[A: 01/11/2016 – I: 08/03/2019 – T: 10/03/2019]
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[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 330; anno 2013]
Leggo sempre con piacere i libri di Paola
Mastrocola, che sono sempre discretamente pieni di spunti. E che spesso mi
fanno ripensare a tempi ormai passati da anni ed anni, ma dove la barca nel
bosco aveva un suo peso ed un suo posto. Peccato che, a volte, pur nell’impeto
di cose nuove, e nella piacevolezza degli intrecci, si torni spesso alla barca,
come idee soprattutto. Come momento in cui si è se stessi, o si ritrova se
stessi, e si segue col proprio essere contro tutto e tutti. Qui, il percorso si
fa un po’ contorto, prende le mosse da lontano, e segue sentieri che a volte
sembrano perdersi. Che poi l’idea di fondo, è un’idea interessante, che esula
un po’ dal romanzo, e su cui tornerò più avanti. La nostra scrittrice per il
momento, introduce i suoi personaggi, e li fa avanzare su di un’onda che
ricalca il titolo. Si riuscirà mai a sapere qualcosa di un’altra persona, se
questa non ha intenzione di dirtelo, di mostrartelo? Così, il brillante
studente Filippo Cantirami, dopo anni di duro inseguimento delle direttrici
lavorativi familiari, decide di staccare, di fare il “sé stesso”. Studiare
economica, certo. Ma non per il sistema produttivo. Lavorare a delle teorie
interessanti (quella di cui sopra e poi sotto), ma con poca intenzione di
comparire. Così che Filippo decide di nascondersi dietro il suo alter-ego
Jeremy Piccoli. Per la famiglia, per il padre e la madre, quelli con un po’ di
puzza sotto il naso, lui continuerà ad andare avanti e studiare e produrre e
laurearsi. Ma sarà la vita di Jeremy che proporrà ai suoi. Tanto Jeremy se ne
va in America, a Stanford (che ricorda ai meno forti in geografica, è San
Francisco, praticamente). Lui vivrà finalmente la sua vita, cercando di
adeguarsi ai suoi ritmi e non a quelli degli altri. Così Jeremy fa il front runner,
e Filippo rimane in Inghilterra, va a vivere in una tenuta con tanti pioppi,
campando come aiutante pastore, sotto la protezione del buon Duca. Ovvio, che
la farsa non potrà andare avanti all’infinito. Così, ci si inventa una serie di
congiunture che contribuiscono a portare tutto alla luce. Una presentazione
pubblica della teoria dei tetti e dell’algoritmo JerFil (già capite da dove
viene…). Una ex di Fil che lo vede con le pecore, lo dice alla sorella di Fil,
che ne parla con la famiglia. Padre e madre che cercano di parlare con lui che,
invece, spento il cellulare torna ai suoi boschi. Sua zia Giuliana, la mitica
GiaGiu, che vola a Stanford per incontrarlo ma senza avvertirlo. Non lo trova,
ma trova Jeremy, che le racconta la storia di Fil. Così che Jer sembra anche
preso da questa zia pazzerella (vi prego di leggervi le pagine a lei dedicate,
che sono di una lievità benefica), anche se più grande (ma l’amore potrebbe…).
Mentre quindi Zia Giu vola a Londra per cercare Fil, Jeremy torna a Milano perché
ha bisogno di comprendere, i genitori di Fil volano in California allarmati.
Dove, ovviamente, non trovano Fil, non trovano Jer, e non trovano neanche Giu.
Inciso: non vi sorprendete dei nomi strani e/o storpiati, vezzo di Cantirami
sr., che chiama Gheri la figlia Margherita, Nisina la moglie Annalisa, e via
discorrendo. Anche seguendo tutte le tracce, Giu ed i Cantirami arriveranno
alla tenuta del Duca, dove, ovvio anch’esso, Fil è partito alla ricerca di un
suo sogno privato: un giorno di tre anni prima, aveva incontrato una norvegese,
operatrice ecologica part-time, avevano parlato tutta la notte, poi l’aveva
perduta. Ora, raggiunto il punto di non ritorno familiare, decide di andare
alla ricerca di Stine, seguendo l’unica traccia che ha: il nome di uno sperduto
villaggio norreno. Così, tutto andrà nel verso giusto. Fil trova Stine, la
sposa, fa un figlio, e vivrà il resto della sua vita in Norvegia. I genitori
decideranno di diventare dei nonni comprensivi e lo saranno. Zia Giuliana ogni
tanto fugge dall’opprimente Torino per prendere una boccata d’aria presso il
Duca. Jeremy continuerà a fare il front runner delle teorie economiche. Nessuno
sa niente degli altri, e tanto meno Daniel, il figlio di Fil, che non sa la
vita del padre prima della sua nascita. E noi, ne sappiamo? Se i nostri
genitori, parenti, amici non ne dicono, quanto veniamo a sapere delle esistenze
che non sono la nostra? Certo che torna sempre in mente il magistrale libro di
Barnes su “La fine della storia”. Qui, l’altro elemento che citavo sopra era
quel discorso economico, da approfondire. Non tanto sulla decrescita, quanto
sulla teoria dei “tetti”. I cicli economici hanno dei tetti dove, arrivati, si
comincia a scendere. Il problema è che ogni generazione, per virtù delle
capacità di quelle precedenti, comincia la sua storia in un punto sempre già
più vicino al “tetto”, accorciando così i cicli di benessere. Certo, non siamo
in un libro di Baumann che cerca di darci risposte alle crisi economiche, ma
questo fa riflettere. Perché non è una decrescita forzata dei paesi ricchi che
possa portare a miglioramenti, ma la coppia “da dove cominciamo – dov’è il
nostro tetto”. Per tornare al libro, si sente che sempre dalla barca nel bosco
si parte e si torna. C’è sempre la voglia di trovare mondi, sentimenti,
situazioni pulite, senza compromessi. Anche a costo di buttare tutto o molto
all’aria. Il tentativo è comunque onesto, con alcune punte di interesse (di
situazioni, anche se non approfondite, di paesaggi, anche se solo accennati, di
personaggi, che incontriamo brevemente e vorremmo vedere
di più), ed una sempre più che fruibile scrittura e conseguente lettura.
