domenica 13 ottobre 2019

Simoni calante - 13 ottobre 2019


Gianni Simoni “Il filosofo di Via del Bollo” TEA euro 9 (in realtà, scontato a 0,81 euro)
[A: 15/02/2016– I: 26/09/2017 – T: 28/09/2017] - &&& ---
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 278; anno 2013]
Come ho detto trame e trame fa, l’ex-magistrato Simoni, intraprendendo la via della scrittura, dopo essersi dedicato molto al duo investigativo e di ragionamento Petri – Miceli (di cui ho già tanto parlato), ha inserito un nuovo personaggio e delle nuove storie nella vita dei suoi romanzi. Per dare poi un taglio netto a tutta la vicenda, ha preso come protagonista l’ispettore Andrea Lucchesi, un poliziotto di colore figlio di un italiano e di una donna eritrea, sempre in rotta di collisione con le autorità, e di stanza non più nella Brescia da lui amata, ma nella più caotica e complicata Milano. Ho già tramato il primo dei libri dedicati a Lucchesi, che terminava con un bell’infarto di cui non si sapeva bene l’esito. Un tentativo poco originale di dire: se il romanzo va male, Lucchesi muore, altrimenti troviamo il modo di farlo uscire dall’ospedale. Potete quindi immaginare che il primo episodio ha avuto un discreto successo, ed eccoci qui al secondo. Con due grossi punti interrogativi che mi sono sorti a valle della lettura: il titolo ed il sottotitolo. Nel secondo, infatti, si dice “un’indagine del commissario Lucchesi”. Ora il nostro è ispettore al momento dell’inizio del libro. Parlare di “commissario” significa anticiparci che la materia di cui si occuperà Lucchesi andrà a buon fine (per lui) ed otterrà una (desiderata o meno non interessa) promozione. Altro elemento è il filosofo del titolo, che entra nella storia perché Ambrogio (questo il suo nome) discetta a volte con Lucchesi, intercalando frasi normali con lunghe tirate, principalmente da Cartesio, ma nel finale anche un bel Platone. Ma nella vicenda è, tutto sommato, un elemento spurio. Al solito infatti, questa serie è caratterizzata, al momento, da molte vicende personali, e poche vicende di scoperta, di indagine o altro vicino al noir o al thriller. È sicuramente un bel modo di presentare uno spaccato di vita milanese, ma ci si aspetta qualche cosina in più. Perché la maggior parte del romanzo è intrecciato sulle vicende di cuore di Lucchesi. La moglie (che molto da stronza si comportava nel primo libro) dopo l’infarto sembra aver pensato che, dopo tutto, Lucchesi non è male. Anche perché pressata da Alice, la figlia, che vuole stare più tempo con il padre (sta nel mezzo del teenaging, quindi c’è bisogno di una figura maschile positiva). Ed abbastanza stufa del nuovo marito, bravo, onesto, ma discretamente insignificante. Moglie che cerca di circuire Lucchesi, senza però, al fondo, scalfirne i motivi dell’ovvio precedente divorzio. Lucchesi è invece irretito dalla collega Carolina, piacente e spigliata, con la quale, dopo molti tentennamenti, dà vita a scene di sesso, amore ma non rock’n’roll. Purtroppo, Simoni ha letto troppo il norvegese Nesbø, per cui le storie d’amore del protagonista non vanno mai veramente a buon fine. E per cui il protagonista è dedito ad un abuso costante di super-alcolici. Ne avevo già accennato Lucchesi che mi sembrava un piccolo clone di Harry Hole. Ovvio che dopo l’infarto elimina il bere. Ma l’impronta scandinava si nota e si rimarcherà alla fine, non dico come e non dico perché. Mentre quindi scorre la vita al commissariato Centro di Milano, la squadra di Lucchesi è coinvolta di nuovo in furti di opere d’arte. Questa volta, incisioni tedesche del Cinquecento. Purtroppo, la mano di Simoni calca poco questa via, limitandosi a parlare più volte di Luca da Leida (che tra l’altro è olandese). Beh, fa nulla. Il fatto è che la storia in gran parte ricalca il primo episodio, tanto che è di facile lettura. Ci sono diversi furti, ovvio su commissione, ovvio che uno degli elementi trainanti sia la presenza di una conoscenza comune tra i derubati. Ovvio infine che uno dei derubati abbia inscenato il furto per non essere subito individuato. La piccola zeppa che Simoni inventa questa volta, è la casuale scoperta, da parte di tal professor Niccodemo, di un colloquio tra la contessa Elena (che compariva anche nel primo libro) ed