Gianni Simoni “Il filosofo di Via del Bollo”
TEA euro 9 (in realtà, scontato a 0,81 euro)
[A: 15/02/2016– I: 26/09/2017 – T: 28/09/2017]
- &&&
---
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 278; anno 2013]
Come ho detto trame e trame fa,
l’ex-magistrato Simoni, intraprendendo la via della scrittura, dopo essersi
dedicato molto al duo investigativo e di ragionamento Petri – Miceli (di cui ho
già tanto parlato), ha inserito un nuovo personaggio e delle nuove storie nella
vita dei suoi romanzi. Per dare poi un taglio netto a tutta la vicenda, ha
preso come protagonista l’ispettore Andrea Lucchesi, un poliziotto di colore
figlio di un italiano e di una donna eritrea, sempre in rotta di collisione con
le autorità, e di stanza non più nella Brescia da lui amata, ma nella più
caotica e complicata Milano. Ho già tramato il primo dei libri dedicati a
Lucchesi, che terminava con un bell’infarto di cui non si sapeva bene l’esito.
Un tentativo poco originale di dire: se il romanzo va male, Lucchesi muore,
altrimenti troviamo il modo di farlo uscire dall’ospedale. Potete quindi
immaginare che il primo episodio ha avuto un discreto successo, ed eccoci qui
al secondo. Con due grossi punti interrogativi che mi sono sorti a valle della
lettura: il titolo ed il sottotitolo. Nel secondo, infatti, si dice
“un’indagine del commissario Lucchesi”. Ora il nostro è ispettore al momento
dell’inizio del libro. Parlare di “commissario” significa anticiparci che la
materia di cui si occuperà Lucchesi andrà a buon fine (per lui) ed otterrà una
(desiderata o meno non interessa) promozione. Altro elemento è il filosofo del
titolo, che entra nella storia perché Ambrogio (questo il suo nome) discetta a
volte con Lucchesi, intercalando frasi normali con lunghe tirate,
principalmente da Cartesio, ma nel finale anche un bel Platone. Ma nella
vicenda è, tutto sommato, un elemento spurio. Al solito infatti, questa serie è
caratterizzata, al momento, da molte vicende personali, e poche vicende di scoperta,
di indagine o altro vicino al noir o al thriller. È sicuramente un bel modo di
presentare uno spaccato di vita milanese, ma ci si aspetta qualche cosina in
più. Perché la maggior parte del romanzo è intrecciato sulle vicende di cuore
di Lucchesi. La moglie (che molto da stronza si comportava nel primo libro)
dopo l’infarto sembra aver pensato che, dopo tutto, Lucchesi non è male. Anche
perché pressata da Alice, la figlia, che vuole stare più tempo con il padre
(sta nel mezzo del teenaging, quindi c’è bisogno di una figura maschile
positiva). Ed abbastanza stufa del nuovo marito, bravo, onesto, ma
discretamente insignificante. Moglie che cerca di circuire Lucchesi, senza
però, al fondo, scalfirne i motivi dell’ovvio precedente divorzio. Lucchesi è
invece irretito dalla collega Carolina, piacente e spigliata, con la quale,
dopo molti tentennamenti, dà vita a scene di sesso, amore ma non rock’n’roll. Purtroppo,
Simoni ha letto troppo il norvegese Nesbø, per cui le storie d’amore del
protagonista non vanno mai veramente a buon fine. E per cui il protagonista è
dedito ad un abuso costante di super-alcolici. Ne avevo già accennato Lucchesi
che mi sembrava un piccolo clone di Harry Hole. Ovvio che dopo l’infarto
elimina il bere. Ma l’impronta scandinava si nota e si rimarcherà alla fine,
non dico come e non dico perché. Mentre quindi scorre la vita al commissariato
Centro di Milano, la squadra di Lucchesi è coinvolta di nuovo in furti di opere
d’arte. Questa volta, incisioni tedesche del Cinquecento. Purtroppo, la mano di
Simoni calca poco questa via, limitandosi a parlare più volte di Luca da Leida
(che tra l’altro è olandese). Beh, fa nulla. Il fatto è che la storia in gran
parte ricalca il primo episodio, tanto che è di facile lettura. Ci sono diversi
furti, ovvio su commissione, ovvio che uno degli elementi trainanti sia la
presenza di una conoscenza comune tra i derubati. Ovvio infine che uno dei
derubati abbia inscenato il furto per non essere subito individuato. La piccola
zeppa che Simoni inventa questa volta, è la casuale scoperta, da parte di tal
professor Niccodemo, di un colloquio tra la contessa Elena (che compariva anche
nel primo libro) ed uno strano tipo, che ben presto capiamo sia proprio il capo
di Lucchesi, il commissario Pepe. Alla morte violenta di Niccodemo (in cui
viene coinvolto l’Ambrogio di cui sopra, ma senza che ne ricaviamo particolari
patemi), Lucchesi infittisce le indagini, capendo che “c’è del marcio in
Danimarca”. Scoprendo che il suo ufficio, quello dei suoi collaboratori, nonché
