione insopportabile dei neoricchi ex-sovietici. Wallace analizza il dépliant che magnifica il benessere ed il lusso atteso. Ma non ne troverà traccia, per lui, nei sette giorni. Anche se gli anziani, e tutti quelli che salendo a bordo lasciano a terra cervello e remore, si sentiranno coccolati. Anche se faranno la fila ai ristoranti, la resse alle piscine, brontolii e lamentale se si decide di fare una gita a terra. Badate bene, e lo sappiamo ora che le crociere sono diventate un oggetto del desiderio anche per una fascia di noi europei, ogni cosa, ogni azione, ogni spazio è stato pensato, calcolato e installato affinché il “ricco” passeggero (o almeno, anche se non ricco, tale che la servitù lo faccia sentire così) si riduca ad uno stato di vizio quasi materno, quasi si fosse ancora nella culla. Non è neanche il caso di cercare chi siano i membri dell’equipaggio che vi servono, come il professionale Àgoston, cameriere del tavolo di Wallace, serio, impeccabile, anti-umoristico, refrattariamente ironico. Wallace si domanda, nei suoi ritiri in cabina lontano da tutti chi siano i personaggi alla Àgoston  e si ripete che forse non è proprio il caso di porsi simili domande. Sono lì per coccolarvi, anche se, e Wallace lo sente, forse siete loro neanche tanto cordialmente antipatici. Anzi, Wallace ha la sensazione che tutto tenda a farlo sentire così. Ne escono fuori pagine di una tristezza unica, con degli spunti di feroce ironia, che, purtroppo, sono anche molto datati. Certo, si legge, certo siamo con Wallace a detestare tutta la massa intorno. Ed ovviamente apprezziamo il suo stile, fatto anche di tante note 8quasi alla Nabokov) che sono una parte integrante e complementare al testo. A me, tra tante spigolature, è rimasta impressa, e ne ho cercato per approfondire, tutta la disquisizione sull’angolo di Brewster, con quella particolare incidenza della luce sul piano del mare, che ne permette la polarizzazione, con effetti visuali notevoli sulla superficie marina. Se capita, si leggerà ancora di Wallace, anche se non lo andrò a cercare direttamente. Troppa è la tristezza, ed il rimpianto.
“Il modo migliore per descriverlo … è questo: perennemente in posa per una fotografia che nessuno sta scattando.” (131)

Imre Kertész “Essere senza destino” Feltrinelli s.p. (prestito di Fako)
[A: 22/12/2017 – I: 05/06/2019 – T: 16/06/2019] - &&&--
[tit. or.: Roman eines Schicksallosen; ling. or.: tedesco; pagine: 220; anno 1975]
Nonostante tutte le premesse, ed anche una serie di considerazioni che andrò facendo, questo pur bel libro non riesce a superare lo scoglio dei libri di gradimento. Perché alla fine risulta un po’ lento ed irrisolto nel finale. Forse sono anche io che mi sono legato troppo alla pagina che scorre poco, rispetto ad un contenuto che invece è un continuo pugno nello stomaco. Intanto, penso che una parte della colpa sia nella scellerata scelta della Feltrinelli sulla traduzione del libro. Kertész lo scrive nel 1975, ma in Ungheria ancora nel turbine sovietico ha poco spazio. Spazio che avrà dopo la caduta del muro, spazio che l’autore prenderà con questo ed altri scritti. Che convincerà l’editore a pensare, 24 anni dopo l’uscita, alla sua pubblicazione in Italia. Peccato che invece di “Sorstalanság” (senza destino in ungherese) che era il titolo originale, Feltrinelli ne traduce la versione uscita in Germania con il titolo “Romanzo di un indigente”. Per quanto poco sappia delle lingue, il doppio passaggio ha fatto di certo perdere qualcosa al libro. Non all’autore, che 3 anni dopo riceverà meritatamente il Premio Nobel. Con una lucida chiarezza, ed un linguaggio veramente senza punte di orrore, l’autore ci racconta dei campi di sterminio e dell’Olocausto. La cosa che colpisce è la scorrevolezza delle