uno strano tipo, che ben presto capiamo sia proprio il capo di Lucchesi, il commissario Pepe. Alla morte violenta di Niccodemo (in cui viene coinvolto l’Ambrogio di cui sopra, ma senza che ne ricaviamo particolari patemi), Lucchesi infittisce le indagini, capendo che “c’è del marcio in Danimarca”. Scoprendo che il suo ufficio, quello dei suoi collaboratori, nonché quello di Carolina sono pieni di microspie, per cui qualcuno (ed è ovvio chi) sa sempre cosa sta per fare, quando e come. Spulciando i movimenti dei derubati, qualcuno capisce chi è l’assassino, ma non sa proteggersi le spalle a sufficienza. Lucchesi inoltre ha un incontro-scontro con Elena, in cui capisce che la contessa (minata da un male incurabile) ha fatto giochi più grandi di lei. Tutto finirà in un verso corretto, se non piacevole. Colpevoli scovati, inchiesta risolta, Lucchesi, anche se con la testa qua e là, sugli onori. Tanto che, come detto, verrà promosso, verrà riportato alla Questura. Ci meravigliamo forse che il prossimo libro della serie si intitoli “Sezione Omicidi”? Piacevole soltanto, alla fine, il rapporto con la figlia Alice, con la loro lettura incrociata de “Il rosso e il nero”, e l’uso corretto ed a me congeniale dei libri. Ma non dico altro. Un’altra lettura per passare un po’ di tempo, aspettando … Godò (citazione volutamente errata).
Gianni Simoni “Sezione Omicidi” TEA euro 9 (in realtà, scontato a 7,65 euro)
[A: 26/01/2017 – I: 25/02/2019 – T: 27/02/2019] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 270; anno 2013]
Eccoci allora, dopo un anno e mezzo, a riaprire un nuovo libro di Gianni Simoni. Come al solito gradevole, nella scrittura e nello scorrere. Anche se la parte “noir” o “gialla” è relegata a poche battute, spesso arrivando a sbrogliare matasse senza che il lettore ne sia coinvolto. Che, come ho detto nella trama precedente, molto del libro si basa sulle vicende personali del commissario (e questa volta per davvero visto che è stato promosso) di colore Andrea Lucchesi. Con tutte le sue paturnie e tutti i suoi difetti. Nonostante l’infarto del primo libro, il nostro continua a bere ed a fumare (come dice verso la fine del libro, che ad un certo punto si arriverà al capolinea, ma perché arrivarci tristi?). Sempre poco attento il sottotitolo, che continua a riportare “Un’indagine” quando qui ce ne sono almeno due o tre. Ma questa è la mia solita mania di puntualizzazione. Comunque, Lucchesi ritorna ad occuparsi di Omicidi, presso Milano Centrale, mettendo su una bella squadra: alcuni agenti locali, rinforzati da Miccoli e Serra che lavoravano con lui, e dalla bella ispettrice Lucia Anticoli, con cui aveva avuto a suo tempo una storia. Visto che quella con la collega Carolina è finita com’è finita (leggete il precedente libro se lo volete sapere), Lucchesi si trova libero e pensoso. Qualche divagazione qua e là con l’altro sesso, molte battaglie non solo verbali con l’ex-moglie Adele. Ma soprattutto, il pensiero se Lucia possa diventare qualcosa di serio. Ed il rapporto con la figlia Alice. Bello spigliato, e con la solita virata “alla Nesbo”, quando, per sua insipienza, ha un incidente di macchina, dove ad Alice non si apre l’airbag. Tutta la parte finale è permeata da ospedali e coma vari, da cui non si sa se Alice si riprenderà o meno. O meglio, chi ne legge lo sa, ma io non lo dico. Per quanto riguarda la vicenda puramente poliziesca, tutto nasce dalla scoperta di un cadavere di donna nudo, steso su di un plaid tra le piante. Nel cercare di scoprire chi sia la donna misteriosa e perché avesse fatto l’amore su di un prato, sopra un plaid di cashmere, Lucchesi ed i suoi si imbattono in altre storie. Sfogliando tra le denunce di donne scomparse, si imbattono in alcune storie collaterali, di cui due hanno un certo spessore. Oltre ovviamente a quella centrale della morta. Uno si risolve in fretta, che la donna scomparsa è una trentina che si è innamorata di un’altra donna, ed ha problemi a parlarne con i genitori. Altri sono solo problemi di corna più o meno palesi. Il sotto caso più complicato viene da un finto geometra, in realtà poco più che capomastro, con una propensione alle maniere forti, che per pararsi il c…, denuncia la scomparsa della moglie, quando noi, e Lucchesi