quello di Carolina sono pieni di microspie, per cui qualcuno (ed è ovvio chi)
sa sempre cosa sta per fare, quando e come. Spulciando i movimenti dei
derubati, qualcuno capisce chi è l’assassino, ma non sa proteggersi le spalle a
sufficienza. Lucchesi inoltre ha un incontro-scontro con Elena, in cui capisce
che la contessa (minata da un male incurabile) ha fatto giochi più grandi di
lei. Tutto finirà in un verso corretto, se non piacevole. Colpevoli scovati,
inchiesta risolta, Lucchesi, anche se con la testa qua e là, sugli onori. Tanto
che, come detto, verrà promosso, verrà riportato alla Questura. Ci meravigliamo
forse che il prossimo libro della serie si intitoli “Sezione Omicidi”? Piacevole
soltanto, alla fine, il rapporto con la figlia Alice, con la loro lettura
incrociata de “Il rosso e il nero”, e l’uso corretto ed a me congeniale dei
libri. Ma non dico altro. Un’altra lettura per passare un po’ di tempo,
aspettando … Godò (citazione volutamente errata).
Gianni Simoni “Sezione Omicidi” TEA euro 9
(in realtà, scontato a 7,65 euro)
[A: 26/01/2017 – I: 25/02/2019 – T: 27/02/2019]
- &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 270; anno 2013]
Eccoci allora, dopo un anno e mezzo, a riaprire
un nuovo libro di Gianni Simoni. Come al solito gradevole, nella scrittura e
nello scorrere. Anche se la parte “noir” o “gialla” è relegata a poche battute,
spesso arrivando a sbrogliare matasse senza che il lettore ne sia coinvolto.
Che, come ho detto nella trama precedente, molto del libro si basa sulle
vicende personali del commissario (e questa volta per davvero visto che è stato
promosso) di colore Andrea Lucchesi. Con tutte le sue paturnie e tutti i suoi
difetti. Nonostante l’infarto del primo libro, il nostro continua a bere ed a
fumare (come dice verso la fine del libro, che ad un certo punto si arriverà al
capolinea, ma perché arrivarci tristi?). Sempre poco attento il sottotitolo,
che continua a riportare “Un’indagine” quando qui ce ne sono almeno due o tre.
Ma questa è la mia solita mania di puntualizzazione. Comunque, Lucchesi ritorna
ad occuparsi di Omicidi, presso Milano Centrale, mettendo su una bella squadra:
alcuni agenti locali, rinforzati da Miccoli e Serra che lavoravano con lui, e
dalla bella ispettrice Lucia Anticoli, con cui aveva avuto a suo tempo una
storia. Visto che quella con la collega Carolina è finita com’è finita (leggete
il precedente libro se lo volete sapere), Lucchesi si trova libero e pensoso.
Qualche divagazione qua e là con l’altro sesso, molte battaglie non solo
verbali con l’ex-moglie Adele. Ma soprattutto, il pensiero se Lucia possa
diventare qualcosa di serio. Ed il rapporto con la figlia Alice. Bello
spigliato, e con la solita virata “alla Nesbo”, quando, per sua insipienza, ha
un incidente di macchina, dove ad Alice non si apre l’airbag. Tutta la parte
finale è permeata da ospedali e coma vari, da cui non si sa se Alice si
riprenderà o meno. O meglio, chi ne legge lo sa, ma io non lo dico. Per quanto
riguarda la vicenda puramente poliziesca, tutto nasce dalla scoperta di un
cadavere di donna nudo, steso su di un plaid tra le piante. Nel cercare di
scoprire chi sia la donna misteriosa e perché avesse fatto l’amore su di un
prato, sopra un plaid di cashmere, Lucchesi ed i suoi si imbattono in altre
storie. Sfogliando tra le denunce di donne scomparse, si imbattono in alcune
storie collaterali, di cui due hanno un certo spessore. Oltre ovviamente a
quella centrale della morta. Uno si risolve in fretta, che la donna scomparsa è
una trentina che si è innamorata di un’altra donna, ed ha problemi a parlarne
con i genitori. Altri sono solo problemi di corna più o meno palesi. Il sotto
caso più complicato viene da un finto geometra, in realtà poco più che
capomastro, con una propensione alle maniere forti, che per pararsi il c…,
denuncia la scomparsa della moglie, quando noi, e Lucchesi e Anticoli, capiamo
subito che la realtà è diversa e, purtroppo, poco piacevole. Così, con poche
mosse, il nostro commissario “coloured” balza agli onori della cronaca, tanto
che finalmente viene salutato per primo nelle presentazioni, dove in genere si
pensa che il più alto in grado sia il marziale Serra. Rimane il caso che ha
originato tutta la buriana. Donna uccisa, che si scopre anche essere incinta,
che ha avuto un rapporto sessuale prima di morire (grandi analisi del DNA alla
CSI New York). Con difficoltà, ma anche con tanta pazienza, Lucchesi risale
all’ambiente in cui si poteva muovere la morta, poi alla casa ed al marito.