“Che cos’è la vita che si vuole? … perché …
c’è tanta gente che fa una vita non sua? … Quante ne conosceva, di persone che
passavano la vita a lamentarsi della vita …” (144)
“L’intima soddisfazione di piacere agli
altri … era una particolare forma di felicità, che secondo lei si poteva dire
‘sociale’ … La felicità sociale prende avvio dagli altri, e poi dagli altri si
riverbera sull’individuo, e dall’individuo rimbalza ancora sugli altri: una
specie di onda che, nel suo incessante andirivieni, infonde benefici
tutt’intorno, contribuendo a quella reciproca soddisfazione tra esseri umani
che poi consolida gruppi, crea appartenenze, insomma riempie di senso tutto un
vivere che correrebbe il rischio di parere, altrimenti, vuoto.” (189)
Chiara Gamberale “L’isola dell’abbandono”
Feltrinelli euro 16,50 (in realtà, scontato a 14 euro)
[A: 18/03/2019 – I: 18/03/2019 – T: 20/03/2019]
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[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 217; anno 2019]
Con questo libro, si inaugura una nuova
sezione di lettura, dedicata a libri “novità”. Libri usciti da poco, che stanno
avendo successo di gradimento, per cercare, anche, di svecchiare il panorama di
lettura. Per questo, almeno per ora, cercherò mensilmente un libro nuovo cui
dedicherò una lettura ed una trama immediata. Inauguro questa nuova idea con
l’ultimo libro pubblicato da Chiara Gamberale, scrittrice comunque già presente
con molti titoli nella mia biblioteca. Che spesso, nelle sue prime uscite, mi è
piaciuta anche per quelle incursioni psicologiche che hanno toccato corde a me
vicine. Cito soprattutto “La zona cieca” che qualcuno dei miei sodali ricorderà
nel quadrante di Johari. Pur sempre presente, il lato psicologico si è andato
allontanando dai miei interessi, ed anche qui, sebbene una delle spine dorsali
del romanzo, non mi ha coinvolto come un tempo. La scrittrice, sia a seguito
dei programmi radiofonici sia delle frequentazioni con il pur ottimo Massimo
Gramellini, si rivolge sempre più ai rapporti interpersonali, alle dinamiche
specialmente di coppia, ma non mi ha dato, anche in questo caso, un grosso
coinvolgimento. Certo, l’idea è interessante, la scrittura abbastanza piacevole,
eppure qualcosa è rimasto per strada. Pur sapendo che la scrittura riflette,
direttamente o in modo criptico, ma riflette la vita dello scrittore, ho
affrontato questa lettura volutamente ignorando la storia di vita di Chiara, ed
i suoi mutamenti. Ho preso il libro, ho iniziato a leggerne, e sono rimasto
piacevolmente coinvolto da alcune situazioni. Innanzi tutto, perché la
protagonista Arianna mi ha rimandato alla mia amica Luana, anche lei, seppur in
modo diverso, nel mondo dei fumetti. Di diverso tipo, di diversa attitudine
(c’è chi scrive e chi disegna), ma molto rivolti ad un pubblico giovanile. Ma
questa è la storia di Arianna e non di Luana. Una storia che, per mio
dispiacere, si svolge spesso con su e giù temporali, cosa che non sempre riesco
a digerire nei romanzi. Ma che ormai risulta una modalità molto in voga. Per
far tornare la mia trama in modo lineare, vedo Arianna in un rapporto
assolutamente distorto con Stefano. Lei succube, lei innamorata delle luci che
ogni tanto cadono dal “mondo Stefano”. Ma Stefano è fondamentalmente
concentrato solo su sé stesso, sul suo piacere, dove dà per scontato che,
qualunque cosa faccia, Arianna c’è. Stefano tuttavia ha anche bisogno di cure,
ed è qui che entra in gioco lo psichiatra Damiano, che lo prende in cura, che
riesce, non sempre, non totalmente, a farlo uscire dalla ciclotimia endemica
che lo attanaglia. Sembra andare tutto bene, e Stefano e Arianna decidono di
andare in vacanza a Naxos. Che sarà il punto centrale della vicenda. Perché
Naxos è l’isola dell’Arianna di Teseo, l’isola da cui nasce il detto “piantare
in asso” (guardate bene l’assonanza asso-Naxos, come corruzione di “piantare in
Nasso”). Non entro nel ben noto mito di Teseo, ma è a Nasso che Stefano, smesse
le medicine, ha una crisi esistenziale, e pianta lì la povera Arianna, fuggendo
a Londra con la sua nuova amante Cora. Arianna cerca di raccogliere i suoi
cocci, rimanendo basita nell’isola, ed uscendone quando trova il surfista Di
(citato sempre con l’iniziale). Con cui intreccia una nuova ed appagante
storia. Una di sesso e condivisione senza tutte le paturnie “stefanoidi”. Dura
quattro-cinque mesi, poi (noi già lo sappiamo dai su e giù temporali, quindi
niente anticipazioni immotivate) Stefano muore, Arianna fugge da Naxos, va in
cura da Damiano, e dopo poco ne diventa amante. Benché questi sia sposata e non
abbia intenzione di lasciare la moglie. La crisi, che dà origine al libro, e
che viene descritta nelle prime pagine, avviene quando, dopo nove anni di
questa storia, Arianna rimane incinta e partorisce Emanuele (inciso, perché
questo lo so, Emanuele è il nome del primo marito di Chiara). Damiano lascia
formalmente la moglie, ma Arianna si accorge che poi continua a frequentarla
(forse anche ad andarci a letto). Arianna ha bisogno allora di riflettere, su
sé stessa, su Emanuele, su Damiano. Così dopo dieci anni manda una mail a Di,
che (incedibile!) risponde (e dopo dieci anni ha ancora la stessa mail…). Lui è
rimasto a Naxos, dove si è sposato ed ha tre figli. Ma Arianna pensa (e con giustezza)
che debbano rivedersi. Cosa che fanno a Naxos, dove, anche se ognuno con la sua
vita diversa, hanno un lungo rapporto verbale e fisico che mette (dovrebbe
mettere) i puntini su tutte le “i” del romanzo. La fine del romanzo è una fine
reale, ma non vi dico quale tra le diverse possibili: Arianna e Di vanno a
vivere insieme, Arianna e Di continuano le loro vite, Arianna lascia Damiano e
va a vivere da sola mentre Di rimane con la moglie. E tanti altri possibili
intrecci. Quello su cui torno, al contrario, è l’esame dei rapporti e l’idea
del titolo che porta un senso a tutto il testo. Perché è tutto giocato su Naxos
e sull’abbandono: Stefano abbandona Arianna, Arianna, partorendo Stefano,
abbandona il suo egocentrismo da sofferenza per aprirsi ad un altro, il figlio,
Damiano abbandona la moglie, Di non abbandona Naxos, dove rimane per dieci anni
a gestire ristoranti. Quindi Naxos diventa l’emblema dell’isola in cui si
abbandona, con buona pace anche dei miti di Teseo, non sempre concordi. L’altro
grosso problema sono i rapporti. Soprattutto quelli di Arianna con… Che con
Stefano vive una passione “succube”, dove si aspetta un momento di luce per
rischiarare anni ed anni di buio. Che con Di vive una passione “solare”, senza
se e senza ma, ma anche senza futuro. Momenti magici, che se si ha la fortuna
di vivere è ben e bello lasciarli lì. Che con Damiano vive una passione
“piana”, che si alza e si abbassa solo quando il corpo di Arianna diventa
materna, quando arriva Emanuele, quando c’è una persona che, realmente, dipende
solo da lì (come sono i bambini nei primi mesi di vita). Penso che alla fine
sia un libro la cui lettura non guasta, che stimola qualche neurone, anche se
in modo traverso, e che Chiara è un po’ come il suo personaggio dei fumetti:
“Pilù che va su e giù”.