e Anticoli, capiamo subito che la realtà è diversa e, purtroppo, poco piacevole. Così, con poche mosse, il nostro commissario “coloured” balza agli onori della cronaca, tanto che finalmente viene salutato per primo nelle presentazioni, dove in genere si pensa che il più alto in grado sia il marziale Serra. Rimane il caso che ha originato tutta la buriana. Donna uccisa, che si scopre anche essere incinta, che ha avuto un rapporto sessuale prima di morire (grandi analisi del DNA alla CSI New York). Con difficoltà, ma anche con tanta pazienza, Lucchesi risale all’ambiente in cui si poteva muovere la morta, poi alla casa ed al marito. Nonché all’amica più cara della morta, che la copriva in alcune sue uscite “fuori dai ranghi”. Il grande mistero che avvolge l’indagine è che il DNA dell’atto sessuale coincide con quello prelevato al marito della vittima. Peccato che il marito sia affetto da impotenza, non solo generandi ma anche coeundi. Con un piccolo tocco di magia giallistica, utilizzando una possibilità che poteva venire in mente, soprattutto se si fosse conosciuto prima l’entourage della vittima, il mistero si dipana. Inoltre, con un piccolo tocco alla Maigret, mi sia consentito il paragone un po’ aulico, Lucchesi decide di aggiustare le cose per rendere minimi i dolori altrui. Tanto che la verità avrebbe solo fatto del male a tutti. Inoltre, il tutto avviene mentre lui è perso nelle preghiere per la salvezza della figlia in coma. Quindi perdendosi nei meandri di avvenimenti più grandi ed importanti. Anche perché serviranno di base per le prossime avventure del commissario e della sua banda. Come detto, Simoni sa scrivere, sa anche dare toccatine di giallo, anche se qui i misteri non nascono, e le soluzioni, spesso, vengono fornite senza coinvolgere il lettore nell’unico lavoro che dovrebbe fare: quello di pensare. Ma Lucchesi è moderatamente simpatico (a parte quando beve), e di più lo è la figlia Alice e le altre figure femminili (esclusa l’odiosa ex-moglie). Aspettiamoci nuove avventure, allora.
“È questo il tuo problema, o uno dei tuoi problemi: quello di pensarci sempre dopo.” (178)
Gianni Simoni “Troppo tardi per la verità” TEA euro 9 (in realtà, scontato a 6,75 euro)
[A: 26/01/2017 – I: 08/09/2019 – T: 10/09/2019] - &&& --
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 264; anno 2014]
Eccoci ancora nell’alternanza tra le due serie immaginate dall’ex-magistrato Gianni Simoni: da un lato quella “storica” (cioè la prima) con il commissario Miceli e l’ex-giudice Petri a darsi manforte l’un l’altro nell’analisi e nella soluzione di casi vari in quel di Brescia, e dall’altra quella del commissario Andrea Lucchesi, l’unico commissario di colore nella “Sezione Omicidi” di Milano. Questo tiolo appartiene alla prima serie, anche se, ormai, mettere il sottotitolo, come si ostina a fare l’edizione TEA, “Un caso di Petri e Miceli”, sembra abbastanza pleonastico. Visto che la scena è sempre più occupata dal neocommissario Grazia Bruni. Miceli c’è, un po’ in un angolo, di supporto, con qualche tocco qua e là. Petri spazio un poco tra le pagine, lo seguiamo in alcune delle sue attività quotidiane da buon pensionato, ma anche lui, e seppur ben seguito dall’autore, alla fine, ha solo qualche sprazzo (seppur a volte decisivo). L’economia del testo si sposta, e molto, su tutto il contorno. Su Brescia, sulle persone coinvolte e, soprattutto, sui poliziotti che intervengono. In particolare, sul nuovo entrato, il sovraintendente Salvatore Armiento che inizia seguendo il caso come poliziotto della Stradale, ma, dotato di buon acume e perseveranza, viene aggregato alla squadra della Bruni. Con gran preoccupazione di Maccari, il poliziotto che ha una finora bella seppur tormentata storia proprio con il commissario, e che non vede di buon occhio il bel giovane. Mentre Grazia Bruni sembra solleticata dal non felice momento con Maccari e della bella presenza ed acume di Toto. Che tuttavia, essendo anche di molto giovane rispetto al commissario, rivolge le sue attenzioni alla giovane dottoressa Laura, causalmente coinvolta nelle indagini ed ivi conosciuta da Armiento. Questa tutta la storia al contorno, cioè riepilogando: Petri con la simpatica moglie Anna a fare da pungolo e memento delle