Nonché all’amica più cara della morta, che la copriva in alcune sue uscite
“fuori dai ranghi”. Il grande mistero che avvolge l’indagine è che il DNA
dell’atto sessuale coincide con quello prelevato al marito della vittima.
Peccato che il marito sia affetto da impotenza, non solo generandi ma anche
coeundi. Con un piccolo tocco di magia giallistica, utilizzando una possibilità
che poteva venire in mente, soprattutto se si fosse conosciuto prima
l’entourage della vittima, il mistero si dipana. Inoltre, con un piccolo tocco
alla Maigret, mi sia consentito il paragone un po’ aulico, Lucchesi decide di
aggiustare le cose per rendere minimi i dolori altrui. Tanto che la verità
avrebbe solo fatto del male a tutti. Inoltre, il tutto avviene mentre lui è
perso nelle preghiere per la salvezza della figlia in coma. Quindi perdendosi
nei meandri di avvenimenti più grandi ed importanti. Anche perché serviranno di
base per le prossime avventure del commissario e della sua banda. Come detto,
Simoni sa scrivere, sa anche dare toccatine di giallo, anche se qui i misteri
non nascono, e le soluzioni, spesso, vengono fornite senza coinvolgere il
lettore nell’unico lavoro che dovrebbe fare: quello di pensare. Ma Lucchesi è
moderatamente simpatico (a parte quando beve), e di più lo è la figlia Alice e
le altre figure femminili (esclusa l’odiosa ex-moglie). Aspettiamoci nuove
avventure, allora.
“È
questo il tuo problema, o uno dei tuoi problemi: quello di pensarci sempre
dopo.” (178)
Gianni Simoni “Troppo tardi per la verità”
TEA euro 9 (in realtà, scontato a 6,75 euro)
[A: 26/01/2017 – I: 08/09/2019 – T: 10/09/2019]
- &&&
--
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 264; anno 2014]
Eccoci ancora nell’alternanza tra le due serie
immaginate dall’ex-magistrato Gianni Simoni: da un lato quella “storica” (cioè
la prima) con il commissario Miceli e l’ex-giudice Petri a darsi manforte l’un
l’altro nell’analisi e nella soluzione di casi vari in quel di Brescia, e
dall’altra quella del commissario Andrea Lucchesi, l’unico commissario di
colore nella “Sezione Omicidi” di Milano. Questo tiolo appartiene alla prima
serie, anche se, ormai, mettere il sottotitolo, come si ostina a fare
l’edizione TEA, “Un caso di Petri e Miceli”, sembra abbastanza pleonastico.
Visto che la scena è sempre più occupata dal neocommissario Grazia Bruni.
Miceli c’è, un po’ in un angolo, di supporto, con qualche tocco qua e là. Petri
spazio un poco tra le pagine, lo seguiamo in alcune delle sue attività
quotidiane da buon pensionato, ma anche lui, e seppur ben seguito dall’autore, alla
fine, ha solo qualche sprazzo (seppur a volte decisivo). L’economia del testo
si sposta, e molto, su tutto il contorno. Su Brescia, sulle persone coinvolte
e, soprattutto, sui poliziotti che intervengono. In particolare, sul nuovo
entrato, il sovraintendente Salvatore Armiento che inizia seguendo il caso come
poliziotto della Stradale, ma, dotato di buon acume e perseveranza, viene
aggregato alla squadra della Bruni. Con gran preoccupazione di Maccari, il
poliziotto che ha una finora bella seppur tormentata storia proprio con il
commissario, e che non vede di buon occhio il bel giovane. Mentre Grazia Bruni
sembra solleticata dal non felice momento con Maccari e della bella presenza ed
acume di Toto. Che tuttavia, essendo anche di molto giovane rispetto al
commissario, rivolge le sue attenzioni alla giovane dottoressa Laura,
causalmente coinvolta nelle indagini ed ivi conosciuta da Armiento. Questa
tutta la storia al contorno, cioè riepilogando: Petri con la simpatica moglie
Anna a fare da pungolo e memento delle indagini, Micheli, messo all’angolo e
pronto a lavorare di sponda, Bruni che dovrebbe prendere in mano le indagini,
ma è anche preoccupata dal suo personale, che si istanzia in Maccari e nel
difficile momento che attraversano, Armiento, il nuovo arrivato con le forze
fresche e forse capace di dare nuova linfa ad una situazione statica, ed i
soliti poliziotti della Sezione Omicidi, che questa volta lavorano solo
nell’ombra senza particolari acuti. Su questo contorno si muove la vicenda che
nasce da un incidente stradale: una persona, risultata priva di documenti,
viene investita di notte, ed una coppia che passeggiava lì intorno avverte la Stradale.