[A: 25/12/2016 – I: 01/07/2019 – T: 11/07/2019] - && --
[tit. or.: The Goldfinch; ling. or.: inglese; pagine: 892; anno 2013]
In effetti, sono rimasto abbastanza deluso da
questo libro, di cui mi aspettavo qualcosa in più. In primis, perché avendo
vinto il Premio Pulitzer per la letteratura nel 2014, ed avendo io letto altri
libri insigniti da questo premio, ho sempre avuto un ritorno quanto meno interessante,
in termini di lettura e di stimoli, da questi libri. E secondariamente perché
avevo letto che l’autrice essere una prominente, benché poco prolifica autrice,
utilizzante nei suoi scritti uno stile neoromantico, contrastante la tendenza
minimalista degli ultimi grandi autori americani. Ma le mie aspettative sono
rimaste deluse. Il libro non ha certo il respiro e la presa dei precedenti
premiati (citando quelli da me letti, “La strada” di Cormac McCarthy nel 2007,
“La breve favolosa vita di Oscar Wao” di Junot Diaz nel 2008, “Olive
Kitteridge” di Elizabeth Strout nel 2009 o “Il tempo è un bastardo” di Jennifer
Egan nel 2011). Né la lunghezza riesce a sopperire la mancanza di
coinvolgimento con il lettore. Non ultimo, nel mio poco incline giudizio, il passaggio
“fittizio” che genera il romanzo, ruotante al dipinto “Il cardellino” di Carel
Fabritius. Perché se il dipinto è reale, nel corso del tempo non si è mai mosso
dall’Olanda, quindi ipotizzarne la presenza all’interno del Museo dove la vita
del protagonista subisce il suo dramma fondante è quanto meno azzardoso. Perché
il tredicenne Theodore Decker detto Theo, in attesa di essere sospeso per aver
fumato a scuola, va con la madre al Museo. Lì, rimane solo un istante, a
guardare una bella ragazzina con il nonno, ed il quadro di Fabritius. In quel
mentre scoppia una bomba, muoiono la madre ed il signore anziano. E Theo si
salva fuggendo non si sa come, ma portando con sé il dipinto del maestro
olandese. Maestro che avrebbe potuto avere una lunga carriera, ed onorata, se
non fosse morto per lo scoppio di una fabbrica di munizioni in quel di Delft
nel 1654, a soli 33 anni. Fabritius era uno dei più promettenti allievi di
Rembrandt, e di sicuro esercitò una forte influenza sui pittori basati a Delft,
in particolare su Vermeer. “Il cardellino”, forse il suo ultimo lavoro, dopo
vari acquisti, si trova ora nel museo de L’Aja. Theo avrà delle grosse
difficoltà a riprendersi dalla morte della madre, prima di tutto perché il
padre è da tempo scomparso, e lui si ritrova solo. Verrà ospitato dalla
famiglia di un suo coetaneo, Andy. Lì, nella famiglia Barbour, pur risentendo
della morte della madre, comincia a ricostruirsi. Sempre tenendo con sé, seppur
senza dirlo a nessuno, il quadro. Un po’ lavorando su sé stesso, un po’ aiutato
da Andy, un po’ dalla madre Barbour, ed un po’ dalla piccola sorella di Andy,
Kitsey. Riesce anche a ritrovare la signorina fugacemente incontrata al Museo,
quella con il signor anziano morto. Pippa è ferita seriamente, ma in via di
guarigione, anche se dovrà andare via, prima dalla zia antipatica, poi in un
collegio in Svizzera. Theo, con tutti questi piccoli incontri, sarebbe quasi
avviato alla normalità, se all’improvviso non si presentasse il padre, che vive
di espedienti in quel di Las Vegas, insieme alla procace Xandra. Padre che
prende Theo, lo sradica dalla costa Atlantica, e se lo porta ai margini del
deserto. Dove l’unico modo di sopravvivere per Theo è legarsi all’unica persona
decente di tutto il circondario. Il suo coetaneo immigrato russo Boris. Che ben
presto gli insegna a bere, a farsi le canne, a riempirsi di pasticche. Insomma,
i due si divertono, anche se non con una direzione “pulita”. Anche qui Theo
dovrà ben presto prendere una decisione, che il padre muore d’infarto. Che fare?
Rimanere o tornare? Ovvio la scelta è la seconda, anche se deve abbandonare
Boris. Tornato a New York, trova finalmente la sua strada nel negozio di
antiquariato di Hobie, il socio dell’anziano morto. Lì cercherà di far capire a
Pippa il suo amore, non riuscendoci mai. Lì comincerà traffici loschi vendendo
falsi ben congeniati. Lì verrà ritrovato 8 anni dopo da Boris. Che gli
confesserà candidamente che 8 anni prima gli aveva rubato il quadro, senza che
Theo se ne accorgesse. Boris che è entrato a piè pari nel business della mala
vita, e che ora cerca di coinvolgere il nostro nel recupero del quadro. Qui
cominciano un paio di centinaia di pagine di una inutilità straordinaria.
Intanto, Theo si è fidanzato con Kitsey e tende a sposarsi, anche preso dal rimorso
di aver abbandonato anche Andy, morto inopinatamente in mare insieme al padre.