indagini, Micheli, messo all’angolo e pronto a lavorare di sponda, Bruni che dovrebbe prendere in mano le indagini, ma è anche preoccupata dal suo personale, che si istanzia in Maccari e nel difficile momento che attraversano, Armiento, il nuovo arrivato con le forze fresche e forse capace di dare nuova linfa ad una situazione statica, ed i soliti poliziotti della Sezione Omicidi, che questa volta lavorano solo nell’ombra senza particolari acuti. Su questo contorno si muove la vicenda che nasce da un incidente stradale: una persona, risultata priva di documenti, viene investita di notte, ed una coppia che passeggiava lì intorno avverte la Stradale. Armiento prende in mano la situazione, anche perché la dottoressa Laura, inavvertitamente, travolge il corpo morto. Questo innescherà la trama “rosa” di cui sopra e che cercheremo di capire nelle prossime puntate se andrà avanti. Ma farà anche in modo che Armiento si interroghi su alcune risultanze dell’incidente che risultano poco chiare. Tanto che coinvolge la Omicidi per andare a fondo alle indagini. Lì la Bruni interroga la coppia, che però risponde svogliatamente, e che, quando la si cerca per approfondire alcuni aspetti, risulta introvabile. Pare sia andata nella casa in montagna e non si riesca a rintracciarla. Intanto, spunta fuori anche un nuovo testimone, un anziano che portava a passeggio il cane, e che ribalta la prospettiva. La coppia non era sul marciapiede dove diceva di passeggiare, il marito della coppia sembra aver dato una spinta al morto, la macchina ha accelerato più del dovuto. Tutti fatti che consigliano i nostri di indagare meglio sulle persone coinvolte, sul morto, sul guidatore, sulla coppia. Una ricerca semplice ma non facile, che alla fine porta alla luce molti incastri a prima vista poco probabili. Il guidatore della vettura è noto alla coppia, ma forse più per problemi di soldi che altro. Così come alla coppia è noto il morto (di cui alla fine si riesce a trovare l’identità), ma qui i soldi non c’entrano. L’anziano che passeggiava con il cane risulta più affidabile di quanto sembrava a prima vista, anche se non ha visto tutto e non l’ha visto bene. In mezzo a tutto ciò, Armiento, aggregato alle indagini, scopre man mano tutta una serie di incongruenze che lo portano ad ipotizzare una chiave di lettura del caso. Chiave di lettura che sarà avvalorata quando, alla fine, si riuscirà a rintracciare la coppia in quel di Bormio. Ci sono un paio di colpetti di scena finali, che rendono quanto meno gustosa, benché amara, la rivelazione finale di come sono andati i fatti in realtà. Insomma, la scrittura si è mantenuta ad un discreto livello, il nuovo entrato (se rimarrà) risulta simpatico. I soliti personaggi invece no. Speriamo che, se la serie avrà un seguito, riesca a risalire nell’intreccio. Per finire, comunque grazie a Simoni per le belle immagini di Brescia, una città che, in effetti, non conosco per nulla.
Gianni Simoni “Contro ogni evidenza” TEA euro 9 (in realtà, scontato a 7,65 euro)
[A: 27/05/2017 – I: 30/09/2019 – T: 01/10/2019] - && e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 219; anno 2014]
Qui invece siamo sul lato “Lucchesi”, e, purtroppo, sembra che la vena di Simoni da questo versante si stia inaridendo un po’. Come se, in mancanza di idee originali, Simoni si avviasse a compore un libro prendendo spunti altrove e poi cercando di rielaborarli. Intanto, il protagonista, il commissario Lucchesi, si avvia sempre più ad essere un clone italiano di Harry Hole di Nesbo. Intelligente, preparato, ma sempre ai limiti delle vicende. Sempre più attaccato alla bottiglia, anche se Harry lo fa con metodo e rimpianti, mentre Lucchesi sembra voglia accelerare il processo di autodistruzione (non a caso è da poco uscito da un infarto ed altri malanni, ma continua ostinatamente a non volersi curare). Sempre con rapporti familiari difficili. Alle prese con una ex-moglie pervicacemente ostile (anche se qui non compare molto) ed una figlia che non sa gestire. Sempre invischiato in rapporti sentimentalmente complicati. Qui sembrava trovare un suo sbocco con l’ispettore Lucia Anticoli, ma il suo tria e molla non fa presagire nulla di buono. Dopo aver clonato Hole, Simoni immagina anche una specie di vicenda