Armiento prende in mano la situazione, anche perché la dottoressa Laura,
inavvertitamente, travolge il corpo morto. Questo innescherà la trama “rosa” di
cui sopra e che cercheremo di capire nelle prossime puntate se andrà avanti. Ma
farà anche in modo che Armiento si interroghi su alcune risultanze
dell’incidente che risultano poco chiare. Tanto che coinvolge la Omicidi per
andare a fondo alle indagini. Lì la Bruni interroga la coppia, che però
risponde svogliatamente, e che, quando la si cerca per approfondire alcuni
aspetti, risulta introvabile. Pare sia andata nella casa in montagna e non si
riesca a rintracciarla. Intanto, spunta fuori anche un nuovo testimone, un
anziano che portava a passeggio il cane, e che ribalta la prospettiva. La coppia
non era sul marciapiede dove diceva di passeggiare, il marito della coppia
sembra aver dato una spinta al morto, la macchina ha accelerato più del dovuto.
Tutti fatti che consigliano i nostri di indagare meglio sulle persone
coinvolte, sul morto, sul guidatore, sulla coppia. Una ricerca semplice ma non
facile, che alla fine porta alla luce molti incastri a prima vista poco
probabili. Il guidatore della vettura è noto alla coppia, ma forse più per
problemi di soldi che altro. Così come alla coppia è noto il morto (di cui alla
fine si riesce a trovare l’identità), ma qui i soldi non c’entrano. L’anziano
che passeggiava con il cane risulta più affidabile di quanto sembrava a prima
vista, anche se non ha visto tutto e non l’ha visto bene. In mezzo a tutto ciò,
Armiento, aggregato alle indagini, scopre man mano tutta una serie di
incongruenze che lo portano ad ipotizzare una chiave di lettura del caso.
Chiave di lettura che sarà avvalorata quando, alla fine, si riuscirà a
rintracciare la coppia in quel di Bormio. Ci sono un paio di colpetti di scena
finali, che rendono quanto meno gustosa, benché amara, la rivelazione finale di
come sono andati i fatti in realtà. Insomma, la scrittura si è mantenuta ad un
discreto livello, il nuovo entrato (se rimarrà) risulta simpatico. I soliti
personaggi invece no. Speriamo che, se la serie avrà un seguito, riesca a
risalire nell’intreccio. Per finire, comunque grazie a Simoni per le belle
immagini di Brescia, una città che, in effetti, non conosco per nulla.
Gianni Simoni “Contro ogni evidenza” TEA
euro 9 (in realtà, scontato a 7,65 euro)
[A: 27/05/2017 – I: 30/09/2019 – T: 01/10/2019]
- &&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 219; anno 2014]
Qui
invece siamo sul lato “Lucchesi”, e, purtroppo, sembra che la vena di Simoni da
questo versante si stia inaridendo un po’. Come se, in mancanza di idee
originali, Simoni si avviasse a compore un libro prendendo spunti altrove e poi
cercando di rielaborarli. Intanto, il protagonista, il commissario Lucchesi, si
avvia sempre più ad essere un clone italiano di Harry Hole di Nesbo.
Intelligente, preparato, ma sempre ai limiti delle vicende. Sempre più
attaccato alla bottiglia, anche se Harry lo fa con metodo e rimpianti, mentre
Lucchesi sembra voglia accelerare il processo di autodistruzione (non a caso è
da poco uscito da un infarto ed altri malanni, ma continua ostinatamente a non
volersi curare). Sempre con rapporti familiari difficili. Alle prese con una
ex-moglie pervicacemente ostile (anche se qui non compare molto) ed una figlia
che non sa gestire. Sempre invischiato in rapporti sentimentalmente complicati.