Boris convince Theo a venire con lui in Olanda, dove, al netto delle canne di
Amsterdam, si inscena un lungo braccio di ferro tra malavitosi, comprese fughe
e sparatorie. Dove Theo, ogni tanto, si ferma e comincia a rifare pippe su
pippe sulla sua vita miserrima. Alla fine della parte finto-thriller, “Il
Cardellino” viene recuperato, con i soldi del recupero che Boris cede a Theo,
questi inizia un giro di quasi un anno per recuperare tutti i falsi da lui
venduti. Farà la pace con Hobie che quasi lo aveva buttato fuori dopo la
scoperta dello scandalo, non si rassegnerà mai al fatto che Pippa non lo ami, e
probabilmente prima o poi sposerà non amandola Kitsey. Ma a che serve tutto
ciò? E soprattutto, perché dobbiamo sorbirci quasi 900 pagine per seguire
vicende strampalate, forse ben descritte, ma di sicuro poco coinvolgenti.
Vediamo tutto il percorso scoiale di Theo, dalla semi-indigenza quando sta con
la madre senza soldi, ma contento, all’agiatezza con la famiglia Barbour, ma
dove non è contento. Alla precarietà della vita con il padre (e verso il quale
non farà mai pace), rimarcata dalla instabilità che gli crea Boris. Alla
serenità del lavoro con Hobie, ma anche all’irrequietezza che lo porta sulla
strada della vendita dei falsi e dell’inganno verso i clienti di Hobie.
Rimangono tutte quelle pagine tra Amsterdam e Francoforte che si fa fatica a
leggere. Ed alla fine ci si domanda, dopo tutto quello che ha passato, chi è
realmente Theo? È un buono sfortunato o un coglione patentato? Quale senso
recondito ha il suo talismano iconico, quel quadro che forse rappresenta la
bellezza che ci può salvare dalle brutture del mondo? Ma tutte le riflessioni
che Donna mette in bocca a Theo non mi smuovono dal giudicarlo un libro
sopravvalutato e sovradimensionato. Sono comunque curioso di vederne il film
che uscirà a fine anno.
“Il vincolo che fa di noi dei padri e dei figli
risiede nel cuore, e non nella carne e nel sangue. (Schiller)” (495)
“Quello che ti serve per vivere ed essere felice è
una donna che abbia la sua vita e ti permetta di vivere in pace la tua.” (689)
Simona Vinci “In tutti i sensi come
l’amore” Einaudi s.p. (prestito di Fako)
[A: 22/12/2017 – I: 28/08/2019 – T:
07/09/2019] - & e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 196; anno 1999]
Sono sempre grato al mio amico Roberto che mi offre
spunti di riflessione in tutti suoi prestiti, anche qui, in un libro che non ho
amato e che non mi è piaciuto. Lo avevo portato in un viaggio guatemalteco,
ingannato dal titolo, pensando che nel caldo e nel colore centroamericano avrei
avuto modo di riflettere sull’amore, come dice il titolo. In tutti i sensi, e
con tutti i sensi. Peccato che io non legga mai prima la quarta di copertina, e
che quindi sia stato sorpreso, lì nel sole di Antigua nel trovarmi tra le mani
un libro di racconti. Perché, e lo sapete, i racconti sono difficilmente una
cifra consona alla mia lettura, mi lasciano spesso spaesato, mi lasciano troppo
presto, prima che ne prenda il ritmo. E pensare che avevo idea di trovarmi con
la Simona Vinci di quel bellissimo racconto lungo letto più di dieci anni fa.
Un libretto sulla solitudine e sull’isolamento, un libretto sulla differenza
tra questi due estremi, che mi trovò consono ed assiduo difensore di
quell’immagine espresse in quelle pagine (se non si sta bene con sé, non
si sta bene con gli altri). Qui temporalmente, rispetto a quello scritto,
facciamo quasi un passo di altri dieci anni all’indietro. Vinci ha 29 anni, ha
scritto un ottimo libro di esordio, e sta esplorando tutte le potenzialità della
scrittura. Cimentandosi, allora, con una cosa che lei stessa confessa di non
riuscire a definire: l’amore. Allora, per non definirlo, si cerca di aggredirlo
in qualche modo, ad esempio con i sensi. Con il tatto, con il gusto, con
l’olfatto. Così che spesso, aggredito e sezionato, l’amore può non essere quel
dolce compagno che affianca “i buoni sentimenti”. Così che, e la scrittrice qui
certo riesce a farcelo vedere, spesso si accompagna con il suo alter ego. Eros
e Thanatos, quasi nell’accezione freudiana, dove si contrappongono ma si
sostengono a vicenda l’impulso vitale e l’autodistruzione. Uniti e diversi per
ricreare il reale. Così come, saltando altrove, nei dolentissimi dipinti di
Schiele, dove il pittore sa che tutto ciò che vive è anche morto. Si pensi al
dipinto “La madre morta”. Ma torniamo al libro ed ai suoi racconti. Che
esplorano il corpo umano, lo spirito dell’amore. Per arrivare a dirci che
conoscere i sensi (quindi l’amore) non è il trionfo dei sensi (cioè gioia e
felicità). Rimangono immagini dei tredici passi verso l’infelicità. Non tutti,
che alcune pagine si sono rifiutate di entrare nella mia memoria, per
l’alienità del loro discorso. Penso alla trasfigurazione corporea operata dal
chirurgo sulla ragazza. Altre, appunto, restano. Il viaggio lunga una costa
marina, credo toscana se ben ricordo (e le coste toscane evocano sempre
pensieri positivi nel mio immaginario personale) di una madre ed una figlia, in
un’estate che sta scolorando nell’autunno. La figlia tattile, che raccoglie
conchiglie in una busta gialla. La madre che osserva e pensa a tutto quanto
possa accadere di male alla figlia: di vederla annegare, di vederla andar via.
Lacerata tra la paura del pensiero e la voglia di libertà. La stanza d’ospedale
dove un ragazzo viene consumato a morte da una malattia che non conosciamo ma
sappiamo letale. Così che non può far altro che aggrapparsi ai ricordi, alle
visioni, magari a quella ragazza che abitava vicino. Con la sensazione che
avvicinandosi l’addio definitivo, tanto vale fare quel gesto che non aveva mai
osato fare. Se non parlarne, almeno scrivere. E lo stupore quando la ragazza si
affaccerà alla soglia. Il musicista che scopre le fotografie che la moglie fa
al suo corpo, così da poterne vedere i cambiamenti nel corso degli anni. Guardando
le foto, il nostro si domanda cosa la moglie vede in lui, cos’è che di lui, del
suo corpo lei ama. La donna che sa di essere poco piacente (qualcuno
politically incorrect direbbe brutta decisamente) che sa cosa vuole e sa cosa
vuole l’uomo che sta di fronte a lei. Un difficile esercizio di estraniazione
ed immedesimazione. A volte sappiamo cosa vogliamo, anche dall’amore, anche dal
sesso. Ma non sempre riusciamo a tirarlo fuori, ad esprimerlo. Con quella
franchezza ed ingenuità di cui direbbe la mia mentore di venti anni fa, laddove
cosa di meglio che porre domande, così da poter affrontare risposte. Ecco,
piccole visioni che affiorano, in una tavolozza complessa che, e lo ribadisco,
non mi è piaciuta, ho faticato a leggerne, pur nella brevità. Perché, ed è un
mio limite, se non trovo un elemento in cui trasferire il me stesso lettore,
non riesco ad assaporare tutto il gusto della lettura. Chissà se la scrittrice
di Budrio in altro è riuscita a ridarmi quanto mi aspettavo desse.