clone del precedente libro. Una morte apparentemente spiegabile in modi preterintenzionali, che ben presto si rivela nascondere altro. Lì, da Miceli e Petri, era un incidente d’auto. Qui abbiamo una rapina, dove i due banditi, senza nessun vero motivo di pericolo, invece di continuare la rapina in banca, uccidono a sangue freddo l’impiegata Giusy e fuggono. I grandi capi vorrebbero chiudere al più presto la vicenda, ma Lucchesi subodora del marcio. Non a torto, perché le modalità della sparatoria sono alquanto misteriose. Lucchesi, ma soprattutto Anticoli, cominciano ad indagare ad ampio raggio, cercando di capire chi sia realmente la Giusy assassinata. Scoprono che si era formalmente lasciata dal suo storico fidanzato solo pochi mesi prima. Scoprono che ha avuto una breve storiella con un funzionario della banca stessa. Scoprono, in particolare, che Giusy era incinta. Questo ribalta tutte le prospettive. Unito al fatto della misteriosa sparatoria, Lucchesi si convince che il vero bersaglio era uccidere Giusy. Fatto salvo che i possibili imputati sembrano avere un alibi, chi poteva essere il mandante? Il fidanzato che si è sentito tradito dalla gravidanza? Il funzionario che avrebbe visto in pericolo la sua onorabilità? Un terzo elemento, che uscirà fuori durante le indagini e di cui non vi dico nulla, anche lui preoccupato per le conseguenze? L’analisi dell’ambiente di vita di Giusy, della sua famiglia, delle sue frequentazioni, porterà i nostri alla soluzione del caso, anche se con poca suspense. Almeno per i lettori, mentre a voi lascio un’aura di mistero. Anche perché, visto che la storia è fragilina, Simoni pensa bene di “incasinarla” con le vicende personali di Lucchesi. Ricordo, per chi non avesse letto i precedenti testi, che il commissario Lucchesi, italianissimo e toscano, è nero di pelle, avendo la madre etiope. Questo, come ovvio, lo rende sensibile alle critiche. E quando un passante lo apostrofa “nero di merda”, pensa bene di spaccargli la faccia a pugni. Ovvio che non è un comportamento corretto per un commissario di polizia, anche se giustificato. Motivo per cui Lucchesi viene trasferito altrove, lontano dalla Omicidi (che lascia in mano e con abilità all’ispettrice Anticoli). Nell’insediamento periferico, altre magagne ed altre indagini si troverà ad affrontare. Un tentativo di mobbing da parte del dirigente (che Lucchesi risolve leggendo fior di libri, e questo, non solo è bello, ma mi ricorda piccole e ben lontane vicende personali). Un tentativo di abbordaggio da parte di un’altra ispettrice dalle belle forme, che però Lucchesi sembra schivare (e sottolineo sembra che non si sa mai). Una richiesta del procuratore di indagare proprio verso il dirigente mobizzatore, che le alte sfere sospettano (e con ragione) essere dedito a propri e personali elementi di lucro sfruttando le pieghe lavorative poco controllate. Ci sono molti elementi al fuoco, le idee, anche se riciclate, assumono contorni interessanti. Inoltre, Simoni, così come nell’altra serie riesce a farci incuriosire di una Brescia ignota, qui non manca di portarci in giro per una Milano poco nota, e degna di essere visitata. Ritengo infatti, che spesso, Milano venga liquidata con molta superficialità. È una città variegata, molto più complessa di uno stereotipo di “Milano da bere”. Ricordo le passeggiate per Brera, ricordo le cene sui Navigli, ricordo le atmosfere di Porta Ticinese, ricordo i passaggi nei dintorni dell’Università. Una città che, prima di conoscerla, mi resta come un punto interrogativo, e che invece si è rivelata più interessante ed anche più stimolante di quanto poteva essere restando lontana. Tanto per chiudere, che dire del Teatro Parenti o del Teatro alle Erbe? Ma per tornare al libro ed a Simoni, concludo: qualche idea, una scrittura agile, ma poco, pochissimo mordente.
Seconda trama del mese di ottobre, e visto i tanti compleanni, perché non dedicare un allegato ai libri che curano una malattia incurabile: l’età?
Come detto, tanti i compleanni di questo mese tra la bilancia e la campagna. E sono troppo pigro per elencarli qui, ma non così pigro da non ricordarli e festeggiarli. Chi ne è coinvolto lo sa, e sa che io vi penso. Soprattutto in un giorno speciale, molto calcistico. 