Qui sembrava trovare un suo sbocco con l’ispettore Lucia Anticoli, ma il suo
tria e molla non fa presagire nulla di buono. Dopo aver clonato Hole, Simoni
immagina anche una specie di vicenda clone del precedente libro. Una morte
apparentemente spiegabile in modi preterintenzionali, che ben presto si rivela
nascondere altro. Lì, da Miceli e Petri, era un incidente d’auto. Qui abbiamo
una rapina, dove i due banditi, senza nessun vero motivo di pericolo, invece di
continuare la rapina in banca, uccidono a sangue freddo l’impiegata Giusy e
fuggono. I grandi capi vorrebbero chiudere al più presto la vicenda, ma
Lucchesi subodora del marcio. Non a torto, perché le modalità della sparatoria
sono alquanto misteriose. Lucchesi, ma soprattutto Anticoli, cominciano ad
indagare ad ampio raggio, cercando di capire chi sia realmente la Giusy
assassinata. Scoprono che si era formalmente lasciata dal suo storico fidanzato
solo pochi mesi prima. Scoprono che ha avuto una breve storiella con un
funzionario della banca stessa. Scoprono, in particolare, che Giusy era
incinta. Questo ribalta tutte le prospettive. Unito al fatto della misteriosa
sparatoria, Lucchesi si convince che il vero bersaglio era uccidere Giusy.
Fatto salvo che i possibili imputati sembrano avere un alibi, chi poteva essere
il mandante? Il fidanzato che si è sentito tradito dalla gravidanza? Il
funzionario che avrebbe visto in pericolo la sua onorabilità? Un terzo
elemento, che uscirà fuori durante le indagini e di cui non vi dico nulla,
anche lui preoccupato per le conseguenze? L’analisi dell’ambiente di vita di
Giusy, della sua famiglia, delle sue frequentazioni, porterà i nostri alla
soluzione del caso, anche se con poca suspense. Almeno per i lettori, mentre a
voi lascio un’aura di mistero. Anche perché, visto che la storia è fragilina,
Simoni pensa bene di “incasinarla” con le vicende personali di Lucchesi.
Ricordo, per chi non avesse letto i precedenti testi, che il commissario
Lucchesi, italianissimo e toscano, è nero di pelle, avendo la madre etiope.
Questo, come ovvio, lo rende sensibile alle critiche. E quando un passante lo
apostrofa “nero di merda”, pensa bene di spaccargli la faccia a pugni. Ovvio
che non è un comportamento corretto per un commissario di polizia, anche se
giustificato. Motivo per cui Lucchesi viene trasferito altrove, lontano dalla
Omicidi (che lascia in mano e con abilità all’ispettrice Anticoli).
Nell’insediamento periferico, altre magagne ed altre indagini si troverà ad
affrontare. Un tentativo di mobbing da parte del dirigente (che Lucchesi
risolve leggendo fior di libri, e questo, non solo è bello, ma mi ricorda
piccole e ben lontane vicende personali). Un tentativo di abbordaggio da parte
di un’altra ispettrice dalle belle forme, che però Lucchesi sembra schivare (e
sottolineo sembra che non si sa mai). Una richiesta del procuratore di indagare
proprio verso il dirigente mobizzatore, che le alte sfere sospettano (e con
ragione) essere dedito a propri e personali elementi di lucro sfruttando le
pieghe lavorative poco controllate. Ci sono molti elementi al fuoco, le idee,
anche se riciclate, assumono contorni interessanti. Inoltre, Simoni, così come
nell’altra serie riesce a farci incuriosire di una Brescia ignota, qui non
manca di portarci in giro per una Milano poco nota, e degna di essere visitata.
Ritengo infatti, che spesso, Milano venga liquidata con molta superficialità. È
una città variegata, molto più complessa di uno stereotipo di “Milano da bere”.
Ricordo le passeggiate per Brera, ricordo le cene sui Navigli, ricordo le
atmosfere di Porta Ticinese, ricordo i passaggi nei dintorni dell’Università.
Una città che, prima di conoscerla, mi resta come un punto interrogativo, e che
invece si è rivelata più interessante ed anche più stimolante di quanto poteva
essere restando lontana. Tanto per chiudere, che dire del Teatro Parenti o del
Teatro alle Erbe? Ma per tornare al libro ed a Simoni, concludo: qualche idea,
una scrittura agile, ma poco, pochissimo mordente.
Seconda
trama del mese di ottobre, e visto i tanti compleanni, perché non dedicare un
allegato ai libri che curano una malattia incurabile: l’età?
Come
detto, tanti i compleanni di questo mese tra la bilancia e la campagna. E sono
troppo pigro per elencarli qui, ma non così pigro da non ricordarli e festeggiarli.
Chi ne è coinvolto lo sa, e sa che io vi penso. Soprattutto in un giorno
speciale, molto calcistico.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i
“bugiardini” di Giovanni
OTTOBRE 2019
Quale miglior mese se non
ottobre, per un ricordo di compleanni, dati i tanti festeggiamenti di queste
mese castagnolo!