ruote del destino del quindicenne protagonista, alter-ego dell’autore che si proietta nel corpo e nella mente di Gyurka, l’io narrante, che passo dopo passo, da una vita diciamo normale (anche se sembra difficile etichettare normale vivere in Ungheria occupata dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale) rotola verso i campi di concentramento. Gyurka ha quindici anni ed è ebreo, ma non capisce cosa voglia dire “essere ebreo”. Non ha una particolare propensione religiosa, sembra vivere una vita, pur in tempo di guerra, da quindicenne in crescita. Vorrei riportare l’attacco del libro per mostrare il modo piano con Gyurka racconta e poi affronta quanto gli capita: «Oggi non sono andato a scuola. O meglio, ci sono andato, ma solo per farmi esonerare dal nostro professore. Gli ho portato la lettera di mio padre, in cui richiede il mio esonero per motivi famigliari. Il professore ha chiesto quali fossero questi motivi famigliari. Io gli ho risposto che mio padre è stato chiamato al periodo di lavoro obbligatorio; a quel punto lui non ha più fatto obiezioni». Lavoro obbligatorio nel senso di campo di concentramento. Per sostenere la famiglia allora Gyurka comincia a lavorare alla Shell, indossando la stella gialla (è pur sempre ebreo) e sottostando a tutte le possibili difficoltà di lavoro per un ebreo in terra nazista. Poi una mattina avvengono controlli in fabbrica, e lui con altri ebrei viene avviato ad Auschwitz. Con una lucidità allucinante, Gyurka ci fa passare le visite di controllo, l’avviamento verso le docce che puliscono di lui e di alcuni sui compagni, mentre altri, non in buone condizioni, vanno verso le docce “a gas”. La fatica del quotidiano, il capire che il pezzo di pane ricevuto al mattino sarà anche la sua cena, l’adagiarsi, giorno dopo giorno, a routine insensate, perché quello gli viene chiesto. Con l’unica preoccupazione di arrivare al giorno dopo, di evitare di essere morso dagli animali, di avere incidenti che lo porterebbero verso le “altre docce”. Il trasferimento di campo in campo, fino a Zeitz, un campo di concentramento piccolo dove più facile sembra poter sopravvivere. Ma quella che tormenta maggiormente Gyurka, nell’anno trascorso nei campi di concentramento tra la primavera del ’44 e quella del ’45, furono i problemi del quotidiano, quelli affrontati ad uno ad uno, per cercare di essere vivi il giorno successivo: le fatiche quasi insopportabili del lavoro quotidiano, la fame, il freddo, ed infine la scabbia, che lo ridusse in condizioni pietose e gli fece passare giorni e giorni in ospedale, con la paura di essere avviato alle famose “altre docce”. Poi la liberazione, il ritorno alla vita di quelli rimasti lì, e la difficoltà, quasi l’impossibilità di comunicare cosa sia stato questo anno terribile a chi non l’ha vissuto, a chi non è ebreo. Una impossibilità che i sopravvissuti porteranno dentro per sempre, e che li porterà, vedi Primo Levi, anche a gesti estremi. Gyurka si scontra con chi non crede alle camere a gas. Poi con chi parla di “atrocità” come se Auschwitz fosse “un errore, un incidente”. Invece era una scelta operata da uomini, cui altri uomini non sono riusciti ad opporsi. Come non pensare allora, agli armeni del 1915 o ai curdi di oggi? Un libro imperdibile, dunque, che non riscatta tutte le premesse, che a volte è stato di lenta lettura, che, e forse questo l’autore lo voleva fortemente, lascia un senso di amaro in bocca, che non si toglierà mai.
Mi sembrava troppo “easy” questo fine ottobre. Ovvio che si è andato complicando, per colpa di una quadrotta che non sa guardare e che speriamo si riesca a portare a buon fine. Per il resto, tanta confusione sotto il cielo. Quindi la situazione è eccellente.

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