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
OTTOBRE  2019
Quale miglior mese se non ottobre, per un ricordo di compleanni, dati i tanti festeggiamenti di queste mese castagnolo!
SESSANTANNI, AVERE
I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER SESSANTENNI
Chinua Achebe         “Il crollo”
Elias Canetti             “Auto da fé”
Federico De Roberto  “I viceré”
Charles Dickens        “Il circolo Pickwick”
Natalia Ginzburg       “Lessico famigliare”
Agota Kristof            “Ieri”
Philip Roth               “Il teatro di Sabbath”
Graham Swift           “Ultimo giro”
Tiziano Terzani         “Un altro giro di giostra”
Ivan Turgenev          “Padri e figli”

Bugiardino

Diciamo subito che Achebe e Canetti sono in lista d’attesa sui miei scaffali, che De Roberto, Dickens, Kristof e Turgenev sono stati letti tantissimo tempo fa, e che di Roth non ho molto altro di quanto tramato, e di sciuro non questo. Swift ha una copia elettronica del libro che non mi risolvo di leggere. Rimangono l’ottimo libro della Ginzburg, letto in gioventù e riletto meno di dieci anni fa e il superlativo Terzani, che non commento con altre parole se non l’affetto che ho sempre avuto per i suoi scritti. E per questo in particolare.
Natalia Ginzburg “Lessico famigliare” Repubblica Novecento euro 4,90
[tramato il 2 ottobre 2011]
L’avevo letto in gioventù, quando razziavo i libri nella libreria di mio padre. Trovandolo di fronte mi sono chiesto se lo volevo rileggere. Così ho fatto, ed ho fatto bene. Mi ricordo che a suo tempo mi piacque l’affastellarsi di vite di personaggi che ritenevo mitici. Sentir parlare di Pavese così come io parlavo di Magnus o Geppo, mi sembrava favoloso. Ora l’ho letto con una diversa consapevolezza, e mi è piaciuto per motivi diversi. Diciamo per quell’aria familiare, forse per quelle cose che un dì avevo tralasciato. Le frasi, che diventano come delle madelaine proustiane. Le piccole situazioni quotidiane. Le colazioni, i pranzi, il girare per case. L’invidia, forse, per quelle case piene di gente (ah, l’esercito dei miei cugini, rispetto alla nostra desolata casa con solo me e mio fratello), che vanno, vengono, si incontrano. E tutto scorre, si cresce, ci si fidanza, ci si sposa, si va via di casa, si fanno figli. Ma rimane l’appartenenza. Ecco, questo è l’altro dato forte che mi rimanda. Un senso di appartenenza. Le varie figure del libro, chi più chi meno, appartengono a qualcosa. A un mondo. Ad un’idea. Ad un modo di essere. Ad un modo di rapportarsi. Bella di più la prima parte, ancora tutta familiare. L’andare in montagna (pendant del nostro andare al mare, anche quando non si voleva più), le passeggiate. Il burbero padre Beppe (grande figura di cattedratico-ricercatore, e, soprattutto, coltivatore di talenti, dentro e fuori casa; non a caso, nel suo istituto, passeranno ben tre premi Nobel italiani) con le sue docce gelate, le colazioni a base di yogurt prima che lo yogurt diventasse una moda. La madre Lidia sempre pronta ad uscire e a contornarsi di giovani signore. La levità rimane anche per tutta la seconda parte, che viene però segnata dalla ferita del fascismo e dal loro essere ebrei. Qui ritorna un po’ la punta di curiosità gossippesca, in particolare nelle vicende intorno alla casa editrice, la mitica Einaudi degli anni d’oro. Alla figura di Felice Balbo ed i suoi conciliaboli con lo scienziato Giacomo Mottura. E Pavese (amichevolmente accompagnato fino alla morte). I passaggi ad Ivrea, con Adriano Olivetti (sposo poi divorziato della sorella Paola). E l’amore, forte (anche se espresso con poche e sommesse parole) per Leone, che Natalia seguirà ovunque, anche al confino. E di cui conserverà il nome, anche dopo la sua morte torturato in carcere a Regina Coeli nel ’44. Anche dopo che si risposerà con Gabriele. Ma poi tutto ritorna alla dimensione privata, anche in presenza di avvenimenti pubblici. Per chiudere in un bellissimo, intenso, lungo colloquio tra i genitori, che saltabeccano di qua e di là, tra figli e nipoti, tra “sbrodeghezzi” e “sempiate”, che fanno riaffiorare alla memoria tutto il senso di una vita, loro che immaginiamo ormai ottantenni, in un viale del tramonto che non è tristezza, ma gioia interna e consapevolezza di una vita vissuta. In fondo, vissuta con dignità e con pienezza. Con i figli ormai grandi (la piccola Natalia si sta avviando verso i cinquanta anni). Insomma, c’è qualche puntata alta e bassa (non nego che a volte la ritrosia della citazione rendeva difficile distinguere Lisetta Giua e Lola Balbo), qualche condiscendenza, ma, come sopra riportavo, un modo per far affiorare i miei lessici familiari (soprattutto quello dei nomignoli, che ancora adesso avviati sulla soglia dei novanta anni i miei zii si portano appresso). Un romanzo familiare, per fare strada a nuove generazioni. A cui si passa volentieri il bastone di altre avventure. Anch’esse, perché no, famigliari.