SESSANTANNI, AVERE
I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER
SESSANTENNI
Chinua
Achebe “Il crollo”
Elias
Canetti “Auto da fé”
Federico
De Roberto “I viceré”
Charles
Dickens “Il circolo Pickwick”
Natalia
Ginzburg “Lessico famigliare”
Agota
Kristof “Ieri”
Philip
Roth “Il teatro di Sabbath”
Graham
Swift “Ultimo giro”
Tiziano
Terzani “Un altro giro di giostra”
Ivan
Turgenev “Padri e figli”
Bugiardino
Diciamo subito che Achebe e Canetti
sono in lista d’attesa sui miei scaffali, che De Roberto, Dickens, Kristof e
Turgenev sono stati letti tantissimo tempo fa, e che di Roth non ho molto altro
di quanto tramato, e di sciuro non questo. Swift ha una copia elettronica del libro
che non mi risolvo di leggere. Rimangono l’ottimo libro della Ginzburg, letto
in gioventù e riletto meno di dieci anni fa e il superlativo Terzani, che non
commento con altre parole se non l’affetto che ho sempre avuto per i suoi
scritti. E per questo in particolare.
Natalia Ginzburg “Lessico famigliare” Repubblica Novecento euro 4,90
[tramato il 2 ottobre 2011]
L’avevo letto in gioventù, quando
razziavo i libri nella libreria di mio padre. Trovandolo di fronte mi sono
chiesto se lo volevo rileggere. Così ho fatto, ed ho fatto bene. Mi ricordo che
a suo tempo mi piacque l’affastellarsi di vite di personaggi che ritenevo
mitici. Sentir parlare di Pavese così come io parlavo di Magnus o Geppo, mi
sembrava favoloso. Ora l’ho letto con una diversa consapevolezza, e mi è
piaciuto per motivi diversi. Diciamo per quell’aria familiare, forse per quelle
cose che un dì avevo tralasciato. Le frasi, che diventano come delle madelaine
proustiane. Le piccole situazioni quotidiane. Le colazioni, i pranzi, il girare
per case. L’invidia, forse, per quelle case piene di gente (ah, l’esercito dei
miei cugini, rispetto alla nostra desolata casa con solo me e mio fratello),
che vanno, vengono, si incontrano. E tutto scorre, si cresce, ci si fidanza, ci
si sposa, si va via di casa, si fanno figli. Ma rimane l’appartenenza. Ecco,
questo è l’altro dato forte che mi rimanda. Un senso di appartenenza. Le varie
figure del libro, chi più chi meno, appartengono a qualcosa. A un mondo. Ad
un’idea. Ad un modo di essere. Ad un modo di rapportarsi. Bella di più la prima
parte, ancora tutta familiare. L’andare in montagna (pendant del nostro andare
al mare, anche quando non si voleva più), le passeggiate. Il burbero padre
Beppe (grande figura di cattedratico-ricercatore, e, soprattutto, coltivatore
di talenti, dentro e fuori casa; non a caso, nel suo istituto, passeranno ben
tre premi Nobel italiani) con le sue docce gelate, le colazioni a base di
yogurt prima che lo yogurt diventasse una moda. La madre Lidia sempre pronta ad
uscire e a contornarsi di giovani signore. La levità rimane anche per tutta la
seconda parte, che viene però segnata dalla ferita del fascismo e dal loro
essere ebrei. Qui ritorna un po’ la punta di curiosità gossippesca, in
particolare nelle vicende intorno alla casa editrice, la mitica Einaudi degli
anni d’oro. Alla figura di Felice Balbo ed i suoi conciliaboli con lo
scienziato Giacomo Mottura. E Pavese (amichevolmente accompagnato fino alla
morte). I passaggi ad Ivrea, con Adriano Olivetti (sposo poi divorziato della
sorella Paola). E l’amore, forte (anche se espresso con poche e sommesse
parole) per Leone, che Natalia seguirà ovunque, anche al confino. E di cui
conserverà il nome, anche dopo la sua morte torturato in carcere a Regina Coeli
nel ’44. Anche dopo che si risposerà con Gabriele. Ma poi tutto ritorna alla
dimensione privata, anche in presenza di avvenimenti pubblici. Per chiudere in
un bellissimo, intenso, lungo colloquio tra i genitori, che saltabeccano di qua
e di là, tra figli e nipoti, tra “sbrodeghezzi” e “sempiate”, che fanno
riaffiorare alla memoria tutto il senso di una vita, loro che immaginiamo ormai
ottantenni, in un viale del tramonto che non è tristezza, ma gioia interna e
consapevolezza di una vita vissuta. In fondo, vissuta con dignità e con
pienezza. Con i figli ormai grandi (la piccola Natalia si sta avviando verso i
cinquanta anni). Insomma, c’è qualche puntata alta e bassa (non nego che a
volte la ritrosia della citazione rendeva difficile distinguere Lisetta Giua e
Lola Balbo), qualche condiscendenza, ma, come sopra riportavo, un modo per far
affiorare i miei lessici familiari (soprattutto quello dei nomignoli, che
ancora adesso avviati sulla soglia dei novanta anni i miei zii si portano
appresso). Un romanzo familiare, per fare strada a nuove generazioni. A cui si
passa volentieri il bastone di altre avventure. Anch’esse, perché no,
famigliari.