Terza trama di ottobre, ed eccovi allora
qualche rimedio veloce per sintomatologie poco profonde.
Per il
resto continuiamo ad andare avanti nel mese compleannico, con un numero
spropositato di bilance (anche se, fortunatamente, è anche il mio ascendente),
ed un accenno di scorpioni. Ricordando, molto nella memoria, in fondo, che ieri
mamma avrebbe fatto 95 anni, ed augurando a tutti di raggiungere quel traguardo,
vi saluto.
I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia
Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
OTTOBRE 2019
Citazioni veloci di libri che servono a curare (in modo
forse troppo palliativo) malumori momentanei.
SOLUZIONI
A RILASCIO RAPIDO
LIBRI CITATI:
MATILDE di ROALD DAHL (1988)
“Il giardino segreto” di Frances H. Bumett (1910)
“Il leone, la strega e l’armadio” di C.S. Lewis (1950)
“Nicholas Nickleby” di Charles Dickens (1838)
“Oliver Twist” di Charles Dickens (1837)
“Jane Eyre” di Charlotte Bronte (1847)
“Orgoglio e pregiudizio” di Jane Austin (1815)
“Tess dei d’Urberville” di Thomas Hardy (1891)
“Kim” di Rudyard Kipling (1901)
“Il vecchio e il mare” di Ernest Hemingway (1952)
“L’uomo invisibile” di H.G. Wells (1896)
“L’urlo e il furore” di William Faulkner (1929)
“Furore” di John Steinbeck (1939)
“La roccia di Brighton” di Graham Greene (1938)
“La fattoria degli animali” di George Orwell (1945)
MATILDE di ROALD DAHL (1988)
“Il giardino segreto” di Frances H. Bumett (1910)
“Il leone, la strega e l’armadio” di C.S. Lewis (1950)
“Nicholas Nickleby” di Charles Dickens (1838)
“Oliver Twist” di Charles Dickens (1837)
“Jane Eyre” di Charlotte Bronte (1847)
“Orgoglio e pregiudizio” di Jane Austin (1815)
“Tess dei d’Urberville” di Thomas Hardy (1891)
“Kim” di Rudyard Kipling (1901)
“Il vecchio e il mare” di Ernest Hemingway (1952)
“L’uomo invisibile” di H.G. Wells (1896)
“L’urlo e il furore” di William Faulkner (1929)
“Furore” di John Steinbeck (1939)
“La roccia di Brighton” di Graham Greene (1938)
“La fattoria degli animali” di George Orwell (1945)
Se non credete fino in fondo che un libro possa considerarsi
una medicina in grado di alleviare dolori e malumori, e non siete del tutto
persuasi che una storia di fantasia possa influenzare la vostra storia, siete
affetti da una spiacevole forma di scetticismo letterario che potrebbe incidere
negativamente sulla riuscita della biblioterapia. La collaborazione del
paziente e la fiducia nella cura sono fondamentali ai fini della guarigione. In
caso presentaste questo disturbo, vi consiglio di iniziare il percorso
terapeutico proprio da questa sezione in cui trovate alcuni romanzi che
dimostrano il potere della letteratura nel modificare la nostra vita.
Lasciatevi contagiare dalla loro influenza e scoprirete che, se i libri non
cambiano il mondo, possono cambiare le persone. Possono cambiare noi. E noi, se
ci applichiamo, possiamo provare a cambiare il mondo.
MATILDE di ROALD
DAHL
Dato che lo scetticismo è una malattia da combattere fin da
bambini, cominciamo le iniezioni di fiducia nella biblioterapia con questo
classico per l’infanzia di Roald Dahl. Matilde è una bambina fuori dal comune,
dotata di una grande intelligenza e una profonda sensibilità nonostante un
padre disonesto, una madre che pensa solo a giocare a bingo e un fratello
teledipendente, come tutta la famiglia. La piccola, invece, ha sviluppato fin
dalla più tenera età un’altra forma di dipendenza considerata un vizio dai
genitori: la lettura. A tre anni ha imparato a leggere, da sola ovviamente, e
da allora è diventata una divoratrice di romanzi (adora in particolare Dickens)
con cui cerca di soddisfare la sua insaziabile e curiosa sete di conoscenza.
Assidua frequentatrice della biblioteca, quando arriva a scuola lascia di
stucco la maestra Dolcemiele per la capacità di fare calcoli complicatissimi.
Detestata a casa perché diversa, angariata a scuola insieme agli altri compagni
dalla perfida direttrice Spezzindue, per difendersi la piccola Matilde può
contare sull’unica arma a sua disposizione, la più potente: l’intelligenza, con
la quale orchestra scherzi punitivi. Quando poi la sua rabbia verso ogni forma
d’ingiustizia e prevaricazione sfocia in una sorta di elettricità che le guizza
dagli occhi, un potere magico che le consente di spostare gli oggetti con lo
sguardo, la piccola si trasforma in una paladina contro tutti i prepotenti. Con
il suo inconfondibile stile diretto, semplice e ironico, Roald Dahl racconta
come intelligenza e cultura siano le uniche armi pacifiche con cui dichiarare
guerra all’ignoranza e alla cattiveria. I libri aprono la mente e lo sguardo,
rendendoci più forti, coraggiosi e capaci di cambiare le cose. Leggere è una
forma di ribellione che può salvarci ogni volta che ci sentiamo deboli o
piccoli, un antidoto contro ogni forma di cattiveria che deriva sempre
dall’ottusità e dalla miopia. Notoriamente Roald Dahl è uno scrittore dalla
parte dei bambini e nei suoi libri cerca in tutti i modi di difenderli dal
contagio di quei virus di cui gli adulti sono portatori insani: mancanza di
fantasia, egoismo, prepotenza e supposta onniscienza. Matilde si rivela
efficace anche per rassicurare i bambini che la diversità è un bene, per
convincerli che la teledipendenza rende ottusi e lenti come gli adulti e per
aiutarli a capire che bullismo e violenza sono le armi degli stupidi. Per
queste ragioni e per il modo impietosamente sincero ed esilarante con cui Dahl
descrive i grandi, se ne prescrive la lettura anche agli adulti. Se i piccoli
lettori ci prendono gusto, proponete loro altri romanzi dell’autore a
cominciare, parlando di gusto, da “La fabbrica di cioccolato”. Occhio perché i
romanzi dello scrittore inglese possono dare dipendenza anche nei bambini al di
sopra degli otto anni, rappresentando una bombola di ossigeno e di gas
esilarante.