“Sono miei amici, e gli voglio bene e non me ne importa niente se le loro opinioni siano vere o false” (204)
Tiziano Terzani “Un altro giro di giostra” TEA euro 7,50
[tramato il 16 dicembre 2018]
Per me, tutto il senso del libro, e tutto il mio senso per il libro, è chiuso in quella frase che riporto in fondo. Il più grande viaggio, quello immancabile, ad un certo punto. E se vogliamo quello che vorremmo fare con la coscienza di farlo. Un viaggio verso sé stessi, per trovarci in fondo alla strada, dopo aver girato, anche con Terzani (ma anche no) da New York all’India, dal Tamil Nadu all’Himalaya. Terzani gira il mondo e le sue diverse situazioni per cercare di capire il rapporto tra il sé stesso malato ed il cancro. All’inizio, anche, e soprattutto, per capire se e come fosse possibile una cura. Se e come si potesse uscire dal tunnel. Terzani comincia con la medicina tradizionale, con il centro antitumori di New York. Con i bombardamenti chemioterapici. Ci colpisce la serenità con cui inizia ad affrontare questo viaggio. E la tranquillità di affidarsi alla allopatia. Quando il primo ciclo finisce, ed i dottori gli danno tregua, Terzani decide di cominciare a spendere il suo tempo in altre ricerche. Intraprende allora anche un viaggio fisico, oltre che mentale, che lo porta in India, in Tibet, nelle Filippine. Dialoga con tutti, parla con tutti, non si tira indietro, non esaurisce mai la sua curiosità. Dalle sue pagine escono fuori maghi, saggi, santoni. Prova tutte le medicine cosiddette alternative: le diete con le erbe, i digiuni, i canti sacri, la meditazione yoga, la medicina ayurvedica, l’omeopatia, la pranoterapia, fino al Qi gong ed al Tai Chi. Sono bellissime tutte queste pagine dove il nostro fiorentino errante non mette mai il tono del ridicolo in nessuna possibile cura. Come laicamente facemmo noi, durante gli studi sugli approcci psicoterapici, la medicina buona è quella che ti fa sentire bene. Lo psicologo buono non dipende da questa o quella branca di pensiero, ma se quel pensiero arriva al tuo corpo, al tuo cuore, alla tua mente. Come diceva sempre allora uno dei miei mentori “Il corpo non mente”. Terzani è tuttavia sempre stato scettico su tutte le cose che ha incontrato nella vita, adottando sempre ed ovunque il motto di capire prima di riproporre (non di giudicare, che mi sembra sia sempre stato alieno a questo metro di espressione). Quello che trova in Oriente, non è, non sarà una cura al suo male, ma il modo di rovesciare il problema, di accettarlo. Di trovare una sua pace interiore. Quando anche l’ultima medicina ha rivelato la sua fallacità, Terzani ci fa capire che il suo viaggio attraverso tutti i possibili modi di curare il proprio corpo malato, è in realtà un viaggio che deve servire a curare LA malattia (scusate l’uso del maiuscolo ma qui ci vuole). Una malattia che colpisce tutti, la paura della morte. Quindi non siamo in cerca, soltanto, di una cura per il corpo, ma di una cura per l’anima. Una cura che devo portare a cambiare il proprio punto di vista, che ci deve portare ad essere in armonia con tutte le cose, visibili ed invisibili, animali e minerali. Terzani, con la sua barba bianca, con il dhoti gandhiano, assume un andamento “naturalmente” francescano. Dopo aver girato il mondo, dopo aver salutato i suoi amati monti himalayani, si ritira per l’ultima fase della vita ad Orsigna, nell’Appennino Toscano, chiudendo il cerchio vitale con la sua nascita fiorentina. Lui ha ritrovato il senso del vivere e del morire. E non finisce mai di esserci utile, quando continua, ricordando anche i suoi trascorsi giornalistici, a farci ragionare sui rapporti umani. Ci parla delle guerre che ha visto, sperando di portarci verso quella pace che non vede e non vedrà. La bellezza dello scritto è che in ogni elemento che incontra nella vita vede qualcosa e ce lo comunica. Dal piccolo al grande. Chi