“Sono miei amici, e gli voglio bene e non me ne importa niente se le loro
opinioni siano vere o false” (204)
Tiziano Terzani “Un altro giro di giostra” TEA euro 7,50
[tramato il 16 dicembre 2018]
Per me, tutto il senso del libro,
e tutto il mio senso per il libro, è chiuso in quella frase che riporto in
fondo. Il più grande viaggio, quello immancabile, ad un certo punto. E se
vogliamo quello che vorremmo fare con la coscienza di farlo. Un viaggio verso
sé stessi, per trovarci in fondo alla strada, dopo aver girato, anche con
Terzani (ma anche no) da New York all’India, dal Tamil Nadu all’Himalaya.
Terzani gira il mondo e le sue diverse situazioni per cercare di capire il
rapporto tra il sé stesso malato ed il cancro. All’inizio, anche, e
soprattutto, per capire se e come fosse possibile una cura. Se e come si
potesse uscire dal tunnel. Terzani comincia con la medicina tradizionale, con
il centro antitumori di New York. Con i bombardamenti chemioterapici. Ci
colpisce la serenità con cui inizia ad affrontare questo viaggio. E la
tranquillità di affidarsi alla allopatia. Quando il primo ciclo finisce, ed i
dottori gli danno tregua, Terzani decide di cominciare a spendere il suo tempo
in altre ricerche. Intraprende allora anche un viaggio fisico, oltre che
mentale, che lo porta in India, in Tibet, nelle Filippine. Dialoga con tutti,
parla con tutti, non si tira indietro, non esaurisce mai la sua curiosità.
Dalle sue pagine escono fuori maghi, saggi, santoni. Prova tutte le medicine
cosiddette alternative: le diete con le erbe, i digiuni, i canti sacri, la
meditazione yoga, la medicina ayurvedica, l’omeopatia, la pranoterapia, fino al
Qi gong ed al Tai Chi. Sono bellissime tutte queste pagine dove il nostro
fiorentino errante non mette mai il tono del ridicolo in nessuna possibile
cura. Come laicamente facemmo noi, durante gli studi sugli approcci
psicoterapici, la medicina buona è quella che ti fa sentire bene. Lo psicologo
buono non dipende da questa o quella branca di pensiero, ma se quel pensiero
arriva al tuo corpo, al tuo cuore, alla tua mente. Come diceva sempre allora
uno dei miei mentori “Il corpo non mente”. Terzani è tuttavia sempre stato
scettico su tutte le cose che ha incontrato nella vita, adottando sempre ed
ovunque il motto di capire prima di riproporre (non di giudicare, che mi sembra
sia sempre stato alieno a questo metro di espressione). Quello che trova in
Oriente, non è, non sarà una cura al suo male, ma il modo di rovesciare il
problema, di accettarlo. Di trovare una sua pace interiore. Quando anche
l’ultima medicina ha rivelato la sua fallacità, Terzani ci fa capire che il suo
viaggio attraverso tutti i possibili modi di curare il proprio corpo malato, è
in realtà un viaggio che deve servire a curare LA malattia (scusate l’uso del
maiuscolo ma qui ci vuole). Una malattia che colpisce tutti, la paura della
morte. Quindi non siamo in cerca, soltanto, di una cura per il corpo, ma di una
cura per l’anima. Una cura che devo portare a cambiare il proprio punto di
vista, che ci deve portare ad essere in armonia con tutte le cose, visibili ed
invisibili, animali e minerali. Terzani, con la sua barba bianca, con il dhoti
gandhiano, assume un andamento “naturalmente” francescano. Dopo aver girato il
mondo, dopo aver salutato i suoi amati monti himalayani, si ritira per l’ultima
fase della vita ad Orsigna, nell’Appennino Toscano, chiudendo il cerchio vitale
con la sua nascita fiorentina. Lui ha ritrovato il senso del vivere e del
morire. E non finisce mai di esserci utile, quando continua, ricordando anche i
suoi trascorsi giornalistici, a farci ragionare sui rapporti umani. Ci parla
delle guerre che ha visto, sperando di portarci verso quella pace che non vede
e non vedrà. La bellezza dello scritto è che in ogni elemento che incontra nella
vita vede qualcosa e ce lo comunica. Dal piccolo al grande. Chi è malato, chi
vede da vicino, in sé o in altri, le malattie, anche le più terribili, sente,
con me, una terribile angoscia leggendo queste pagine. Non perché facciano
vincere quella malattia invincibile che è la paura della morte stessa. Ma
perché sappiamo, so, che non saprò mai affrontarla. Il grande merito di
Terzani, ed il grande “odio” che provo per lui (e capitemi perché l’ho
virgolettato), è che mi ha ricordato che non possiamo dimenticarci della morte.