Matilde passa interi pomeriggi a leggere in compagnia di una
tazza di cioccolato. Questo potrebbe essere un goloso éscamotage per invogliare
i bambini a trascorrere il tempo in maniera diversa, traendo piacere perfino
dalla solitudine della lettura. Ma se verranno contagiati dal morbo
dell’inguaribile lettore, scopriranno presto che chi legge non è mai solo.
Matilde, per esempio, è un’ottima amica e compagna di viaggio perché, come dice
Roald Dahl, «i libri le aprivano mondi nuovi e le facevano conoscere persone
straordinarie che vivevano una vita piena di avventure. [...] Girava il mondo
seduta nella sua stanza».
Qualche consiglio: tra i libri letti da Matilde, l’autore
cita in particolare: “Il giardino segreto” di Frances H.
Bumett, uno dei suoi preferiti, “Il leone, la strega e l’armadio” di C.S.
Lewis, il cui unico difetto è di non essere divertente, “Nicholas Nickleby” e “Oliver
Twist” di Charles Dickens, “Jane Eyre” di Charlotte Bronte, “Orgoglio e
pregiudizio” di Jane Austin, “Tess dei d’Urberville” di Thomas Hardy, “Kim” di
Rudyard Kipling, “Il vecchio e il mare” di Ernest Hemingway, “L’uomo invisibile”
di H.G. Wells, “L’urlo e il furore” di William Faulkner, “Furore” di John
Steinbeck, “La roccia di Brighton” di Graham Greene, “La fattoria degli animali”
di George Orwell. Li avete letti? Che aspettate?
Nel 1996 Danny De Vito ha portato il libro sullo schermo con
alcune differenze ma mantenendo intatto il suo messaggio.
Commenti
Dei 15 citati ne ho letti poco più della metà, e molti in
tempi molto antichi. Vediamo cosa rimane.
John Steinbeck
“Furore” Repubblica Novecento euro 4,90
[pubblicato il 12 febbraio 2012]
Sono ben due settimane che mi porto appresso questo librone
del Premio Nobel 62. Certo, le 400 e passa pagine hanno il loro peso. Ma anche
la scrittura e la trama in sé. Non che siano pese, come direbbero i miei amici
toscani. Di certo non sono agili, ma lo sforzo meritava questa interessante
lettura. Non lo inserisco nel mio olimpo privato, che molto risente dei
settanta anni trascorsi. Pur tuttavia ha fascino. E da certi punti di vista,
permette di guardare al mondo odierno e di darne qualche chiave di lettura.
Cosa chiedere di più ad un, tutto sommato, buon libro? Cominciamo dal titolo,
forse il punto più dolente. Certo, “Furore” è entrato nell’immaginario
collettivo, ed è inscindibilmente legato alla tipologia di vicenda delle
rivolte dei poveri senza futuro. Ma anche “I frutti della collera” come recita
il titolo originale, non è che fosse lontano da una bella descrizione del
contenuto. Tra l’altro con cognizione, essendo una citazione tratta
dall’Apocalisse. La scrittura di Steinbeck, poi, consente di capire al meglio
un grande numero di scrittori, o tipologie di scrittori, americani di oggi. C’è
questo suo alternare i capitoli: quelli dispari parlano in generale, esaminano
teorie e fatti universali, mentre quelli pari seguono le vicende della famiglia
Joad, presa a campione di tutte le famiglie americane che attraversano questo
grande momento di crisi, che saranno gli Anni Trenta sul suolo americano. E
queste due scritture, ci fanno capire le tirate morali di DeLillo, la scrittura
dura di Cormac McCarthy, l’impegno sociale dei radical, il minimalismo
post-carveriano. Insomma, si potrebbe prendere il libro e tenerlo come
antologia di migliaia di scrittori americani che hanno scritto dal ’40 ad oggi.
La parte sociale pecca a volte di ingenuità e buonismo, ma pone domande forti
ed apre grandi piaghe: banche, grandi società, con la forza del denaro e con
l’industrializzazione forzata delle campagne, invece di riconvertire i modi di
produzione, preferiscono creare nuovi poveri, che sono più facili da manovrare,
da mettere uno contro l’altro. E far arricchire di più i già ricchi. Che quando
queste masse di senza lavoro, scacciati dalle loro terre, come i Joad
dall’Oklahoma, cercano nuovo lavoro nelle piantagioni californiane, i grandi
produttori non fanno altro che sfruttarne la miseria per avere mano d’opera a
basso prezzo. E poiché se si ha fame si accetta di tutto, questi nuovi poveri
non hanno la forza, la capacità, di organizzarsi, che solo facendo fronte comune
potrebbero arginare l’arroganza del potere. Arroganza ribadita dal potere
costituito. Che polizie ed altre istituzioni da una parte applicano la legge,
facendo sì che i poveri non accedano a strutture di sussidio. Dall’altra si
schierano comunque con il potere, con il più forte, con il denaro, e quindi
arrestano e spesso uccidono chi tenta di ribellarsi, chi tenta di unificare le
debolezze. Come non leggere in controluce (e fatte le debite proporzioni dovute
al cambiamento della società da agricola ad industriale; o a preindustriale,
che se leggiamo bene, sacche di arretratezza italiane e greche attuali, ancora
lì sono ancorate) guasti dei modelli attuali. Lì il denaro comperava le terre,
e se ne serviva per altro. Qui il denaro compera il denaro, ma anche qui il
risultato finale è identico. Certo, la critica di Steinbeck è ancorata al New
Deal rooseveltiano. Ma fatta salva la prospettiva storica, il suo anelito a far
fronte comune è sempre attuale. Tutta la storia poi, è riversata nel concreto
con l’epopea della famiglia Joad. Espropriata della terra, come molti
agricoltori dell’Est decide la grande traversata verso la California,
attraversando su macchine di fortuna più di 3000 km. La maestria di Steinbeck è
di far vivere alla famiglia tutti quei momenti di cui parla nei capitoli
dispari. L’arroganza delle banche, il depredare povero su povero vendendo
macchine scadenti, la fame, il ladrocinio dei proprietari californiani. Ed
anche le miserie private: la morte di dolore dei nonni, il ribellarsi di Tom,
il maturare di Al, la sfortunata gravidanza di Rosa Tea. Su tutto, quasi ad
ergersi come baluardo, la presa di coscienza della madre, che a poco a poco
diviene il bastone della famiglia, senza la quale tutto potrebbe andare a
rotoli. Ma è lei che tiene uniti (appunto l’unione di cui sopra), ed è lei che
fa vedere la possibilità che in fondo al tunnel ci sia la luce. Sempre e
soltanto se si tiene in vita la luce della solidarietà. Insomma, è un bel
libro, faticoso non nego, ma pieno di parole che ci fanno riflettere. E cosa
chiedere di più? Due notazioni per finire: la prima è musicale, come non
ricordare il bellissimo album di Bruce Springsteen dedicato all’eroe del
romanzo (“The Ghost of Tom Joad”); la seconda è di scrittura. Chi, se non un
alto conoscitore delle lingue, per descrivere i rovi che si attaccano alla lana
delle pecore potrebbe usare le seguenti parole: “i raffi rovi roncigli”? E come
sarà l’originale?