è malato, chi vede da vicino, in sé o in altri, le malattie, anche le più terribili, sente, con me, una terribile angoscia leggendo queste pagine. Non perché facciano vincere quella malattia invincibile che è la paura della morte stessa. Ma perché sappiamo, so, che non saprò mai affrontarla. Il grande merito di Terzani, ed il grande “odio” che provo per lui (e capitemi perché l’ho virgolettato), è che mi ha ricordato che non possiamo dimenticarci della morte. In questi anni, dove molte persone a me care ci hanno lasciate, papà, mamma, Gastone, Paolo, Carlo… In questi anni dove anche noi stiamo accumulando anni e mesi. E di sicuro, anche se non so come né con quale angoscia, è più vicina una fine che un inizio. Ti odio Terzani che me lo ricordi. Ti amo profondamente, perché so che non ne sarò mai capace, ma so che qualcuno ci prova e forse ci riesce. Ti voglio infintamente bene per come hai saputo mostrare il tuo amore per Angela. Così bello che non voglio parlarne di più. Caro Tiziano, infine, il tuo libro è talmente denso, che lo citerei tutto. Ma per ora tante e tante sono le frasi che mi rimangono, che solo alcune riesco a condividerle. E qualcuno leggendone ne saprà.
“In Ladakh le malattie di cuore sono pressoché sconosciute perché la gente vive all’aria aperta, mangia cibi biologici e non ha bisogno di andare in palestra per tenersi in forma.” (62)
“La distanza che si crea fra i sani e i malati mette alla prova i rapporti tra le persone.” (70)
“La caotica, indiscriminata valanga di informazioni prodotta da internet ha creato quell’ormai diffusissimo sapere a metà che è la peggiore e la più pericolosa forma di ignoranza.” (90)
“Chi ama l’India lo sa: non si sa esattamente perché la si ama. … L’India … fa sentire ognuno parte del creato.” (153)
“Viaggiare mi esaltava, mi ricaricava, mi dava da pensare, mi faceva vivere.” (196)
“Non c’è felicità per chi non viaggia.” (204)
“L’apparente indifferenza [degli indiani] mi colpì ricordandomi quello che mi è sempre sembrato il buco nero dell’induismo: l’assenza di compassione.” (223)
“Nel corso della ita tante cose possono andarci storte, e di solito lo fanno.” (297)
“Il problema sono io e io sono la soluzione … L’onda non ha bisogno di diventare oceano, deve solo rendersi conto di essere oceano.” (350)
“Il Kathakali [è] la vecchia forma teatrale del Kerala … Sulla sinistra del palcoscenico stavano i tamburisti, capaci con le mani o le bacchette di ricreare il frastuono di una battaglia, lo scorrere di un torrente o il quieto tic-tic di una goccia d’acqua che cade su una foglia. Sulla destra stavano i cantanti. Con l’aiuto di cimbali, di un gong e di un’orchestra d’una ventina di uomini, tutti a torso nudo, allineati dietro, loro raccontavano la storia e pronunciavano le battute dei vari personaggi, perché nel Kathakali gli attori sono muti, al massimo emettono dei suoni gutturali. Gli attori «parlano» coi loro movimenti; comunicano pensieri ed esprimono stati d’animo coi gesti delle mani; ‘dicono’ con le smorfie e con gli occhi.” (400)
“La malattia è una forma di disarmonia con l’ordine cosmico.” (450)
“Se uno non ha niente dentro, non troverà mai niente fuori. È inutile andare a cercare nel mondo quel che non si riesce a trovare dentro di sé.” (516)
“Viaggiare era sempre stato per me un modo di vivere e ora avevo preso la malattia come un altro viaggio: un viaggio involontario, non previsto, per il quale non avevo carte geografiche, per il quale non mi ero in alcun modo preparato, ma che di tutti i viaggi fatti fino ad allora era il più impegnativo, il più intenso.” (Prologo)

Conclusioni


Terzani è stato il must dei miei sessanta, e rimane e lo sarà per molto tempo ancora. Le altre scelte mi convincono poco, in particolare Dickens e Kristof. Ma se avete un Terzani tra le mani, potete scordarvi tutto il resto. 

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