In questi anni, dove molte persone a me care ci hanno lasciate, papà, mamma,
Gastone, Paolo, Carlo… In questi anni dove anche noi stiamo accumulando anni e
mesi. E di sicuro, anche se non so come né con quale angoscia, è più vicina una
fine che un inizio. Ti odio Terzani che me lo ricordi. Ti amo profondamente,
perché so che non ne sarò mai capace, ma so che qualcuno ci prova e forse ci
riesce. Ti voglio infintamente bene per come hai saputo mostrare il tuo amore
per Angela. Così bello che non voglio parlarne di più. Caro Tiziano, infine, il
tuo libro è talmente denso, che lo citerei tutto. Ma per ora tante e tante sono
le frasi che mi rimangono, che solo alcune riesco a condividerle. E qualcuno
leggendone ne saprà.
“In Ladakh le malattie di cuore sono pressoché sconosciute perché la
gente vive all’aria aperta, mangia cibi biologici e non ha bisogno di andare in
palestra per tenersi in forma.” (62)
“La distanza che si crea fra i sani e i malati mette alla prova i
rapporti tra le persone.” (70)
“La caotica, indiscriminata valanga di informazioni prodotta da
internet ha creato quell’ormai diffusissimo sapere a metà che è la peggiore e
la più pericolosa forma di ignoranza.” (90)
“Chi ama l’India lo sa: non si sa esattamente perché la si ama. … L’India
… fa sentire ognuno parte del creato.” (153)
“Viaggiare mi esaltava, mi ricaricava, mi dava da pensare, mi faceva
vivere.” (196)
“Non c’è felicità per chi non viaggia.” (204)
“L’apparente indifferenza [degli indiani] mi colpì ricordandomi quello
che mi è sempre sembrato il buco nero dell’induismo: l’assenza di compassione.”
(223)
“Nel corso della ita tante cose possono andarci storte, e di solito lo
fanno.” (297)
“Il problema sono io e io sono la soluzione … L’onda non ha bisogno di
diventare oceano, deve solo rendersi conto di essere oceano.” (350)
“Il Kathakali [è] la vecchia forma teatrale
del Kerala … Sulla sinistra del palcoscenico stavano i tamburisti, capaci con
le mani o le bacchette di ricreare il frastuono di una battaglia, lo scorrere
di un torrente o il quieto tic-tic di una goccia d’acqua che cade su una
foglia. Sulla destra stavano i cantanti. Con l’aiuto di cimbali, di un gong e
di un’orchestra d’una ventina di uomini, tutti a torso nudo, allineati dietro,
loro raccontavano la storia e pronunciavano le battute dei vari personaggi,
perché nel Kathakali gli attori sono muti, al massimo emettono dei suoni
gutturali. Gli attori «parlano» coi loro movimenti; comunicano pensieri ed
esprimono stati d’animo coi gesti delle mani; ‘dicono’ con le smorfie e con gli
occhi.” (400)
“La malattia è una forma di disarmonia con l’ordine cosmico.” (450)
“Se uno non ha niente dentro, non troverà mai niente fuori. È inutile
andare a cercare nel mondo quel che non si riesce a trovare dentro di sé.”
(516)
“Viaggiare era sempre stato per me un modo di vivere e ora avevo preso
la malattia come un altro viaggio: un viaggio involontario, non previsto, per
il quale non avevo carte geografiche, per il quale non mi ero in alcun modo
preparato, ma che di tutti i viaggi fatti fino ad allora era il più
impegnativo, il più intenso.” (Prologo)
Conclusioni
Terzani è stato il must dei miei
sessanta, e rimane e lo sarà per molto tempo ancora. Le altre scelte mi
convincono poco, in particolare Dickens e Kristof. Ma se avete un Terzani tra le
mani, potete scordarvi tutto il resto.
Nessun commento:
Posta un commento