William Faulkner “L’urlo
e il furore” Repubblica Novecento euro 4,90
[pubblicato il 10 giugno 2012]
Come dice
sempre il nostro buon Baricco, la sua è una scrittura potente. Ma riconosciuto
questo pregio, non posso proprio dire che il libro mi sia piaciuto. Soprattutto
l’impostazione del flusso di parole, che è debitore, e tanto, del travolgente
modo joyciano di portare le ondate di parole che fluiscono in testa sulla
carta. Non riesco a seguirlo in Joyce, come non riuscivo a seguirlo nel più
tardo, ma di analoga impostazione, ‘Cassandra’ della Wolfe. Certo, Faulkner si
dimostra un maestro in questo ma io fatico ogni volta ad arrivare al fondo
della pagina. Dicevo maestro che, anche se ribadisco le difficoltà, ti fa capire
quello che succede, quello che vuole dire. Certo, ben difficile è il primo
brano dove entriamo nella testa di Benjamin, il figlio “disabile” come si dice
ora. In realtà, muto e con problemi psichici. E Faulkner riesce a buttare di
getto (per noi lettori) 60 pagine che ci fanno entrare con tutte le scarpe
nella difficile testa di Benji, dove gli avvenimenti si accavallano, i tempi
della vita non seguono il loro ordine, ma arrivano a sprazzi, e poi, noi,
ordinati lettori, li ricomponiamo in una descrizione di quanto avviene in quei
tre giorni di aprile. Più lineare il flusso di Quentin, quando facciamo un
salto di quasi venti anni indietro, e, pur nell’accavallarsi di parole, capiamo
che quel Quentin lì, anche lui dovrebbe avere dei problemi. Certo, non è matto
come un cavallo come il fratello, ma qualche turba, tra lui e la sorella
Candace ci deve essere stata. Tanto che prima intuiamo, poi ci viene detto, che
di lì a poco, il buon Quentin si butta a fiume. Ancora più lineare, proprio
perché pare sia l’unico non disabile della famiglia, sarà seguire i
ragionamenti di Jason, il fratello rimasto. Che diventa, per me, il centro di
tutto l’odio che si poteva concentrare sulla pagina, non mi piace quello che
fa, non mi piace come lo fa, non mi piace come ragiona. Insomma, è l’unico che
vedrei soffrire con piacere, ed alla fine, invece, è l’unico che sembra uscirne
fuori con la testa sulle spalle. Poi un penultimo capitolo in forma
descrittiva, dove si tirano un po’ le fila dei discorsi. In cui vediamo agire in
primo piano anche i negri di Jefferson, quelli che servono la famiglia Compson.
E che sembrano avere, nella loro umiltà, gli unici piedi per terra di tutto il
lungo urlo. Perché è tutto un grande urlo il libro. Un urlo pieno di furore,
per la vita, per le difficoltà, per l’ignoranza. Faulkner ci mette di tutto, di
più. Perché vediamo lo sgretolarsi di una cosiddetta grande famiglia dell’America
del Sud. Siamo anche all’avvicinarsi della grande crisi del ’29, che finirà per
dare mazzate a chi non ha avuto lungimiranze di tirarsi su le maniche e
cominciare dal basso, da molto in basso. Una famiglia piena di problemi
psicologici. Un padre debole, che si ritira ben presto intorno alle bottiglie.
Una madre che prende i colpi della vita con mestizia senza reagire, anzi quasi
a voler esserne contenta (si fa per dire), come se ci fosse un grande disegno
di castigo divino in tutto quello che succede. Che hanno quattro figli. Il
primo ritardato, turbato e mai aiutato (anzi, il più delle volte lasciato alla
pietà dei servitori). Il secondo, quello intelligente, ma ossessionato dal
peccato, dalla morte e dalla sorella minore, con la quale non si sa se commette
o sogna di commettere atti impuri. Fatto sta che poi si butta nel fiume. La
terza, la sorella, che, come dice il fratello minore, “essendo donna è una
puttana”, diventa di facili costumi (sembra o si dice), ha una figlia fuori dal
matrimonio cui mette il nome del fratello suicida (ci sarà un motivo?) e poi,
in seguito ad un paio di divorzi, viene bandita dalla famiglia. I critici ben
informati ci dicono che lei è il vero centro del libro. Sarà… E poi c’è
l’ultimo, il piccolo Jason, che fa una serie di azioni per me ignobili, ma che
essendo l’ultimo maschio di casa “deve” essere servito e riverito. Finché la
madre muore, lui Jason, prende il potere, si sbarazza del fratello matto, ed
avrà una serena (per lui) seconda parte della vita. Ma questa fine la
ritroviamo solo nell’appendice, dove Faulkner decise (su pressione degli
editori) di scrivere le storie dei vari personaggi così da dare ordine al
flusso di coscienza. Ed è la parte peggiore. Perché spiega! Non si può spiegare
un’emozione. O la si capisce, o non è un’emozione da ricordare. Insomma, certo
alla fine viene fuori un potente quadro della pessima vita del Sud degli Stati
Uniti, così come in (pare) tutte le opere di Faulkner. Di cui ho letto con
questo un paio di cose. E mi basta. Non credo che tornerò a frequentarlo.
Frances Hodgson
Burnett “Il giardino segreto” DeAgostini euro 10,90 (in realtà, scontato a 1,64
euro)
[pubblicato il 03 settembre 2017]
Non
poteva mancare di essere letto, prima o poi, questo libro. Pietra miliare dei
libri per l’infanzia, anche se poco diffuso in Italia. Dove, ad esempio,
l’autrice è forse più nota per “Il piccolo Lord”. Sia i libri felici che i
libri curativi ne consigliavano la visione. Ed io sapevo, nelle pieghe della
mia memoria, che ne avevo scorso dei pezzi in qualche edizione “antica” ed ero,
moderatamente, curioso di leggerne. Cosa dire a valle della lettura? Pur avendo
più di 100 anni, se preso nella sua giusta visione filologica ed educativa, è
ben congeniato, e discretamente utile ad un pubblico giovane. Dirò di più: può
essere un’utile lettura anche ad un pubblico adulto che non voglia chiudere gli
occhi alla magia dell’adolescenza (o dell’infanzia) e che può prendere spunto
per rapportarsi alle giovani generazioni in modo comprensivo ed empatico.
Certo, confrontandolo con l’originale, si nota che la versione “per ragazzi”
della DeAgostini qualcosa taglia. Ma rimane la freschezza e lo spirito con cui
fu scritto. Seppur quindi con occhio adulto, non possiamo far meno di seguire
la piccola, viziata e non amata Mary Lennox, dall’India natia sino al veloce
ritorno in patria. Perché nella guarnigione del padre scoppia un’epidemia di
colera, e solo Mary si salva, venendo mandata dallo zio Archibald. Uno zio che
vive in un castello isolato, e che è colpito dal grande dolore della morte
improvvisa della giovane ed amata moglie. Per questo passa la maggior parte del
suo tempo in giro per il mondo, lasciando le cura della giovane Mary ai famigli
della casa. Sarà soprattutto Martha a prendersi cura di Mary, a farle tornare
il sorriso, a narrare delle buone cose di casa sua (povera ma onesta), a
presentarle il fratello ecologo e bucolico Dickon. Le parla inoltre del famoso
giardino segreto, quello curato dalla zia morta, cui a tutti è vietato
l’accesso. Ovvio che Mary comincia a cercarlo. Ovvio che lo trova, lo apre, se
ne innamora. Condividendolo con Dickon, con le sue piante e i suoi animali. Ma
un nuovo mistero attanaglia i giorni della nostra signorina, che diventa a poco
a poco, un po’ più simpatica. Le grida notturne, che al fine si scoprono essere
quelle del cugino Colin. Malato di incerta malattia, poco curato o mal curato.
Sicuramente poco amato dal padre, che gli rimprovera, anche se non
esplicitamente, la morte della moglie. Mary comincia un’azione di
coinvolgimento alla vita di Colin. Narrando del giardino, narrando degli
animali, narrando di Dickon. Tanto che l’altrettanto viziato Colin decide di
seguire le orme della cugina. Uscendo di casa nella sedia a rotelle. Andando in
giardino. Cominciando a muovere i primi passi. Sino a che, ignota la malattia,
ma sicuramente giovandogli aria aperta e compagnia, anche lui si integra nella
cura del giardino e nell’inno alla vita. Tanto che la madre di Martha non si
perita di richiamare sir Archibald dai suoi giri lontani. Il vecchio (ma credo
che non arrivi ai cinquanta!) torna a casa, scopre le “malefatte” della nipote,
ma scopre anche i benefici che ne porta il figlio. Così che, curando le piante
si cura anche il cuore. E tutti quanti, alla fine, saranno contenti, e ne
usciranno vittoriosi. Quante piccole zeppe di insegnamento in così poche
pagine. Certo ingenue, certo senza nessun infingimento, subito lì, dirette.
Mary non amata, unica che sopravvive (quindi anche chi sembra poco simpatico è
meglio di chi è realmente antipatico). Martha e la sua famiglia (cioè il cuore
aperto, il sorriso sulle labbra, il lavoro anche umile non possono che portare
serenità). Martha e Dickon (quando l’amicizia travalica ogni confine). Martha e
Colin (quando l’empatia vince ogni malattia, vera o presunta). Martha e lo zio
Archibald (come non aver paura dei grandi quando si ha una grande idea in
testa). La “pedagogica” Frances inzeppa il libro di buoni sentimenti. In
particolare, l’ultima grande metafora è il collegamento tra i ragazzi ed il
giardino: in entrambi i casi, i buoni semi, oltre ad essere piantati, devono
essere difesi e coltivati. Ed il giardino, così come il bambino, potrà al fine
crescere e diventare una pianta, un uomo o una donna. Ignorando Freud e tutta
la psicologia, il bello (seppur limitato) del libro è proprio in questa
immediatezza senza barriere. Un’ultima lancia la spezzerei sulla rivoluzione
che all’epoca portò il libro. La convinzione nel mondo occidentale dell’inizio
del XX° secolo era che solo la guida, l'insegnamento e la vigilanza costante
degli adulti potevano garantire l'educazione di bambini e adolescenti, che
l'amicizia tra ragazzi poteva essere pericolosa e andava sempre vigilata dagli
adulti e che l'amicizia tra giovani di sesso opposto era molto pericolosa e
andava controllata e limitata dagli adulti. Tutte e tre queste posizioni
vengono confutate da Frances. Che apre vie nuove che hanno portato a noi.
Perché allora non cominciamo anche noi a tracciarne altre? Forse è tutto troppo
facile. Ma che dire se si riesce a togliere le barriere, i pensieri, gli
attaccamenti a comportamenti troppo ingessati. Per comunicare. Questo, in
fondo, è quello che insegna Mary: parlare, chiedere, è sempre meglio che stare
zitti. Un NO è sempre meglio di non sapere la risposta. Tanto che spesso, il NO
diventa un magico, bellissimo, giurassico SI. Quindi, salvando un po’ di
ingenuità, perché non leggerlo ai Tommaso, ai Matteo, e a tutti gli altri?
Finalino
Farei solo un commento: a parte Dahl, gli altri libri sono tutti
anteriori alla mia nascita. Forse la signorina in 35 anni poteva trovare
qualche altro buon libro. E giuro che ce ne sono.
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